VULCANO

Enciclopedia Italiana (1937)

VULCANO

Gaetano PONTE
Aldo SESTINI

. Si attribuisce questo nome a rilievi della crosta terrestre dai quali erompe il magma (v. eruttive, rocce) che, sospinto dalle forze endogene, si accumula su essi facendoli aumentare di mole finché non si estinguono e restano vulcani spenti. Per la morfologia di questi rilievi vedi più avanti.

Varie teorie hanno preteso di spiegare l'origine dei vulcani. Per lungo tempo prevalse quella del fuoco centrale e si credette che tutti i vulcani della Terra fossero in comunicazione fra loro e servissero da valvole di sicurezza alla tensione del magma interno. In seguito, quando fu ammessa l'indipendenza e l'esauribilità dei vulcani, venne accolta la teoria dei focolari periferici non comunicanti con l'interno della Terra. Però rimane tuttora ipotetica l'origine del magma e non si conoscono le cause vere che determinano le sue eruzioni. L'ipotesi che l'acqua sotterranea possa sprofondarsi fino a raggiungere i focolari vulcanici e svegliare l'attività eruttiva del magma, va perdendo credito. Esperienze di laboratorio hanno mostrato che l'acqua a contatto con una roccia eruttiva arroventata viene decomposta con sviluppo di gas e la sua azione dura finché tutte le sostanze ossidabili non sono state trasformate. Pertanto viene escluso che l'acqua possa coesistere in soluzione nel magma; difatti appena la lava eruttata da un vulcano viene a contatto con gli agenti atmosferici e soprattutto con il vapore acqueo, dà luogo a sviluppo di gas idrogenati che, venendo in miscela con l'ossigeno dell'aria, determinano le esplosioni vulcaniche. Quando l'acqua reagisce superficialmente sulla lava, la sua azione ossidante è lenta mentre è tumultuosa se vi si immergono delle rocce umide; in quest'ultimo caso il magma lavico diviene vescicoloso e consolida in forma di pomice. Così viene assodato che l'azione dell'acqua sulla lava è un fenomeno esogeno che spiega quelle complesse reazioni petrogenetiche superficiali le quali resterebbero enigmatiche non ammettendo questa finale presenza dell'acqua che incomincia a fare parte integrante di alcuni minerali componenti la lava durante la sua consolidazione. Le esperienze del Barus insegnano che i silicati fusi possono assorbire acqua a elevata pressione quando non contengono sostanze ossidabili; ma nel magma eruttivo, che ne è molto ricco, ciò non può avvenire. D'altro canto le esperienze del Brun mostrano che una roccia quanto più è riscaldata tanto più facilmente si ossida in presenza dell'acqua. Così si spiega che le colate laviche si presentano molto ossidate verso la parte esterna più a contatto con gli agenti atmosferici.

Alcuni geologi ammettono che il magma si possa trovare nei focolari vulcanici allo stato solido sotto la enorme pressione alla quale è sottoposto e che diventi liquido con l'aprirsi del condotto eruttivo. Se così fosse, il crogiuolo di un vulcano dovrebbe svuotarsi in unico tempo fino all'esaurimento, entre quasi tutti i vulcani attivi della Terra hanno un condotto e eruttivo aperto al libero movimento del magma e presentano attività intermittente.

È stata anche avanzata l'ipotesi che il magma passando allo stato solido sotto elevata pressione nel focolare vulcanico possa aumentare di volume e determinare la spinta di quello rimasto liquido sulla parte meno compressa. Se questa inversione dello stato fisico potesse realmente verificarsi, come su alcune sostanze organiche sottoposte a elevatissima pressione, non vi sarebbe spiegazione delle eruzioni più soddisfacente.

Fra le tante ipotesi sul vulcanismo sembra più attendibile quella tettonica che spiega le eruzioni come il risultato di movimenti della litosfera tali da comprimere i magma dei focolari vulcanici così da farlo entrare in eruzione con violenza e durata proporzionale alla spinta. A sostegno di questa ipotesi troviamo che il periodo di più intensa attività vulcanica su la Terra coincide con quello dei grandi movimenti orogenetici del terziario. Allora fu eruttata quella ingente massa di lava che formò le svariate rocce che oggi ci permettono di conoscere la natura del magma contenuto in quella zona profonda che i sismologi hanno calcolato a 50 chilometri dalla superficie. Peró l'idea di zona magmatica non va presa alla lettera perché non sarebbe continua nell'interno della Terra, ma costituita da molti focolari vulcanici molti dei quali già estinti.

Lo studio delle rocce che hanno avuto origine dal magma sospinto alla superficie della Terra dalle forze endogene, ci permette di riscontrare una grande diversità chimica e mineralogica tra quelle antiche e quelle recenti, tra quelle della stessa epoca di centri eruttivi vicini e anche tra quelle dello stesso vulcano facendoci allontanare dall'idea di un magma omogeneo originario, per quanto i petrografi spieghino la genesi di certe rocce di composizione diversa con i fenomeni di differenziazione e di assîmilazione (vedi petrogenesi). Nelle diverse lave eruttate dai vulcani si sono potuti distinguere dei caratteri di parentela che le hanno fatte raggruppare in due grandi famiglie: pacifica e atlantica. Il Becke, ordinando gli elementi delle rocce secondo il peso atomico nel senso crescente, cioè Na, Mg, Al, Si, K, Ca, Fe, è venuto alla conclusione che le rocce pacifiche siano più ricche di elementi leggieri di quelle atlantiche le quali proverrebbero da più grande profondità delle prime. Da studî più estesi di queste famiglie, pacifica e atlantica, delle rocce eruttive, emergerebbe che nel corso dell'evoluzione terrestre si sarebbe effettuato un lento mutamento nel magma, prodotto da fenomeni di differenziazione e di assimilazione, che avrebbe portato a uno spostamento in profondità della zona magmatica rispetto al primitivo livello dei focolari vulcanici.

Non si è potuto ben stabilire se il magma di un vulcano, eruttato dopo un lungo periodo di riposo, presenti differenziazioni; mentre sembra che resti invariato quello dei vulcani in attività non interrotta. Occorrono ancora ricerche petrografiche rivolte allo studio delle variazioni chimiche e mineralogiche che si potrebbero riscontrare fra lave eruttate in epoche diverse dallo stesso vulcano; ma tali indagini richiedono metodi rigorosi, trattandosi di stabilire lievi differenze, che potrebbero risultare erronee se, per esempio, si analizzasse la parte esterna di una colata esposta all'azione immediata degli agenti atmosferici in confronto con la parte interna meno alterata.

Le manifestazioni eruttive si dividono in intrusive ed effusive. Le prime sono dette plutoniche, mentre le effusive, che si svolgono alla superficie della Terra, sono dette vulcaniche e si dividono in submarine e subaeree.

Il mare copre circa 5/8 della superficie terrestre: basterebbe quindi questa considerazione per stabilire subito che le eruzioni submarine debbano avere maggiore sviluppo di quelle subaeree e difatti il maggiore numero dei vulcani si trova negli oceani dove il loro zoccolo o edificio submarino è costituito da una massa eruttiva di gran lunga più grande di quella dei vulcani subaerei. Pertanto si può concludere che la più potente massa eruttiva della Terra dal Terziario ad oggi sia stata submarina. La vicinanza dei vulcani alla costa e il loro maggiore numero negli oceani non è casuale, perché le eruzioni avvengono o nelle grandi depressioni o alla loro periferia, lungo le linee di dislocazione. D'altra parte, trovandosi le acque degli oceani raccolte nelle grandi depressioni, appare chiara la relazione tra vulcani e mare.

