VITERBO

Enciclopedia dell' Arte Medievale (2000)

VITERBO

M.G. Bonelli

(Castrum Viterbii, Bitervo, Viterbio nei docc. medievali)

Città del Lazio, capoluogo di provincia, situata ai piedi dei monti Cimini.

Urbanistica

Il nucleo più antico della città di V. è identificabile con quello che nei documenti è solitamente indicato come Castrum Viterbii, corrispondente all'od. colle del Duomo. Le prime attestazioni storiche del castrum risalgono alla prima metà del sec. 8° (Lib. Pont., I, 1886, pp. 426-435) e, successivamente, al 773, quando il re longobardo Desiderio (756-774), preparando l'invasione di Roma, vi giunse e prese poi la decisione di ritirarsi senza attaccare il papa. Le testimonianze che riguardano V. nel sec. 9° sono abbastanza frequenti, in genere tutte derivate dal Regestum Farfense di Gregorio da Catino, dove viene citata come Civitas Viterbiensis; verso l'ultimo decennio il castrum possedeva una pieve dedicata a s. Lorenzo e una cella dipendente da Farfa in S. Maria della Cella. Nel secolo successivo le citazioni si assottigliano e tendono a scomparire, con l'eccezione importante della conferma di Ottone I (962-973) dei domini della Chiesa, nel 962, che cita anche Viterbo. In questo periodo si trovano menzionati altri quattro nuclei abitativi, il vico Foffiano, il vico Quinzano, il vico Squarano e il Castello di Sonza.Il primo periodo di grande sviluppo urbanistico della città è databile alla fine dell'11° secolo. La posizione centrale era senza dubbio quella dell'antico castrum, dove sarebbe stata edificata la cattedrale, mentre sulla sponda sinistra dell'Urcionio si era sviluppato definitivamente il borgo di Sonza e avevano preso consistenza quello di San Pietro all'Olmo (corrispondente all'attuale area intorno alla Fontana Grande) e quello di Borgolungo (San Pellegrino) nella direttrice occidentale. La città andava assumendo un aspetto triangolare, con la punta corrispondente al colle del Duomo e la base individuata da quei vici difesi solo da torri, per proteggere i quali venne creato il primo tratto delle mura urbiche: i cronisti indicano la data del 1095 come quella dell'inizio dei lavori, nella zona orientale della città, che portarono alla costruzione, nel 1099, della prima importante porta d'accesso, la porta di Sonza. L'intensa attività dell'edilizia civile trovò corrispondenza nella costruzione di numerose chiese, come S. Pellegrino, S. Giovanni, S. Maria in Poggio; S. Sisto, S. Maria Nuova e S. Michele Arcangelo vennero elevate al rango di canonica.Il rafforzamento economico, sociale e politico di V. avvenne alla metà del sec. 12°, quando papa Eugenio III (1145-1153) riparò a V., soggiornandovi per un lungo periodo (1145), mentre la città andava modificando in parte il suo ordinamento civile, con la nomina di nove consoli, affiancati dal consiglio dei Dieci (1148), sintomo dell'affermarsi in città di nuove forze politiche e, soprattutto, dell'affacciarsi sulla scena del potere dei mercanti. Dopo la distruzione di Ferento (1172) e l'indulto concesso dal legato dell'imperatore, V. raggiunse un notevole prestigio, testimoniato dalle citazioni documentarie che attestano soltanto il termine Civitatis Viterbii, senza più citare il castrum. La città era ormai cresciuta anche demograficamente e la prima cerchia di mura era ormai insufficiente a contenere la popolazione: si procedette così all'ampliamento del pomerio, con la creazione conseguente di nuovi rioni, come San Faustino, Pianoscarano e San Marco. La nascita di nuovi quartieri comportò la costruzione di ponti che collegassero la parte più antica della città a quella più recente: fu edificato allora il ponte Tremolo a N-O, mentre un altro fu realizzato nella zona nord, ai piedi di porta Sonza. Parallelamente venne completato il secondo tratto di mura, che collegava porta Fiorita a porta Valle e che andava a inglobare il nuovo rione di Pianoscarano e tutta l'area a E dell'Urcionio, tranne il più recente rione di San Marco. Quest'ultimo si era sviluppato intorno alla chiesa di S. Marco, dipendente dai monaci dell'abbazia di S. Salvatore sul monte Amiata, e si ingrandiva fino a S. Maria in Poggio.

La consolidata potenza di V. fu sanzionata, nel 1192, dall'attribuzione alla città, da papa Celestino III (1191-1198), della dignità di sede vescovile, privilegio mantenuto fino ad allora da Tuscania, la quale, insieme alla diocesi di Bieda (Blera) e Centumcellae (Civitavecchia), venne unita a V. stessa.Il sec. 13° segnò il culmine dello sviluppo sociale, culturale ed economico di Viterbo. Posta su un asse privilegiato lungo la via Francigena, che in quest'area veniva a coincidere sostanzialmente con l'antica via Cassia e che conobbe poche varianti di percorso, tranne che nel tratto della Val d'Elsa, V. si rafforzò negli scambi, si aprì ai mercati e ai transiti di merci e di persone, raggiunse un livello di notorietà europeo. La sua aumentata importanza la pose in netto contrasto con le città finitime, come Vitorchiano, ma soprattutto con Roma, con la quale intraprese un'annosa rivalità, la cui prima conseguenza fu la costruzione di un ulteriore tratto di mura, verso N, per fronteggiare le frequenti incursioni dei Romani e i conseguenti assedi; questi lavori si protrassero per il primo quindicennio del sec. 13°, con la fortificazione di porta Bove, lasciando sguarnita soltanto la valle di Faul.Per tutta la prima metà del secolo il centro politico e urbanistico della città era rappresentato dalla piazza di S. Silvestro, dove avevano sede i palazzi delle magistrature cittadine, mentre, a partire dal 1251, il baricentro del tessuto urbano fu spostato verso la nuova piazza, corrispondente all'od. piazza del Plebiscito, la cui costruzione venne decisa dal nuovo Statuto per ospitare in maniera più degna i palazzi dei Consoli e del capitano del popolo. Tale Statuto, pur favorendo di fatto la fazione ghibellina, provocò un rafforzamento della parte guelfa e un'intensificazione dei rapporti con la Santa Sede. V. fu suddivisa in quattro quartieri, secondo la seguente disposizione: quartiere di San Lorenzo, che comprendeva le contrade del Castello (cattedrale), di S. Tommaso (od. chiesa della Morte) e di Pianoscarano; quartiere di San Pietro, che abbracciava le contrade di S. Silvestro (od. chiesa del Gesù), di S. Maria Nuova e di S. Pellegrino; quartiere di San Sisto che racchiudeva le contrade di S. Sisto, di S. Giovanni in Zoccoli e di S. Simeone; quartiere di San Matteo e di Sonza, che si estendeva alle contrade di S. Marco, S. Faustino, S. Angelo, S. Quirico (od. chiesa del Suffragio), di S. Maria in Poggio e di S. Egidio.Nello Statuto, molta importanza assunsero tutti gli argomenti relativi alla manutenzione e al controllo degli spazi interni alla città: la prima importante testimonianza di tutto questo fu la scelta di un'unità di misura comune, chiamata mensura passi Comunis, che aboliva tutte quelle precedentemente adottate. La magistratura dei Balivi viarum era preposta alla manutenzione delle strade, degli acquedotti e dei canali di scarico, nonché alla pulizia delle fonti, anche se per le strade più centrali era prevista la presenza di una sorta di consiglio di saggi, composto da due uomini di legge e un notaio, che dovevano integrare e supportare l'azione dei Balivi viarum. Veniva inoltre impedito ai cittadini viterbesi di acquistare abitazioni private a ridosso delle mura cittadine e tutte le torri erano regolate da un limite di altezza, fissato nella torre domini Braimandi.Nello Statuto del 1251, inoltre, si stabiliva anche la costruzione di una prigione (la Malta), nei pressi del ponte Tremolo, e si sanciva l'inizio dei lavori del nuovo palazzo vescovile, che, di lì a poco, sarebbe divenuto residenza dei pontefici.

Dopo la morte di Federico II (1250), infatti, papa Innocenzo IV (1243-1254) rimase arbitro incontrastato della politica italiana e in questo periodo V. fu ricondotta sotto la giurisdizione papale. Per favorire il rientro dei guelfi fuggiaschi, il papa indirizzò ai Viterbesi una bolla nella quale si proclamava l'indulto generale, si obbligavano i fuoriusciti a rinunciare ai privilegi e alle rivendicazioni, si cancellavano tutte le scomuniche e le sanzioni inflitte a V. sin dal 1247.Se, tuttavia, nei primi ottanta anni del secolo, dei quattordici pontefici che si succedettero, solo quattro non vennero mai a Viterbo, a partire dal 1257 la presenza dei papi a V. divenne ufficiale e permanente, in seguito alla decisione di Alessandro IV (1254-1261) di trasferirvi la Curia papale. V. divenne quindi, nel periodo compreso tra il 1257 e il 1281, un centro di cultura internazionale, teatro di importanti eventi politici, tra cui spicca il celebre conclave che portò all'elezione di papa Gregorio X (1271-1276), e dello scontro aspro tra papato e Svevi.La conseguenza più importante della permanenza a V. dei pontefici fu il rafforzamento degli Ordini religiosi, in particolar modo quelli mendicanti, che già nella prima metà del secolo avevano ottenuto particolare prestigio e potere: i Frati Minori a S. Francesco alla Rocca, gli Agostiniani nel convento della SS. Trinità e i Domenicani a S. Maria in Gradi, questi ultimi particolarmente affermati come protagonisti nella vita religiosa e culturale della città. L'impianto urbanistico in questo periodo non venne sostanzialmente modificato, anche se il prestigio del palazzo papale, ormai ultimato e sede della Curia, ribadiva l'importanza dell'antico castrum del colle del Duomo, divenuto, non solo a livello simbolico, il cuore della città: si impostava quindi il dualismo con la più recente piazza del Comune, sede delle magistrature civili e popolari, lungo un asse che correva parallelo alla valle di Faul.Le magistrature cittadine, e in particolar modo il capitano del popolo Raniero Gatti, che si segnalò per l'audace colpo di mano nei confronti dei cardinali in occasione del conclave sopra citato, tentarono un ampliamento della cinta muraria nell'area compresa tra porta S. Sisto e porta S. Pietro, facendo costruire intorno al 1270 la porta-torre di S. Biele. Essa si situava in una posizione strategica, alla fine della strada che portava a V. dai monti Cimini, e doveva, nelle intenzioni di Raniero Gatti, iniziare l'allargamento del nucleo urbano verso E. La porta-torre, molto slanciata, inserisce con raffinatezza un tradizionale arco a tutto sesto in una maggiore arcata ogivale, estremamente allungata, dimostrando la particolare ricettività di V. alle istanze più aggiornate del Gotico maturo, in questo caso influenzato anche da suggestioni musulmane. Il progetto del capitano del popolo rimase, tuttavia, inattuato, anche a causa del progressivo indebolimento della città causato dal trasferimento della Curia e dalla più tarda cattività avignonese.

La complessa vicenda delle mura urbiche viterbesi, che comprende un arco di anni vastissimo, è testimoniata anche dalla presenza di varie tipologie di muratura, che si leggono in successive stratificazioni lungo il pomerio della città. In base a ciò, sono state individuate (Andrews, 1982) tre principali categorie di cortina muraria medievale, tra i secc. 11° e 14°, nell'edilizia civile e religiosa di Viterbo. La prima, caratterizzata da conci allungati, che raggiungevano anche m 1,5, e relativamente poco alti (cm 20-37), fu utilizzata nella costruzione del primo tratto delle mura, realizzato alla fine del sec. 11°; le torri che scandiscono questo tratto sono squadrate e prive di ornamentazioni, non senza suggestioni derivate dai modelli antichi e tardoantichi. Successivamente si andò affermando una muratura più irregolare, con la presenza di piccoli blocchi quadrangolari, a volte squadrati in modo approssimativo, che rendevano necessario l'uso abbondante di malta di riempimento tra i vari conci. Questa tipologia, diffusissima anche nella provincia, da Orte a Vasanello, venne sostituita a partire dalla metà del Duecento da un tipo di muratura caratterizzata da blocchi posti di punta, di piccole dimensioni (lunghezza cm 12-25), che si affermò con la costruzione del palazzo papale (1266) e che caratterizzò tutta l'architettura viterbese tardoduecentesca, in particolar modo quella commissionata dalla famiglia Gatti. Gli interventi di restauro o di integrazione nelle mura cittadine, operati tra la fine del Duecento e il Trecento (inserimento della torre pentagonale alla sinistra della porta della Verità), sono quindi facilmente riconoscibili, per la presenza di questa particolare muratura, che, peraltro, non riuscì ad affermarsi nella Tuscia, segnalandosi come un fenomeno eminentemente viterbese. Le stratificazioni delle varie tipologie murarie sono molto evidenti anche in edifici come il S. Sisto, estremamente legato alle vicende edilizie delle mura urbiche (Bonelli, 1994).L'episodio architettonico urbanisticamente più rilevante a V. nel Tardo Medioevo si colloca nel sec. 14°, nell'ambito della 'riconquista' del territorio laziale da parte del cardinale Egidio Albornoz, che preparò con abilità il ritorno dei papi da Avignone, sconfiggendo le resistenze interne allo Stato della Chiesa. Il cardinale prese infatti dimora a V., facendovi costruire (1354) la rocca, che da lui prese il nome, presso la porta di S. Lucia (od. porta Fiorentina). Sebbene realizzata con difficoltà e con numerose interruzioni dei lavori, la rocca si pose come elemento aggregante di un nuovo ordine urbanistico della città. La V. più antica, quella gravitante intorno al colle del Duomo, venne in parte tagliata fuori a favore dell'area settentrionale della città, dove si tese a razionalizzare il tessuto urbano, secondo un processo di regolarizzazione che si completò più tardi, attraverso gli interventi commissionati nel Cinquecento dal cardinale Alessandro Farnese.

