VITTORE III, papa, beato

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 99 (2020)

VITTORE III, papa, beato

Cristina Colotto

VITTORE III, papa, beato. – Dauferio nacque nel 1027 da un ramo della famiglia principesca di Benevento. La Cronaca di Montecassino ci informa che suo padre, Landolfo V del Zotto, principe di Benevento, fu ucciso dai Normanni; della madre non si hanno notizie, mentre dai Dialogi, scritti successivamente da Dauferio stesso, si è a conoscenza che una sua bisnonna paterna, Bella, fu monaca presso S. Pietro in Benevento.

All’età di circa venti anni, Dauferio fuggì dalla casa paterna per assecondare la propria vocazione monastica. Ricondotto con la forza presso la famiglia, dopo circa un anno ritentò nuovamente la fuga, ma questa volta riuscì a raggiungere Salerno e a porsi sotto la protezione del principe Guaimario V, cui era legato da vincoli di parentela. Trascorse, pertanto, un periodo presso il monastero della SS. Trinità di Cava, finché, tornato nella sua città natale, non entrò come monaco presso l’abbazia di S. Sofia, mutando il suo nome in quello di Desiderio. Durante la permanenza a S. Sofia, interrotta soltanto da un breve soggiorno presso il monastero di S. Maria delle Tremiti e da tre mesi di vita eremitica sulla Maiella, Desiderio venne in contatto con personaggi impegnati in prima linea nel processo di riforma della Chiesa, come il vescovo Umberto di Silvacandida e Federico di Lorena, cancelliere, abate di Montecassino e futuro papa Stefano IX. Fu quest’ultimo a presentarlo al pontefice Leone IX, in visita a Benevento nella tarda primavera del 1053.

Nel 1055, in occasione di un incontro avvenuto in Firenze con Vittore II, successore di Leone IX, Desiderio chiese e ottenne dal pontefice l’autorizzazione a entrare come monaco a Montecassino. Nominato preposto di una dipendenza cassinese situata in Capua, nell’aprile del 1058, mentre stava per imbarcarsi a Bari alla volta di Costantinopoli in missione diplomatica presso l’imperatore bizantino per conto di Stefano IX, fu raggiunto dalla notizia della morte del papa e, conseguentemente, della sua elezione ad abate di Montecassino. Fatto rapidamente ritorno, il 19 aprile 1058, domenica di Pasqua, Desiderio venne consacrato abate.

Si apriva così per Montecassino una stagione di profondo rinnovamento e di crescita di prestigio. Nei trent’anni in cui Desiderio fu alla guida del monastero, si assistette a un immenso sviluppo delle risorse materiali dell’abbazia. Grazie alle cospicue donazioni di terre e chiese, non solo da parte dell’aristocrazia longobarda al tramonto, ma soprattutto da parte dei nuovi dominatori normanni, la Terra Sancti Benedicti raggiunse un’estensione di circa 80.000 ettari, senza contare le numerose dipendenze localizzate in varie aree dell’Italia centro-settentrionale, e persino in Sardegna. La straordinaria ricchezza costituì il presupposto per la realizzazione di un’ambiziosa politica culturale. Questa fu il risultato dell’ospitalità offerta alle personalità intellettuali più interessanti del tempo, dell’impegno profuso dall’abate nella formazione di una grande biblioteca e del conseguente impulso fornito all’attività dello scriptorium. Più di settanta codici furono fatti copiare da Desiderio, tra cui anche autori classici rari nel Medioevo quali Tacito, Frontino, Giovenale, Apuleio.

A ciò si aggiunga l’intensa attività costruttiva di Desiderio, che avrebbe trovato la sua esplicazione più alta nella ricostruzione della basilica di S. Benedetto. L’edificio, alla cui consacrazione, nel 1075, presero parte le più illustri personalità del mondo politico ed ecclesiastico del momento, fu realizzato grazie anche alla cooperazione di maestranze di origine costantinopolitana esperte nell’arte del mosaico. Inoltre, attraverso la sua proposta di recupero di una dimensione paleocristiana e antichizzante in linea con i contenuti ideologici della Riforma, il progetto avrebbe svolto una funzione normativa per la successiva vicenda artistica del Mezzogiorno. Ma Desiderio non si limitò semplicemente ad ampliare e a consolidare i possedimenti della casa di s. Benedetto, incarnando così, come si legge nella Cronaca di Montecassino, la figura del «restaurator ac renovator», di novello fondatore del cenobio dopo s. Benedetto, Petronace e Aligerno (Chronica monasterii casinensis, a cura di H. Hoffmann, 1980, p. 362).