Le caratteristiche principali dei vulcani submarini sono le seguenti: a) i depositi eruttivi sono concordanti con i sedimenti marini; b) i tufi sono costituiti da detriti vulcanici spesso fossiliferi e sono prodotti da esplosioni subaeree che non avvengono finché il vulcano non emerge dal mare; c) la superficie delle colate laviche submarine si presenta coperta da masse globulari saldate da crosta vetrosa; d) se la lava delle eruzioni submarine è costituita da un magma ricco di silice e quindi poco fluido, si forma un domo sotto le acque che appena emerge si rompe e dà luogo a un cratere ove si iniziano i fenomeni esplosivi che sono caratteristici soltanto delle eruzioni subaeree; e) se il magma è fluido, cioè di tipo basico, forma delle espansioni laviche.

Tutte le isole vulcaniche che hanno la loro base sommersa ebbero in origine attività submarina.

Facendo un confronto tra l'altezza relativa dei più alti vulcani della Terra e le masse eruttive submarine, si vede subito che queste ultime sono di gran lunga più grandi dei vulcani subaerei; però bisogna tenere presente che appena le masse eruttive divengono subaeree modificano molto lo zoccolo sottomarino piuttosto piatto ed esteso; giacché durante l'attività subaerea alle colate laviche si aggiungono i materiali proiettati dalle esplosioni che mancano nel periodo di attività sottomarina. Sono appunto i materiali clasmatici che lanciati in aria dalle esplosioni si distribuiscono regolarmente secondo la loro pensantezza attorno al vulcano subaereo e gli fanno assumere la forma spiccatamente conica.

Le masse submarine nei periodi di riposo continuano a crescere per il deposito lento dei sedimenti marini di natura non vulcanica che vi si aggiungono; mentre i vulcani subaerei nel periodo di riposo sono soggetti alla continua azione degradante degli agenti atmosferici, specialmente delle acque.

I fenomeni che accompagnano le eruzioni submarine, specie quando queste avvengono lontano dalla costa abitata, sono raramente avvertiti; difatti pochi sono quelli registrati, anche perché mancano le imponenti esplosioni che sono avvertite a grandi distanze.

Nel 1831 nelle vicinanze del banco della Nerita a SO. di Sciacca, tra la Sicilia e la Tunisia, alcuni naviganti, che per caso si trovavano in quelle acque il 28 giugno, avvertirono delle scosse e videro il mare intorbidato e coperto di pesci morti che galleggiavano insieme con scorie vulcaniche. Nessun altro fenomeno fu avvertito fino al giorno 8 luglio quando fu vista sul mare una colonna di acqua e di fumo alta circa 25 m. che cessò dopo alcuni minuti. Il fenomeno si ripeté a brevi intervalli e dopo alcune ore furono uditi cupi boati che si succedevano continuamente. Il 16 luglio si formò un grande recinto alto parecchi metri che nell'interno aveva acqua bollente di colore rossastro. Da quel momento il vulcano divenne subaereo e la sua attività esplosiva fu molto intensa. Nei primi di agosto era alto 65 m. e aveva una circonferenza di 3700 m. Cessata l'eruzione, il nuovo vulcano fu demolito dalle onde e ora si trova alcuni metri sotto il livello del mare, coperto da depositi corallini.

Molto interessante fu l'eruzione submarina avvenuta nel 1886 nella piccola baia dell'Isola di Santorino a S. dell'isoletta Néa Kaïménē dove l'acqua era poco profonda. Il 4 febbraio si squarciò il fondo del mare e cominciò a sgorgare lava tranquillamente. L'azione refrigerante dell'acqua fece subito formare una crosta sulla lava che si andò gonfiando e in pochi giorni si sollevò una grande intumescenza a dorso di testuggine spinta dalla pressione della lava sottostante. Appena la crosta lavica, fluida all'interno, superò il livello del mare si squarciò verso la parte centrale e solo allora, cioè appena il vulcano divenne subaereo, cominciarono le esplosioni che continuarono per parecchi anni.

Queste due brevi descrizioni ci mostrano che fino a quando le eruzioni avvengono sotto il livello del mare non sono accompagnate da esplosioni, giacché non si possono formare miscele esplosive tra i gas vulcanici e l'aria.

L'eruzione del Krakatoa del 1883, che durò dal maggio all'agosto fu una delle più terribili dell'epoca storica per la formidabile attività esplosiva. Essa fu subaerea, per quanto vi fosse stata continua l'influenza del mare che arrivò a reagire su vasta superficie di lava dando luogo a esplosioni freatiche e a produzione di un'enorme massa di gas vulcanici combustibili che in miscela con l'aria diedero luogo a reazioni formidabili. Viceversa l'eruzione dello stesso vulcano del 1922 si svolse in condizioni diverse di quella del 1883: l'enorme massa ignea rimase sommersa nell'acqua del mare per cui avvennero tumultuose esplosioni freatiche che non diedero tempo di lasciar formare una corazza di protezione attorno all'enorme lava eruttata che veniva sbrandellata e lanciata a grandi altezze.

Tutti i vulcani che stanno lungamente in riposo hanno risvegli esplosivi molto violenti perché il magma viene a trovarsi a contatto col terreno umido e determina quelle esplosioni freatiche che caratterizzano l'inizio di un parossismo eruttivo.

Come abbiamo detto, le eruzioni subaeree, che formano i vulcani, sono meno frequenti delle submarine. Noi assistiamo alle eruzioni di vulcani da lungo tempo in attività, ma rare volte l'uomo è stato spettatore del sorgere di uno nuovo.

Il Monte Nuovo, nei Campi Flegrei, è l'esempio più classico di un vulcano di nuova formazione: dopo violenti scuotimenti del suolo, avvertite nei dintorni di Pozzuoli, là dove esisteva un piccolo colle e una pianura con la terme Tripergola, il 29 settembre 1538 si spaccò il suolo e da una grande voragine, apertasi con terribile fragore, fu lanciato tanto materiale che in circa 48 ore sorse attorno alla voragine un monte, che dapprima detto del Terrore fu poi chiamato Nuovo. Il suo cratere a cono rovesciato ha ora un diametro di 380 m. ed è profondo 117 m.; è formato di prodotti detritici, in gran parte frammenti di pomice e di trachite. La parte più superficiale e più recente del cono presenta strati di materiale autigeno ed è chiaro che il materiale autigeno coevo fosse venuto alla luce solo verso la fine, cioè dopo che le prime esplosioni ne aprirono la via.

Nel 1770 sorse l'Izalco nella repubblica di San Salvador e nel 1850 il Las Pilas nel Nicaragua; ma questi vulcani, compreso il Monte Nuovo, sono tutti sorti accanto ad altri vulcani preesistenti.

Oggi, anziché al sorgere di nuovi vulcani, assistiamo all'estinzione di quelli attivi e alla lenta demolizione degli estinti.

