Buondelmonti, Zanobi

Enciclopedia machiavelliana (2014)

Buondelmonti, Zanobi


Figlio di Bartolomeo e di Alessandra di Guglielmo de’ Pazzi, nacque a Firenze il 5 aprile 1491. Tutte le notizie sul primo periodo della sua vita risalgono al processo istruito contro di lui e contro i suoi compagni in seguito alla congiura del 1522 contro il cardinale Giulio de’ Medici. A questa data B., secondo quanto risulta dagli atti del processo, era titolare di una ditta «ratione battiloris», in società con Ugolino Mazzinghi, e di una azienda commerciale «in ratione di pecore et pelle» in società con Piero di Bernardo Gondi, dotata di una succursale in Lione affidata alla gestione di Antonio e Bernardo Gondi. Altrettanto scarne le notizie intorno alla sua educazione: lo si dice spesso discepolo di Francesco Cattani da Diacceto, ma non è possibile stabilire se egli ne avesse frequentato i corsi nello Studio fiorentino o solo ne avesse ascoltato gli insegnamenti nelle adunanze degli Orti Oricellari, delle quali l’uno e l’altro furono tra i protagonisti più assidui.

Certo è che B. godeva di molte amicizie tra i letterati, non soltanto fiorentini: Ludovico Ariosto, per esempio, fu più volte suo ospite nello splendido palazzo che B. possedeva in piazza S. Trinita. Ma soprattutto B. contava le proprie amicizie nella raffinata schiera dei frequentatori di Cosimino Rucellai, da Cattani a Filippo Nerli, da Antonfrancesco degli Albizzi e da Antonio Brucioli a Iacopo Nardi e a Luigi Alamanni, da Giovanni Battista Della Palla a Machiavelli. Grande, particolarmente, fu l’intimità di B. con quest’ultimo, e non pare dubbio che il giovane mercante e banchiere fosse tra coloro dai quali, come ricorda Nardi (Istorie della città di Firenze, a cura di A. Gelli, 2° vol., 1888, p. 12), «Niccolò era amato grandemente [...] e anche per cortesia sovvenuto, come seppi io, di qualche emolumento». Questa congettura sembra autorizzata anche dalla dedica dei Discorsi, nella quale M. si scusa con B. e con Rucellai se l’omaggio dell’opera «non corrisponde agli obblighi che io ho con voi». Comunque fu di certo un’amicizia intensa e M. dovette esserne assai confortato nel suo triste ritiro dalle incombenze politiche, come traspare da certe lettere del Segretario in disgrazia.

Sicuramente la solida base di quella amicizia doveva essere costituita dal comune interesse alle «lezioni dell’istorie». Ovvio che in questo M. dovesse essere un ascoltato maestro, e certamente B. fu il più attento e intelligente degli allievi: sicuramente non fu soltanto per «gratitudine de’ beneficii ricevuti» che M. gli dedicò, oltre ai Discorsi, anche la Vita di Castruccio Castracani (congiuntamente a Luigi Alamanni) e lo introdusse tra gli interlocutori dell’Arte della guerra. Ché anzi B. non mancava, all’occasione, di criticare l’amico: come nella lettera del 6 settembre 1520, nella quale, pur giudicando la Vita di Castruccio «cosa buona», gli dispiaceva in «certi luoghi i quali, se bene stanno bene, si potrebbono non di meno migliorare; come è quella parte ultima dei ditterii e de’ tratti ingegnosi e acuti detti del detto Castrucci». E di altre parti dell’opera si riprometteva di «parlare a boca con più piacere assai» (Lettere, pp. 36566). Certo, se M. si dedicò sempre più, negli ultimi anni della vita, alle sue opere storiche e politiche, non fu senza impulso di B., che, a proposito del progetto delle Istorie fiorentine, esortandolo a dedicarsi «con ogni diligenzia a scrivere questa istoria», si prodigò assai per fargli ottenere l’incarico e la retribuzione da parte del cardinale de’ Medici. Ma soprattutto, come era naturale, il magistero di M. dominava la piccola accademia nata in casa Rucellai (che continuò con la stessa assiduità anche dopo la morte di Cosimino, nel 1519): e non meraviglia se con quell’ispiratore tutti i suoi amici finissero per sentirsi, quale più quale meno, grandi capacità di uomini di Stato. Né è senza significato che alla richiesta pressoché provocatoria fatta dal cardinale Giulio de’ Medici di proposte di riforma dello Stato fiorentino rispondesse, con lo stesso M. e con Alessandro de’ Pazzi, anche B.: il suo memoriale purtroppo si è perduto, ma l’episodio è indicativo delle ambizioni che gli si agitavano nella mente. Del resto M. non era abbastanza cauto – lui che l’inchiesta per la congiura (1513) di Pietro Paolo Boscoli aveva lasciato tutt’altro che immune da sospetti – da valutare quanto potessero sull’animo dei giovani amici i suoi infiammati discorsi e scritti politici.