Negli anni del suo abbaziato, Montecassino riuscì a svolgere anche un ruolo di primo piano nel contesto politico dell’Italia meridionale. Qui il tramonto della potenza longobarda, l’affermazione dei Normanni, e, in un contesto più ampio, le vicende connesse con la riforma della Chiesa e i rapporti tra questa e l’Impero, stavano creando le condizioni per un’evoluzione dei tradizionali assetti politici.

Desiderio seppe inserirsi attivamente in tale processo e assecondarlo, proponendosi tra i promotori più attivi di un’intesa tra Normanni e Papato. I primi, con Roberto il Guiscardo e Riccardo di Capua, aspiravano a una legittimazione della propria posizione nel Mezzogiorno tale da superare la dimensione dei potentati locali e attingere ai più alti gradi della gerarchia delle potestà terrene; al secondo, profilandosi minaccioso all’orizzonte lo scontro con l’Impero, occorreva un valido sostegno materiale e militare per portare a compimento gli obiettivi della Riforma e, nel contempo, rilanciare con rinnovato vigore le secolari aspirazioni a un’egemonia della Chiesa di Roma in Italia meridionale. Sotto gli auspici di Desiderio, nell’agosto del 1059, durante il Concilio di Melfi, il pontefice Niccolò II investiva Roberto e Riccardo delle terre da loro di recente conquistate, ricevendone in cambio un giuramento di fedeltà che rendeva i due capi normanni vassalli di S. Pietro.

I frutti di questa intesa non tardarono a farsi sentire. Nell’autunno del 1061, in occasione della travagliata ascesa al soglio pontificio di Alessandro II, Desiderio si recò a Roma insieme al principe normanno Riccardo di Capua che doveva assicurare al neoeletto papa un valido braccio armato.

Tuttavia, l’intelligenza politica di Desiderio, la sua capacità di portare a compiuto sviluppo tutte le potenzialità insite in quella funzione di mediazione cui la stessa posizione geografica sembrava destinare Montecassino, raggiunse le sue manifestazioni più significative soprattutto durante il pontificato di Gregorio VII. Proprio allora, infatti, l’intesa tra Normanni e Papato, in diverse occasioni, conobbe momenti di forte tensione, le cui origini vanno ricercate essenzialmente nel fatto che il flusso inarrestabile dell’espansione normanna, sotto l’impulso di Roberto il Guiscardo, era arrivato a minacciare i territori direttamente soggetti alla S. Sede e sembrava negare del tutto la pregiudiziale della sovranità papale sul Meridione implicita nell’investitura di Melfi. Gregorio VII scomunicò ben tre volte il Guiscardo, arrivando persino a caldeggiare la formazione di una lega contro di lui. Se non si giunse a una rottura definitiva, il merito va ascritto in gran parte all’instancabile attività diplomatica di Desiderio. Fu grazie a questa se, nella primavera del 1084, il Guiscardo accorse a Roma in aiuto di Gregorio VII, accerchiato in Castel S. Angelo dalle truppe dell’imperatore Enrico IV, per condurlo con sé a Salerno, fornendogli un asilo sicuro fino alla morte (avvenuta il 25 maggio 1085).

Al momento della sua scomparsa, Gregorio VII lasciava la Chiesa in una situazione estremamente difficile. Lo scisma apertosi con il Concilio di Bressanone e l’elezione da parte dell’imperatore Enrico IV di Wiberto, vescovo di Ravenna, come antipapa Clemente III, era ancora nel pieno del suo svolgimento. Il partito wibertino, oltre alla base operativa di Ravenna, aveva a Roma un forte seguito soprattutto nel gruppo dei cardinali presbiteri. Fuori d’Italia, mentre Francia e Inghilterra avevano assunto una posizione di sostanziale neutralità, in Germania l’area occidentale del Paese, in particolare i tre grandi arcivescovati di Colonia, Magonza e Treviri, era di obbedienza wibertina; l’area sud-orientale era rimasta invece legata al partito gregoriano. Questo poteva contare, in Italia centro-settentrionale, sulla fedeltà incondizionata della contessa Matilde di Canossa e sul fatto che diversi vescovi scismatici erano morti durante il 1085. A Roma, la famiglia dei Frangipani, nella figura del prefetto Cencio, e la maggioranza dei cardinali vescovi restavano tenacemente legati alla causa gregoriana. In Italia meridionale, la crisi apertasi con la scomparsa del Guiscardo, avvenuta nel luglio del 1085, non aveva compromesso in maniera rilevante la tradizionale adesione normanna alla causa papale. In questo contesto si apriva il problema della successione di Gregorio VII. Secondo alcune fonti, tra cui la Cronaca di Ugo di Flavigny, il pontefice, in punto di morte, avrebbe lasciato indicazioni su chi dovesse raccogliere la sua eredità, designando una rosa di tre nomi: il vescovo Anselmo II di Lucca, il vescovo Oddo di Ostia e l’arcivescovo Ugo di Lione.