Onde comprendere nel giusto senso il vulcanismo occorre dapprima conoscere se i vulcani dipendano da una zona magmatica comune o da focolari circoscritti e di limitata capacità ed esauribili dopo un certo tempo. Sappiamo con certezza che i vulcanî attivi sono pochi rispetto a quelli estinti (il loro rapporto oscilla tra il 0,25 e l'i per cento) e che poggiano su un letto relativamente recente, essendo la maggior parte edificati sulle formazioni terziarie, pochi sulle mesozoiche e rarissimi quelli sui sedimenti più antichi. D'altro canto non conosciamo un solo vulcano che sia stato in attività dall'epoca arcaica a oggi, anche con lunghe intermittenze.

Il vulcanismo fu molto intenso nel periodo terziario e molti dei vulcani sorti in quell'epoca sono ora estinti.

L'indipendenza che si riscontra tra i vulcani vicini ci fa ammettere che non esista fra di essi alcuna comunicazione, cioè che i loro camini non comunichino con una zona magmatica comune, ma con focolari distinti e separati. Il fatto poi che un vulcano, dopo un dato periodo di attività, si estingue completamente, prova che il suo serbatoio magmatico non era in comunicazione con una estesa zona magmatica, ma con un crogiuolo di limitata massa eruttiva indipendente ed esauribile.

Molto probabilmente gli studî geofisici in un non lontano avvenire permetteranno indagini più profonde; oggi i vulcani spenti in avanzata demolizione ci permettono solo di farci conoscere il loro edificio superiore che ci fa venire alle seguenti conclusioni: 1. che l'edificio superiore dei vulcani sia costituito da materiali lavici, detritici e misti di lave e di detriti accumulati periclinalmente attorno all'asse eruttivo; 2. che la base del vulcano si trovi tra i sedimenti non vulcanici attraversati dal magma; 3. che il focolare risieda tra le masse intrusive profonde non ancorta del tutto consolidate.

I vulcani possono avere varie forme e varie grandezze a seconda che le loro eruzioni sono avvenute attraverso una serie di spaccature che sconvolgono una vastissima superficie, attraverso una sola fenditura, ovvero per un'apertura centrale circoscritta. Anche la durata dell'attività effusiva ha grande influenza sulla forma che assume il vulcano. Pertanto si distinguono tre tipi principali di eruzioni: le areali, le lineari e le centrali.

Le eruzioni areali abbracciano una larga superficie della Terra. La loro bocca eruttiva non è identificabile, solo si osserva un immane inondamento di lava senza alcun fenomeno esplosivo e sembra che tali eruzioni siano dovute all'affioramento di una enorme massa intrusiva là dove la crosta terrestre era molto debole. Le eruzioni areali ebbero il massimo sviluppo nel periodo terziario e rappresentano la fase più intensa del vulcanismo sulla Terra. Il grande plateau riolitico dello Yellowstone National Park degli Stati Uniti viene considerato come un'eruzione areale che raggiunse il massimo sviluppo nel Miocene. La formazione basaltica del Dekkam (India) si estende quasi orizzontalmente sopra una superficie di circa 300.000 kmq. con uno spessore medio di 150 m. La ferrovia tra Bombay e Nagpur attraversa questi basalti per 800 km. di lunghezza. Un'altra classica espansione basaltica si osserva nell'Idaho (America Settentrionale) tra l'Oregon e la California, dove il basalto copre un'estensione eguale a quella della Francia e dell'Inghilterra insieme. Riassumendo, le eruzioni areali si distinguono soprattutto per la loro grandiosità e per la relativa tranquillità dell'effusione lavica, generalmente di natura basaltica.

Le eruzioni lineari sono caratteristiche dei vulcani-spaccatura e sono imponenti effusioni di lava che avvengono quasi tranquillamente senza esplosioni attraverso lunghe spaccature e coprono centinaia di chilometri quadrati di superficie. Essi hanno, generalmente, breve durata; cessato il primo impeto, suole avvenire che l'attività continui moderatamente in un punto della spaccatura dove, in tal caso, sorge un vulcano di tipo centrale. Esempî di eruzioni lineari avvenute nell'epoca storica li troviamo in Islanda.

Nel 1783 si squarciò il suolo a O. del vulcano Varmárdalr, presso il Monte Laki costituito da tufo palagonitico e si formò una spaccatura rettilinea visibile per 32 km. di lunghezza. Da 105 bocche di efflusso, lungo questa spaccatura, sgorgarono diverse correnti di lava basaltica che, riunitesi in basso, coprirono una superficie di 565 kmq. Sulla stessa spaccatura si formarono 33 coni di scorie alti da 50 a 100 m. allungati parallelamente alla direzione della spaccatura. Fenomeni simili si sono avuti varie volte in Islanda dove i coni regolari con condotto Centrale stabile sono rari. Secondo A. Geikie i principali vulcani attivi d'Islanda sarebbero allineati sopra due grandi spaccature che appaiono aperte alla superficie per 80 km. di lunghezza: una diretta da N. a S. si trova nella parte S. e sopra di essa sono edificati l'Hekla e il Laki. Il vulcano Askja, che ebbe una violentissima eruzione esplosiva nel 1875, si trova sull'intersezione di queste due spaccature. I vulcani d'Islanda hanno di singolare che la loro attività non è localizzata in un punto determinato, ma si trasporta inaspettatamente da un punto all'altro della spaccatura lineare.

G. Mercalli fece osservare che le eruzioni di fessura del tipo islandico non si devono confondere con le eruzioni laterali dell'Etna o del Mauna Loa, perché in questi vulcani il magma sale per il condotto centrale e da esso si dirama per vie discendenti e forma delle spaccature superficiali sui fianchi del vulcano dal punto più basso delle quali sgorga la lava.

Le eruzioni centrali si manifestano in un posto che si mantiene centro eruttivo costante per tutta la vita del vulcano, per cui la montagna, che si forma con l'accumulamento di lave o di detriti disposti in mantelli periclinali, assume la forma pressoché conica con un cratere terminale e a un solo condotto centrale che coincide con l'asse geometrico del vulcano e che perciò prende il nome di asse eruttivo.

Il condotto eruttivo o camino del vulcano ha sezione circolare o ellittica e mette in comunicazione il profondo focolare con l'esterno.

I vulcani dell'epoca attuale sono quasi tutti di tipo centrale e dànno luogo a montagne pressoché coniche costituite da sola lava, da detriti o da lave e detriti insieme.

I vulcani di sola lava sono frequenti in Islanda e nelle Hawaii. Essi sono costituiti da una massa lavica unica o da scudi di lava sovrapposti se le eruzioni sono avvenute in periodi di attività eruttiva diversi. I crateri dei vulcani lavici hanno la forma di una caldaia, le loro pareti scendono a picco anziché a imbuto e si allargano con le esplosioni o in seguito a sprofondamenti.

I vulcani formati di solo materiale detritico, come il Monte Nuovo nei Campi Flegrei, hanno un'impalcatura regolare in forma di cono tronco, in alto del quale si apre un cratere imbutiforme.

I vulcani misti, prodotti da attività effusiva accompagnata da esplosioni, sono costituiti da strati alterni di lave e di detriti (cenere, sabbia e scorie vulcaniche). A seconda della viscosità della lava, i vulcani assumono forma diversa. Le lave molto viscose, come le lipariti e le andesiti, tendono a formare dei domi molto erti o delle masse semisolide, che vengono fuori dai crateri in forma di guglie, come quella della Montagne Pelée (Piccole Antille) del marzo 1903.

