VULCANOLOGIA

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1995)

VULCANOLOGIA

Paolo Gasparini

(XXXV, p. 617; App. II, II, p. 1128; IV, III, p. 847)

Le ricerche degli ultimi anni hanno messo sempre più in evidenza come l'attività vulcanica sia il principale processo attraverso il quale viene formata la crosta terrestre e viene modificata la composizione originaria dell'atmosfera del nostro pianeta. Di conseguenza la v. non è più limitata allo studio degli apparati vulcanici e delle caratteristiche eruttive dei magmi, ma estende sempre di più il suo interesse allo studio della crosta, del mantello e dell'atmosfera terrestre, allo scopo di comprendere l'origine dei magmi, il loro trasporto attraverso il mantello e la crosta terrestre, e le modifiche che le eruzioni vulcaniche provocano all'atmosfera terrestre.

I criteri con i quali viene identificato un singolo vulcano e la definizione stessa di vulcano ''attivo'' presentano ancora qualche ambiguità. Infatti, se l'identificazione di un singolo vulcano come sistema che ha un'unitarietà morfologica, strutturale e magmatologica è abbastanza chiara nei classici apparati centrali, il più tipico dei quali è il rilievo troncoconico simmetrico con cratere sommitale esemplificato nel modo migliore dal vulcano giapponese Fuji-yama, essa risulta tuttavia meno semplice nel caso di vulcanismo alimentato da estese fratture lineari, come lungo le dorsali medio-oceaniche. Delle migliaia di vulcani identificabili sulla superficie terrestre vengono considerati attivi quelli che sono ancora capaci di dar luogo a eruzioni. Tradizionalmente venivano definiti tali i circa 550 vulcani che hanno fornito per lo meno un'eruzione in epoca storica. Questa definizione, oltre ad avere un'ovvia ambiguità dovuta al diverso intervallo di tempo al quale rimonta la testimonianza storica nelle diverse parti del mondo, è stata recentemente messa in crisi dalla violenta ripresa di attività di alcuni vulcani, come il Pinatubo nelle Filippine ed El Chichon in Messico, che erano quiescenti da diversi secoli. Le datazioni delle eruzioni preistoriche, effettuate sia con il metodo del 14C che su basi archeologiche, hanno inoltre rivelato che non è infrequente il caso di vulcani le cui eruzioni avvengono a intervalli di migliaia di anni. Ciò è accaduto, per es., ai Campi Flegrei, dove le due ultime eruzioni sono datate al 1500 a.C. e al 1538 dell'era attuale, e al Vesuvio, la cui famosa eruzione del 79 che distrusse Pompei fu preceduta da circa 800 anni d'inattività. È quindi più prudente considerare attivi tutti i 1300 vulcani che hanno eruttato negli ultimi 10.000 anni.

Distribuzione dei vulcani attivi. - La distribuzione dei vulcani sulla superficie terrestre non è casuale, ma mostra una marcata correlazione con strutture geologiche e lineamenti tettonici ben definiti. I vulcani attivi negli ultimi 10.000 anni sono concentrati lungo strette fasce ad andamento arcuato o lineare che coprono meno dell'1% della superficie della Terra. La teoria della tettonica delle zolle ha permesso di spiegare le cause di questa distribuzione e la sua relazione con la dinamica della parte più esterna del pianeta. Circa il 94% delle eruzioni avvenute in epoca storica ha avuto luogo in vulcani ubicati in corrispondenza dei margini delle zolle, divergenti e subducenti. La grande maggioranza, e le più violente, di queste sono avvenute nelle zone di subduzione. Le eruzioni che avvengono lungo le dorsali oceaniche consistono in genere in tranquille effusioni laviche che sfuggono all'osservazione, essendo ricoperte da uno strato di oceano spesso da 1 a 4 km. Le dorsali medio-oceaniche formano un sistema lungo circa 70.000 km. Calcolando, in base alla velocità di movimento delle zolle divergenti, la quantità di magma che deve risalire per formare la nuova crosta oceanica, si rileva che circa il 75% del magma che arriva annualmente alla superficie terrestre risale lungo le zone di dorsale.