Stando alla Cronaca di Montecassino, Gregorio avrebbe fatto anche il nome di Desiderio, ma tale notizia sembra assai poco attendibile, considerando che s’inserisce in un capitolo dell’opera che è stato dimostrato essere il prodotto di una fusione disordinata di circa otto sezioni differenti.

Di certo Desiderio partecipò attivamente alla ricerca del candidato più idoneo. A soli quindici giorni dalla morte di Gregorio VII, organizzò un incontro, tenutosi probabilmente a Montecassino, con il vescovo Ubaldo di Sabina e un certo Graziano, portavoce della fazione gregoriana di Roma. Esortò, inoltre, i cardinali a scrivere alla contessa Matilde perché invitasse i tre vescovi designati da Gregorio VII a recarsi a Roma, in modo da porre fine al più presto alla vacanza della Sede papale. Tuttavia, il 18 marzo 1086 moriva Anselmo II, dei tre candidati la figura più carismatica e, probabilmente, a giudizio unanime, il più qualificato a succedere a Gregorio. Circa due mesi dopo, a Roma, il 24 maggio 1086, a seguito di un’assemblea particolarmente burrascosa, Desiderio veniva eletto papa, con il nome di Vittore III.

Resta difficile, sulla base delle testimonianze di cui si dispone, mettere a fuoco con chiarezza le ragioni di una simile scelta. È probabile che a determinarla concorse la considerazione del sostegno offerto da Desiderio al Papato riformatore, fin dal tempo del pontificato di Niccolò II (1058-61), che aveva inserito l’abate cassinese nel collegio cardinalizio come cardinale presbitero di S. Cecilia in Trastevere, e lo aveva nominato vicario papale con l’incarico di sovrintendere ai monasteri del Principato (area geografica corrispondente ai Principati di Salerno e di Benevento), della Puglia e della Calabria. È verosimile anche che il clero e la nobiltà romana rimasti fedeli alla causa gregoriana videro nella vasta disponibilità di risorse di Montecassino, nonché nella tradizionale amicizia tra il suo abate e il mondo normanno, una base sicura su cui fare affidamento per affrontare con rinnovato vigore la lotta contro gli scismatici.

Desiderio tentò tenacemente di opporsi alla propria nomina: abbandonò immediatamente Roma per Ardea e di qui si recò a Terracina, dove alla fine di maggio si spogliò delle insegne papali. A giugno era di nuovo a Montecassino. Desiderio aveva optato per la rinuncia non solo in considerazione delle vicende non tranquille che avevano accompagnato la sua elezione, ma anche perché consapevole di dover far fronte all’ostilità degli ultragregoriani capeggiati da Ugo di Lione, che non gli perdonavano i rapporti amichevoli intrattenuti, in passato, con l’imperatore Enrico IV. Sapeva, inoltre, di non poter contare, in quel particolare momento, su un efficace e compatto sostegno normanno, poiché il duca di Puglia Ruggero Borsa, irritato per la mancata nomina alla sede vescovile di Salerno di un suo candidato, aveva rimesso in discussione la propria fedeltà al partito gregoriano.

A Montecassino, comunque, Vittore non rimase in passiva attesa degli eventi. Non solo dovette fronteggiare diversi tentativi, narrati dalla Cronaca di Montecassino, per riportarlo a Roma, ma, stando alla testimonianza di Ugo di Lione, fu molto impegnato nel promuovere una nuova elezione, arrivando a proporre candidature diverse dalla propria, come quella del vescovo Ermanno di Metz. La questione era, comunque, destinata a risolversi nel marzo del 1087, allorché fu indetto a Capua un concilio, cui presero parte, oltre naturalmente a Vittore, esponenti di punta del partito gregoriano di Roma, il prefetto romano Cencio, il principe Giordano di Capua e anche il duca di Puglia Ruggero Borsa. In chiusura del concilio, secondo la Cronaca di Montecassino, si riaprì la questione dell’elezione papale. Dopo due giorni di tentennamenti, la domenica delle palme del 1087, Vittore si decise infine a confermare l’elezione del 1086 e a riprendere le insegne papali. Da un lato era consapevole dell’urgenza degli eventi ̶– il fronte degli scismatici aveva ripreso vigorosamente l’iniziativa, promuovendo il ritorno a Roma di Wiberto –, dall’altro sapeva che il gruppo degli ultragregoriani aveva conosciuto delle defezioni in suo favore, come quella del vescovo Oddo di Ostia. Inoltre, poteva contare ora sul sostegno militare di un fronte normanno ricostituitosi nella sua unità, dopo che Ruggero Borsa aveva visto nominare il proprio candidato alla guida della sede vescovile di Salerno.