Le lave fluide di tipo basaltico, quando erompono con intermittenze e in quantità moderata, dànno luogo a due fasi di attività: l'esplosiva e l'effusiva, le quali alternandosi con molta frequenza, costituiscono il vero tipo del vulcano misto o strato-vulcano che è il più frequente sulla Terra.

L'attività esplosiva non è sempre costante e può variare in ragione del grado di viscosità della lava che a sua volta dipende dalla natura del magma e dalla quantità che ne viene eruttata. Così un vulcano può avere alternative diverse, con tendenza a diventare prevalentemente esplosivo con l'avanzamento della sua vecchiaia. Lo Stromboli, per esempio, è un vulcano di tipo basaltico in avanzata vecchiaia, che, pure essendo in continua attività, erutta così poca quantità di lava che raramente arriva a formare delle colate e, di conseguenza, quella poca che arriva fino al cratere viene sbrandellata dalle continue esplosioni che caratterizzano la fase detta stromboliana.

È facile comprendere pertanto quante molteplici forme di attività possa dare un vulcano con il variare della portata della lava. Rileggendo le descrizioni delle eruzioni di uno stesso vulcano si scorge subito quanto diverso si presenti il loro dinamismo. La varietà dei fenomeni che si svolgono durante un'eruzione può talvolta essere determinata dal diverso posto d'uscita della lava, che può sgorgare soltanto dal cratere centrale o anche dai fianchi del vulcano. Quando in un vulcano predominano gli efflussi lavici, l'attività esplosiva è meno violenta, mentre è assai accentuata nel caso contrario e allora si forma una grande quantità di materiale detritico che varia d'aspetto e di natura a seconda che è prodotto dallo sbrandellamento della lava fluida o dalla frantumazione di materiale non coevo all'eruzione.

Onde ordinare i diversi fenomeni eruttivi che si ripetono più frequentemente sui vulcani, lo Scrope distinse tre fasi principali di attività: 1. fase di permanente eruzione, quella dei vulcani in continua attività, che può essere intensa, moderata o debole, come, per esempio, quella dello Stromboli; 2. fase di moderata attività, quando le eruzioni si succedono a intervalli di tempo non lunghi; più frequenti sono i risvegli, meno intensa è l'attività; più lunghe sono le pause e più violenti i risvegli. L'Etna e il Vesuvio si trovano in questa fase; 3. fase di lunga pausa e di susseguente parossismo esplosivo. Col nome di parossismo, G. I. P. Scrope chiamava le esplosioni violente e subitanee accompagnate da terremoto che sogliono avvenire dopo una lunga quiete del vulcano. Generalmente la prima esplosione che avviene al cratere centrale del vulcano è seguita da numerose altre a brevissimo intervallo di tempo che sollevano nuvole di detriti polverulenti che si accavallano dando luogo a un' imponente colonna oscura che assume la forma di un pino o meglio di un immenso cavolfiore. È classica la descrizione del pino vulcanico della prima eruzione storica del Vesuvio avvenuta nel 79 d. C. e lasciataci da Plinio, per cui tale parossismo è chiamato pliniano. Il fenomeno pliniano ha luogo quando il magma, innalzandosi nel condotto eruttivo, arriva a toccare il fondo del cratere per lo più umido dopo un lungo periodo di riposo del vulcano. Le esplosioni freatiche che allora si producono, per la tensione che acquista il vapore acqueo, spingono a grande altezza il materiale antico misto a quello igneo coevo ridotto in frantumi e in polvere.

L'attività esplosiva nei vulcani di tipo misto è quasi sempre seguita da emissioni di lava che possono essere centrali o laterali.

Le eruzioni centrali di lava possono essere intercrateriche e allora le colate avvengono dentro il cratere e formano terrazzamenti; terminali se traboccano dall'orlo, e subterminali se l'effusione avviene alla base del cono terminale.

Le eruzioni laterali, che avvengono sui fianchi del vulcano, pur restando in attività esplosiva il cratere centrale, hanno un meccanismo che dipende essenzialmente dalla struttura del vulcano. Le colate laviche hanno spesso gallerie di svuotamento (v. lava) dentro le quali il magma può penetrare e per via sotterranea discendente raggiungere la parte bassa dei fianchi del vulcano dove si apre la bocca effusiva. L'Etna e il Mauna Loa (Hawaii) sono i vulcani più caratteristici di questo tipo di eruzioni laterali. Il magma monta sempre per il condotto eruttivo principale del vulcano fino a raggiungere il fondo del cratere centrale dove, avvenendo quella serie di esplosioni freatiche che caratterizzano l'attività pliniana, si squassa il sottosuolo e si aprono delle vie laterali sui fianchi del vulcano e più facilmente dove si trovano gallerie di svuotamento di antiche colate. Durante il corso sotterraneo, la lava provoca altre esplosioni appena viene a contatto col terreno umido mentre si apre una fenditura sulla quale s'impianta una serie di crateri a bottoniera la cui attività esplosiva cessa quando termina l'efflusso lavico.

La più intensa attività effusiva degli attuali vulcani della Terra si riscontra alle Hawaii nel Mauna Loa dove i fenomeni esplosivi sono deboli. Ivi al Kilauea, che è un cratere sempre pieno di lava fluidissima, le esplosioni sono generalmente assai deboli e avvengono con proiezioni di filamenti di lava detti "capelli di Pelé". Tale attività hawaiiana si è qualche volta presentata sull'Etna e al Vesuvio. L'attività esplosiva che si presenta ordinariamente allo Stromboli è un po' più intensa di quella hawaiiana: sono brandelli di lava che vengono continuamente proiettati da questo vulcano che si trova in ininterrotta attività esplosiva da epoca remotissima. L'attività stromboliana è frequente in tutti i vulcani di tipo basaltico. Però lo Stromboli qualche volta dà efflussi lavici e altre volte esplosioni formidabili che si avvicinano al tipo delle esplosioni miste, cioè con lancio di lava coeva mista a materiali solidi dell'impalcatura craterica.

Quando il magma è molto viscoso, il materiale coevo lanciato dalle esplosioni è quasi solido, come fu quello dell'esplosione di Vulcano (Eolie) del 1888, che era costituito da blocchi compatti semivetrosi o pomicei, spesso con aspetto a crosta di pane; tali esplosioni vengono chiamate vulcaniane.

Infine sono dette ultravulcaniane quelle il cui materiale lanciato non contiene parte coeva, come fu l'eruzione del Bandai san (Giappone). Questo vulcano quiescente da dieci secoli si svegliò il 15 luglio 1888 con una sola eruzione di breve durata durante la quale fu lanciata un'enorme quantità di blocchi, lapilli, cenere e fango senza alcuna traccia di materiale coevo. Questo tipo di eruzione non può confondersi con l'attività pliniana a cui, nel primo momento rassomiglia, perché in quella; in seguito, insieme con il materiale antico, viene fuori anche quello coevo, come appunto osservò Plinio nel terribile risveglio del Vesuvio del 79 d. C.

La diversità dei fenomeni esplosivi dipende dalla viscosità del magma che varia con la sua natura chimica e con la rapidità del raffreddamento a sua volta dipendente dalla maggiore o minore portata della lava.

