Welfare state

Lessico del XXI Secolo (2013)

welfare state


<u̯èlfeë stèit> locuz. sost. ingl., usata in it. al masch. – Nel primo decennio del 21° sec. secolo i sistemi di protezione sociale,  disegnati nel periodo compreso fra gli anni Trenta e Settanta del 20° sec., hanno continuato a confrontarsi con la crisi che progressivamente li aveva coinvolti a partire dalla metà dagli anni Ottanta. Messi a punto in una fase storica caratterizzata da un rapporto particolarmente alto tra popolazione attiva e popolazione inattiva, i sistemi di welfare avevano potuto caricare sulla prima pesi contributivi rilevanti, ma fortemente distribuiti; in questo modo un onere che gravava sui singoli in misura modesta aveva consentito di finanziare agevolmente una varietà di prestazioni a favore dei soggetti più deboli e di soddisfare un ampio spettro di bisogni: dalle pensioni ai sussidi di disoccupazione, dal sostegno ai diversamente abili a quello agli invalidi e ai malati, dai congedi per maternità a quelli per l’assistenza. In questo contesto erano stati riconosciuti il diritto all’istruzione, alla tutela della salute e ai servizi sociali, come parti integranti del diritto di cittadinanza. In molti paesi occidentali l’ampliamento della sfera dei diritti sociali si era affermato sulla base di modelli mutualistico-assicurativi, in altri aveva assunto un carattere universalistico garantito dallo Stato, nella gran parte dei casi comunque, almeno in Europa, questo ampliamento aveva ridotto i livelli di insicurezza dei cittadini e aveva aumentato la loro protezione soprattutto nei confronti di eventi catastrofici. Rispetto a tale quadro di riferimento, diventavano però sempre più evidenti nel mondo occidentale all’inizio del nuovo secolo gli effetti del mutamento demografico con una riduzione dei tassi di fertilità, un costante aumento della speranza di vita e un progressivo invecchiamento della popolazione. Il Fondo monetario internazionale formulava nel 2006 la previsione che entro il 2050 il rapporto tra occupati e pensionati si sarebbe ridotto da 4 a 2 occupati per pensionato. Una situazione di questo tipo rimetteva in discussione quel  patto generazionale su cui si era fondata la nascita dei sistemi pensionistici pubblici e delle altre forme di protezione sociale e metteva a rischio la loro sostenibilità. Gli aspetti critici collegati al mutamento demografico si coniugavano inoltre all’aumento delle disuguaglianze e con una stagnazione economica che, a partire dal 2007-08, si era evoluta, nella maggioranza dei paesi occidentali, in una forma più o meno strisciante di recessione. L’aumento delle diseguaglianze in una fase di stagnazione economica accresceva infatti la richiesta potenziale di servizi, mentre riduceva la capacità contributiva utilizzabile per finanziarla a meno di aumentare fortemente la tassazione con i possibili effetti negativi sul ciclo economico. Accanto ai fattori economici, il progressivo definanziamento e la crisi dei sistemi di welfare sono stati però condizionati anche dai mutamenti del quadro politico, ideale e culturale. La carica di progettualità che aveva alimentato l'evolversi dei sistemi di protezione sociale nel corso della prima metà del secolo scorso ha lasciato infatti il passo a politiche di trasferimenti disordinati, la cui genesi risiedeva nelle variegate coalizioni di interessi che tendevano a modellarsi in sincronia con i cicli politico-elettorali. A una diffusa riaffermazione di spinte individualistiche inoltre corrispondeva l’attenuazione dei legami di solidarietà che avevano caratterizzato una fase del sistema capitalistico largamente fondata sul modello industriale e fortemente condizionata dalle sue logiche di relazione. La disaffezione verso i sistemi di welfare ha trovato anche un riscontro teorico nelle scuole di pensiero neo-liberiste e monetariste, affermatesi a partire dagli anni Ottanta del 20° sec., che hanno messo in discussione l’efficacia economica delle politiche redistributive, emarginando la dimensione etica dalla riflessione sui meccanismi di protezione sociale, con la conseguente negazione di qualsiasi possibile rapporto di interdipendenza tra dimensione etica e dimensione economica, e considerando la spesa sociale fondamentalmente un consumo e non un investimento produttivo sia in termini di coesione sociale sia in termini di crescita quantitativa e qualitativa del PIL.

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