Né era un invito a moderare le ambizioni politiche la dedica dei Discorsi a B. e a Rucellai, a tutto vantaggio dei quali affermava di aver voluto scegliere come destinatari dell’opera «non quelli che sono principi, ma quelli che per le infinite buone parti loro meriterebbono di essere». Sicché se, come appare sicuro, M. non ebbe parte diretta e consapevole nella congiura organizzata dai suoi amici nel 1522, pure appare chiaro il motivo per il quale, secondo la testimonianza di Nardi, «de’ pensamenti e azioni di questi giovani anche Niccolò non fu senza imputazione (Istorie della città di Firenze, cit., p. 72).

A torto però qualche studioso ritiene che l’opposizione al governo mediceo fosse una delle caratteristiche essenziali delle adunanze degli Orti Oricellari: se così fosse stato non soltanto M. non vi si sarebbe esposto, se non altro per ragioni di prudenza, ma non vi avrebbe sicuramente preso parte un partigiano dichiarato dei Medici come Nerli. In realtà alcuni di coloro che parteciparono alla congiura erano stati sino a poco tempo prima se non partigiani dei Medici, almeno in buone relazioni con loro: come B., appunto, che contava di potere influire su Giulio de’ Medici perché a M. fossero commissionate le Istorie; o come Della Palla, che proprio nella protezione di Leone X aveva a lungo sperato per una brillante carriera ecclesiastica.

All’idea della congiura, alla stessa ostilità al governo mediceo, si arrivò in effetti lentamente: alcuni per ragioni personali, come Della Palla, o come, forse, lo stesso B., del quale si disse che non aveva potuto perdonare al cardinale Giulio de’ Medici di esserglisi mostrato avverso in un contrasto con il cugino Benedetto Buondelmonti. Ma certo, più che questi motivi, contò il lento maturare dei classicheggianti ideali di libertà che si respiravano nell’insegnamento di M., lo stesso irrigidirsi dell’egemonia medicea e, infine, gli errori di troppa astuzia di Giulio de’ Medici.

O perché contasse effettivamente su una restaurazione sia pure parziale dell’antica Signoria in vista di una sua elezione al pontificato, o perché volesse al contempo raffrenare e scoprire gli avversari del potere mediceo, il cardinale era andato diffondendo ad arte l’impressione di una sua intenzione di operare una riforma dello Stato fiorentino per restituirlo alle antiche libertà: perciò ostentava l’amicizia del savonaroliano Girolamo Benivieni, perciò non si stancava di chiedere pareri sulla riforma dello Stato e «mostrava farne gran capitale», come riferisce Nerli nei suoi Commentarii a proposito delle memorie presentate a Giulio de’ Medici da M. e da B. (F. Nerli, Commentarii dei fatti civili occorsi dentro la città di Firenze, 1728, p. 137). Ma se, come pare estremamente probabile, il futuro Clemente VII non aveva altra intenzione che di sondare gli animi dei fiorentini, non calcolò abbastanza le conseguenze pericolose che potevano derivare dall’alimentare quelle illusioni, tanto più quando all’esterno si venivano rafforzando, intorno al cardinale Francesco Soderini, i progetti di mutamento violento dello Stato fiorentino. Spingendo il suo gioco sino alle estreme conseguenze, Giulio de’ Medici lasciò persino correre la voce che a calendimaggio del 1522 sarebbe stato promulgato un bando con le promesse riforme: ovvio che non se ne facesse niente, altrettanto ovvio che l’alternanza di speranze e di delusioni finisse per provocare i più esasperati.