Tutte le eruzioni dei vulcani sono accompagnate da prodotti volatili e gassosi che vanno sotto il nome di esalazioni vulcaniche; esse possono essere primarie, primarie modificate dagli agenti atmosferici e secondarie del vulcano in riposo.

Le esalazioni primarie sono quelle che provengono direttamente dal magma senza aver subita modificazione, come i cloruri di sodio e di potassio quando non hanno reagito con il vapore acqueo atmosferico; essi cessano quando la temperatura scende sotto gli 800°.

L'anidride carbonica, l'anidride solforosa, l'idrogeno solforato, l'acido cloridrico, l'ossido di carbonio, il metano, l'idrogeno, il cloruro ammonico, l'acqua, ecc., sono tutte esalazioni che derivano da reazioni provocate dagli agenti atmosferici che vengono a contatto con la lava rovente anche attraverso litoclasi che si formano col suo diminuire di volume durante il consolidamento e dànno luogo alle fumarole (v.). Su un vulcano attivo la natura delle fumarole cambia con la distanza dal centro eruttivo e con il tempo che passa dopo la fine dell'eruzione. Le fumarole di tutti i vulcani della Terra hanno la stessa composizione a parità di temperatura, anche se le lave sono di natura un poco diversa.

Le esalazioni reagiscono fra di loro e anche sulla lava consolidata e dànno luogo a una serie di prodotti secondarî.

Cessata l'attività fumarolica, il vulcano si avvia verso l'estinzione, però rimangono per lungo tempo i fenomeni postvulcanici cioè i geyser (v.), le acque termali e le mofete (v.).

Morfologia. - Conseguenza dell'attività vulcanica è di Solito la formazione di rilievi più o meno grandi, dovuti all'accumulo dei materiali proiettati (detritici) o effusi (lavici). La formazione di rilievi per un locale sollevamento della crosta terrestre provocato dalla forza ascensionale dei magmi (teoria dei crateri di sollevamento di L. von Buch), se non va esclusa in senso assoluto (v. laccolite), non può essere più invocata come un processo di formazione dei monti vulcanici, come hanno dimostrato le ricerche sulla struttura dei vulcani estinti e sul dinamismo di quelli attivi compiute nel sec. XIX. Lo studio della morfologia dei rilievi vulcanici - morfologia strettamente connessa con gli aspetti e le fasi dell'attività vulcanica medesima - presenta il grande vantaggio, che generalmente non soccorre per gli altri tipi di rilievi, di trasformazioni tanto rapide da cadere direttamente e agevolmente sotto la nostra osservazione. Come esempio di questa rapidità, oltre al Monte Nuovo già ricordato, si può citare il Jorullo (Messico) che in meno di un mese si elevò fino a 500 m. sull'altipiano dove si erano aperte le bocche eruttive.

Un rilievo vulcanico dobbiamo dunque considerarlo essenzialmente come il risultato dell'accumulo dei prodotti emessi dal vulcano: in primo luogo si tratta quindi di forme di costruzione. Queste vanno però facilmente soggette a un lavoro di demolizione cui partecipano da un lato le stesse manifestazioni vulcaniche, e precisamente le esplosioni, che in un tempo brevissimo possono talora demolire parte notevolissima dell'edificio precedentemente costruito, e dall'altro i diversi agenti esogeni e specialmente le acque correnti. Per i vulcani insulari può essere molto efficiente anche l'azione del mare, mentre nel caso di vulcani sottomarini (dei quali però poco si conosce) sembra che spesso non si arrivi nemmeno alla formazione di veri edifici, per la facilità con la quale vengono dispersi i maieriali proiettati. L'azione distruttiva degli agenti esterni tuttavia, dovendo adattarsi alla struttura della costruzione vulcanica, dà origine a forme di dissezione che presentano ancora per lungo tempo riconoscibili le tracce della particolare natura e genesi del rilievo. Nello studio morfologico i vulcani estinti sono da considerarsi alla stessa stregua dei vulcani attivi, solo che nei primi, e più nei più antichi, sono di regola più accentuate le impronte dell'azione demolitrice esogena.

Vi sono rilievi vulcanici che risultano costruiti in un solo periodo di attività (vulcani monogeni), mentre in parecchi, dopo una fase più o meno lunga di riposo, la ripresa dell'attività vulcanica segna modificazioni di solito considerevoli nella forma complessiva dell'edificio; la nuova costruzione si sovrappone alla precedente - che poteva essere già più o meno profondamente scolpita dall'erosione - dando luogo a rilievi complessi e più variati. Ma il nuovo accumulo si può anche collegare e fondere intimamente con quello più antico.

La forma propria, di gran lunga più comune e più caratteristica del monte vulcanico è quella conica, oppure (meno frequentemente) a cupola, ambedue variamente depressi o slanciati. Fanno eccezione i vulcani spaccatura di tipo effusivo con lave molto scorrevoli, mentre in questo stesso tipo di vulcani se intervengono fasi esplosive si forma tutto un allineamento di coni. La forma conica si spiega facilmente pensando che la parte maggiore dei materiali eruttati si deposita in vicinanza della bocca di emissione e quindi lì si ha il massimo accrescimento dell'edificio vulcanico. Il cono è generalmente svasato alla sommità del cratere, per lo più in forma di cono rovescio, a contorno subcircolare o ellittico, soggetto a frequenti mutazioni e ampliamenti per frane, con diminuzione dell'altezza dell'orlo. La base della montagna vulcanica possiede pure contorno circolare o ellittico, a meno che essa sia sorta in regione già fortemente montuosa, le cui ineguaglianze hanno impedito un accumulo regolare. Nell'Etna, uno dei vulcani maggiori, il diametro maggiore della base misura oltre 40 km., mentre appena due o tre centinaia di metri misurano i diametri di molti dei conetti sorti sopra i suoi fianchi, e quelli di alcuni coni flegrei. Per l'altezza si possono citare tra i coni maggiori il Ključevskaja (m. 4804) nel Camciatca, il Mauna Kea (m. 4209) e il Mauna Loa (m. 4168) nelle Hawaii, il Fusiyama (m. 3778) e anche l'Etna (m. 3263); i vulcani del Messico e delle Ande sono generalmente assai minori, nonostante le forti elevazioni sul livello marino, in quanto essi sorgono da catene e altipiani già molto elevati. Nel caso dei vulcani insulari invece occorre tener conto che una parte dell'edificio è sottomarina; così il cono dello Stromboli, elevato 926 m. s. m., è in realtà alto quasi 3200 m. Perché si formino coni di grandi dimensioni è necessario che l'asse eruttivo persista a lungo nella posizione iniziale; quando migra di continuo si forma una serie di coni modesti o piccoli, come è avvenuto nei Campi Flegrei. Il cratere può anch'esso raggiungere un diametro di diversi chilometri: nell'Aso-san (Giappone) raggiunge i 16, nel Vulcano Laziale (estinto) i 12.

L'inclinazione del cono è uniforme solo negli edifici piuttosto piccoli e può giungere fino a 30-40°; in quelli maggiori la pendenza si attenua gradualmente passando dalle parti elevate (dove è di 25-35°) a quelle basse, dove scende a pochi gradi. Il cono terminale del Vesuvio, p. es., ha un'inclinazione media di circa 30°; sotto 200 m. di altezza dalla parte del mare, l'inclinazione non è nemmeno 5°. Nei coni detritici un versante può essere più esteso dell'altro, quando i venti abbiano contribuito a riversare maggiormente in una direzione i materiali proiettati.

