VITTORIO AMEDEO III di Savoia

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 99 (2020)

VITTORIO AMEDEO III di Savoia

Paola Bianchi

VITTORIO AMEDEO III di Savoia. – Nacque a Palazzo Reale, a Torino, il 26 giugno 1726, dalle nozze del futuro re Carlo Emanuele III di Savoia con la seconda moglie, Polissena d’Assia.

Il padre affidò la sua educazione a Roberto Solaro di Breglio, esponente dell’antica nobiltà piemontese con vaste competenze militari e diplomatiche, più volte ambasciatore presso le corti europee. Le istruzioni paterne per la formazione del figlio furono firmate l’8 luglio 1733 (Archivio di Stato di Torino, Corte, Real Casa, Cerimoniale, Cariche di corte, m. 1 d’addizione, f. 6). Gaspare Giuseppe Solaro della Moretta diventò sottogovernatore del principe e Giuseppe Wicardel de Fleury suo precettore. Solaro di Breglio rivolse, poi, alcune direttive al precettore (Torino, Biblioteca reale, Miscellanea varia, 299: Studi di Vittorio Amedeo III e suoi autografi al ministro cavalier Morozzo), prevedendo per il giovane Vittorio Amedeo una formazione religiosa fondata sul catechismo e la Sacra Scrittura e l’apprendimento di tre lingue: l’italiano, il francese e il latino.

Wicardel de Fleury ne ricavò un piano didattico concepito in tre fasi: infanzia, adolescenza e giovinezza, più aperto, rispetto alle sollecitazioni avanzate da Breglio, alle suggestioni della cultura illuministica, specialmente per l’insegnamento della storia, che si ispirò ad autori settecenteschi come Charles Rollin e Daniel Huet. Alla storia romana il giovane principe si accostò, in particolare, grazie alle Considerations sur le causes de la grandeur des Romains et de leur decadence (1734) di Charles-Louis de Montesquieu, confrontando opere di autori diffusi nella cultura settecentesca come Laurence Echard, René Aubert de Vertot D’Aubert, Isaac de Larrey. Una certa attenzione fu spesa per trasmettere all’erede al trono nozioni di geometria, matematica e scienze naturali attraverso testi di Pierre Varignon e Noël-Antoine Pluche. L’insegnamento della geografia fu accompagnato dall’uso continuo di atlanti; la mitologia fu trasmessa con la traduzione dei poemi omerici in lingua francese. Prima dei dodici anni risulta che il discepolo avesse letto il Télémaque di François de Salignac de la Mothe de Fénelon e la tragedia volterriana La mort de César. Nella seconda fase, dopo i dodici anni, il principe continuò a coltivare la storia sui classici latini, accanto alla filosofia e alle scienze, acquisendo nozioni del pensiero cartesiano, aggiornato da commenti di ispirazione newtoniana attinti alle opere di Samuel Clarke. Non mancò al principe la lettura di passi, in traduzione francese, dal Saggio sull’intelletto umano di John Locke. Per la letteratura non si privilegiarono solo i classici autori francesi (Jean Racine e Pierre Corneille), ma si diede spazio anche agli italiani (Scipione Maffei, Alessandro Tassoni) e finanche agli inglesi letti in traduzione francese (Jonathan Swift).

Nel 1735 gli fu assegnato il castello di Moncalieri, destinato a diventare la sua residenza prediletta. Crebbe negli anni delle ultime due guerre di successione, polacca (1733-38) e austriaca (1740-48), ma rimase escluso dalla possibilità di intraprendere campagne militari paragonabili a quelle di Vittorio Amedeo II e Carlo Emanuele III, limitandosi ad accompagnare il sovrano nelle operazioni militari degli anni Quaranta. Giuseppe Baretti dedicò versi in cui descriveva un viaggio del giovane principe a Cuneo per esaminare lo stato delle fortificazioni (Stanze al padre Serafino Bianchi, Cuneo 1744, stanze XXX-XXXVIII). A Vittorio Amedeo rimase l’amore per le armi, che non poté soddisfare, a seguito della politica di pace condotta dal padre dopo il 1748, se non negli anni del proprio regno, in un clima ormai molto cambiato.

