Accènto

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accento


accènto s. m. [dal lat. accentus -us, comp. di ad- e cantus «canto1», per calco del gr. προσῳδία]. – 1. a. Rafforzamento o elevazione del tono di voce (a. tonico in senso largo) con cui si dà a una sillaba maggior rilievo rispetto ad altre della stessa parola (a. di parola) o dello stesso verso (a. ritmico o metrico); per estens., accrescimento della voce sopra una parola d’una frase (a. di frase o sintattico). Fig., porre l’a. su una questione, su un aspetto di un problema, metterli in particolare rilievo, richiamare su di essi l’attenzione. In linguistica, si distinguono un a. dinamico o intensivo o espiratorio, quale è quello dell’italiano o del tedesco, consistente in un aumento dell’intensità della voce, ottenuto rafforzando la tensione di tutta la muscolatura dell’apparato di fonazione con conseguente aumento della pressione interna e, quindi, del volume della corrente espiratoria; e un a. musicale o cromatico o tonico in senso stretto, quale è quello per es. del serbocroato o del greco antico, consistente in un aumento dell’altezza della voce, prodotto da accresciuta frequenza delle vibrazioni delle corde vocali. Rispetto all’intensità, l’accento può essere forte o debole; parole plurisillabe o composte possono avere accanto all’a. principale uno o più a. secondarî. Si distinguono inoltre l’a. ascendente, il discendente, l’ascendente-discendente, secondo che il momento della maggiore intensità o altezza sia in fine, in principio o nel mezzo dell’elemento accentuato (v. intonazione). b. Analogam., in musica, l’intensificarsi del suono in alcuni punti del discorso musicale, in relazione o con lo schema fissato per i diversi tipi di battuta (a. metrico), o con lo sviluppo del ritmo e della struttura del discorso stesso (a. ritmico), o in funzione espressiva, al fine di porre in particolare risalto alcuni punti del brano musicale anche se situati in un tempo debole (a. dinamico). 2. Segno grafico (detto più compiutamente a. grafico o segnaccento) che in determinati casi si colloca sopra una vocale, per indicare la sede dell’accento tonico, o sopra le vocali e ed o per distinguere la pronuncia aperta o chiusa (in questa funzione detto anche a. fonico): mettere, segnare l’a.; a. acuto (´),grave (`). Funzione più particolare ha l’a. circonflesso (v. circonflesso). Gli stessi accenti acuto e grave, nelle poche lingue che ne fanno uso (il tedesco, l’inglese, il russo, ecc., non ne hanno alcuno), non sempre hanno la funzione d’indicare la sede dell’accento tonico (in francese, per es., non l’hanno in nessun caso). 3. a. Modo di pronunciare le parole, particolare intonazione o cadenza di voce: parlare con a. nasale, con a. straniero; ho capito dall’a. che era un genovese. b. Inflessione della voce che esprime e riflette i varî sentimenti dell’animo: parlare con a. di sdegno, di pietà, con a. umile, supplichevole; Parole di dolore, accenti d’ira (Dante). 4. poet. Voce, parola: Armonïosi accenti Dal tuo labbro volavano (Foscolo); soleva ogni lontano accento Del labbro tuo, ch’a me giungesse, il volto Scolorarmi (Leopardi). ◆ Dim. accentino.

Grammatica. – L’accento tonico (più propriam., a. d’intensità) ha in italiano una funzione distintiva essenziale. Esso può cadere sull’ultima sillaba (e si hanno allora parole tronche: arrivò, caffè), sulla penultima (parole piane: lìbro, versaménto), sulla terzultima (parole sdrucciole: sìmile, barìtono), più raramente, in forme della coniugazione verbale, su sillabe antecedenti (fàbbricano, lìberatene). Dei monosillabi, alcuni possono portare l’accento sintattico; altri sono atoni e si appoggiano nella pronuncia alla parola precedente o seguente (v. enclitico; proclitico). L’accento italiano in generale continua quello latino, con minime deviazioni (es. figliuòlo, paréte, lat. class. filìolu [m], parìete [m]). Sono però frequenti le incertezze d’accentazione e non pochi errori sono stabilmente entrati nell’uso. Non si possono dare regole assolute; in caso di dubbio, conviene ricorrere ai lessici. Regole più sicure sono quelle che concernono i suffissi. I più comuni suffissi sdruccioli sono: per i sostantivi: -àcolo, -àggine, -ìgine, -èdine, -ùdine, -ésimo, -ónzolo, -ùcolo (es. segnàcolo, goffàggine, scaturìgine, salsèdine, attitùdine, umanésimo, medicónzolo, poetùcolo); per gli aggettivi, -àbile, -ìbile, -àstico, -ìstico, -àtico, -èsimo, -évole, -ógnolo, -ico (es. amàbile, leggìbile, scolàstico, turìstico, linfàtico, ventèsimo, onorévole, giallógnolo, tìsico); dei superlativi, -ìssimo, -èrrimo, -imo (es. durìssimo, aspèrrimo, òttimo); dei verbi, -ano, -ino, -ono, -ero, -imo (es. lòdano, lòdino, lodàrono, lodàssero, lodàssimo). Non occorre elencare i suffissi piani, che sono i più numerosi. ◆ Nella scrittura, la posizione dell’accento tonico viene indicata, limitatamente ai casi che ora vedremo, mediante il segno dell’a. grafico, il quale ha anche la funzione di distinguere la pronuncia aperta o chiusa delle vocali, e perciò ha due forme: acuto (΄) per le vocali e ed o chiuse (per es. fémmina, córrere), grave (`) per e ed o aperte (per es. sèdia, mòbile) e anche per le vocali a, i ed u. Questo è l’uso seguito in questo Vocabolario, ma sono possibili anche usi diversi, soprattutto quello dell’accento grave uniforme (perchè invece di perché, come caffè). Nell’ortografia ordinaria, è obbligatorio segnare l’accento: a) sulle parole tronche in vocale (carità, virtù); b) su alcuni monosillabi, per lo più capaci di portare un accento sintattico, i quali, senza il segno grafico dell’accento, si scambierebbero con altri d’uguale grafia, per lo più enclitici o proclitici (per es. è verbo, e avv., pron., «giorno», ecc.); c) sui monosillabi con dittongo ascendente che, almeno teoricamente, potrebbero essere scambiati per bisillabi (chiù, piè, più, può, e anche ciò, già, giù, che contengono dittonghi apparenti, ma non qui e qua dove non può esserci equivoco). È inoltre facoltativo segnare l’accento per indicare sia la vocale tonica, sia il timbro aperto o chiuso dell’e o dell’o, e questo senza limiti precisi, ma per lo più soltanto là dove possa servire a impedire confusione tra omografi (per es. bàlia e balìa, pèsca e pésca, scòrsi e scórsi), talora anche nel caso di omografi con uguale pronuncia (per es. dànno verbo e danno sost.). Nei dizionarî e in testi normativi, l’uso dell’accento grafico è molto più largo che nella scrittura comune. Negli esponenti italiani di questo Vocabolario esso è generalizzato in maniera da escludere ogni dubbio sia sulla sede dell’accento tonico (sottinteso soltanto sulle vocali toniche a, i, u, che siano le penultime di parole terminanti in vocale semplice, per es. abate ma abéte, varo ma vàrio, paura ma càuto, lupo ma làpis), sia sul timbro delle vocali e e o toniche (indicato sempre, in mèta come in méta, in vòto come in vóto).