Circa il 6% delle eruzioni avviene in vulcani che sono ubicati all'interno delle zolle litosferiche. Questi vulcani vengono alimentati da punti caldi (ingl. hot spots), che sono l'espressione superficiale di zone di anomalia termica del mantello che si estendono probabilmente fino a circa 2900 km di profondità, dove è situato il confine con il nucleo. Tali anomalie termiche sono chiamate pennacchi caldi (ingl. hot plumes), a causa della loro forma, lunga e sottile. I punti caldi sono fissi nell'astenosfera e costituiscono in pratica delle zone di accumulo di magma che, a causa della minore densità, tende a risalire verso la superficie terrestre, perforando la litosfera sovrastante, e formando un vulcano. Pertanto il passaggio di una zolla litosferica sopra un punto caldo è marcato da una traccia costituita da una catena di vulcani, allineata lungo la direzione di movimento della zolla, e la cui età aumenta all'aumentare della distanza dal punto caldo. Un esempio tipico è costituito dalla catena vulcanica Hawaii-Emperor, formata dal passaggio della zolla Pacifica sopra un punto caldo ubicato in corrispondenza dell'isola di Hawaii, la più meridionale dell'arcipelago, teatro attualmente di un'intensa attività vulcanica.

È probabile che le enormi strutture effusive, note con il nome di grandi province magmatiche o espandimenti basaltici (ingl. flood basalts), che ricoprono superfici di diversi milioni di km2 in zone sia oceaniche che continentali, siano state formate negli stadi iniziali di messa in sito dei punti caldi. Queste strutture sono state formate dalla rapida effusione di enormi quantità di magmi molto fluidi, di composizione basaltica, avvenuta in un intervallo di tempo di pochi milioni di anni. Le più note sono i pianori oceanici di Ontong Giava, formati 122÷124 milioni di anni fa, del margine vulcanico nord-atlantico, formato tra 56 e 58 milioni di anni fa tra la Groenlandia e la costa norvegese, e le province continentali del Deccan, nella penisola indiana, e del fiume Columbia, nel Nord America, le cui età sono rispettivamente di 65÷68 e 16÷18 milioni di anni. In ciascuna di queste province sono stati riversati sulla superficie terrestre volumi enormi di magma basaltico, con un tasso che varia dai 12÷15 km3 per anno nel caso di Ontong Giava ai 2÷8 km3 per anno nel caso del Deccan. Il protrarsi di quest'attività eruttiva in aree continentali per tempi di solamente alcune migliaia di anni ha avuto come risultato l'immissione nell'atmosfera di decine di miliardi di tonnellate di anidride carbonica e d'alogeni e di alcuni miliardi di tonnellate di zolfo. I punti caldi capaci di produrre quest'attività dovevano aver inizialmente un raggio variabile da 600 a 1400 km, cioè tale da estendersi per tutto il mantello superiore. In seguito il punto caldo si è ridotto notevolmente di dimensioni, fornendo di conseguenza un'attività molto più lenta e localizzata.

Formazione dei magmi. - Gran parte dell'attività vulcanica è alimentata da magmi la cui composizione cade in due categorie principali: i basalti e i magmi calco-alcalini o andesitici. I magmi che alimentano l'attività lungo le dorsali medio-oceaniche e i punti caldi sono essenzialmente di composizione basaltica, cioè caratterizzati da un contenuto in ferro più elevato del 10%, contenuto in alcali inferiori al 4% con concentrazione in potassio inferiore all'1%. I basalti delle dorsali oceaniche appartengono a una varietà, detta tholeiitica, impoverita in elementi alcalini, titanio e fosforo. Anche l'attività dei vulcani dei punti caldi è alimentata in gran parte da magmi tholeiitici; nelle ultime fasi compaiono basalti di composizione più alcalina, caratterizzati da contenuto in potassio che raggiunge l'1,5%, ed elevate concentrazioni di sodio, altri elementi alcalini, titanio e fosforo.