In questa atmosfera e con queste suggestioni, inevitabilmente in gran parte letterarie, ma che tuttavia solo attraverso molte mediazioni si possono far risalire ai dibattiti degli Orti Oricellari, nacque il complotto per assassinare il cardinale Giulio de’ Medici, il giorno di Corpus Domini, 19 giugno 1522.

Che B. fosse, in Firenze, il principale animatore della congiura risulta chiaro da quella che è, tra le tante rimaste, la più circostanziata e, tutto sommato, la più veridica relazione del complotto: la deposizione di uno dei congiurati, Niccolò Martelli, nel secondo processo fattogli a Civitavecchia nel 1526. Con B. erano vari frequentatori degli Orti Oricellari: Luigi Alamanni, Iacopo Cattani da Diacceto, Giovanni Battista Della Palla, un cugino e omonimo di Alamanni, Luigi di Tommaso, e Antonio Brucioli. Pare che B. avesse in animo di associare al complotto anche M., ma ne fu dissuaso dal Martelli con la considerazione che M. avrebbe immediatamente destato sospetti per non essere amico della casa medicea. Dalla medesima deposizione appare evidente che l’idea della congiura nacque in modo autonomo in B. e nei suoi amici per poi innestarsi, come era naturale che avvenisse, nella più vasta iniziativa antimedicea alimentata dal cardinale Soderini e dalla corte di Francia.

Con l’obiettivo di avere aiuto militare contro i Medici, Della Palla era stato inviato alla corte di Francia, allora a Digione. Si delineò così il piano di una contemporanea rivolta, a Firenze con relativa uccisione del cardinale de’ Medici e a Siena contro il governo filomediceo che si stringeva intorno al cardinale Raffaele Petrucci, mentre Renzo da Ceri, con genti francesi e del cardinale Soderini, avrebbe dovuto invadere la Val di Chiana e poi spingersi sino a Firenze; inoltre una squadra navale genovese sarebbe dovuta irrompere su Livorno e le genti del duca di Ferrara, pure informato della congiura, sarebbero dovute entrare nel territorio fiorentino attraverso la Garfagnana e il Frignano.

Dalla stessa deposizione di Martelli si ricava il piano delle riforme politiche che B. e i suoi amici avrebbero voluto realizzare dopo il successo della congiura, esplicitamente esemplate nelle soluzioni istituzionali della Repubblica di Venezia.

Il successo dell’iniziativa era affidato in gran parte alle virtù militari del Ceri, ma fu proprio il condottiero viterbese a mancare alle aspettative generali dei congiurati e dei fuorusciti, sebbene a questi, e in specie ai senesi, risalga la responsabilità di non aver fiancheggiato adeguatamente l’impresa approvvigionando come era necessario le milizie del Ceri. Questo, impantanatosi nella Maremma, dopo avere invano assalito Chiusi, Siena e Orbetello, dovette ritirarsi per mancanza di vettovaglie. In conseguenza del fallimento di questa spedizione, né le galere genovesi né le milizie estensi tennero fede al loro impegno e i congiurati fiorentini si guardarono bene dallo scoprirsi.

Tuttavia la cattura di un corriere rivelò al governo mediceo l’intero complotto. B. riuscì a mettersi in salvo con la fuga, insieme con Luigi Alamanni, mentre il cugino di quest’ultimo, l’omonimo Luigi di Tommaso, e Cattani da Diacceto furono imprigionati. Nel processo che subito ne seguì, Diacceto confessò i propositi dei congiurati. Fu condannato, insieme con il compagno, alla decapitazione, eseguita il 7 giugno 1522. A B. e ad Alamanni l’11 giugno fu ordinato di presentarsi entro tre giorni, sotto pena di essere dichiarati ribelli e della confisca di tutti i beni. Poiché naturalmente i due non obbedirono fu stabilita una taglia di 500 ducati d’oro.