I coni più regolari sono di solito quelli costruiti in una sola eruzione, in seguito ad attività esplosiva, con emissione di materiali detritici non turbati dal vento; presentano spesso un cratere molto largo rispetto all'altezza dell'edificio vulcanico. Ne può dare un tipico esempio il Monte Nuovo nei Campi Flegrei e del resto quasi tutti gli altri coni di questo gruppo sono pure fondamentalmente dello stesso tipo. Ma, essendosi formati l'un dopo l'altro per continuo spostamento dell'asse eruttivo, il sorgere di un nuovo cono ha disturbato le forme dei precedenti più vicini, specialmente per fenomeni esplosivi e quindi di demolizione, o perché i nuovi materiali sono andati a ricoprire parzialmente i coni già esistenti. Del tipo semplice dei coni detritici sono molti conetti sorti sui fianchi di grandi vulcani per eruzioni eccentriche; a essi si accompagnano, con forme simili e inclinazioni anche più forti, conetti di scorie, p. es. sull'Etna.

Un secondo tipo di rilievo vulcanico è quello dei coni o cupole costruiti dall'emissione di lave alquanto fluide (basaltiche) e scorrevoli; sono rilievi ampî ma schiacciati, in forma di grande scudo e ne offrono esempi i vulcani hawaiiani, diversi vulcani dell'Islanda, il Chimborazo. Le inclinazioni non raggiungono in essi i 7°. Posseggono di solito un grande cratere, formatosi per sprofondamento. Da questo tipo si passa gradatamente ai grandi espandimenti basaltici, costituiti da estesissime colate di lava originariamente molto fluida. Tali colate suborizzontali non dànno luogo a un edificio distinto, ma ad altipiani uniformi e anzi possono contribuire a livellare una regione già più o meno incisa, colmandone le valli e i bacini. Grandi espandimenti basaltici, oggi più o meno scolpiti dall'erosione, coprono vastissime superficie, particolamente nell'Oregon e nell'Idaho, nel Deccan, nell'Africa Orientale, nell'Islanda, ecc. La loro formazione viene messa in rapporto con effusioni secondo lunghe spaccature, mentre la continuata e tranquilla effusione da condotto unico, centrale, dà origine alle cupole del tipo hawaiiano. Eruzioni moderne del tipo di fessura non sono frequenti né sicure; se ne cita una per l'Islanda avvenuta nel 1783 presso il M. Laki, e altre nelle Azzorre e nelle Canarie. Cupole laviche invece si sono viste formarsi in breve tempo anche sugli edifici di vulcani misti (cioè costituiti da materiali detritici e da lave), p. es. sul Vesuvio (cupola alla base del cono terminale, 1895-99).

Assai differenti si presentano gli edifici costruiti da lave poco scorrevoli (acide) che si arrestano in vicinanza del punto di emissione. Piuttosto rara ne è l'emissione da lunghe spaccature con formazione di un rilievo allungato, che può portare più crateri disposti lungo la cresta. A questo tipo si ascrivono alcuni vulcani americani (Pichincha, Turrialba, Telica). Molto più frequenti sono le emissioni di lave acide da un condotto centrale, per cui ne risulta generalmente una forma mammellonare, o a cupola (cui si dà spesso il nome di domo), talora anche a cono, senza cratere e con fianchi inclinatissimi. Casi tipici sono stati osservati a Santorino (1866), al vulcano Pelée (Martinica), nell'Isola Bogoslov (Aleutine) e altrove. Il magma molto viscoso, spinto dall'interno, esce senza distendersi all'intorno (coni di estrusione di Mercalli, cumulo-vulcani di Fouqué). Particolarmente caratteristica la guglia che si estruse verticalmente dalla cupola del Pelée (andesite acida), in continua variazione di forma e d'altezza, per franamenti e nuove spinte dall'interno. Cupole e guglie molto spesso sono però soltanto un particolare di un più vasto edificio vulcanico. Si ascrivono a questo tipo di rilievi parecchi vulcani spenti dell'Alvernia, per es., il Puy-de-Dôme.

Le esplosioni inducono profondi cambiamenti nella morfologia del monte vulcanico; molti crateri dei vulcani attuali sono cavità di esplosione e di sprofondamento e non già derivate semplicemente dal maggiore accumulo del materiale piroclastico a una certa distanza dal punto di emergenza del camino vulcanico. Il Vesuvio, per es., aveva prima dell'eruzione del 1906 un cratere circolare d) soli 150-180 m. di diametro, con orlo elevato fino a 1335 m.; una violenta esplosione demolì la parte più alta del cono, sostituendovi un cratere largo 600-700 m. e il cui orlo non superava 1220 m. Modificazioni analoghe si erano verificate in seguito ad altre forti esplosioni (1631, 1822, 1872). L'esplosione può essere così violenta da distruggere parte larghissima dell'edificio vulcanico precedente. Al Krakatoa, con l'esplosione del 1883, disparvero quasi d'un tratto i 2/3 dell'isola, estesa 33 kmq.; mentre nell'eruzione del Tambora (1815) la montagna si abbassò di 1200 m. e si formò una voragine di 25 km. di circuito. Quando l'esplosione è eccentrica oppure avviene Secondo un asse obliquo, il nuovo cratere si forma su un fianco dell'edificio vulcanico, come è avvenuto, per es., allo Stromboli, il cui cratere attuale si trova a circa 200 m. sotto l'orlo di quello centrale, spento da lunghissimo tempo.

I grandi crateri di esplosione sproporzionati al cono sul quale si aprono sono chiamati caldeiras alle Azzorre e alle Canarie, e questo nome è ormai entrato nella terminologia scientifica. Nelle caldeiras dei vulcani spenti si stabiliscono facilmente dei laghi, come è il caso dei minori laghi laziali, mentre le grandi conche dei laghi di Bolsena e di Bracciano, da taluni pure considerate semplicemente conche di esplosione, sembra debbano la loro origine a fenomeni più complessi, compresi sprofondamenti. Nei vulcani insulari la caldeira può essere invasa dalle acque marine, con la formazione di un'insenatura subcircolare, circondata da un anello più o meno interrotto; in essa può sorgere un nuovo cono, come è avvenuto a Santorino (Isole Kaïménai).

Altre volte le acque trovano invece uscita per una profonda gola a pareti quasi verticali, chiamata barranco, che squarcia un fianco del cono. Sembra che essa, almeno in alcuni casi, rappresenti una spaccatura radiale aperta dalla pressione dei magmi; a ogni modo l'erosione delle acque interviene certo sollecitamente ad allargarla e approfondirla. Come un gigantesco barranco, ingrandito da scoscendimenti e dall'erosione, Stoppani, Mercalli e Rovereto considerano anche l'ampio squarcio aperto sul fianco orientale dell'Etna, la Valle del Bove.