I magmi che alimentano i vulcani delle zone di subduzione appartengono invece alla serie calco-alcalina, i cui termini più diffusi sono le andesiti, rocce caratterizzate da elevati tenori di allumina (superiori al 16% in peso), concentrazioni di alcali intorno al 4÷5% e contenuti in ferro non superiori all'8%. I magmi calco-alcalini hanno in genere viscosità di diversi ordini di grandezza più elevate di quelle dei magmi basaltici; le differenze in viscosità sono di enorme importanza nel regolare il comportamento eruttivo dei due tipi di magma.

Le maggiori informazioni sulle condizioni che regolano la formazione dei magmi nell'interno del mantello si hanno da simulazioni effettuate in laboratorio con apparati sperimentali che riproducono le condizioni di alta pressione e temperatura esistenti nell'interno della Terra. Sono attualmente disponibili apparati che simulano pressioni statiche fino a 100 GPa (corrispondenti a profondità intorno a 2000 km). Il mantello è essenzialmente un solido cristallino di composizione peridotitica. La fusione della peridotite, al pari di quella di una qualsiasi altra roccia formata da diverse fasi minerali, avviene entro un intervallo di temperatura di qualche centinaio di gradi. La temperatura alla quale ha inizio la fusione è detta solidus della roccia. Il valore del solidus di una roccia dipende dalla sua composizione mineralogica e dalla pressione alla quale essa si trova. La temperatura del mantello è dovunque vicina al solidus della peridotite. Nell'astenosfera la temperatura è leggermente superiore a quella del solidus, e una piccola percentuale di magma fuso è presente nella roccia. In corrispondenza delle dorsali medio oceaniche e dei punti caldi la formazione dei magmi avviene come conseguenza di un processo di decompressione adiabatica: l'astenosfera che risale convettivamente verso la superficie va incontro a una diminuzione di pressione molto più rapida del decremento di temperatura, e inizia quindi a fondere.

Quando la percentuale di materiale fuso è intorno al 30%, il magma prodotto è di composizione tholeiitica; quando invece essa è solo di qualche percento, il magma è un basalto alcalino. Nella formazione dei magmi calco-alcalini delle aree di subduzione è probabilmente l'acqua a giocare un ruolo critico. La zolla in subduzione trasporta infatti nell'interno del mantello, fino a profondità di circa 700 km, sedimenti e porzioni di crosta oceanica ricchi in acqua contenuta nel reticolo di minerali idrati, quali cloriti, anfiboli e serpentino. Man mano che la zolla penetra nel mantello e si riscalda, i minerali si deidratano e l'acqua migra nella parte superiore della zolla e nel mantello sovrastante, causando una diminuzione della temperatura del solidus della peridotite anche di qualche centinaio di gradi, e provocando quindi zone di estesa produzione di magmi.

L'erosione e il sollevamento di estese regioni di crosta terrestre hanno portato alla superficie le radici di vecchi edifici vulcanici, mostrando come al di sotto di molti di essi esistano zone di ristagno dei magmi, chiamate camere o serbatoi magmatici. In tali zone, che tendono a localizzarsi a un livello crostale dove la differenza di densità tra il magma e le rocce circostanti si annulla, il magma si raffredda e tende a cambiare la sua composizione attraverso complessi processi di cristallizzazione e convezione (differenziazione magmatica). La presenza di camere magmatiche al di sotto di alcuni vulcani attivi è stata mostrata con metodi di tomografia sismica. Le camere magmatiche sono sistemi aperti che vengono continuamente riforniti di magmi provenienti dal mantello terrestre.