Bibl.:

Fonti inedite. - D. Bianchi, Storia di Viterbo, Viterbo, Arch. Comunale.

Fonti edite. - F. Mariani, De Etruria Metropoli, Roma 1728; F. Bussi, Istoria della città di Viterbo, Roma 1742; I. Ciampi, Cronache e statuti della città di Viterbo, Firenze 1872; Gregorio da Catino, Regestum Farfense, a cura di I. Giorgi, U. Balzani, 5 voll., Roma 1879-1914; F. Cristofori, Cronica di Anzillotto Viterbese, Roma 1890; P. Egidi, Le Croniche di Viterbo scritte da frate Francesco d'Andrea, Archivio della R. Società romana di storia patria 24, 1901, 3-4, pp. 197-252, 299-371; P.F. Kehr, Italia Pontificia, II, Latium, Berlin 1907; C. Buzzi, Il catasto di S. Stefano di Viterbo (Miscellanea della Società romana di storia patria, 29), Roma 1988; id., La "Margarita iurium cleri Viterbiensis" (Miscellanea della Società romana di storia patria, 37), Roma 1993; Il "Liber quattuor clavium" del Comune di Viterbo, a cura di C. Buzzi, Roma 1998.

Letteratura critica. - C. Pinzi, Storia della città di Viterbo, Roma 1887-1913; F. Cristofori, Dante e Viterbo, tre commentari storici sul conclave del 1270 (Miscellanea storica romana, 2), Roma 1888; G. Signorelli, Viterbo nella storia della Chiesa, 3 voll., Viterbo 1907-1969; Toesca, Medioevo, 1927, pp. 674, 704, 710; G. Venanzi, Caratteri costruttivi dei monumenti. Strutture murarie a Roma e nel Lazio, Spoleto 1953; G. Saveri, Le vicende urbanistiche della città di Viterbo nel corso dei secoli, Rassegna di attività cittadine 1, 1955, 1-3, pp. 7-26; M. Salvatori, Origine e vicende delle mura urbiche di Viterbo, Bollettino dell'Istituto storico e di cultura dell'Arma del Genio 25, 1959; G. Signorelli, I Gatti, in Miscellanea di studi viterbesi, Viterbo 1962, pp. 429-461; N. Kamp, Istituzioni comunali in Viterbo nel Medio Evo, I, Consoli, Podestà, Balivi e Capitani nei secoli XII e XIII, Viterbo 1963; G. Peruzzi, Le tredici porte di Viterbo, Rassegna storica dei Comuni 1, 1969-1970, 5-6, pp. 257-266; L. Gatto, Il conclave di Viterbo nella storia delle elezioni pontificie, "Atti del Convegno di studio. VII Centenario del 1° conclave (1268-1271), Viterbo 1971", Viterbo 1975, pp. 37-62; N. Kamp, Viterbo nella seconda metà del Duecento, ivi, pp. 113-132; S. Valtieri, La genesi urbana di Viterbo, Roma 1977; M. Petrassi, Papi, imperatori e popolo nella Viterbo medioevale, in Viterbo città pontificia, a cura di M. Petrassi, Roma 1980, pp. 7-152; R. Alecci, La chiesa di San Francesco, Viterbo 1982; D. Andrews, L'evoluzione della tecnica muraria nell'Alto Lazio, Biblioteca e società 1-2, 1982, pp. 3-16; L'arredo urbano dei quartieri di Viterbo (Quaderno di Biblioteca e società, 10), Viterbo 1985; B. Barbini, Viterbo come Avignone rifugio dei pontefici, Roma 39, 1992, 6, pp. 41-46; E. Guidoni, Storia dell'urbanistica. Il Duecento, Roma-Bari 1992, pp. 368-369; A. Franchi, Il conclave di Viterbo (1268-1271) e le sue origini, Ascoli Piceno 1993; E. Guidoni, E. De Minicis, Le mura medievali del Lazio. Studi sull'area viterbese, Roma 1993; M. Miglio, Riflessioni sulle mura di Viterbo, ivi, pp. 11 -15; L.P. Bonelli, Le murature della chiesa di San Sisto come testimonianza dello sviluppo tecnico-strutturale dell'edilizia viterbese medioevale, Informazioni. Periodico del Centro di catalogazione dei Beni Culturali della provincia di Viterbo, n.s., 3, 1994, 11, pp. 93-100; C. De Santis, L'adduzione idrica nella Viterbo medioevale, ivi, 6, 1997, 14, pp. 41-46; G. Grassotti, Fonti documentarie per la storia delle mura di Viterbo nel Medioevo (Quaderno di Biblioteca e società, 27), Viterbo 1997.M.G. Bonelli

Architettura

L'affermazione di V. nel sec. 11° come centro autonomo, in dialettica con Roma e le città finitime, fu accompagnata da un'intensa attività edilizia, che interessò in particolar modo gli edifici religiosi. Il denominatore comune del linguaggio architettonico della città, tra la fine del sec. 11° e il primo quarto del 13°, fu la tendenza all'adozione di stilemi e soluzioni di stampo tradizionale e a tratti arcaizzante, tipico di un'area più vasta, compresa tra la Toscana, l'Umbria e il Lazio. Nelle chiese romaniche di V. si affermò nettamente l'impianto basilicale, con copertura a capriate lignee e archi a tutto sesto, profondamente refrattario alla penetrazione degli elementi strutturali più innovativi, come la copertura a crociera o il sistema alternato, tipici dell'area lombardo-padana, almeno fino agli inizi del Duecento, quando l'arrivo dei Cistercensi a S. Martino al Cimino riuscì a introdurre profonde novità, recepite negli anni immediatamente successivi dai cantieri degli Ordini mendicanti, come S. Maria in Gradi e S. Francesco.I documenti attestano la fondazione delle più importanti chiese romaniche della città già a partire dalla metà dell'11° secolo. L'ultimazione della chiesa di S. Maria Nuova viene testimoniata da una delle più antiche pergamene del fondo comunale (Viterbo, Arch. Com., 2), il cui testo venne riportato in modo sintetico nel cippo marmoreo conservato all'interno della chiesa (Carosi, 1986, pp. 14-19); il primo documento che attesta l'esistenza della chiesa di S. Sisto è datato 1068 e il vescovo di Tuscania Gisilberto vi afferma di aver riconfermato alla chiesa i privilegi del suo predecessore Bonizone, vescovo dal 1037 al 1046 (Signorelli, 1907-1969, I, pp. 94-95), implicitamente testimoniando la presenza almeno di un primitivo nucleo di tale edificio nella prima metà dello stesso secolo. Di queste antiche strutture non restano tuttavia che pochi frammenti, dal momento che gli edifici ecclesiastici più importanti del Romanico viterbese (S. Sisto, S. Maria Nuova, S. Lorenzo) furono oggetto di numerose ristrutturazioni nel corso dei secoli, a partire proprio dalla tarda età romanica, che modificarono profondamente gli interni e le planimetrie.Gli unici elementi facilmente ascrivibili alla metà del sec. 11° sono il campanile della diruta chiesa di S. Maria della Cella, quello più antico di S. Sisto e il chiostro di S. Maria Nuova. La chiesa di S. Maria della Cella apparteneva all'abbazia di Farfa fin dal sec. 8°, in quanto nella conferma dei beni dell'abbazia fatta dall'imperatore Ottone I nel 967 si nomina anche la "cellam Sancte Marie infra castrum Veterbense": fortemente danneggiati da un terremoto nel 1349, la chiesa e l'annesso convento vennero demoliti definitivamente nel 1470 (Scriattoli, 1915-1920, p. 157). La torre campanaria superstite presenta tratti fortemente arcaizzanti, che hanno spinto alcuni studiosi a propendere per una cronologia altomedievale (Serafini, 1927), anche sulla base delle antiche citazioni documentarie. Il campanile, però, caratterizzato dalla presenza di una forte entasi delle colonnine delle bifore, nonché dal motivo decorativo dei laterizi disposti a spina di pesce, dimostra di appartenere a quella facies arcaica a cui appartengono il chiostro di S. Maria Nuova, alterato nella struttura dagli interventi di ripristino novecenteschi, e il campanile di S. Sisto, dove si notano ancora i laterizi decorativi nelle ghiere delle bifore e la particolare conformazione delle colonne, tozze e compresse, databili tutti alla seconda metà del sec. 11° (Apollonj Ghetti, 1960).Il primitivo nucleo di S. Sisto, dedicato alla Trinità, a Maria, e ai ss. Marco e Sisto, fu radicalmente ricostruito al valico tra i secc. 11° e 12°, in concomitanza con l'ultimazione del primo tratto delle mura urbiche. La chiesa di seconda fase, che corrispondeva nella sostanza all'attuale, è divisa in tre navate da colonne sormontate da archi a tutto sesto, che nell'ultima campata sono sostituite da due pilastri a fascio di colonne, di cui quello dell'arcata sinistra presenta un particolare andamento spiraliforme, elemento raro nella Tuscia (Raspi Serra, 1972), derivato probabilmente da modelli d'Oltralpe (Krönig, 1938, pp. 19-21) e, soprattutto, spagnoli (Bonelli, 1994a, p. 5). La chiesa terminava originariamente con un'unica abside, in corrispondenza dell'od. arcone trionfale, ma tra la fine del sec. 12° e gli inizi del 13° l'impianto dell'edificio fu radicalmente modificato, con la creazione di uno scenografico coro, di vaste dimensioni, raccordato alle navate da un'ampia scalinata. La nuova campagna edilizia portò allo sfondamento di un breve tratto delle mura urbiche, dove venne inserita l'abside centrale (le due laterali sono in spessore di muro), e all'utilizzazione di una torre difensiva delle stesse mura come nuovo campanile. Al gusto conservativo delle navate fa riscontro nel presbiterio una tendenza profondamente innovativa e, sotto certi aspetti, di avanguardia, soprattutto per quello che riguarda il sistema di coperture e la scansione dello spazio interno. La monumentalità dell'ambiente è dovuta in primis ai due possenti pilastri cilindrici che imprimono un marcato verticalismo alla struttura; il coro è, inoltre, interamente coperto con volte a botte, sorrette da quattro grandi archi longitudinali e tre trasversali, in un audace andamento 'contrapposto', riscontrabile nel modello borgognone di Saint-Philibert di Tournus, dove si ritrova anche il complesso sistema di sostegno degli archi, basato su paraste poggianti sui capitelli dei pilastri. La netta contrapposizione scenografica tra la compassata semplicità delle navate e lo slancio possente del presbiterio porta a compimento una tendenza già affermata alcuni anni prima in chiese umbre (S. Felice a Giano; S. Michele e S. Silvestro a Bevagna), ma trascesa dal cantiere viterbese in termini monumentali, sia per il notevole dislivello tra il piano della navata e quello del coro sia per l'introduzione del complesso sistema di copertura.La chiesa subì, nel 1944, una violenta distruzione a causa di un bombardamento: il restauro, guidato da criteri filologici, ha mirato a ripristinare la facies originaria del monumento, fortemente alterato tra i secc. 14° e 17° da successive modificazioni, che avevano portato allo stravolgimento dell'impianto basilicale tramite l'aggiunta di una quarta navata (Bonelli, 1994b).La creazione della cattedra vescovile di V. (1192) è probabilmente il termine post quem per la definizione del nuovo assetto di S. Maria Nuova e della cattedrale di S. Lorenzo. Al linguaggio altamente sperimentale del coro di S. Sisto si contrappone in questi edifici un marcato eloquio classicheggiante, ispirato alle basiliche romane paleocristiane e a quelle più recenti del sec. 12° (Raspi Serra, 1972) o, secondo altri, alla Montecassino di Desiderio. In entrambe le chiese, fatte salve le dimensioni più ridotte di S. Maria Nuova, si ritrova infatti un semplice ed elegante andamento basilicale a tre navate, scandite da colonne estremamente slanciate e armoniche, dall'intercolumnio molto regolare, con archi a tutto sesto, e terminanti con tre absidi emergenti non molto profonde. La spazialità dilatata ma euritmica dell'interno di S. Lorenzo ben si adattava alle istanze di una committenza religiosa, che voleva apertamente riproporre il linguaggio presente nell'Urbe per la sede vescovile da poco creata. L'ispirazione 'romana' dei due cantieri è suffragata anche dalla presenza in S. Lorenzo del pavimento cosmatesco, profondamente restaurato nei primi anni dopo l'unificazione nazionale, e di una distrutta schola cantorum, documentata fino al 1490 (Parlato, Romano, 1992, p. 426).