Nel 1750 sposò Maria Antonia Ferdinanda di Borbone Spagna, figlia del re Filippo V. Il matrimonio fu celebrato prima, per procura, a Madrid, dove il 12 aprile fu il ministro Giuseppe Osorio, allora ambasciatore plenipotenziario nella capitale spagnola, a rappresentare lo sposo nel salone delle udienze del Palazzo Reale. Partita il 16 aprile in compagnia, per un certo tratto, del re di Spagna, l’infanta viaggiò con alcuni rappresentanti della corte sabauda, procedendo fino ai confini con il Regno di Sardegna. Il 31 maggio la principessa varcò il Monginevro. Il principe Vittorio Amedeo incontrò la sposa ai piedi del passo alpino, da dove essi partirono per Cesana, per incontrarvi il re Carlo Emanuele III. A Oulx, lo stesso giorno, il cardinale Carlo Vittorio Amedeo Delle Lanze, gran elemosiniere di corte, affiancato dai canonici regolari di quella città e dal vescovo di Pinerolo, celebrò il rito matrimoniale, questa volta in presenza dello sposo. Il 4 giugno la coppia entrò a Torino dopo una tappa a Rivoli, festeggiata il 20 giugno da un ballo, attentamente studiato, che si tenne nel salone degli Svizzeri a Palazzo Reale.

Non è chiaro quando fosse maturato il distacco fra padre e figlio, destinato ad avere un significato politico quando l’erede salì al trono. Vittorio Amedeo III diventò, allora, il riferimento soprattutto per quanti avevano mal sopportato il paternalismo riformistico del potente segretario di Stato di Carlo Emanuele III, Giambattista Bogino. Probabilmente un ruolo in tal senso fu esercitato dalla moglie, cui Vittorio Amedeo fu molto affezionato. Circolò, del resto, il sospetto che il giovane principe avesse subito precocemente l’influenza di precipitosi consiglieri e cortigiani interessati. Né Vittorio Amedeo coltivò buoni rapporti con il fratello Benedetto Maurizio duca del Chiablese, nato dalle terze nozze del padre.

La sua ascesa al trono costituì, dunque, una cesura rispetto all’ultima fase del regno paterno, e cioè rispetto ai decenni di pace vissuti dal Regno di Sardegna dopo il 1748. A differenza del passaggio di potere dal nonno al padre (avvenuto dopo un episodio drammatico a livello interpersonale quale l’abdicazione di Vittorio Amedeo II, ma con una continuità di governo fra i ministri di Stato), il nuovo sovrano si presentò alla corte decostruendone gli equilibri.

Alcune grandi famiglie come i Solaro, i Provana, i Carron, i Falletti di Barolo, i Tournon si erano già spese per attrarre a sé le attenzioni del principe ereditario, in sintonia con un gruppo di militari e scienziati, coordinati da Giuseppe Angelo Saluzzo di Monesiglio, attivi dal 1757 all’interno di quella società scientifica privata che sarebbe stata istituzionalizzata nel 1783 come Reale Accademia delle scienze di Torino per volere dell’ormai re Vittorio Amedeo III.

Nel 1773, salendo al trono, il sovrano volle ostentare un atto di fiducia verso i sudditi, rinunciando alla tradizione del giuramento di fedeltà prestato dalle varie magistrature e dai ceti dei diversi territori del Regno, che aveva costituito il tipico rituale, d’origine medievale, praticato dagli antenati alla presa del potere, adottato ancora dal padre nel 1730 (sarebbe stato riportato in auge soltanto dopo la Restaurazione da Carlo Felice).

