Concètto²

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concetto2


concètto2 s. m. [dal lat. conceptus -us, der. di concipĕre «concepire»]. – 1. Pensiero, in quanto concepito dalla mente; più in partic., anche dal punto di vista filosofico, la nozione che la mente si è formata dell’intima essenza di una data realtà (materiale o astratta), afferrando insieme i varî aspetti e i caratteri essenziali e costanti di questa realtà: il c. di Dio, di o dell’essere, di universo; il c. di materia, di forma, di sostanza, di accidente; i c. di genere e specie; il c. di numero, di quantità, di grandezza fisica; c. logici, universali, c. puri (o categorie), c. empirici, c. oggettivi e soggettivi, ecc.; avere, non avere, o avere un c. esatto, falso, confuso, approssimativo di giustizia, dell’onestà e dell’illecito; acquistare, formarsi un c. più chiaro di qualche cosa; non ha il più lontano c. del bene e del male; esporre i c. elementari di una scienza, di una teoria. Per estens., modo di concepire, concezione: il c. hegeliano di illuminismo; il c. di spazio e di tempo in Einstein. 2. Giudizio, opinione riguardo a persona o cosa, che si forma soprattutto per via d’osservazione: bisogna conoscerlo, per farsi un c. della sua malvagità; formarsi un buon c., un cattivo c. di qualcuno; ho un pessimo c. di lui; quindi anche reputazione, stima: avere o tenere qualcuno in c. di galantuomo, di furfante; un frate morto in c. di santo (o di santità). 3. Capacità intellettiva: O somma luce che tanto ti levi Da’ c. mortali (Dante). 4. Pensiero in genere, idea, il contenuto di ciò che qualcuno dice o vuol dire: gli riesce difficile manifestare i proprî c.; esprimere c. nobili, meschini, sottili, ingegnosi; cogliere il c. fondamentale di un’opera; poema mirabile per sublimità di concetti e di stile; credo di avere afferrato il tuo c.; non so se ho reso il concetto. Anche, talora, il significato profondo: non ho ben capito il c. del tuo discorso. 5. Soltanto al sing., nella locuz. impiegato di concetto, quello che, nell’impiego privato, esplica un’attività intellettuale di rilievo e di qualche responsabilità, non perciò meramente esecutiva. 6. Nella letteratura del Seicento, artificio retorico (chiamato anche vivezza, acutezza, argutezza) consistente in una combinazione d’immagini dissimili, nell’accostamento di cose tra loro assai lontane, tra le quali però l’intelletto sottile e raffinato del poeta scopre somiglianze e analogie inedite e stupefacenti, ma spesso bizzarre e stravaganti secondo il gusto moderno (per es., la luna chiamata «frittata del cielo»); o nel restituire a un traslato magari ovvio e abusato il suo significato letterale, lavorando poi intellettualisticamente su questo, così da suscitare nel lettore la meraviglia dell’inaspettato (per es.: i capelli biondi d’una donna sono un mare d’oro; ma un mare vero, in cui ci sono bianche barche – i pettini –, onde in tempesta, ecc., e nel quale il poeta naufragherà). 7. In matematica, e in genere nei sistemi ipotetico-deduttivi in cui un concetto (ente, operazione, ecc.) si definisce facendo ricorso ad altri concetti in precedenza definiti, sono chiamati c. primitivi quelli dei quali, percorrendo a ritroso la catena delle definizioni (dal complesso al semplice), non è possibile dare una esplicita definizione (per es., nella geometria ordinaria sono concetti primitivi il punto, la retta, il piano). ◆ Dim. concettino; spreg. concettùccio, concettuzzo (tutte e tre queste forme si adoperano per lo più per indicare concetti eccessivamente sottili, affettati, ricercati); accr. concettóne, per lo più scherz.; pegg. concettàccio.

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