La cattedrale ha subìto nei secoli numerosi rimaneggiamenti: in passato si ipotizzò una radicale trasformazione alla fine del sec. 15°, mentre nel 1538 Antonio da Sangallo il Giovane prospettò l'allungamento dell'abside, progetto realizzato più di vent'anni dopo, con la conseguente distruzione dell'abside romanica; soltanto l'abside meridionale conserva la decorazione ad archetti pensili, che per la particolare iconografia sembra ricollegarsi a quella di S. Maria Maggiore a Tuscania (Rossi, 1986). Seguì inoltre un altro intervento, commissionato dal cardinale Gambara, che trasformò la facciata, i cui rosoni originari furono staccati e inseriti rispettivamente nella fronte del corpo di fabbrica a destra della chiesa e all'esterno del palazzo vescovile.La campagna di restauro operata da Muñoz su S. Maria Nuova agli inizi del Novecento (Muñoz, 1912), tesa a recuperare l'aspetto tardoromanico della chiesa, portò alla luce la cripta anulare posta sotto la zona absidale. Questa, sostenuta da due tozzi pilastri, si presenta profondamente atipica nel panorama del Romanico della Tuscia, dov'è invece frequente il modello 'a sala' rilevabile a Nepi, Sutri, Acquapendente e Civita Castellana (Battisti, 1953). L'ambiente, piccolo e di impianto irregolare, non comportò una sopraelevazione del presbiterio e non fu toccato dalla ristrutturazione classicista operata su S. Maria Nuova alla fine del 12° secolo. La cripta, databile al 1080, si presenta come una delle più antiche dell'intera provincia e, insieme a quella della chiesa di S. Anastasio a Castel Sant'Elia, testimonia il passaggio, nella Tuscia, dal modello ancora legato allo schema anulare delle cripte altomedievali a quello più maturo delle cripte del sec. 12° (Bonelli, 1995).Intorno alla fine del sec. 12° si colloca la costruzione, consacrata da Innocenzo III (1198-1216) nel 1198, della piccola chiesa ad aula unica monoabsidata di S. Marco (Scriattoli, 1915-1920, p. 267).L'ultimo pregevole prodotto del Romanico viterbese è la chiesa di S. Giovanni in Zoccoli. Controversa è l'etimologia dell'appellativo, un vero e proprio hapax, assegnato alla chiesa per distinguerla da quelle più antiche di S. Giovanni in Sonsa, S. Giovanni in Valle e S. Giovanni in Petra: alcuni ritengono che esso sia da mettere in correlazione con la ciotola battesimale di Giovanni Battista (Scriattoli, 1915-1920, p. 253), ma la celebrazione della messa solenne per il santo titolare è ricordata dalle fonti per il 27 dicembre, giorno della festa di s. Giovanni Evangelista. Più convincente, quindi, è la spiegazione che ipotizza un riferimento alla corona concentrica di ciotole smaltate che un tempo decorava la lunetta del portale (Zei, 1944). Testimonianze documentarie riguardo la chiesa sono presenti fin dall'823 (Cristofori, 1886), e Bussi (1742) testimonia l'esistenza di una campana appartenente alla chiesa e datata 1037. L'edificio attuale, tuttavia, risale ai primi anni del Duecento e ripropone l'impianto basilicale a tre navate con copertura a capriate che caratterizza i principali edifici sacri viterbesi dell'epoca; forte è l'influenza del coro di S. Sisto, in particolar modo per l'adozione dei pilastri cilindrici con capitelli a corona che scandiscono lo spazio interno. Molto interessante è il rosone di facciata, l'unico di tale livello conservato a V., costituito da un doppio giro di colonnine raccordate da archetti, con tessere policrome: esso si ascrive alla tipologia diffusa in Abruzzo e Umbria sin dalla metà del sec. 12° e trova confronti nella regione con la chiesa di S. Pietro a Tuscania, con cui condivide molti degli elementi costitutivi (Claussen, 1987), presentando tuttavia strette assonanze anche con quello di S. Maria Assunta a Lugnano in Teverina (Raspi Serra, 1972, p. 172, n. 189; Manner Watterson, 1977, pp. 472-474).

I numerosi rifacimenti, uniti ai danni del bombardamento, rendono più difficoltosa la lettura di un edificio tardoromanico come la chiesa di S. Andrea a Pianoscarano, profondamente legata alle vicende del quartiere, testimoniata a partire dalla bolla dell'852 di Leone IV (847-855) e ceduta all'abbazia di Farfa nel 1148. La chiesa, a navata unica triabsidata e con presbiterio rialzato, fu alterata dall'intervento di inizio secolo (Scriattoli, 1915-1920, p. 208); anche la cripta, che si presenta apparentemente come il luogo meglio conservato, non fu indenne da modificazioni. Lo schema 'a oratorio', triabsidato e diviso in quattro navatelle scandite da quattordici colonne, è tipico della metà del sec. 12°, ma la presenza di capitelli a crochets indica chiaramente un rinnovamento ispirato all'estetica cistercense.Controversa è la datazione della piccola chiesa di S. Maria della Carbonara, posta sul versante sinistro del colle del Duomo, in un luogo anticamente ricco di ospedali, residenze di corporazioni e monasteri, successivamente abbandonati e convertiti in fienili: vista come immediato precedente della chiesa di S. Maria Nuova (D'Ugo Rosi, 1924) o ascritta alla prima metà del sec. 12° (Scriattoli, 1915-1920, pp. 158-160), è tuttavia documentata come appartenente ai Templari fra il 1309 e il 1310 (Valentini, 1992). Lo stato di conservazione estremamente precario impedisce, tuttavia, una lettura approfondita dell'edificio, la cui più importante testimonianza artistica resta l'icona mariana (Viterbo, palazzo Vescovile).