Spesso le grandi cavità di esplosione divengono però sede di nuova attività vulcanica costruttiva. Entriamo così a considerare i tipi complessi di edificio vulcanico, nei quali fasi di esplosione e di proiezione si sono susseguite, generalmente alternandosi anche con fasi effusive (vulcani misti o stratificati). Nell'interno del cratere di esplosione, se il condotto vulcanico non cambia molto la sua posizione, può rapidamente formarsi un nuovo cono, abbracciato interamente dall'orlo del vecchio cratere, che di solito finisce con essere superato in altezza. Si hanno allora i vulcani a recinto, che possono essere eccentrici o concentrici, secondo la posizione del nuovo cono rispetto al vecchio orlo craterico. Il recinto può essere soltanto parziale, per demolizioni subite dal vecchio cono per esplosioni o affondamenti, com'è il caso del Vesuvio. L'antico largo cratere di questo è il Monte Somma, di cui è rimasta solo una metà dal lato nord-orientale, a guisa di semicerchio, per effetto di un'esplosione, che taluni credono essere quella della famosa eruzione del 79 d. C. Al centro di questo semicerchio è sorto, più elevato, il Gran Cono Vesuviano; l'avvallamento intermedio ha il nome (in parte) di Atrio del Cavallo, e i nomi di somma e di atrio sono stati generalizzati a indicare le analoghe forme degli altri vulcani a recinto. Edificio vulcanico di questo tipo, ancor più regolare del Vesuvio, è il Pico del Fogo, nelle Isole del Capo Verde; altri vulcani a recinto sono l'Isola di Barren nell'Oceano Indiano, il Lamongan in Giava, il St. Vincent nelle Antille, ecc., fra gli attivi, mentre fra quelli estinti ricordiamo il Vulcano Laziale, il Roccamonfina, il Parou nella Catena dei Puys. Un edificio a recinto eccentrico è Vulcano, nelle Eolie.

Col proseguire dell'attività costruttiva l'atrio può venire colmato da lave o materiale piroclastico, e allora i due edifici, vecchio e nuovo, si fondono intimamente in una sola più grande montagna. Questa fusione è assai avanzata allo Stromboli e si ritiene avvenuta per l'Etna, che nel passato avrebbe avuto una grande caldeira verso 2000 m. di altezza, dove oggi la montagna presenta soltanto un ripiano (Cratere ellittico) sul quale s'innalza il cono terminale.

I grandi edifici vulcanici presentano spesso sui fianchi del cono una serie più o meno numerosa di edifici molto minori, costruiti dalle eruzioni eccentriche, detti coni avventizî; sull'Etna se ne contano più di 200, e non pochi di essi hanno elevazioni tra 100 e 200 m. Questi conetti si dispongono frequentemente in serie radiali. I fianchi dei coni sono del resto resi più irregolari anche dalle colate laviche, le quali pur non essendo molto spesse, presentano di regola un netto rilievo sulla superficie circostante e rimangono perciò riconoscibili a lungo anche morfologicamente. Esse sî dispongono secondo le linee di massima pendenza, quindi radialmente, a meno che non incontrino ostacoli.

Le esplosioni talora possono dar luogo a cavità rotondeggianti scavate in terreni sedimentarî o eruttivi antichi, ma prive all'intorno di un argine di materiale piroclastico; questo tutt'al più è rappresentato da un mantello superficiale, senza rilievo, attorno alla cavità, detta cratere pozzo o maar, che ospita generalmente un lago. I più tipici maar si trovano nell'Eifel.

Lo scolpimento degli edifici vulcanici a opera di agenti esogeni comincia già di buon'ora. Molti coni detritici si presentano solcati da un gran numero di valloncelli radiali regolarissimi (anch'essi detti barranchi). Questi solchi si formano da prima a causa di valanghe secche di ceneri (con pioggia possono mutarsi in colate di fango), come nel Gran Cono Vesuviano dopo l'eruzione del 1906; s'intende che un uguale effetto devono avere le acque ruscellanti sulla superficie del cono. Nei coni di scorie, per la maggiore permeabilità del suolo, i solchi si formano più difficilmente e a questo si deve se parecchi coni dell'Alvernia hanno conservato quasi intatte le forme originarie benché spenti da lunghissimo tempo.

Più resistenti all'erosione si presentano le lave; quelle iniettate, sotto forma di dicchi, entro lo spessore dei materiali tufacei, in seguito all'erosione di questi, vengono facilmente messe in risalto, prendendo l'aspetto di muraglie emergenti.

Ugualmente, con la quasi totale distruzione dell'edificio vulcanico prevalentemente detritico viene messo in risalto il camino eruttivo (neck) di solito riempito da lave o almeno da brecce cementate dalla lava e quindi ben resistenti all'erosione. Durante l'opera di distruzione del cono i corsi d'acqua conservano a lungo la disposizione radiale derivata dalla pendenza della superficie iniziale (corsi conseguenti), mentre ne esistono talora anche di concentrici, sviluppatisi marginalmente al cono, tra le falde di questo e i rilievi preesistenti (esempio di queste condizioni può essere fornito dal Cantal nell'Alvernia). Le modificazioni dell'idrografia consistono soprattutto in adattamenti alla struttura. La disposizione radiale delle valli può conservarsi anche quando, distrutto interamente l'edificio vulcanico, le acque si approfondiscono nei terreni dell'imbasamento (es.: Rhon, in Germania).

Le forme vulcaniche più durature sono proprio quelle meno caratteristiche e cioè le grandi coltri basaltiche, essendo la roccia dura e impermeabile e la superficie a minima pendenza. Si formano dapprima valli a cañon rade, come nelle regioni calcaree; tipiche, per es., quelle dello Snake, del Columbia e dello Yellowstone, che incidono i vasti espandimenti dell'Idaho e dell'Oregon. Se però vengono raggiunte rocce poco resistenti dell'imbasamento, la distruzione procede assai più rapida e le coltri laviche vengono smembrate in tavole coronanti i rilievi, delimitate da scarpate ripidissime o addirittura a picco, come è delle giare della Sardegna e delle mesas del Messico. Le colate laviche che hanno colmato una valle provocano frequentemente, in seguito a profonda erosione delle acque, inversione del rilievo, cioè esse finiscono con rimanere in rialzo per la loro maggiore resistenza.

I vulcani costieri e insulari subiscono un'intensa demolizione a opera del mare. L'isola Giulia sorta per eruzione sottomarina nel Mar di Sicilia nel 1831, fu in pochi mesi demolita interamente dalle onde. Il Capo Miseno e il Monte di Procida nei Flegrei, le Isole Pontine offrono esempio di edifici vulcanici pure in massima parte distrutti dal mare. Numerose terrazze che interrompono il pendio dei coni delle Eolie e anche dell'Etna hanno la stessa origine.

Distribuzione geograpica dei vulcani. - I fenomeni vulcanici sono distribuiti sulla Terra molto irregolarmente, poiché, mentre in taluni paesi i vulcani, tenendo conto anche di quelli spenti terziarî e quaternarî si susseguono l'uno all'altro quasi senza interruzione, vi sono d'altra parte aree estesissime (poco meno dei 9/10 delle terre emerse) prive di vulcani. In generale si nota l'addensarsi dei vulcani nelle zone di corrugamento recente o comunque di forti dislocazioni terziarie e quaternarie, e più specialmente nelle regioni prossime al mare; un gran numero di vulcani anzi è concentrato proprio nelle isole e nelle penisole, e tutti i maggiori efflussi lavici degli ultimi secoli sono avvenuti nelle isole. Numerosi sono anche i vulcani sottomarini, dei quali però si conosce solo molto imperfettamente il numero e la distribuzione. Essi sono frequenti in vicinanza di isole vulcaniche (Azzorre, Tonga, Giappone, Pantelleria, ecc.).