Nello stesso anno si susseguirono, tuttavia, diverse giubilazioni, a partire da quella più vistosa e perentoria dalla Segreteria di Guerra di Bogino (26 febbraio). Il 22 aprile fu giubilato dalla Segreteria degli Esteri Giuseppe Lascaris di Castellar, che fu bruscamente ridotto a vita privata, salvo essere poi recuperato, nel 1777, come viceré di Sardegna e, nel 1783, in veste di gran ciambellano alla corte del re. Il 12 dicembre 1773 il sovrano firmò la giubilazione del primo segretario degli Interni e ministro di Stato Carlo Filippo Vittorio Morozzo di Magliano. Alla Segreteria di Guerra fu nominato come reggente l’uomo che era stato all’ombra di Bogino, Giovanni Andrea Giacinto Chiavarina. Giuseppe Maria Carron di Aigueblanche passò da una carica di corte, come primo scudiero e aiutante di Camera, a una responsabilità politica di primo piano come ministro di Stato, sopraintendente dei Regi Archivi e quindi primo segretario agli Esteri. Agli Interni, al posto di Morozzo, salì Giuseppe Ignazio Corte di Bonvicino, che era stato sino ad allora presidente della Camera dei conti e che rimase agli Interni fino al 1789. Carron si pose subito come la figura centrale della nuova gestione.

In un clima di sospetti reciproci, cresciuti a seguito delle recenti nomine alle Segreterie di Stato e delle contese fra Francesco Maria de Viry e Carron d’Aigueblanche, maturò il caso giudiziario legato alle responsabilità dell’avvocato Paolo Gaetano Vuy, sottosegretario agli Esteri dal 1766 al 1773, che si era reso colpevole di lesa maestà per avere falsificato timbri e sigilli. Vuy fu incarcerato fino alla morte nella fortezza di Ceva, e de Viry relegato in Savoia nel feudo di famiglia.

Il dominio di Carron, tuttavia, era destinato a tramontare nell’arco di pochi mesi, contrastato dagli stessi ambienti diplomatici di stanza a Torino, come dimostrano le critiche che il segretario d’ambasciata francese Louis Claude Bigot de Sainte-Croix consegnò nel 1775 a una memoria che sarebbe stata pubblicata e annotata da Antonio Manno un secolo dopo (Relazione del Piemonte del segretario francese Sainte Croix, in Miscellanea di storia italiana, XVI, Torino 1877). Carron aveva guidato un gruppo di aristocratici e militari che l’inviato francese accusava d’incompetenza e di propensione agli intrighi, senza escludere da tali critiche il sovrano, ritenuto responsabile di scelte sbagliate. Nel 1776 Carron comunicò a de Viry l’allontanamento da Torino di Sainte-Croix. Sembrò una vittoria, ma si trattò dell’inizio della disgrazia di entrambi. Nel 1777 Carron fu giubilato. Lo sostituì Baldassarre Perrone di San Martino, riportando alla Segreteria degli Esteri la continuità che era stata spezzata dal pensionamento di Lascaris, di cui Perrone era parente e amico.

Fra corte e Stato erano stati ricalibrati i pesi, basti pensare al fatto che lo stesso anno dell’ascesa al trono di Vittorio Amedeo III era stata sciolta la Compagnia di Gesù, con un atto che non creò però particolari traumi negli Stati sabaudi: i beni degli ex gesuiti furono, infatti, progressivamente venduti, ma l’alto clero fu destinato a rivestire a corte un peso maggiore che sotto il regno precedente. Anche il tribunale dell’Inquisizione trovò nuovi spazi incontrando il sostegno del sovrano, come sembrerebbe confermato dall’approvazione di un editto generale del vicario di Torino, in cui l’autorità di quel tribunale fu proclamata non solo per giudicare i reati di eterodossia religiosa, ma anche quelli di affiliazione a logge massoniche e di diffusione della relativa letteratura (Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie economiche, categoria IX, m. 2 da inventariare: Progetto d’editto generale, 1781).

Fra le figure di alti ecclesiastici, oltre al potente cardinale Amedeo delle Lanze, iniziò a giocare un ruolo sempre più influente l’arcivescovo Francesco Luserna Rorengo di Rorà, cognato di quel conte Perrone di San Martino che era stato nominato segretario agli Esteri e che trovò infine una nuova intesa con la Segreteria degli Interni diretta da Corte di Bonvicino, favorendo così un cauto ritorno alla collaborazione con uomini cresciuti sotto il regno precedente.