Il superamento del gusto romanico coincise a V. con l'avvento e l'affermazione degli Ordini mendicanti e delle loro fondazioni, le quali, nel secondo quarto del sec. 13°, introdussero un linguaggio pienamente gotico, in contatto con i più importanti cantieri dell'Italia centrale. Lo sviluppo sociale ed economico spinse V. in un circuito ben più ampio, collegandola ai più fiorenti comuni del Centro-Nord della penisola e ponendola in una dialettica sempre crescente tra papato e impero.La testimonianza di un accresciuto prestigio della città è l'autorevole ruolo svolto dal viterbese Raniero Capocci, dapprima nella cancelleria pontificia e in seguito come audace diplomatico, con impegnativi incarichi da parte dei pontefici (Kamp, 1975). E proprio nell'orbita di Raniero Capocci si colloca la fondazione di uno dei monumenti più importanti della V. duecentesca, il complesso domenicano di S. Maria in Gradi. Nel 1231, infatti, il potente prelato comprò un ampio territorio extra moenia per facilitare l'accesso al convento, che, non ancora terminato nel 1250, anno della morte di Capocci (Miglio, 1996, p. 13), celebrò la sua consacrazione nel 1258 (Carosi, 1986, p. 54). Della monumentale costruzione duecentesca ben poco rimane di originario, dal momento che numerosi e incisivi interventi furono apportati nel corso dei secoli. Dopo l'aggiunta del portico rinascimentale, la chiesa fu totalmente ricostruita nel 1737 da Niccolò Salvi, il quale concluse i lavori nel 1742, conservando dell'antica chiesa soltanto la facciata; nell'Ottocento, inoltre, il convento fu espropriato ai Domenicani e nel 1878 fu adibito a carcere, fino al 1993.La struttura originaria dell'edificio doveva prevedere tre navate con transetto emergente, mentre è più incerta la presenza di cappelle a terminazione rettilinea (Gandolfo, 1996, p. 47); probabili erano gli influssi dell'abbazia cistercense di S. Martino al Cimino, ultimata da pochi anni, ma rimane un'ipotesi la divisione in navate da colonne, ispirata agli stilemi del Tardo Romanico viterbese. La copertura delle navata doveva prevedere con molta probabilità la capriata, anche se non può essere esclusa la presenza di volte nel transetto e nel presbiterio, più direttamente influenzati dall'edilizia cistercense. Il chiostro, probabilmente iniziato nel 1256 e ultimato contestualmente alla chiesa per iniziativa di papa Alessandro IV, è l'unica parte medievale ancora leggibile: di pianta quadrata, presenta pentafore scandite da colonnine binate sorreggenti archi ogivali e intervallate da cinque solidi pilastri, finemente decorati. Nel registro superiore, su un'alta parete liscia, si aprono rosoni strombati, caratterizzati da un traforo complesso ed elaborato. Il rapporto con il chiostro di S. Martino al Cimino, di alcuni decenni precedente (v. Cistercensi) ma conservatosi in modo estremamente frammentario, dimostra una tendenza marcata della scultura gradense verso la profusione decorativa e ornamentale, per la quale l'abbazia cistercense rappresenta un modello ormai lontano. L'analogia più stretta tra i due chiostri è da rilevare piuttosto nelle coperture, dal momento che le sobrie volte a crociera quadrangolare di S. Maria in Gradi, raffinatamente modellate a tutto sesto, rimandano a quelle del superstite lato orientale del chiostro di S. Martino al Cimino. Debiti con le forme della loggetta del palazzo papale, costruita a partire dal 1267, si riscontrano nelle trifore della sala capitolare, a cui si accedeva dalla galleria est del chiostro duecentesco, che dovettero essere quindi aggiunte alcuni anni più tardi; il raffinato disegno a tracery, contenente tondi trilobati o quadrilobati, tra loro collegati da gattoni, dimostra la piena acquisizione e la matura rielaborazione dei modelli francesi.La prima metà del Duecento vide a V. la realizzazione dell'altro grande complesso mendicante della città, la chiesa di S. Francesco alla Rocca. Per iniziativa di papa Gregorio IX (1227-1241) l'edificio fu iniziato nel 1236, per offrire una sede stabile ai Frati Minori presenti in città. Alterata da interventi avvenuti nel sec. 17°, venne quasi interamente distrutta nel 1944 e ricostruita secondo le originarie forme duecentesche nel dopoguerra. A croce latina, presenta un'unica navata con copertura a capriate, scandita da archi diaframma a sesto acuto che si appoggiano su semicolonne laterali. Nel presbiterio la copertura lignea cede il posto a eleganti volte a crociera costolonate, sorrette da alte colonnette e pilastri polistili nell'incrocio. L'abside rettilinea presenta una grande quadrifora (Scriattoli, 1915-1920, pp. 288-303; Valtieri, 1983). La contrapposizione tra la navata coperta a tetto e il presbiterio voltato a crociera corrisponde a due distinte fasi edilizie, la più tarda delle quali è riconducibile alla seconda metà del Duecento, in concomitanza con la presenza dei papi a V. e con quella di s. Bonaventura da Bagnoregio (m. nel 1274) come ministro generale dell'Ordine francescano: non tutti sono, però, concordi nel considerare la navata anteriore al tardoduecentesco coro, ritenendo la prima un'aggiunta quattrocentesca all'originario nucleo a croce greca, collegato alla committenza francescana.In S. Francesco è possibile trovare la compresenza di due modelli tipici dell'architettura mendicante italiana, quello con copertura a tetto su archi trasversali e quello a vano cruciforme con volte a crociera. È palese, nella chiesa viterbese, un richiamo alla basilica di Assisi, anche perché originariamente lungo le pareti doveva trovarsi un ciclo di affreschi a registro continuo, evidente ancora di più nella zona presbiteriale, dove il linguaggio decorativo, soprattutto nei dettagli ornamentali, cita esplicitamente l'architettura d'Oltralpe. Sono presenti, infatti, cornici con modiglioni e doccioni, archi cigliati sopra le finestre, decorazioni geometriche negli abachi, capitelli a crochets finemente lavorati; si registra, inoltre, un restringimento prospettico verso l'abside. La maggiore monumentalità della zona presbiteriale sembra testimoniare il superamento dell'iniziale pauperismo francescano, in favore di una vera e propria dimostrazione di autorità dell'Ordine; interessante a questo proposito è anche l'ipotesi di Valtieri (1983, pp. 21-24) che ritiene plausibile un contatto diretto tra il cantiere viterbese e quello della Sainte-Chapelle di Parigi, terminata nel 1248, quando s. Bonaventura insegnava presso la Sorbona.A partire dal 1257, V. divenne la sede ufficiale e permanente della Curia pontificia per volere di papa Alessandro IV. La scelta del pontefice fu sancita, nel 1261, dalla convocazione a V., città più tranquilla e sicuramente più favorevole al papa in quel momento, di un concilio, che Alessandro IV non riuscì a dirigere, morendo proprio a V. il 25 maggio dello stesso anno (Signorelli, 1907-1969, I, p. 237). Questa decisione comportò l'ampliamento del palazzo vescovile di V., già esistente, per ospitare in maniera consona la Curia.Mancano quasi completamente notizie documentarie riguardanti l'aggiornamento del palazzo, assurto a simbolo della V. medievale: le indagini scientifiche sull'edificio si sono, per questo, basate esclusivamente su dati leggibili all'interno delle sue strutture e sulla comparazione con altre testimonianze architettoniche dell'epoca (Radke, 1980). Il palazzo papale di V. comprende il nucleo più antico della vecchia residenza vescovile e una serie di edifici aggiunti a partire dalla metà del 13° secolo. Il lato di maggiore interesse artistico è senza dubbio quello meridionale, prospiciente sulla piazza dove si trovano anche il duomo e la casa di Valentino della Pagnotta. Per il suo aspetto scenografico, il lato sud si qualifica come il punto di vista privilegiato del complesso: in esso si snodano infatti l'ampia scalinata, che conduce all'ingresso principale, l'edificio merlato, con la sua serie di bifore a traforo, e la loggia scoperta, trasparente mediazione tra lo spazio severo della piazza in peperino e quello naturale e verdeggiante della sottostante valle di Faul. Il prospetto settentrionale, invece, che si affaccia proprio sulla valle, è quello che presenta la maggiore propensione alla difesa e alle funzioni di avvistamento. Qui la facciata, molto compatta, è posta a picco sul pendio della collina soprastante la vallata e testimonia, nel suo tessuto murario, la successione delle diverse fasi edilizie. I problemi statici della struttura, dovuti alla situazione altimetrica, furono efficacemente risolti attraverso la costruzione di una torre con funzioni di contrafforte e di due poderosi speroni ad arco rampante.Prima dell'arrivo della Curia, il primitivo palazzo vescovile si trovava nell'area occupata oggi dal braccio di raccordo tra l'edificio maggiore, posto in una linea di sviluppo E-O, e la cattedrale di S. Lorenzo: esso, quindi, si estendeva secondo una direzione N-S e aveva dimensioni ben più modeste. Il nuovo edificio sovrasta in altezza le parti più antiche del palazzo vescovile ed è ben individuabile dall'esterno per la presenza di un coronamento ad archi ciechi sulla parete esterna orientale e di una serie di stemmi che corrono in alto lungo le facciate maggiori. È questa, con grande probabilità, la prima struttura costruita appositamente per ospitare la Curia, intorno al 1255, in concomitanza con la permanenza di Alessandro IV in città. Il piano terreno è costituito da un ambiente unico coperto da una volta a botte in pietrisco, che nel suo lato meridionale poggia direttamente sulla parete rocciosa; al piano superiore tre arconi a tutto sesto, impostati su pilastri rettangolari, scandiscono lo spazio in quattro settori di dimensioni equivalenti. In ognuno di essi si apre una bifora, inserita in una profonda strombatura della parete nord; il soffitto è piano, a impalcature lignee e travi di rinforzo.Se nella metà del Duecento l'adeguamento della sede vescovile alla nuova funzione di residenza dei papi rispecchiò per lo più criteri di funzionalità pratica, nelle campagne edilizie dei due decenni successivi manifestò un'attenzione decisamente maggiore per l'aspetto monumentale e decorativo. Con l'aggiunta della loggia e dell'edificio merlato, databile tra il 1266 e il 1267, il palazzo superò di gran lunga la vecchia cattedrale per dimensioni e magnificenza e, qualificandosi come il nuovo fulcro della piazza, ne modificò totalmente la prospettiva. Il secondo piano dell'edificio merlato è interamente occupato dalla c.d. sala del Conclave. Dalla piazza un'ampia scala monumentale conduce al suo ingresso principale: al di sopra di esso un'epigrafe attesta che l'edificio fu costruito nel 1266 per volontà del capitano del popolo Raniero Gatti. Il restauro del 1920 ha ristabilito l'aspetto originario duecentesco, che era stato alterato da vari rifacimenti a partire dal 16° secolo.La vasta aula con tetto a capriate riceve una luce diffusa da dodici bifore a tutto sesto, sormontate da piccole finestre rettangolari molto strombate e munite di gradini alla base. Le dodici bifore, finemente disegnate, sono poste simmetricamente sulle pareti maggiori e sono provviste negli sguanci di sedili laterali in pietra. L'aggiunta della loggia papale, appena un anno dopo il completamento della sala del Conclave e degli ambienti sottostanti del pianterreno, segna l'affermazione a V. di un'architettura gotica dall'accento rayonnant, tendente allo sviluppo e al raffinamento degli elementi ornamentali, nonché alla ricerca di nuove, ardite soluzioni strutturali.Un'iscrizione posta sopra l'ingresso principale della loggia (Carosi, 1986, p. 62) attesta la sua costruzione nel 1267, da parte di Andrea di Beraldo Gatti, successore di Raniero: egli volle dotare il palazzo di uno spazio adeguato sia per le funzioni pubbliche sia per le apparizioni dei pontefici e le benedizioni apostoliche. La loggia è sostenuta da una grande volta a botte, che occupa i livelli corrispondenti al piano terreno e al primo piano del palazzo, ed è rinforzata da cinque archi diaframma; posto quasi al centro del profondo intradosso della volta, spicca un grande pilastro ottagonale, che racchiude al suo interno una cisterna, collegata all'acquedotto realizzato nel 1268 per alimentare il fons papalis, di cui originaria è soltanto la coppa superiore strigilata, mentre quella inferiore, poligonale, risale al Quattrocento. Questa soluzione ardita e carica di significati politici (l'avanzamento tecnico rispecchiava il prestigio sociale della città) non trovò sostanzialmente riscontri nell'edilizia pubblica dell'Italia centrale durante il Medioevo, con la significativa eccezione del palazzo dei Consoli di Gubbio (sec. 14°) dove, analogamente, fu costruito un acquedotto per alimentare la fontana interna all'edificio.Il progetto originario della loggia papale fu parzialmente modificato, forse a causa della presenza di maestranze non del tutto all'altezza del compito: la grande volta doveva essere a crociera, con formerets laterali, mentre fu poi realizzata una volta a botte rinforzata da sottarchi. Al di sopra di questa possente struttura, si staglia il profilo traforato della loggetta, la cui leggerezza è messa in risalto dal vuoto profondo dello spazio sottostante: elemento squisitamente gotico, di gusto francese, è attribuito da quasi tutti gli studiosi alla campagna edilizia duecentesca, anche se non mancano voci di dissenso, che propongono una datazione molto più bassa. Appoggiato a un piccolo parapetto, un ordine di otto colonnine binate, su basi uniche, sostiene una serie di archetti ogivali trilobati, derivanti dall'intreccio di altrettanti archi a tutto sesto. Il richiamo all'iconografia delle bifore è evidente e si estende anche al trattamento dei pennacchi decorati da rondelli a trilobi e a quadrilobi.Sovrasta il loggiato un'alta trabeazione, ornata nel fregio e nell'attico da quattro registri di metope, nei quali i motivi della famiglia Gatti si alternano con il leone passante di V. e l'aquila imperiale con le chiavi incrociate e le doppie infule papali. La cornice, finemente sagomata, è sostenuta da mensole a fogliami e presenta una fascia decorata a punta di diamante. La controfacciata interna è ornata anch'essa da stemmi ed è provvista di un sedile continuo di pietra, che corre lungo l'intero parapetto; sul versante settentrionale si affacciava un analogo motivo decorativo, di cui restano, però, soltanto frammenti di colonne. Nulla resta, invece, del tetto, che probabilmente crollò insieme alla parete nord, a causa del peso eccessivo gravante sugli esili sostegni.Il linguaggio rayonnant della loggia papale caratterizza, anche se in modo meno originale e personale, l'architettura del chiostro di S. Maria del Paradiso, la chiesa in origine appartenente al complesso delle monache cistercensi e poi dei Minori osservanti. L'assetto originario del monastero è andato perduto e anche la chiesa ha subìto durante i secoli radicali trasformazioni strutturali: il chiostro, invece, pur con alcune manomissioni e interventi di rifacimento, resta sostanzialmente leggibile nelle sue forme tardoduecentesche, anche se piuttosto controversa è la sua datazione (Egidi, 1912, p. 28). Gli archi a tutto sesto creano ogive sostenute da colonnine binate: sono presenti, inoltre, cuspidi trilobate, decorazioni a rondelli nei pennacchi, profilature degli archi e capitelli a crochets. Le forme aeree e slanciate della loggetta del palazzo papale sono però qui interpretate in senso più robusto, rinunciando all'eleganza del disegno in favore di una maggiore solidità strutturale: gli archi sono dilatati, le colonne sono molto più basse e larghe, donando al chiostro un effetto di robustezza e di compattezza strutturale, meno vicina all'estetica radiante e influenzata piuttosto dal linguaggio cistercense. Appesantito da una sopraelevazione in muratura tra i secc. 17° e 18°, il recinto claustrale fu danneggiato dai bombardamenti della seconda guerra mondiale.Una vicenda quasi analoga a S. Maria del Paradiso è stata quella della chiesa di S. Maria della Verità, probabilmente uno dei complessi più fortemente danneggiati dagli eventi bellici del Novecento, di cui resta ancora leggibile l'elegante chiostro. Anche in tal caso, abbastanza discussa è la datazione, che oscilla tra la seconda metà del Duecento e la metà del secolo successivo (Toesca, 1927, p. 724). Maggiore sottolineatura è data, in questo caso, agli elementi decorativi, con soluzioni a tratti 'manieristiche', in particolar modo per la ricerca di contrasti chiaroscurali nelle membrature e nelle superfici. Gli archetti del chiostro sono scanditi a gruppi di quattro, le colonnine sono snelle, se non addirittura esili, e i capitelli finemente modellati, sfruttando anche la maggiore lavorabilità del tufo, in luogo del marmo. I pennacchi tendono ad allungarsi e il loro disegno alternato concorre alla creazione di una vibrante e nervosa mobilità delle forme, che si esplicita soprattutto nei rosoni rotanti e culmina nelle lunette del lato meridionale, ritenuto anche da Pinzi (1894) più tardo rispetto agli altri, dove i trafori acquistano una grazia e una complessità tale da raggiungere quasi lo svuotamento della parete.Nel Duecento, accanto all'edilizia religiosa, commissionata in prevalenza dagli Ordini mendicanti, ebbe un forte impulso l'architettura civile e laica, influenzata anch'essa dal linguaggio cistercense importato dal cantiere di S. Martino al Cimino, in particolar modo per quanto riguarda l'articolazione delle membrature architettoniche e delle modanature. Il quartiere San Pellegrino vide l'abbellimento e, soprattutto, l'aggiornamento di molti palazzi nobiliari privati, già realizzati nella prima metà del 13° secolo. Palazzo degli Alessandri, appartenuto a una delle maggiori famiglie guelfe della città, delimita due lati della piccola piazza su cui si affaccia, presentando una fisionomia piuttosto articolata e una variante del profferlo in cui la scala risulta inglobata nel muro perimetrale (Egidi, 1912, pp. 22-23; Scriattoli, 1915-1920, pp. 198-201). La facciata principale, dietro la quale si erge una torre, poggia su due arcate a tutto sesto scandite da due colonne basse e larghe: sul lato destro un'ala prosegue sorretta da un arco rampante e scavalca la strada sottostante, congiungendosi con l'edificio posto al suo fianco, molto più alto e solido, nel quale spicca un balcone su mensole fortemente aggettante. Manca, nel disegno dell'edificio, l'arco ogivale (il profilo delle finestre è addirittura a sesto ribassato), ma il repertorio ornamentale dell'architettura gotica è evidente: membrature solcate da gole, tondini, listelli sugli estradossi, cornici dentellate, a teste di chiodo, e finestre usate come elemento decorativo (bifora al primo piano della torre).La profusione dell'ornamentazione aumenta nel palazzetto Mazzatosta, dove le cornici presentano sagome derivate dalla tradizione romanica, ma anche più classicheggianti, a trecce o a nastri, e dove una teoria di archetti trilobi su colonnine, presente sul parapetto, richiama in modo raffinato il motivo della struttura sottostante. Di particolare rilevanza artistica è in questo caso il profferlo, con balcone sorretto da una doppia arcata con colonna centrale e scala su arco rampante acuto, entrambi dettagli di squisita raffinatezza e inediti nel panorama dell'edilizia laica della città.Il 'manierismo' decorativo influenzò anche le fontane, uno degli elementi più caratteristici dell'architettura gotica viterbese (Piana Agostinetti, 1985), determinando una maggiore complessità del disegno e un'estrema vivacità delle superfici. La tipologia prevalente nel sec. 13° fu quella della fontana 'a fuso', detta anche 'viterbese' per l'estrema diffusione all'interno della città e nelle immediate vicinanze (Vitorchiano, Soriano nel Cimino): questo modello si ispirava a quello romano dei fontes salientes, a cui appartenevano le 'mete' di struttura circolare o poligonale nella vasca, con un elemento di forma conica centrale da cui zampillava l'acqua. Si ascrivono a questo genere cinque delle più antiche e meglio conservate fontane di V. (S. Tommaso o della Morte, S. Giovanni in Zoccoli, S. Maria in Poggio, S. Faustino, Pianoscarano), databili tutte entro il secondo-terzo quarto del Duecento, tranne l'ultima, ricostruita nella seconda metà del 14° secolo. Il rifacimento della fontana Grande, già fontana del Sepale, completato nel 1279, segnò il superamento della struttura tradizionale 'a fuso', in virtù di un impianto molto più monumentale, a coppe sovrapposte con vasca cruciforme e pinnacolo terminale. Posta su quattro alti gradini, la fontana è dichiaratamente un piccolo monumento urbano, curatissimo nei dettagli: il parapetto è decorato esternamente da specchiature rettangolari e la colonna centrale presenta alla sommità un capitello d'acanto finemente realizzato (De Santis, 1997). Già nello Statuto del 1251, le magistrature comunali prevedevano gravi pene pecuniarie per coloro che avessero manomesso il foro di scarico della fontana o ne avessero sporcato l'acqua lavandovi o abbeverandovi animali. La fontana Grande assunse quindi, già a partire dalla metà del secolo, un particolare valore simbolico, che andò aumentando nell'ultimo quarto del Duecento, quando venne ulteriormente ingrandita e abbellita.Nel secolo successivo, l'allontanamento dei papi dall'Italia danneggiò anche V., che entrò in una fase di regresso economico e culturale, da cui stentò a riprendersi. L'attività del cardinale Egidio Albornoz nello Stato della Chiesa, durante la metà del Trecento, volta a ricondurre all'ordine le spinte centrifughe accentuatesi durante la cattività avignonese, interessò anche V., dove il prelato fece erigere la rocca nel 1354. Addossata alla cinta muraria nei pressi di porta Fiorentina, fu distrutta nel 1375 durante una violenta ribellione della popolazione e ricostruita nel 1395 da Bonifacio IX (1389-1404). I costanti e radicali interventi, a volte vere e proprie riedificazioni, operati durante i secc. 15° e 16°, hanno completamente cancellato la fisionomia tardomedievale dell'edificio.