Tra le regioni di corrugamento recente (alpino) sono ricchissime di vulcani le catene dell'America dal lato del Pacifico, nonché le Antille ricchissime pure le ghirlande di isole fortemente montuose poste al margine orientale e sud-orientale dell'Asia. Un gran cerchio vulcanico circonda dunque il Pacifico, il quale presenta poi altri vulcani dispersi fino nella sua parte centrale. Infine abbondano di vulcani, fra attivi ed estinti, la regione mediterranea e la zona dei grandi fossati tettonici dell'Africa Orientale e del Mar Rosso. Con tale distribuzione dei vulcani alla superficie del globo si accorda molto bene, nelle linee generali, la distribuzione delle aree di maggiore sismicità.

Parecchi vulcani, o gruppi di vulcani, sono disposti in serie quasi rettilinee e sensibilmente parallele alle catene montuose; si trovano però più al margine di queste che nelle zone assiali e culminanti; molto spesso sono anzi al limite tra una zona di sprofondamento e una di sollevamento. Una tipica serie lineare di una trentina di vulcani è, per es., quella dell'America Centrale (tra Guatemala e Costarica dal lato Pacifico) quella formata dalla maggior parte dei vulcani giavanesi, con andamento E.-O.

Considerando come attivi tutti quei vulcani che hanno avuto eruzioni in tempi storici, il Sapper ha calcolato a 450 i vulcani attivi della Terra, ma di essi poco più della metà hanno presentato eruzioni nell'ultimo secolo. Ben 353 vulcani attivi fanno parte della regione circumpacifica o del Pacifico stesso, contro solo 97 delle regioni bagnate dall'Atlantico o dall'Indiano, compresi anche i vulcani sottomarini conosciuti. Benché si tratti necessariamente di numeri approssimativi, essi dànno una buona idea della distribuzione del vulcanismo attuale.

Nella regione mediterranea, compresa l'Asia Minore, i vulcani che hanno avuto eruzioni in tempi storici sono una ventina, di cui una buona parte in Italia o nei mari italiani. Formano un gruppo, che il Mercalli chiama flegreo, il Vesuvio (oggi il solo attivo del gruppo medesimo), l'Epomeo (Ischia), la solfatara di Pozzuoli, il Monte Nuovo; a questi si connettono numerosi vulcani estinti, in particolare quelli dei Campi Flegrei. Al gruppo siculo appartengono Stromboli e Vulcano nelle isole Eolie, l'Etna, i vulcani sottomarini del Mar di Sicilia, tra quest'isola e Pantelleria (isola Giulia, 1831, 1901). Il versante tirrenico della Penisola Italiana è poi ricco di vulcani spenti quaternarî, dalla Toscana al Vesuvio (Campiglia Marittima, Monte Amiata, vulcani volsinî, cimini e sabatini, Vulcano Laziale e altri, cui fanno corona nel Tirreno quelli insulari della Capraia, delle Pontine, delle Eolie e di Ustica. Il versante adriatico possiede un solo vulcano spento, il Vulture. Altri vulcani antichi sono poi in Sicilia (Val di Noto) in Sardegna (Monte Ferru e parecchi altri), a Pantelleria e Linosa, nel Nizzardo. Gli Euganei sono pure vulcani spenti ma assai più antichi (Terziario inferiore).

Nel Mediterraneo formano un altro gruppo vulcanico i vulcani attivi e spenti dell'Egeo; tre di essi avrebbero avuto eruzioni in tempi storici, ma oggi soltanto Santorino è veramente attivo, mentre Nisiro è allo stato di solfatara.

Nell'Asia occidentale alcuni vulcani si possono considerare attivi o almeno quiescenti, come il Grande Ararat in Armenia e l'Elburs in Persia, accanto a parecchi estinti (anche nel Caucaso). Per ritrovare nell'Asia altri vulcani veramente attivi occorre portarsi al margine orientale del continente. In Manciuria, secondo Sapper, due vulcani hanno dato eruzioni in tempi storici; ma una serie ricchissima di vulcani è situata ancora più esternamente, iniziandosi a N. nel Camciatca, con 10 vulcani attivi e molti spenti, cui seguono le Isole Curili con 18 attivi, l'Arcipelago Giapponese con ben 42 (mentre Formosa sembra abbia solo vulcani estinti), infine le Filippine con 16 e Celebes e le Molucche con un'altra ventina di vulcani attivi. In vicinanza di tutte queste isole sono frequenti le eruzioni sottomarine. Giava, Sumatra e alcune minori terre vicine posseggono complessivamente circa 45 vulcani in attività; Giava è la terra classica del vulcanismo e conta almeno 18 vulcani che hanno dato eruzioni in tempi storici, e più di un centinaio di vulcani spenti.

Nel Pacifico centrale e meridionale posseggono vulcani attivi le Marianne, le Salomone, Santa Cruz, le Nuove Ebridi, le Tonga, le Kermadec; le Samoa, le Hawaii, oltre alla Nuova Zelanda (Isola Nord, con grande ricchezza anche di fenomeni geyseriani, legati all'attività vulcanica, mentre l'Isola Sud ha solo vulcani spenti) con un totale di una sessantina di vulcani attivi (comprese le Galápagos, più a oriente), di cui taluni sottomarini. Un vulcano attivo (Erebus) si trova anche nell'Antartide (un secondo, spento o forse quiescente è il Terror, anch'esso nella Terra Vittoria). Sul margine settentrionale del Pacifico, ricchissime di vulcani sono le Aleutine, e la Penisola d'Alasca (complessivamente circa 35 attivi). Poco efficienti e non molto numerosi sono oggi i vulcani attivi nelle catene occidentali della Columbia e degli Stati Uniti; la zona circumpacifica di alta vulcanicità riprende quindi nel Messico (8 vulcani attivi), proseguendo nell'America Centrale, ai cui 26 vulcani attivi corrispondono dalla parte dell'Atlantico diversi vulcani delle Piccole Antille. Quasi una cinquantina di vulcani attivi storicamente posseggono le Cordigliere dell'America Meridionale, in tre gruppi principali (Colombia ed Ecuador, Perú e Bolivia, Cile), mentre i vulcani attivi mancano totalmente dal lato orientale del continente.

Nell'Oceano Atlantico posseggono vulcani attivi, oltre alle Antille già ricordate: le Azzorre (9), le Canarie e le Isole del Capo Verde, con numerosi vulcani sottomarini nelle loro vicinanze e nell'Atlantico equatoriale; le piccole isole dell'Atlantico meridionale sono in buona parte vulcani spenti. A settentrione, è regione particolarmente vulcanica l'Islanda, con circa 25 vulcani storicamente attivi, mentre ancora più a N. possiede un vulcano attivo l'Isola Jan Mayen. Invece l'Europa continentale all'infuori della regione mediterranea non possiede che vulcani spenti.

L'Africa conta una diecina di vulcani attivi, nella regione orientale (fossato dei laghi eritreo, Mar Rosso, cui corrispondono i vulcani spenti dell'Arabia) ed equatoriale. Vulcani attivi posseggono inoltre le Comore e l'Isola Riunione, mentre nel Madagascar è traccia di un intenso vulcanismo passato, come pure in diverse isolette dell'Oceano Indiano più meridionale. (V. tavv. CXXV e CXXVI).

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