Alla corte, perno della struttura amministrativa dello Stato grazie alla trasfusione di uomini e alle reti diplomatiche con l’estero, furono dati un nuovo ritmo e una nuova agenda, destinati a durare sino al collasso dello Stato durante l’occupazione francese di fine secolo.

A metà maggio la corte, proseguendo le scelte che erano già state del sovrano precedente, era solita recarsi a Venaria, rientrando a Torino per celebrare il 24 giugno, festa di s. Giovanni, patrono della città. A inizio luglio la corte si trasferiva poi a Moncalieri, la residenza che già come principe di Piemonte Vittorio Amedeo III aveva prediletto e che risultò quella più valorizzata. Da Moncalieri la corte si portava due volte alla settimana a Stupinigi per la caccia, venendo raggiunta dall’equipaggio che manteneva sede a Venaria. In questo modo le attività di governo furono portate, di fatto, quasi completamente nella cittadina posta sulla collina torinese, dove i ministri si recavano spesso e dove furono trasferite anche le udienze concesse ai sudditi. La corte di Vittorio Amedeo III rientrava a Torino solo fra novembre e dicembre, per celebrarvi poi il Natale, il Carnevale, fino alla Quaresima.

A Moncalieri, nel 1773, lo stesso anno dell’ascesa al trono di Vittorio Amedeo III, si tennero le nozze della principessa Maria Teresa (1756-1805) con Carlo di Borbone, fratello di Luigi XVI di Francia, futuro Carlo X, dopo la celebrazione svolta mesi prima per procura a Versailles.

Maria Teresa, quintogenita, era una dei dodici figli nati dalle uniche nozze di Vittorio Amedeo III. L’avevano preceduta: Carlo Emanuele (1751-1819), futuro re di Sardegna dal 1796 al 1802; Maria Elisabetta Carlotta (1752-1753); Maria Giuseppina Luisa (1753-1810), sposa di Luigi di Borbone, poi re di Francia dopo la morte della consorte; Amedeo Alessandro (1754-1755). E l’avevano seguita: Maria Anna (1757-1824); Vittorio Emanuele (1759-1824), futuro re di Sardegna dopo Carlo Emanuele; Maria Cristina Giuseppina (1760-1768); Maurizio Giuseppe Maria duca di Monferrato (1762-1799); Maria Carolina Antonietta (1764-1782); Carlo Felice (1765-1831), futuro re di Sardegna dopo Vittorio Emanuele; Giuseppe Benedetto conte di Moriana (1766-1802).

Il regno di Vittorio Amedeo III ereditò alcuni nodi rimasti aperti nella politica riformistica dei due sovrani precedenti, fra cui le direttive antifeudali e l’esigenza di affrontare in modo unitario il problema delle amministrazioni sul territorio. Salito al potere, Vittorio Amedeo III tese a ridurre il ruolo acquisito sotto il regno del padre dagli intendenti: funzionari che avevano ritagliato competenze a figure istituzionalmente più antiche e socialmente elevate come i governatori. In continuità con disposizioni già avviate da Carlo Emanuele III e concepite da Bogino, fu, piuttosto, il Réglement particulier pour le Duché d’Aoste (13 agosto 1773), che svuotava di fatto i privilegi di autonomia del Conseil de Commis in Val d’Aosta, di origine cinquecentesca, sottoponendo per la prima volta quel territorio alla responsabilità di un intendente. Anche una delle più solide realizzazioni del regno di Vittorio Amedeo III, la legge dei pubblici, rivolta all’amministrazione delle comunità locali, attinse alle indagini e ai piani di riforma che erano stati iniziati in età boginiana.