Bibl.:

Fonti inedite. - G. Signorelli, Le chiese di Viterbo, Viterbo, Arch. Com.; P. Oddi, Storia delle fontane di Viterbo, Viterbo, Bibl. Comunale; G. Nobili, Cronica della Chiesa e del Convento di Gradi di Viterbo, Viterbo, Arch. Com. (1616; trascrizione del 1892).

Fonti edite. - F. Bussi, Istoria della città di Viterbo, Roma 1742.

Letteratura critica. - F. Orioli, Viterbo e il suo territorio, Roma 1849; L. Ceccotti, Fontana Grande, Il padre di famiglia 3, 1874, 38-45, pp. 150-179; F. Cristofori, Le chiese di Viterbo, Viterbo 1886; T. Egidi, La chiesa di San Sisto a Viterbo, Viterbo 1888; C. Pinzi, Gli ospizi medievali e l'Ospedale grande di Viterbo, memorie storiche scritte per cura della Deputazione amministratrice, Viterbo 1893; id., I principali monumenti di Viterbo, Viterbo 1894; P. Toesca, Il palazzo papale di Viterbo, L'Arte 7, 1904, pp. 510-513; E. Roggero, Una città medioevale: Viterbo, Viterbo 1905; C. Carosi, Della chiesa cattedrale sotto il titolo di S. Lorenzo e dell'annesso palazzo vescovile in Viterbo, Viterbo 1906; G. Signorelli, Viterbo nella storia della Chiesa, 3 voll., Viterbo 1907-1969; P. Egidi, Per la storia della chiesa di San Sisto, Bollettino storico-archeologico viterbese 1, 1908, 1, pp. 15-23; C. Pinzi, Il Palazzo papale di Viterbo nell'arte e nella storia, Viterbo 1910; A. Gottardi, Viterbo nell'architettura del Duecento, Viterbo 1911; P. Egidi, Viterbo, Napoli 1912; P. Guidi, Il restauro della loggia e del palazzo papale di Viterbo, Roma 1912; A. Muñoz, Il ripristino della chiesa di Santa Maria Nuova a Viterbo e di San Francesco a Vetralla, BArte 6, 1912, pp. 121-142; C. Zei, Viterbo, Milano 1913; D. Sansoni, La chiesa di Santa Maria Nuova in Viterbo, Viterbo 1914; A. Scriattoli, Viterbo nei suoi monumenti, Roma 1915-1920 (rist. anast. Viterbo 1988); G. D'Ugo Rosi, La chiesa di S. Maria della Carbonara a Viterbo, Roma 10, 1924, pp. 466-472; A. Serafini, Torri campanarie di Roma e del Lazio nel Medioevo, Roma 1927, pp. 87-89; Toesca, Medioevo, 1927, pp. 581-582, 683, 699, 705, 710-724, 732, 737; G. Signorelli, Memorie francescane in Viterbo, Viterbo 1928; A. Scriattoli, Santa Maria in Carbonara, Bollettino municipale di Viterbo 6, 1933, pp. 3-9; G. Mazzaroni, La chiesa di San Giovanni in Zoccoli, ivi, 7, 1934, pp. 1-3; A. Gargana, Fontana Grande, Viterbo, rassegna di attività cittadine 2, 1937, 1, p. 20; N. Cucu, La casa medievale nel Viterbese, Ephemeris Dacoromana 3, 1938, pp. 1-104; W. Krönig, Hallenkirchen in Mittelitalien, RömJKg 2, 1938, pp. 1-142: 19-21; H. Thümmler, Die Kirche S. Pietro in Tuscania, ivi, pp. 265-288: 287; C. Zei, La chiesa di San Giovanni in Zoccoli. Note ricostruttive, La Voce di Viterbo 12, 1944, pp. 1-2; P.G. Zucconi, Santa Maria del Paradiso in Viterbo, Viterbo 1948; E. Battisti, Architetture romaniche a Viterbo, SM, n.s., 18, 1952, pp. 152-161; id., Monumenti romanici nel Viterbese. Le cripte a sud dei Cimini, Palladio, n.s., 3, 1953, pp. 67-80; A. Gottardi, Viterbo nel '200, Viterbo 1955; F. Pietrini, Basilica cattedrale di San Lorenzo a Viterbo, Viterbo 1957; B. Apollonj Ghetti, Architettura sacra della Tuscia, Città del Vaticano 1960; M. Signorelli, La Chiesa di San Sisto, memorie storiche, Viterbo 1961; A. Scriattoli, Il palazzo papale e la cattedrale di San Lorenzo, Viterbo 1962; M. Signorelli, Il palazzo papale e la cattedrale di S. Lorenzo, Viterbo 1962; id., S. Maria della Verità, Viterbo 1962; G. Bevilacqua, Ricordi intorno al Palazzo Papale, Vita diocesana. Bollettino di Viterbo e Tuscania 3, 1965, pp. 7-11; A. Gargiuli, Santa Maria Nuova, Viterbo 1966; E. Bentivoglio, S. Valtieri, I lavori nella rocca di Viterbo prima e dopo il pontificato di Giulio II, L'Arte, n.s., 4, 1971, 15-16, pp. 101-109; G. Zucconi, S. Maria del Paradiso in Viterbo, Guidonia 1971; J. Raspi Serra, La Tuscia Romana, un territorio come esperienza d'arte; evoluzione urbanistico-architettonica, Roma-Torino 1972; N. Kamp, Capocci Raniero, in DBI, XVIII, 1975, pp. 608-616; B. Barbini, J. Raspi Serra, Viterbo medievale, Novara 1977; H. Manner Watterson, Romanesque Architectural Sculpture in Viterbo, 1180-1220 (tesi), Yale Univ. 1977; B. Barbini, Itinerario nella Viterbo medievale, Roma 1979; id., Viterbo, Firenze 1979; E. Bentivoglio, Nuove considerazioni sulla Chiesa di San Sisto a Viterbo, scaturite dall'analisi della sua cripta, Biblioteca e società 1, 1979, 4, pp. 13-19; G.M. Radke, The Papal Palace in Viterbo (tesi), New York Univ. 1980; G. Polo, Santa Maria in Gradi: un altro Laterano, Biblioteca e società 3, 1981, 4, pp. 20-23; E. Bentivoglio, S. Valtieri, Guida a Viterbo, Roma 1982; S. Valtieri, La chiesa di S. Francesco a Viterbo, Biblioteca e Società 5, 1983, 3-4, pp. 3-28; C. Piana Agostinetti, Fontane a Viterbo. Presenze vive nella città, Roma 1985; A. Carosi, Le epigrafi medievali di Viterbo. Secoli VI-XV, Viterbo 1986; P. Rossi, Civita Castellana e le chiese medievali del suo territorio, Roma 1986, pp. 31, 50, 158; G. Claussen Les marbriers romains et le mobilier presbytérial, Paris 1987; J.D.A. Kraft, Die Krypta in Latium, München 1987, pp. 98-99; G. Polo, La cattedrale di Viterbo, Lunario Romano 16, 1987, pp. 67-82; G. Barbieri, Viterbo e il suo territorio, Roma 1991; P. Belli, R. Pelliccioni, La chiesa di Santa Maria Nuova e il suo isolato, Viterbo 1991; E. Parlato, S. Romano, Roma e il Lazio (Italia Romanica, 13), Milano 1992, pp. 422-433, 520-522; E. Valentini, Santa Maria in Carbonara, chiesa templare di Viterbo, Latina 1992; A. Carosi, Il complesso conventuale di S. Maria in Gradi di Viterbo dell'Ordine dei padri domenicani, Viterbo [1993]; L.P. Bonelli, L'architettura medievale nella chiesa di San Sisto a Viterbo, I Beni Culturali. Tutela e valorizzazione 2, 1994a, 4-5, pp. 3-8; id., L'evoluzione architettonica della chiesa di San Sisto ricostruita attraverso l'esame dei documenti storici degli Archivi viterbesi, Biblioteca e società 13, 1994b, 3, pp. 11-21; id., All'origine del linguaggio architettonico del Lazio settentrionale: le cripte protoromaniche di Santa Maria Nuova e di Castel Sant'Elia, I Beni Culturali. Tutela e valorizzazione 3, 1995, 4-5, pp. 75-80; N. Angeli, Visitare Viterbo, Viterbo 1996; E. Piacentini, B. Guancini, Meminisse iuvabit. A cinquant'anni dai bombardamenti di Viterbo, Viterbo 1996; Santa Maria in Gradi, a cura di M. Miglio, Viterbo 1996; M. Miglio, Per una storia di Santa Maria in Gradi, ivi, pp. 7-26; M. Piccialuti, La soppressione delle corporazioni religiose nella provincia di Roma e il convento di Santa Maria in Gradi, ivi, pp. 27-40; F. Gandolfo, La vicenda edilizia, ivi, pp. 41-94; A. Marini, La chiesa viterbese di San Sisto: vicende storiche e patrimoniali, Biblioteca e società 16, 1997, 3, pp. 14-21; C. De Santis, Fontana Grande: storia e particolarità, ivi, pp. 30-36; F. Bucca, Le antiche pievi di S. Andrea e S. Nicola a Pianoscarano, ivi, 4, pp. 27-30.L.P. Bonelli

Scultura

Molto limitate sono le testimonianze di scultura altomedievale a V., a differenza della Tuscia, dove compaiono di frequente, soprattutto come reimpiego in amboni, cibori, cancellate di epoca romanica (Raspi Serra, 1974). L'unico pezzo databile al sec. 8° è l'altare di S. Sisto, attualmente collocato nell'abside centrale del coro, che risulta composto da tre parti nettamente distinte: una base con decorazione a ovuli, un corpo centrale cubico e una mensa trapezoidale a fasce sovrapposte di girali e intrecci. L'ornato, in particolar modo quello delle tre facce del cubo centrale, presenta motivi di chiara ascendenza longobarda: nel lato maggiore è presente una decorazione fitomorfa di gusto bidimensionale; in quello sinistro sono raffigurati quattro uccelli che bevono a un vaso ai lati del quale si intravedono due spighe stilizzate; in quello destro un fiore a quattro petali sormontato da un uccello, elementi questi più incisi che scolpiti sul piano di fondo. Definito "un pezzo composto da frammenti della decadenza" (Pinzi, 1894, p. 94), addirittura risalente al sec. 5° (Scriattoli, 1915-1920, p. 223), è stato ricondotto più di recente nel giusto ambito della scultura altomedievale (Bentivoglio, 1979, p. 15). Mancando tuttavia documenti che attestino la presenza della chiesa di S. Sisto anteriori al sec. 11°, è assai arduo spiegare l'origine del pezzo: è infatti possibile che le parti che lo compongono possano provenire da luoghi diversi. L'iconografia e la qualità dell'esecuzione testimoniano, però, un linguaggio molto più semplificato e corsivo rispetto ai frammenti coevi dell'Italia settentrionale e di alcune botteghe romane (L.P. Bonelli, 2000a).