Insieme ad Alamanni, B. trovò dapprima rifugio a Lucca, subito dopo in Garfagnana, presso Ludovico Ariosto. L’ospitalità del poeta, tuttavia, non dovette prolungarsi a lungo, ché lo avrebbe compromesso agli occhi del duca di Ferrara, non incline in quel momento a peggiorare i propri rapporti con i Medici. B. e Alamanni partirono poi alla volta di Venezia, nell’agosto seguente erano a Lione. In Francia li spingeva non tanto il desiderio di maggiore sicurezza, quanto quello di partecipare all’organizzazione della spedizione italiana di Francesco I.

Il re infatti fece subito uso dei due fuorusciti fiorentini affidando loro, in vista della spedizione, una missione a Venezia sulla cui natura tuttavia non si hanno notizie, ma che non ebbe esecuzione, perché furono entrambi catturati e imprigionati tra Losanna e Ginevra, per poi essere liberati dopo alcuni giorni di prigionia a istanza dello stesso Francesco I. Ritornarono quindi a Lione e di qui si trasferirono presso la corte, dove ristabilirono i contatti con i repubblicani fiorentini. Da allora B. e Alamanni seguirono le oscillanti vicende di tutti gli altri fuorusciti italiani, in specie fiorentini e milanesi, che avevano trovato rifugio alla corte di Francia, prendendo parte, nell’esercito francese, alle operazioni militari del 1523 e dell’anno seguente in Italia, continuando a fantasticare di colpi di mano contro i Medici. Le vicende della guerra, sfavorevoli ai francesi, costrinsero B. a rimanere nell’attesa abbastanza passiva (ma non priva di contatti con gli amici di Firenze) di un corso migliore degli eventi politici e militari. Sino alla fine del 1524 lo vediamo così dedicarsi ad attività commerciali tra Lione e Torino. Ma nel 1526 la stipulazione della lega di Cognac, che riavvicinava Clemente VII a Francesco I, pose fine alle speranze dei fuorusciti di poter rientrare in Firenze con l’aiuto francese. B. si trasferì quindi a Siena, dove da due anni la rivolta dei noveschi contro gli ultimi esponenti della Signoria dei Petrucci aveva liberato la città dalla tutela medicea. Qui, insieme a Della Palla, B. divenne l’anima dei rinnovati tentativi degli esuli contro il governo fiorentino. Nell’aprile 1527, approfittando della carestia scoppiata a Firenze per l’improvvida politica annonaria, B. provocò un decreto del governo senese che prometteva di inviare soccorsi di grano nel caso di una rivolta popolare, esortando i fiorentini con un manifesto a recuperare la libertà. Ma ormai B. si era andato convincendo che soltanto la protezione degli imperiali avrebbe potuto restituire Firenze alla sua antica libertà. E a questo fine si portò nel maggio successivo a Napoli, insieme a Della Palla, per guadagnare Ugo di Moncada alla causa dei fuorusciti. Finalmente, estromessi il 16 maggio del 1527 – dieci giorni dopo il sacco di Roma, che segnò anche in Firenze il crollo del partito mediceo – il cardinale arcivescovo Silvio Passerini, Alessandro e Ippolito de’ Medici, B. poté rientrare in patria, dove subito prese nel governo della città quella posizione che gli competeva. Appena tornato a Firenze, B. aveva potuto riprendere a frequentare M. e, insieme ad Alamanni, tentò invano di sostenerlo nel suo proposito di recuperare l’antico impiego nella cancelleria. Con Nardi, Alamanni, Filippo Strozzi e Francesco Del Nero B. fu tra gli amici che assistettero alla morte di Machiavelli. Pochi mesi dopo, nel novembre 1527, moriva anche B., colpito dalla peste che imperversava in tutto il territorio fiorentino. Aveva sposato Maria di Luca degli Albizzi, dalla quale ebbe quattro figli: Alessandra, Cosimo (che mantenne lo stesso atteggiamento antimediceo del padre e fu pertanto dichiarato ribelle dal duca Cosimo I il 22 maggio del 1543), Bartolomeo e Costanza.

Bibliografia: G. De Caro, Buondelmonti Zanobi, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 15° vol., Roma 1972, ad vocem (con riferimenti alle fonti e alla letteratura critica).

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