Il governo centrale aveva operato per imporre un modello di Consigli comunali fondati su tre classi, che avrebbero dovuto favorire le élites del ceto medio. A ostacolarne l’applicazione, tuttavia, furono innanzitutto i privilegi che erano stati confermati a diverse città: Cuneo, Nizza, Casale, Novara, Alessandria. Alcune città tentarono di rivendicare antiche autonomie amministrative (Asti, Biella, Saluzzo, Tortona), ma furono fatte rientrare nella legge, che non risultò infine in grado di determinare in tutti gli Stati sabaudi le stesse situazioni. Nel 1776 furono emanate ulteriori patenti per le città privilegiate, ma furono diversi i funzionari che avanzarono riserve sulla riforma, sostenendo che il governo la dovesse riconsiderare. Il regolamento non garantì l’accesso del ceto ‘civile’ e borghese ai Consigli comunali, ma riconobbe nuova dignità ai decurioni, e cioè ai Consigli comunali, pur non derogando dal principio per il quale il sovrano era e restava l’unica fonte della nobiltà. Fu deciso, infine, che le nuove aggregazioni ai decurionati fossero subordinate all’autorità del re, non più a quella dei patriziati locali.

Le pressioni dei nobili e del clero avevano intanto rallentato, fino a interromperla nel 1774-75, l’applicazione delle operazioni di revisione dei registri fiscali, che in Savoia, grazie a un precedente decreto del 1771, portò comunque, sotto il regno di Vittorio Amedeo III, all’affrancamento di due terzi dei contadini dai tributi signorili.

La riforma più ambiziosa del governo di Vittorio Amedeo III fu la ricomposizione dell’organico dell’esercito sabaudo, con l’istituzione, tra il 1774 e il 1775, dei dipartimenti.

Sino a fine Settecento, l’ordinanza e i reggimenti provinciali furono sempre concepiti come armate distinte, poste a livelli diversi di preparazione e di retribuzione. Negli anni Settanta nacquero, invece, tre dipartimenti di fanteria, all’interno dei quali fu creata una struttura che doveva riprodurre gli schieramenti degli uomini sul campo, alternando unità di stranieri a unità di soldati nazionali. In testa ai tre dipartimenti, in omaggio a una tradizione già codificata, furono posti i tre reggimenti di fanteria d’ordinanza più anziani (Guardie del corpo, Savoia e Monferrato). La cavalleria costituì un dipartimento a sé stante; mentre i reggimenti provinciali furono raccolti in un proprio dipartimento e obbligati a fornire contingenti alla nuova Legione degli accampamenti, incaricata di organizzare i campi per l’armata e di costruire strade e ponti militari. In questa prima generale riorganizzazione delle truppe i numeri non cambiarono di molto rispetto alle tendenze settecentesche; quello che si avviò fu una più stretta fusione tra la fanteria e l’artiglieria e, alla svolta degli anni Ottanta, un incremento del numero degli ufficiali e dei bassi ufficiali tanto di fanteria quanto di cavalleria.

La struttura dipartimentale fu nuovamente riformata nel 1786, puntando su nuove grandi unità: le divisioni, organizzate in modo binario (anziché ternario come i dipartimenti). S’introdusse in questo modo una formazione studiata per consentire allo Stato maggiore di coordinare i movimenti delle truppe di linea e, insieme, dei corpi provinciali: i genieri e i reggimenti provinciali. L’obbligo di servizio dei provinciali fu ridotto e furono differenziati i mesi dell’anno e il numero dei luoghi previsti per le esercitazioni dei corpi provinciali. Gli eventi interruppero presto queste complesse operazioni di ingegneria logistica, che miravano ad allestire un’armata in grado di condurre operazioni offensive con un buon parco d’artiglieria mobile e leggera. Nel 1792, allo scoppio della guerra contro la Francia, l’esercito tornò a schierarsi in modo difensivo, verificando che l’arma più forte continuava a essere quella delle imponenti fortificazioni cresciute e riorientate lungo i confini.

Fra i risultati raggiunti dal regno di Vittorio Amedeo III durante gli anni Ottanta vi furono la realizzazione di una rete stradale verso Nizza, in Savoia e in Sardegna, e la trasformazione di un antico borgo medievale, passato ai domini dei Savoia dal XV secolo, in una sorta di città ideale, modellata sull’esempio urbanistico torinese: Carouge, limitrofa ai confini, ridefiniti nel 1754, fra Repubblica di Ginevra e Stati sabaudi.