La scultura architettonica romanica si inaugura a V., sempre a S. Sisto, con il campanile del sec. 11°, dov'è possibile riscontrare la presenza di due interessanti motivi ornamentali, i capitelli a stampella e la colonnina-telamone nella trifora del secondo piano. Il capitello a stampella, introdotto nell'Italia centrale dal cantiere di Sant'Antimo (Siena) si diffuse nell'area umbro-laziale, in particolare nella Tuscia, da Vasanello a Soriano nel Cimino e a V., dove ricorre anche nell'antico chiostro di S. Maria Nuova. Anche l'elemento della statua-colonna ribadisce forti contatti con l'area toscana, per es. con la pieve di Corsignano presso Pienza, sebbene, rispetto a questa, il telamone di S. Sisto presenti un marcato arcaismo nelle forme, elemento che ha spinto più volte a una datazione altomedievale del campanile. Se la documentazione non giustifica tale cronologia, la tipologia del capitello della trifora alla destra del telamone è nettamente ispirata alla plastica carolingia, denunciando assonanze con i modelli tardolongobardi di area lombarda e piemontese e testimoniando la presenza di un gusto arcaizzante nel cantiere.La dialettica tra un linguaggio più sensibile al rinnovamento della plastica romanica e uno più legato al passato compare anche nella pregevole serie di capitelli delle navate della chiesa. Sebbene la loro attuale fruizione sia parzialmente alterata da un'errata disposizione, dovuta al restauro postbellico (M.G. Bonelli, 1994a), è facile individuare la presenza di quattro coppie di capitelli, delle quali due ispirate al tipo corinzio, reinterpretato in senso romanico ma estremamente tridimensionale e naturalistico, e due legate al ductus altomedievale, dove si individua una decorazione risolta sul piano superficiale, anche se ricca di soluzioni formali aggiornate, come rosette, palmette e medaglioni con animali fantastici, questi ultimi non molto frequenti nella scultura architettonica della Tuscia, che tende, specialmente nelle chiese più decentrate, a una rappresentazione maggiormente realistica (M.G. Bonelli, 1995). Puntuali sono i richiami alla scultura architettonica di alcuni importanti cantieri d'Oltralpe, in particolar modo provenzali (Montmajour, Saint-Pierre) e borgognoni (Tournus, Saint-Philibert), databili tutti tra il 1030 e il 1060 (M.G. Bonelli, 1994b), così come stringenti sono i contatti dei capitelli reimpiegati nell'arcone trionfale di S. Sisto con il modello 'ad angoli ribattuti', diffuso in Francia, Navarra e Lombardia nell'11° secolo. Una datazione alla metà di tale secolo per i capitelli di S. Sisto è quindi da preferire a quella che li colloca nei primi anni del sec. 12° (Manner Watterson, 1977): i capitelli potrebbero essere stati riutilizzati durante la ricostruzione dell'edificio in concomitanza con l'ultimazione delle mura urbiche. Scelte arcaizzanti sono presenti anche nei capitelli del pilastro a fascio di colonne dell'ultima campata, databile al sec. 12°, ma la delicata cura del profilo delle foglie e l'attenta rilisciatura del piano di fondo testimoniano la distanza dai modelli altomedievali (M.G. Bonelli, 2000).Tra la fine del sec. 12° e i primi del Duecento si registra a V. l'attività di lapicidi assai raffinati, probabilmente di provenienza romana, che portò alla realizzazione della serie di capitelli di S. Maria Nuova e di S. Lorenzo. I due cantieri, a cui si deve aggiungere anche quello contemporaneo del S. Francesco di Vetralla, introducono un linguaggio composto e classicista, ispirato ai modelli tardoantichi, che si rivela anche in elementi di scultura architettonica più 'marginali' come le basi, sapientemente ispirate alla base attica (M.G. Bonelli, 1994c). La resa degli elementi vegetali è accuratissima; inoltre fanno la comparsa elementi come le coppie di delfini affrontate - scolpite con un'accuratezza che non ha confronti nel panorama della plastica della Tuscia tardomedioevale (Manner Watterson, 1979) - e il motivo della sfinge, ispirato alla scultura etrusca. L'interpretazione libera del capitello corinzio si risolse in una profusione di 'variazioni sul tema' molto suggestive, che tendono a sottolineare gli effetti luministici, anche grazie a una perfetta lavorazione del piano di fondo. All'interno delle due serie (ventiquattro in S. Lorenzo, quattordici in S. Maria Nuova) si riscontrano, tuttavia, alcune lievi discontinuità: nella cattedrale presentano maggiore rigore compositivo gli ultimi del colonnato sinistro, mentre quelli corrispondenti del lato destro appaiono più nettamente profilati nell'intaglio, indice di un'esecuzione meno incline a raffinatezze e morbidezze chiaroscurali. In entrambe le chiese compare il motivo delle aquile nei due capitelli di controfacciata, elemento iconografico che ricorre anche in molti altri edifici romanici della Tuscia (Montefiascone, S. Flaviano; cripte di Acquapendente e Nepi; Tarquinia, S. Maria di Castello) e che qui si segnala per una particolare lavorazione 'a squame' nel piumaggio degli uccelli.I cantieri di S. Lorenzo e di S. Maria Nuova parlano un linguaggio classicista, ma ancora pienamente romanico; negli stessi anni, invece, la costruzione dell'abbazia di S. Martino al Cimino importò a V. il lessico cistercense e introdusse la svolta che portò all'affermazione del Gotico. È ancora S. Sisto a testimoniare la trasformazione in senso gotico della scultura architettonica della città: nel presbiterio sopraelevato si trovano, infatti, raffinatissimi capitelli a corona appartenenti ai due grandi pilastri cilindrici che reggono le volte. In questi si presenta estremamente elaborato l'uso del trapano, che crea effetti chiaroscurali molto particolari, recuperando allo stesso tempo tipologie bizantine tardoantiche e suggestioni nordiche, in particolar modo normanne (Noyon), fuse in un linguaggio affatto originale, che nell'ambito dell'Italia centrale arrivò a influenzare sia la scultura architettonica di cantieri cittadini, come S. Giovanni in Zoccoli, sia quella di altri edifici ben più illustri, come il duomo di Orvieto (Raspi Serra, 1972, p. 75; M.G. Bonelli, 1995). La diffusione massiccia del capitello a crochets testimonia a V. l'avvenuta penetrazione di modelli gotici: la cripta di S. Andrea, il cui impianto risale alla metà del sec. 12° ma venne senza dubbio modificato nel Duecento, presenta numerose varianti del crochet, da quello gemmato a quello uncinato, direttamente ispirate a quelle di S. Martino al Cimino, tra le quali si inseriscono frequentemente anche elementi antropomorfi, nei capitelli come nelle basi. La versione fornita nella chiesa di Pianoscarano è, tuttavia, priva dell'eleganza formale e della precisione d'intaglio proprie del cantiere cistercense, fatto che fa supporre la presenza di maestranze locali per la realizzazione dei capitelli della cripta viterbese. Una ben maggiore raffinatezza del crochet è presente, invece, nei due amboni su culot nel presbiterio di S. Sisto e, soprattutto, nella magnifica serie del chiostro di S. Maria in Gradi, detto delle 'centosessanta colonnine di marmo' (Scriattoli, 1915-1920, p. 331), anche se, in questo stesso complesso, è presente una tendenza alla serialità compositiva nelle gallerie ovest e nord, pienamente superata in quella orientale (Fabiano, 1992; 1996).Il sempre crescente prestigio del complesso domenicano gradense, portò, nella seconda metà del Duecento, alla sua affermazione come luogo di sepoltura privilegiato per le personalità più illustri del tempo. La scelta di papa Clemente IV (m. nel 1268) di essere sepolto proprio a S. Maria in Gradi donò ulteriore importanza al convento e lo collocò come cantiere pilota nella formulazione della tomba gotica a baldacchino del tardo Duecento. Il sacello del pontefice, realizzato da Pietro d'Oderisio (v.) e oggi conservato, ma con molte alterazioni, in S. Francesco alla Rocca (D'Achille, 1990), è infatti il più precoce esempio di questa tipologia, diffusa nell'ultimo quarto del sec. 13° soprattutto nell'Italia centrale; la particolare novità delle soluzioni scelte da Pietro per la realizzazione della figura del giacente, estremamente realistica, fu probabilmente frutto di un fervido dibattito culturale che si svolgeva proprio nello scriptorium di S. Maria in Gradi, riguardante i rapporti tra fede, scienza e arte prospettica e che portò alla composizione di un trattato come la Perspectiva di Witelo (Paravicini Bagliani, 1975; D'Achille, 1996, p. 131).Sempre all'interno del complesso domenicano ebbe luogo la sepoltura di uno dei più illustri esponenti della fazione ghibellina di V., Pietro di Vico, il cui sepolcro, tuttavia, fu oggetto di ripetute e devastanti manomissioni che hanno cancellato la facies originaria dell'opera, oggi conservata anch'essa, in stato estremamente frammentario, nella chiesa di S. Francesco alla Rocca. Da due disegni settecenteschi (Gardner, 1973, fig. 18; Herklotz, 1985, fig. 64) si evidenzia nel monumento sepolcrale la mancanza della figura giacente, forse perché non si trattava di un ecclesiastico o perché il personaggio godeva di una minore autorevolezza (D'Achille, 1996).Dal disegno di Vienna (Graphische Sammlung Albertina, Mappe V, A.321) si evince anche l'appartenenza al monumento di Pietro di Vico (m. nel 1268) di uno dei più interessanti pezzi conservati al Mus. Civ. di V., la c.d. sfinge di Pasquale. La scultura, firmata da "frater Pascalis" e datata 1286, fu probabilmente inserita nel monumento in un secondo tempo e successivamente staccata: la morbidezza dell'intaglio e la vivacità della resa naturalistica hanno fatto propendere per l'identificazione di "frater Pascalis" con l'autore del candelabro di S. Maria in Cosmedin (Toesca, 1927, pp. 828-829). Si presenta in qualche modo legato alle sepolture gradensi anche un altro pregevole pezzo erratico, il leone accovacciato (Viterbo, Mus. Civ.), databile intorno alla metà del Duecento: la mancata corrispondenza tra la lunghezza della figura del giacente e il sarcofago nel monumento di Clemente IV ha portato a ipotizzare (Claussen, 1987, pp. 180-181) la presenza di questo leone ai piedi del pontefice, secondo quella tradizione iconografica che voleva i leoni e le sfingi come guardiani delle tombe. Ulteriore elemento a sostegno di tale ipotesi è la diversità dei trattamenti delle superfici tra la parte anteriore, levigata perché destinata a una visione tridimensionale e frontale, e quella posteriore, sommariamente sbozzata (L.P. Bonelli, 2000b).La felice stagione della scultura gotica a V. si concluse con l'altro grande monumento funerario dedicato a un papa, quello di Adriano V (m. nel 1276), anch'esso a S. Francesco alla Rocca. Il sepolcro si presenta riccamente decorato con tessere musive dorate e motivi cosmateschi, arricchiti da elementi tipici del Gotico rayonnant, come l'ornamentazione a gattoni del timpano; le radicali ristrutturazioni avvenute nei secoli e i danni bellici hanno tuttavia alterato in maniera non marginale la struttura di questa importante opera (Iazeolla, 1990). Attribuito già ai Vassalletto (Cristofori, 1887; Rossi, 1889) e successivamente ad Arnolfo di Cambio (Venturi, 1905), il sepolcro è stato più di recente ricondotto a un maestro formato sui modelli di Nicola Pisano, e in questo vicino ad Arnolfo, ma da questi estremamente differente nella resa della linea e delle superfici (Romanini, 1983). Oltre alla resa raffinata dei particolari del volto nella figura del giacente, notevoli sono le figurazioni a bassorilievo del timpano archiacuto, in particolare le protomi del Riso e del Pianto e il Giove, ispirato al medesimo modello del S. Giuseppe arnolfiano in S. Maria Maggiore a Roma. L'altissima qualità della Bauplastik della tomba non fa, quindi, che riconfermare la vitalità estrema dell'ambiente viterbese nel terzo quarto del sec. 13° e la sua particolare vicinanza al linguaggio artistico del Gotico rayonnant.Molto più rare risultano le testimonianze scultoree nel sec. 14°, quando la forte influenza umbro-senese, che si manifestò anche in pittura, ebbe la sua massima espressione nei rilievi, di chiara impronta maitanesca, del portale della chiesa di S. Maria della Salute (1320 ca.), ispirati, soprattutto nella struttura compositiva, ai pilastri del duomo di Orvieto.