Caratteristiche eruttive. - Lo stile eruttivo di un vulcano è determinato essenzialmente dalla viscosità del magma che lo alimenta, e dalla possibilità che esso interagisca con le falde acquifere. I magmi basaltici sono quelli caratterizzati dalle viscosità più basse (10÷100 Pa s) e dalle temperature più elevate (1100÷1200°C). Essi danno generalmente luogo a tranquille effusioni laviche. Le eventuali interazioni con falde freatiche producono deboli esplosioni e fontane di lava. La viscosità dei magmi aumenta notevolmente con la concentrazione in silice, che diventa dell'ordine di 100÷1000 Pa s nei magmi andesitici e raggiunge i 100 milioni di Pa s nei magmi riolitici. Questi ultimi, quando raggiungono la superficie terrestre, hanno temperature di 700÷800°C. Essi risalgono molto lentamente lungo i condotti e, se non incontrano livelli ricchi di acqua, tendono a raffreddarsi intorno alla bocca eruttiva, formando cupole e duomi. Se però essi hanno un elevato contenuto in acqua (o durante la risalita incontrano falde acquifere), l'alta viscosità del magma impedisce la regolare e continua emissione dei gas, che invece avviene attraverso violente esplosioni, le quali si verificano ogni qual volta la pressione interna aumenta fino al punto di vincere la resistenza opposta dal magma stesso.

Le eruzioni esplosive sono caratterizzate da una maggiore energia e sono di gran lunga le più pericolose per l'uomo. Durante queste eruzioni vengono proiettate verticalmente colonne formate da getti di gas che trasportano frammenti finemente triturati di magma liquido e delle rocce che fanno parte del condotto magmatico. I prodotti solidi di queste nubi, trasportati dai venti, cadono dall'alto formando depositi di ceneri, pomici e lapilli. Quando la colonna è molto densa, perché molto carica di ceneri e lapilli, essa collassa sotto il proprio peso, generando così flussi di ceneri, lapilli e gas che, sotto la spinta della forza di gravità, si propagano a velocità maggiori di 100 km/h lungo i pendii della montagna. Un fenomeno analogo si genera quando le esplosioni avvengono a piccola profondità e quindi non vi sono le pareti del condotto a ostacolare la propagazione dell'onda in direzione orizzontale. Le rocce prodotte dalla deposizione del materiale emesso in eruzioni esplosive sono dette piroclastiche.

Il carattere più o meno esplosivo di un'eruzione viene classificato in una scala logaritmica, utilizzando un indice, detto VEI (Volcanic Explosivity Index), il quale viene calcolato in base al volume di materiale emesso e all'altezza raggiunta dalla nube esplosiva. L'indice VEI ha valore zero per le eruzioni effusive, mentre raggiunge il valore 5 per l'eruzione del Monte St. Helens nel 1980 e il valore 7 per l'eruzione del Tambora del 1815.

Il rischio vulcanico. - Il rischio vulcanico di una data area è definito come il prodotto della probabilità che essa venga ricoperta dai materiali di un'eruzione in un dato intervallo di tempo per i danni provocati, in termini di beni materiali e vite umane. La ricostruzione della storia eruttiva di un vulcano e uno studio accurato delle sue caratteristiche morfologiche consentono una valutazione del rischio attraverso la determinazione della frequenza con la quale avvengono i diversi tipi di eruzione, degli scenari prevedibili per ciascuna tipologia eruttiva e del valore economico degli insediamenti distrutti. Valutazioni di questo tipo sono state recentemente effettuate per molti vulcani, tra i quali il Monte St. Helens e, in Italia, il Vesuvio. Le eruzioni alimentate da magmi molto fluidi producono colate di lava generalmente non pericolose per la vita umana, ma che possono devastare abitati e coltivazioni pregiate. Sono stati sperimentati con successo sull'Etna, durante la lunga eruzione iniziata il 14 dicembre 1991 e terminata il 30 marzo 1993, interventi miranti ad arrestare l'avanzamento di una colata impedendone l'alimentazione del fronte. L'intervento è consistito nel deviare il flusso lavico a monte, demolendo con esplosivo la parete laterale dell'alveo che la lava si era creato e favorendo così l'immissione della lava in un canale artificiale, e, allo stesso tempo, ostruendo il canale principale gettando con elicotteri enormi blocchi di roccia nei punti in cui la lava s'ingrottava. Interventi di deviazione non sono possibili nel caso delle nubi piroclastiche emesse da violente eruzioni esplosive. L'unico intervento protettivo è la tempestiva evacuazione della zona. A partire dal 1982 ci si è resi conto di un nuovo tipo di pericolo legato alle eruzioni esplosive. In quell'anno infatti alcuni aerei aviogetti sono stati seriamente danneggiati dall'incontro improvviso e imprevisto con nubi eruttive emesse dal vulcano Gulanggung (Giava). Questi incontri si sono ripetuti durante le eruzioni dei vulcani Redoubt (Alaska) nel 1989 e Pinatubo (Filippine) nel 1991. Fino al 1993 più di 60 aviogetti hanno sperimentato inconvenienti di questo tipo; molti di essi hanno subito drastiche diminuzioni di potenza e sono ricorsi, in alcuni casi, ad atterraggi di emergenza. Per evitare questo inconveniente si stanno mettendo a punto sistemi di avvistamento delle nubi vulcaniche basati su osservazioni da satellite.