Trascorsa la Pasqua a Montecassino (28 marzo), si diresse a Roma, scortato da Giordano di Capua e Gisolfo di Salerno. Qui, una volta che i Normanni si furono impadroniti di S. Pietro, fino ad allora caposaldo dei wibertini, il 9 maggio Vittore fu consacrato papa. Tra i suoi atti, fra cui va annoverata la ratifica dell’immunità per l’abbazia francese di Montier-en-Der, la conferma dei possedimenti della nuova sede vescovile di Ravello, e una lettera indirizzata all’imperatrice bizantina Anna Dalassena, in cui si chiedeva l’alleggerimento dei pedaggi imposti ai pellegrini in visita al Santo Sepolcro, spicca la convocazione di un concilio a Benevento per la fine di agosto del 1087. Al sinodo parteciparono i vescovi di Puglia, di Calabria e del Principato.

Stando alla Cronaca di Montecassino, unica testimonianza di cui disponiamo al riguardo, durante il concilio il pontefice avrebbe formulato un programma di governo della Chiesa nel pieno rispetto della tradizione gregoriana, come attestano le varie deliberazioni prese dall’assemblea, tra cui la conferma della scomunica per Clemente III e i suoi seguaci, e la condanna dell’investitura da parte dei laici e delle ordinazioni simoniache. Tre giorni dopo la conclusione del concilio, a Montecassino, Vittore, gravemente ammalato, moriva. Era il 16 settembre 1087.

Sul suo breve pontificato ha pesato a lungo il giudizio negativo di certa parte della storiografia. Soprattutto Augustin Fliche ha visto in lui una pallida figura tra quelle eroiche di Gregorio VII e Urbano II, cui la natura essenzialmente di esteta e bibliofilo, più preoccupato delle sorti del suo monastero che dei destini della Chiesa, e probabilmente anche la malattia, impedirono di fronteggiare con la dovuta energia e determinazione la difficile situazione di quegli anni.

In realtà, i quattro mesi di pontificato videro Vittore attivamente impegnato nella gestione della non facile eredità di Gregorio VII. In tal senso si preoccupò di assicurare al partito gregoriano una base unitaria sufficientemente solida per poter affrontare con successo la sfida contro i wibertini, non solo in Italia, ma anche, ad esempio, in Germania, dove offrì il proprio sostegno al vescovo ultragregoriano Gebeardo di Costanza. La sua persona venne in tal modo configurandosi sempre più come un punto di riferimento imprescindibile per quanti erano rimasti fedeli alla causa gregoriana.

Si pensi alla stima e alla devozione tributategli dalla contessa Matilde, o al fatto che il cardinale Deusdedit scelse di dedicare proprio a lui la sua Collectio canonum, uno dei manifesti ideologici della Chiesa gregoriana. Si pensi, ancora, al Liber de unitate ecclesiae conservanda, in cui Vittore veniva presentato, da un monaco anonimo di parte wibertina, quale degno successore di Gregorio VII. Inoltre la citata missiva ad Anna Dalassena contiene nell’arenga un esplicito riferimento al primato di Pietro e dei suoi successori, perfettamente in linea con l’ecclesiologia dell’autore del Dictatus Papae. Lo stesso discorso vale per il privilegio di conferma dell’immunità per l’abbazia di Montier-en-Der, dove sempre nell’arenga si ribadisce l’idea del primato romano e del pontefice quale vicario di Pietro, richiamandosi questa volta a s. Paolo.

Come sostiene Herbert E.J. Cowdrey, l’attività di Vittore papa non si risolse in «un interludio torbido e incolore» (1983, 1991, p. 251), ma rappresentò un ponte di collegamento importante tra il pontificato di Gregorio VII e quello di Urbano II, anzi la continuità assicurata da Vittore preparò in qualche modo la strada a una migliore definizione delle prerogative papali da parte dei suoi successori.

Venerato come beato, il culto fu confermato da Leone XIII il 23 luglio 1887. La sua memoria liturgica viene celebrata il 16 settembre.

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