Bibl.: O. Marucchi, Conferenza della Società di cultori della cristiana archeologia di Roma, BAC, s. IV, 3, 1884-1885, pp. 32-54; F. Cristofori, Le tombe dei papi in Viterbo, Siena 1887; P. Egidi, Guida della città di Viterbo e dintorni, Viterbo 1889; G. Rossi, Ricerche sulla origine e sullo scopo dell'architettura archiacuta. Mausoleo di Clemente IV, Siena 1889; A.L. Frothingham, Notes on Roman Artists of the Middle Ages, AJA 5, 1889, pp. 182-188; id., Two Tombs of the Popes at Viterbo by Vassalletto and Petrus Oderisi, ivi, 7, 1891, pp. 38-53; C. Pinzi, I principali monumenti di Viterbo, Viterbo 1894 (19112); Venturi, Storia, III, 1904, p. 796; id., Arnolfo di Cambio (Opere ignote del maestro a Viterbo, Perugia e Roma), L'Arte 8, 1905, pp. 254-265: 258-261; A.L. Frotingham, Monuments of Christian Rome from Constantine to the Renaissance, New York 1908; P. Egidi, Viterbo, Napoli 1912; A. Scriattoli, Viterbo nei suoi monumenti, Roma 1915-1920 (rist. anast. Viterbo 1988); A. Sansoni, Il sepolcro dell'Arcivescovo Ruggeri nella chiesa di s. Maria in Gradi a Viterbo, Nuova antologia, s. VII, 3, 1926, pp. 433-442; Toesca, Medioevo, 1927; M. Gabrielli, Il Museo Civico di Viterbo, Roma 1932, pp. 11-15; H. Keller, Der Bildhauer Arnolfo di Cambio und seine Werkstatt, JPreussKS 55, 1934, pp. 205-228; 56, 1935, pp. 22-43; id., Il sepolcro di Clemente IV in S. Francesco a Viterbo, L'Illustrazione vaticana 6, 1935, 5, pp. 237-240; E. Lavagnino, Storia dell'arte medioevale italiana, Torino 1936, p. 343; H. Keller, Die Entstehung des Bildnisses am Ende des Hochmittelalters, RömJKg 3, 1939, pp. 227-356: 276-297; F. Hermanin, L'arte in Roma dal sec. VIII al XIV (Storia di Roma, 27), Bologna 1945, p. 343; E. Hutton, The Cosmati, London 1950, pp. 41-60; I. Faldi, Il Museo Civico di Viterbo, Viterbo 1955, pp. 50-55; R.V. Montini, Le tombe dei papi, Roma 1957, p. 268; M. Wienberger, Arnolfo und die Ehrenstatue Karls von Anjou, in Studien zur Geschichte der europäischen Plastik. Festschrift Theodor Müller, München 1965, pp. 63-72: 66; C. Bertelli, Traversie della tomba di Clemente IV, Paragone 20, 1969, pp. 53-63; A. Monferini, Pietro di Oderisio e il rinnovamento tomistico, in Momenti del marmo. Scritti per i duecento anni dell'Accademia di Belle Arti di Carrara, Roma 1969, pp. 39-63; A.M. Romanini, Arnolfo di Cambio e lo "stil novo" del Gotico italiano, Milano 1969 (rist. anast. Firenze 1980), pp. 34-35, 150-152, 186; G. Ladner, Die Papstbildnisse des Altertums und Mittelalters (Monumenti di antichità cristiana, s. II, 4), II, Città del Vaticano 1970, pp. 143-165; K. Bauch, Anfänge des figürlichen Grabmals in Italien, MKIF 15, 1971, pp. 227-258; F. Negri Arnoldi, Pietro d'Oderisio, Nicola da Monteforte e la scultura campana del primo trecento, Commentari 23, 1972, 1-2, pp. 175-211; J. Poeschke, Betrachtung der römischen Werke des Arnolfo di Cambio, RömQ 67, 1972, pp. 175-211: 178-185; J. Raspi Serra, La Tuscia Romana. Un territorio come esperienza d'arte: evoluzione urbanistico-architettonica, Roma-Torino 1972; J. Gardner, Arnolfo di Cambio and Roman Tomb Design, BurlM 115, 1973, pp. 420-439; J. Raspi Serra, Le diocesi dell'Alto Lazio (Corpus della scultura altomedievale, 8), Spoleto 1974; A. Paravicini Bagliani, Witelo et la science optique à la cour de Viterbe (1277), MEFR 87, 1975, pp. 425-453; K. Bauch, Das mittelalterliche Grabbild. Figürliche Grabmäler des 11. bis 15. Jahrhunderts in Europa, Berlin-New York 1976, pp. 141-153; H. Manner Watterson, Romanesque Architectural Sculpture in Viterbo, 1180-1220 (tesi), Yale Univ. 1977; E. Bentivoglio, Nuove considerazioni sulla Chiesa di San Sisto a Viterbo, scaturite dall'analisi della sua cripta, Biblioteca e società 1, 1979, 4, pp. 13-19: 15; J. Garms, Bemerkungen zur römischen Skulptur im Spätmittelalter, Römische historische Mitteilungen 21, 1979, pp. 145-159; H. Manner Watterson, The Romanesque Dolphin Capitals in the Cathedral of Viterbo, Itinerari 1, 1979, pp. 47-60; J. Cabanot, Aux origines de la sculpture romane: contribution à l'étude d'un type de chapiteaux du XIe siècle, in Romanico Padano, Romanico Europeo, "Convegno internazionale di studi, Modena-Parma 1977", Parma 1982, pp. 351-362; A.M. Romanini, Arnolfo e gli "Arnolfo" apocrifi, in Roma anno 1300, "Atti della IV Settimana di studi di storia dell'arte medievale dell'Università di Roma 'La Sapienza', Roma 1980", a cura di A.M. Romanini, Roma 1983, pp. 27-51: 28-33; id., Nuove ipotesi su Arnolfo di Cambio, AM 1, 1983, pp. 157-202: 166; I. Herklotz, "Sepulcra" e "Monumenta" del Medioevo. Studi sull'arte sepolcrale in Italia, Roma 1985 (19902); A. Carosi, Le epigrafi medievali di Viterbo (secc. VI-XV), Viterbo 1986; P.C. Claussen, Magistri Doctissimi Romani. Die römischen Marmorkünstler des Mittelalters (Corpus Cosmatorum I) (Forschungen zur Kunstgeschichte und christlichen Archäologie, 14), Stuttgart 1987, pp. 180-203; A.M. D'Achille, Sulla datazione del monumento funebre di Clemente IV a Viterbo: un riesame delle fonti, AM, s. II, 3, 1989, 2, pp. 85-91; id., Il monumento funebre di Clemente IV in S. Francesco a Viterbo, in Skulptur und Grabmal des Spätmittelalters in Rom und Italien, "Akten des Kongresses ''Scultura e monumento sepolcrale del tardo medioevo a Roma e in Italia'', Roma 1985", a cura di J. Garms, A.M. Romanini, Wien 1990, pp. 129-142; T. Iazeolla, Il monumento funebre di Adriano V in S. Francesco alla Rocca a Viterbo, ivi, pp. 143-158; P. Belli, R. Pelliccioni, La chiesa di S. Maria Nuova e il suo isolato, Viterbo 1991, pp. 49-60; S. Fabiano, I capitelli tardo-duecenteschi di Santa Maria in Gradi a Viterbo, AM, s. II, 6, 1992, 2, pp. 113-135; J. Gardner, The Tomb and the Tiara. Curial Tomb Sculpture in Rome and Avignon in the later Middle Ages, Oxford 1992; Die mittelalterlichen Grabmäler in Rom und Latium vom 13. bis zum 15. Jahrhundert, II, Die Monumentalgräber, a cura di J. Garms, A. Sommerlechner, W. Telesko, Wien 1994, pp. 206-215; M.G. Bonelli, Un'ipotesi per la ricomposizione dei capitelli delle navate della chiesa di San Sisto, I Beni Culturali. Tutela e valorizzazione 2, 1994a, 4-5, pp. 8-10; id., La scultura architettonica del San Sisto di Viterbo e i suoi rapporti con l'arte europea del secoli XI-XIII (Quaderno di Biblioteca e società, 22), Viterbo 1994b; id., Tra classicismo e varietas: le tipologie delle basi nelle chiese romaniche viterbesi, Informazioni. Periodico del Centro di catalogazione dei Beni Culturali della provincia di Viterbo, n.s., 3, 1994c, 11, pp. 101-108; id., Una chiesa ai margini del territorio laziale: Santa Maria di Vasanello, I Beni Culturali. Tutela e valorizzazione 3, 1995, 1, pp. 41-44; id., Il capitello a foglia d'acanto come insorgenza classicista nella scultura architettonica del Medioevo italiano: i casi di Piacenza e Orvieto, ivi, 4, 1996, 2, pp. 11-16; S. Fabiano, La scultura, in Santa Maria in Gradi, a cura di M. Miglio, Viterbo 1996, pp. 109-127; A.M. D'Achille, Le sepolture medievali, ivi, pp. 128-159; S. Finardi, Modifiche ed interventi di restauro nella chiesa di San Giovanni in Zoccoli a Viterbo attraverso la lettura dei documenti d'archivio, Biblioteca e società 16, 1997, 4, pp. 16-21; M.G. Bonelli, Les chapiteaux de l'abbaye de Gellone et leurs rapports avec la sculpture architecturale italienne des VIIIe et IXe siècles, in Saint-Guilhem-le-Désert dans l'Europe du Haut Moyen Age, "Actes de la Table ronde, Montpellier 1998", a cura di C. Amado, X. Barral i Altet, Montpellier 2000, pp. 203-212: 206-207; L.P. Bonelli, La sculpture à entrelacs en Italie aux VIIIe et IXe siècles et Gellone: comparaisons et considérations, ivi, 2000a, pp. 213-224: 214; id., Sfinge di Pasquale, Leone, in Anno 1300 il primo giubileo. Bonifacio VIII e il suo tempo, cat., Roma 2000b, p. 172.

Pittura

Estremamente frammentarie sono le testimonianze pittoriche medievali all'interno della città, anche se quelle superstiti presentano caratteri di indubbia qualità. L'area viterbese venne profondamente influenzata dal linguaggio romano e in modo altrettanto profondo da quello umbro, in particolare spoletino, almeno fino al primo quarto del sec. 13° (Faldi, 1970). La più antica tavola viterbese è quella attualmente conservata presso il palazzo Vescovile, già nel duomo di S. Lorenzo, e conosciuta come Madonna della Carbonara, perché appartenuta originariamente all'omonima chiesa. La Vergine è rappresentata con il Bambino in braccio, in posizione frontale, e indossa tunica e mantello blu notte e il maphórion porpora: l'iconografia della tavola viterbese presenta evidenti analogie con quella dell'icona di S. Maria Maggiore a Roma, derivata dall'Odighítria, e forte è il suo significato dogmatico rivolto implicitamente alla contestazione delle eresie, come conferma l'iscrizione posta nella parte inferiore della tavola stessa. Molto controversa è la sua datazione, che oscilla dal primo quarto alla seconda metà del sec. 12° (Matthiae, 1966; Aggiornamento scientifico, 1988; Wolf, 1990), agli inizi del Duecento (Faldi, 1970), fino alla prima metà del sec. 13° (Andaloro, 1988). Il suo linguaggio, comunque, si presenta come schiettamente romano e presenta analogie anche con la tavola della Vergine con il Bambino di S. Angelo in Pescheria, sebbene quest'ultima si mostri più sciolta nella resa del panneggio e nella definizione dei volumi; in ambito locale i riscontri più puntuali si possono individuare con la tavola del Salvatore benedicente nella cattedrale di Capranica.