Previsione delle eruzioni. - La previsione di eventi eruttivi di vulcani a condotto aperto, basata sullo studio dei fenomeni sismici e delle deformazioni del suolo, è applicata con un soddisfacente successo su diversi vulcani, tra i quali il Kilauea (Hawaii) e il Sakurajima (Giappone). Questi vulcani però sono a bassa esplosività (VEI compreso tra 0 e 2). Il successo della predizione su questi vulcani è legato al fatto che l'elevata frequenza eruttiva consente di avere una statistica accettabile sulla quale calcolare le relazioni tra i fenomeni premonitori e le eruzioni. La frequenza delle eruzioni diminuisce però drasticamente all'aumentare dell'esplosività. Ogni anno infatti avvengono, sul nostro pianeta, diverse eruzioni con VEI=3, mentre un'eruzione con VEI=5 avviene circa ogni dieci anni e una con VEI=7 ogni secolo. Le informazioni che abbiamo sui precursori di queste eruzioni, e quindi la nostra capacità predittiva in questi casi, è scarsa. L'attività sismica che ha preceduto eruzioni altamente esplosive ha avuto caratteristiche abbastanza contraddittorie, e le speranze di una predizione a medio termine della ripresa di attività di questi vulcani è legata allo studio delle deformazioni del suolo. Un notevole progresso tecnologico in questo settore è costituito dalle applicazioni geodetiche del cosiddetto GPS (Global Positioning System), un sistema di determinazione delle coordinate spaziali di un punto sulla superficie terrestre basato su segnali provenienti da satelliti. Questo sistema, che si sta avviando ad avere la sensibilità dell'ordine di qualche parte per milione necessaria per una conveniente utilizzazione sui vulcani, consente una determinazione rapida e a basso costo delle deformazioni del suolo anche in aree di difficile morfologia. Uno dei progressi più interessanti nel campo della predizione è costituito dai risultati che si sono ottenuti con sensibilissimi estensimetri da pozzo in Islanda durante l'eruzione del vulcano Hekla nel 1991. Questi strumenti, collocati in cinque località distanti 15-45 km dal centro eruttivo, cominciarono a registrare brusche variazioni di deformazione della roccia a partire da 40 minuti prima dell'eruzione. La propagazione delle deformazioni e le sue relazioni con l'attività sismica ed eruttiva hanno mostrato che, con tutta probabilità, l'evento iniziale segnava l'inizio della risalita del magma a partire da un serbatoio situato a circa 6,5 km di profondità.