Al centro di una rete di scambi commerciali da tempo molto intensi, Carouge, ultimati i cantieri che erano stati aperti fra gli anni Sessanta e Settanta, fu elevata al rango di città reale (1786), con l’intento di trasformarla in un’antagonista ideale di Ginevra. Concepita da architetti di corte quali Domenico Elia, Giuseppe Viana e Lorenzo Giardino, senza fortificazioni né mura, con strade ortogonali e grandi piazze alle porte di quel territorio ginevrino che si era sottratto in nome della confessione calvinista all’orbita dei Savoia, la città ospitò in maggioranza cattolici, ma anche minoranze di ebrei e protestanti, di origine non solo piemontese e savoiarda, ma anche francese, elvetica e tedesca, confermati dai censimenti dell’epoca. Nel 1792 Carouge fu occupata e annessa alla Francia, prima di essere consegnata, dopo la Restaurazione e per volere del Congresso di Vienna, al cantone ginevrino.

Nell’ultima fase del regno, la sostituzione di Corte di Bonvicino con Pietro Giuseppe Graneri (1789), funzionario proveniente da una famiglia di nobiltà togata che aveva iniziato la carriera sotto la protezione di Bogino, riportò la Segreteria degli Interni a un maggior peso rispetto a quello rivestito fino ad allora dalla Segreteria degli Esteri, dove Perrone di San Martino fu giubilato e sostituito da Joseph Perret d’Hauteville, un ex intendente.

Allo scoppio della guerra contro la Francia (1792), la Savoia e il Nizzardo furono infine occupati dai francesi, dopo una già diffusa diramazione della propaganda che invitava a nutrire simpatie repubblicane, alimentando sommosse in vari centri piemontesi.

Scampato a una congiura, che nel 1794 lo avrebbe dovuto uccidere con l’intera famiglia reale a opera di un club giacobino che si era raccolto a casa del medico di corte Ferdinando Barolo, Vittorio Amedeo III riuscì a seguire negli ultimi anni di vita i lavori che erano stati affidati a una commissione incaricata di esaminare un’inchiesta sugli affittamenti, ordinata dal ministro Graneri nel 1792, al fine di ridurre i diritti feudali esercitati attraverso primogeniture e fidecommessi.

Entro quella commissione, il ruolo principale fu svolto da un funzionario di vaglia come Gian Francesco Galeani Napione, che si era già fatto interprete di numerose proposte avanzate nei decenni precedenti, fra gli altri da Carlo Denina: riportare in parte i nobili nelle città di provincia, liberalizzare il commercio dei grani, sostenere una nobiltà commerciante, arginare le spese legate al lusso. Tutti propositi che furono, però, interrotti o rinviati alla fine della guerra in corso dal 1792.

Dopo l’armistizio di Cherasco (28 aprile 1796), che sancì la sconfitta militare dell’esercito sabaudo e la dichiarazione della sospensione dello stato di belligeranza, Vittorio Amedeo III nominò l’ennesima commissione per far fronte alla situazione economica dello Stato, prossima al collasso, ordinando che fossero tagliate le spese della corte e dell’esercito. Il sovrano non fece in tempo ad assistere alla preparazione dell’editto che nel 1797 avrebbe dovuto allodializzare i beni feudali, per merito di quella schiera di economisti, guidati da Galeani Napione, che era riuscita a prevalere sulla politica più conservatrice di alcuni togati. Il successore, re Carlo Emanuele IV, travolto dalle insurrezioni filorepubblicane e incapace di sostenerne la sfida, interruppe il piano, che era già pronto ed era già stato parzialmente attuato in Savoia.

Afflitto dalla crisi del proprio regno e delle proprie truppe, Vittorio Amedeo III morì a Moncalieri il 16 ottobre del 1796, lo stesso anno in cui Bonaparte spostava il teatro della guerra verso l’Italia incontrandosi con le speranze dei ‘patrioti’ repubblicani. La salma fu tumulata presso la basilica di Superga.

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