L'altra importante icona della città appartiene alla chiesa di S. Maria Nuova, dove attualmente è conservata, ed è dedicata al Salvatore. Il trittico presenta nel pannello centrale Cristo posto su un faldistorio - un sostanziale hapax nelle tavole cristologiche laziali (Wilpert, 1916) - e in quelli laterali la Vergine e S. Giovanni Evangelista, mentre nelle facce esterne degli sportelli sono presenti i Ss. Pietro e Paolo. La tavola viterbese, ispirata all'Acheropita del Sancta Sanctorum, è con molta probabilità di poco più tarda rispetto alla Madonna della Carbonara: la sua datazione al sec. 13° è infatti accettata, pur con lievi differenze, da tutti gli studiosi (Toesca, 1927, p. 1006; Garrison, 1949; Matthiae, 1951; Faldi, 1970).Strettamente legati alla tavola di S. Maria Nuova, per linguaggio e stilemi espressivi, sono gli affreschi, oggi frammentari, della cripta di S. Andrea a Pianoscarano. Nell'abside centrale è raffigurato l'Agnello contornato dal tetramorfo, di cui è leggibile in modo chiaro solo l'aquila, mentre nell'abside di sinistra si individua il busto del Salvatore, originariamente affiancato da altre figure di santi o profeti, di cui non resta che un isolato nimbo a fianco del Cristo. Sulla parete di fondo della cripta sono sopravvissute una Madonna sul dorso di asino, appartenente a una Fuga in Egitto, una figura maschile e altre molto più frammentarie. Se nel trittico di S. Maria Nuova sono estremamente riconoscibili le influenze spoletine, negli affreschi di Pianoscarano si mescolano a queste quelle romane, in particolare provenienti dal cantiere di S. Paolo f.l.m., durante il pontificato di Onorio III (1216-1227), o da quello della platonia di S. Sebastiano (Parlato, Romano, 1992).Alla seconda metà del secolo è invece ascrivibile la Madonna con il Bambino proveniente da S. Maria in Gradi (Viterbo, Mus. Civ.). Il dipinto testimonia il superamento delle influenze umbre a V., sostituite, tra il sesto e il settimo decennio del Duecento, da quelle toscane: strette sono, infatti, le consonanze con l'arte figurativa anteriore a Cimabue (Privitera, 1998; 2000), soprattutto con il Maestro del Bigallo, con il Maestro della Croce Bardi e con Coppo di Marcovaldo. Non mancano, tuttavia, nelle lumeggiature del vestito del Bambino, le ascendenze di origine tardocomnena né quelle romane, soprattutto nell'impianto monumentale della Vergine. La figura del prelato inginocchiato nella zona inferiore sinistra della tavola può essere identificata con il cardinale Raniero Capocci, fondatore del convento gradense, scomparso pochi anni prima.I rapporti con Roma si allentarono notevolmente durante il sec. 14°, anche in conseguenza del trasferimento della sede papale ad Avignone. Poche tracce, infatti, si riscontrano a V. del rinnovamento artistico compiuto nell'Urbe da Pietro Cavallini e da Giotto, tra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento: un caso isolato resta l'affresco, datato 1293, della cappella Fortiguerra a S. Maria Nuova, dov'è evidente la conoscenza di Cimabue (Faldi, 1970). Di buona qualità, ma fortemente decontestualizzate in seguito alla perdita completa del ciclo a cui appartenevano, sono le due figure di S. Pietro e S. Paolo affrescate nell'abside sinistra della cattedrale di S. Lorenzo, databili approssimativamente alla fine del Duecento.Nel Trecento, si intensificarono i rapporti con l'area umbra (in particolare Orvieto) e toscana: i due pittori aretini itineranti, Gregorio e Donato, realizzarono nel 1320 l'immagine della Madonna Liberatrice (Viterbo, SS. Trinità), mentre i documenti registrano la presenza di artisti senesi, come Giovanni Selvi, attestato nel 1317. I legami con la cultura senese divennero strettissimi attraverso Matteo Giovannetti (v.), del quale è tuttavia scarsissima la produzione nella propria città natale: l'unica opera a lui sicuramente attribuita presente a V. è infatti la tavoletta con Cristo crocifisso e santi, databile, però, alla piena maturità del pittore, coincidente con il soggiorno avignonese. Più discussa è la paternità dell'affresco raffigurante Cristo crocifisso tra Maria Maddalena, Giovanni Battista e altri santi (Faldi, 1970), che potrebbe rappresentare un'opera giovanile del maestro, prima della partenza per la Provenza.Per la seconda metà del secolo, non si riscontrano opere pittoriche significative a V., probabilmente a causa della forte involuzione della cultura viterbese, dovuta alla peste nera, al terremoto che colpì la città e alla generale decadenza del Patrimonio della Chiesa, causato dall'allontanamento della Curia. La pala della Porziuncola in S. Maria degli Angeli ad Assisi, firmata da Ilario da V. e datata 1393, fortemente influenzata dal linguaggio di Simone Martini, testimonia il contatto mai venuto meno tra l'area senese e V., fino all'avvento del Tardo Gotico.

Bibl.:

Fonti inedite. - G. Nobili, Cronica della Chiesa e del Convento di S. Maria in Gradi, Viterbo, Arch. Com. (1616; trascrizione del 1892).

Letteratura critica. - F. Orioli, Florilegio viterbese: 12-Di alcuni pittori ch'operarono nell'evo infimo e ne' primi cominciamenti del rinascer delle arti, Giornale arcadico 140, 1855, p. 200ss.; P. Valentini, Relazione ed esposizione delle iscrizioni che trovansi nella sagra immagine di Maria Santissima della Carbonara con un divoto esercizio in suo onore, Viterbo 1861; M. Guardabassi, Indice-guida dei monumenti pagani e cristiani riguardanti la storia e l'arte esistenti nella provincia dell'Umbria, Perugia 1872, p. 31; G. Oddi, Le arti in Viterbo, Viterbo 1882; A. Muñoz, Uno sguardo al nuovo Museo Civico di Viterbo, in Per l'inaugurazione del Museo Civico di Viterbo, Viterbo 1912, pp. 33-45: 35; J. Wilpert, Die römischen Mosaiken und Malereien der kirchlichen Bauten vom 4. bis 13. Jahrhundert, Freiburg im Brsg. 1916, II, 2, p. 1114; B.M. Mezzaria, Il dipinto di Prete Ilario nella Sacra Porziuncola, L'Oriente serafico, 1916-1917, p. 189ss.; Toesca, Medioevo, 1927; R. Artemi, Memorie storiche sul rinvenimento del prezioso trittico del SS. Salvatore che si venera nella chiesa priorale di Santa Maria Nuova in Viterbo, Viterbo 1930; P. La Fontaine, Mater Dei, ''Mater Dei'', 1931, Bollettino Diocesano di Viterbo e Tuscania, 1932, pp. 20-23; R. Van Marle, Le scuole della pittura italiana, I, Dal VI alla fine del XIII secolo, den Haag-Milano 1932, p. 579; G. Signorelli, I più antichi pittori viterbesi, Bollettino municipale di Viterbo 7, 1934, pp. 3-9; W. F. Volbach, Il Cristo di Sutri e la venerazione del SS. Salvatore nel Lazio, RendPARA 17, 1940-1941, pp. 97-126: 109-114; R. Longhi, Giudizio sul Duecento, Proporzioni 2, 1948, pp. 5-54 (rist. in id., Opere complete, VII, Giudizio sul Duecento e ricerche sul Trecento nell'Italia centrale, Firenze 1974, pp. 1-53); E.B. Garrison, Early Italian Painting, GBA 90, 1948, pp. 15-20: 18; id., Italian Romanesque Panel Painting, Firenze 1949, p. 48 n. 41, p. 116 n. 299, p. 216 n. 299; G. Matthiae, Note di pittura laziale nel Medioevo, BArte, s. IV, 36, 1951, pp. 112-118; E. Lavagnino, Introduzione, in La pittura viterbese dal XIV al XVI secolo, a cura di L. Mortari, cat., Viterbo 1954, pp. 7-13; I. Faldi, Scuola romana seconda metà secolo XII, ivi, pp. 17-24; L. Grassi, La pittura nel Viterbese, Nuova antologia 77, 1955, pp. 87-96; F. Zeri, La mostra della pittura viterbese, BArte, s. II, 40, 1955, pp. 85-91; E.B. Garrison, Studies in the History of Mediaeval Italian Painting, II, 1-4, Firenze 1955-1956, pp. 14-15; III, 1957-1958, pp. 195-220: 211, fig. 246; E. Castelnuovo, Avignone rievocata, Paragone 10, 1959, 119, pp. 28-51; C. Volpe, Un'opera di Matteo Giovannetti, ivi, pp. 63-66; E. Castelnuovo, Un pittore italiano alla corte di Avignone. Matteo Giovannetti e la pittura in Provenza nel secolo XIV, Torino 1962 (19912); I. Faldi, L'arte nel Viterbese. Mostra di restauri, Viterbo 1965, p. 39; id., Viterbo: ragguaglio delle arti. Facies gotica e vignolesca, Tuttitalia 257, 26 gennaio 1966, p. 549; G. Matthiae, Pittura romana del Medioevo, II, Secoli XI-XIV, Roma 1966, p. 63; P.P. Donati, Per la pittura aretina del Trecento, Paragone 19, 1968, 215, pp. 22-39; I. Faldi, Pittori viterbesi di cinque secoli, Roma 1970, pp. 2-15; A. Tartuferi, Pittura fiorentina del Duecento, in La pittura in Italia. Il Duecento e il Trecento, Milano 1986, I, pp. 267-282: 270; V. Pace, Pittura del Duecento e del Trecento a Roma e nel Lazio, ivi, pp. 423-442: 438; Aggiornamento scientifico all'opera di G. Matthiae. Pittura romana del Medioevo, II, a cura di F. Gandolfo, Roma 1988, pp. 269-270; M. Andaloro, L'icona della Vergine ''Salus Populi Romani'', in Santa Maria Maggiore a Roma, a cura di C. Pietrangeli, Firenze 1988, pp. 124-128: 127; H. Belting, Icons and Roman Society in the Twelfth Century, in Italian Church Decoration of Middle Ages and Early Renaissance. Functions, Forms and Regional Traditions, "Ten Contributions to a Colloquium Held at the Villa Spelman, Florence 1987", a cura di W. Tronzo (Villa Spelman Colloquia, 1), Bologna 1989, pp. 27-41; id., Bild und Kult. Eine Geschichte des Bildes vor dem Zeitalter der Kunst, München 1990, pp. 364-366; A. Tartuferi, La pittura a Firenze nel Duecento, Firenze 1990, p. 77 nn. 59-60; G. Wolf, Salus Populi Romani. Die Geschichte römischer Kultbilder im Mittelalter, Weinheim 1990, pp. 27, 256 n. 129; I. Faldi, Dipinti del Museo Civico in esposizione temporanea nella Cappella del Palazzo dei Priori, Viterbo 1992; E. Parlato, S. Romano, Roma e il Lazio (Italia romanica, 13), Milano 1992, pp. 432-433; P. Belli D'Elia, L'immagine di culto, dall'icona alla tavola d'altare, in La pittura in Italia. L'Altomedioevo, a cura di C. Bertelli, Milano 1994, pp. 369-389: 373; F. Negri Arnoldi, La pittura, in Santa Maria in Gradi, a cura di M. Miglio, Viterbo 1996, pp. 98-102; M. Privitera, Una Madonna duecentesca nel Museo civico di Viterbo, Bollettino della Badia greca di Grottaferrata, n.s., 52, 1998, pp. 329-359; id., Madonna, Viterbo Museo Civico, in Anno 1300 il primo Giubileo. Bonifacio VIII e il suo tempo, cat., Roma 2000, p. 194.M.G. Bonelli

CATEGORIE
TAG

Antonio da sangallo il giovane

Bonaventura da bagnoregio

Seconda guerra mondiale

Coppo di marcovaldo

Consiglio dei dieci