Effetti climatici delle eruzioni. - Dal 1980 al 1993 sono avvenute almeno 5 grosse eruzioni esplosive, i cui prodotti sono stati immessi nella stratosfera. La distribuzione nello spazio e nel tempo dei prodotti immessi è stata studiata con notevole dettaglio con misure sia da terra che da satellite. Tra queste ultime sono risultate particolarmente utili le determinazioni della dispersione dell'anidride solforosa effettuata con uno strumento disegnato per rilevare la distribuzione di ozono (TOMS o Total Ozone Mapping Spectrometer), montato sul satellite a orbita polare Nimbus-7. Le eruzioni esplosive immettono nell'atmosfera enormi quantità di composti dello zolfo, che finiscono, attraverso una serie di reazioni fotochimiche, per formare nella stratosfera una nube di aerosol costituito da goccioline di acido solforico. Un'eruzione con VEI compreso tra 3 e 4 può produrre decine di megatonnellate di acido solforico. Il processo di formazione dell'aerosol stratosferico può durare anche mesi. Il tempo di residenza dell'aerosol nell'atmosfera dipende dalla velocità di nucleazione e di crescita delle goccioline, che in media hanno un diametro di decimi di μm. Le goccioline rimangono anche alcuni anni nella stratosfera prima di coagularsi in gocce di dimensioni tali da depositarsi sulla superficie terrestre. Questo aerosol stratosferico altera il bilancio termico globale. La dimensione media delle goccioline è infatti 10 volte più grande della lunghezza d'onda della radiazione proveniente dal Sole e 6÷7 volte più piccola della lunghezza d'onda della radiazione riflessa dalla Terra. Di conseguenza le nubi di aerosol si lasciano attraversare preferibilmente dalla radiazione riflessa dalla Terra e assorbono e riflettono verso lo spazio quella proveniente dal Sole. L'effetto globale è quello di raffreddare la bassa atmosfera. È stato calcolato che l'immissione di 0,003 km3 di aerosol ridurrebbe la radiazione solare alla superficie terrestre del 20%. Questa quantità è solo un centomillesimo del volume di materiale emesso nell'eruzione del Krakatoa del 1883. Sono ben noti nella storia gli anni ''senza estate'' che seguirono le eruzioni del Tambora nel 1815 e del Krakatoa nel 1883. La deposizione delle goccioline di aerosol sulle superfici dei ghiacciai produce improvvisi aumenti di acidità del ghiaccio, che vengono preservati nel tempo. L'identificazione di questi picchi di acidità in carote prelevate in Groenlandia o nelle zone polari permette una ricostruzione dettagliata delle variazioni di aerosol atmosferico legato alle grosse eruzioni.

Attività vulcanica su altri pianeti. - L'esplorazione del sistema solare effettuata con le sonde spaziali ha mostrato che la Terra non è l'unico pianeta caratterizzato da un'attività vulcanica recente. Su almeno altri tre corpi planetari − Marte, Venere e Io (un satellite di Giove) − esistono evidenze di vulcanismo in atto o recente. L'emisfero settentrionale di Marte è infatti formato da pianure con scarse tracce di impatti meteoriti (e quindi molto giovani) sulle quali si elevano imponenti edifici vulcanici. Nella zona di Tharsis sono concentrati quattro enormi edifici a scudo − che ricordano la struttura dei vulcani hawaiiani − il più grande dei quali è il Monte Olympus, alto 23 km e con un diametro di 600 km. Anche vicino al polo settentrionale di Venere sono state identificate strutture simili a grossi vulcani. Nonostante non siano state osservate eruzioni, è difficile spiegare la presenza di notevoli quantità di anidride solforosa, acido solfidrico e solfuro di carbonio nell'atmosfera venusiana senza ammettere la presenza di un vulcanismo attivo. Infatti questi gas, che sono comunemente emessi dai vulcani terrestri, sono molto reattivi e quindi hanno una vita molto breve. La loro persistenza nell'atmosfera di Venere costituisce un indizio importante dell'esistenza di attività vulcanica in corso. Prove dirette di eruzioni in corso sono state inviate dalle sonde Voyager 1 e 2, quando hanno fotografato la superficie del satellite Io, il più interno dei satelliti di Giove. Sono stati infatti fotografati pennacchi eruttivi formati da composti di zolfo. Questi pennacchi, che raggiungono anche altezze intorno a 300 km e hanno una struttura a ombrello di 700 km di raggio, hanno temperature variabili tra 400 e 650°K. Mentre l'attività vulcanica su Marte e Venere è probabilmente alimentata da magmi generati con meccanismi analoghi a quelli terrestri, il vulcanismo di Io è invece una conseguenza del calore sviluppato dalla marea solida eccitata nel satellite dall'enorme massa di Giove.

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