Vitaliani, Vitaliano

Enciclopedia Dantesca (1970)

Vitaliani, Vitaliano

Nicolò Mineo

Nel cerchio dei violenti, tra gli usurai, un dannato, il padovano Reginaldo degli Scrovegni, preannuncia a D. la dannazione di un altro usuraio della sua stessa città: mi disse: " Che fai tu in questa fossa? / Or te ne va; e perché se' vivo anco, / sappi che 'l mio vicin Vitalïano / sederà qui dal mio sinistro fianco... " (If XVII 68).

È il primo caso, osserva il Momigliano, di denuncia da parte di un dannato del peccato e della futura condanna di un vivente: si anticipano così certi motivi e, in un certo senso, anche il clima dei cerchi della frode e del tradimento, a cui d'altronde l'episodio è abbastanza apertamente collegato dalla disposizione stessa degli elementi del canto, in cui l'incontro con gli usurai si colloca tra l'ascesa di Gerione dall'abisso e la discesa di D. e Virgilio in Malebolge, portati a volo dal mostro. Ed è anche stato detto (M. Soldati, in Lect. Scaligera I 570) che un fondo di " misera bestialità " accomuna sia Gerione che gli usurai.

I commentatori trecenteschi, quando hanno tentato l'individuazione, hanno riconosciuto sempre nel Vitaliano menzionato da Reginaldo il padovano Vitaliano del Dente (v.). Una diversa identificazione credette di poter proporre il Morpurgo (pp. 213 ss.), sostenendo che D. intendesse alludere a un Vitaliano figlio di Iacopo V., ricordato come " maximus usurarius " da una cronaca padovana del Trecento. Egli trovava impensabile che un personaggio come Vitaliano del Dente, uomo politico di un certo rilievo nella sua città e celebrato dai contemporanei per le qualità civiche e cavalleresche, potesse esser dedito alla pratica dell'usura. Contro questa proposta, che pure è valsa a render dubbiosi non pochi dei maggiori interpreti di D., dallo Scartazzini al Sapegno, mosse valide obiezioni il Belloni, che ribadiva l'interpretazione tradizionale, dimostrando l'inconsistenza delle argomentazioni in contrario del Morpurgo e l'infondatezza della sua identificazione. Qualche anno prima infatti il Rejna (p. 166) aveva provato che il testo della cronaca padovana su cui si era basato quello studioso non era l'originale di Giambono d'Andrea dei Favafoschi, ma un rifacimento di poco più tardo. Il Belloni poté quindi sostenere che l'indicazione attestante il primato nell'attività usuraria di Vitaliano non potesse appartenere all'originale ma fosse un'interpolazione del rifacitore, forse indotto proprio dalla conoscenza dell'episodio dantesco a riconoscere nel figlio di Iacopo il Vitaliano atteso da Reginaldo.

Non è difficile oggi dimostrare su base documentaria la realtà della pratica usuraria da parte di Vitaliano del Dente, e si può esser certi che D. ne fosse a conoscenza (il Dente nel 1303 era divenuto suocero di quel Bartolomeo della Scala presso cui proprio in quel tempo l'Alighieri trovava il primo rifugio e il primo ostello nella via dell'esilio; assieme allo stesso Reginaldo inoltre era creditore, per eredità paterna, nei confronti di Gherardo da Camino, l'indimenticato cortese ospite di D. tra il 1305 e il 1306); ma soprattutto bisogna tener conto del fatto, quasi sempre trascurato dagl'interpreti, che tale personaggio era genero del Reginaldo dell'episodio infernale, per cui sembra piuttosto difficile che D. attribuendo proprio a Reginaldo l'annuncio profetico della dannazione di un Vitaliano, non si rendesse conto di creare un'assurda ambiguità, ove fosse stata sua intenzione alludere non al congiunto dello Scrovegni ma al Vitaliani. Ambiguità emergente dalla logica della Commedia, secondo cui il valore esemplare delle sue figure è in funzione della loro notorietà, e della logica della prima cantica, che si realizza più coerentemente se una denuncia infamante proviene da persona vicina al denunciato. È chiaro che per un lettore contemporaneo informato l'indicazione di Reginaldo dovesse avere un senso univoco, tenendo conto della situazione di parentela e della posizione del Dente, legato per vari aspetti e vicende alle maggiori famiglie del triangolo Padova-Verona-Treviso e giunto a superare " tutti li altri huomini della Marcha... di ricchezze, ezzetuadi li Signori delle città " (Cronaca di Guglielmo Ongarello, ms. 1403 della biblioteca Comunale di Verona, c. 429 verso).

E così l'episodio del canto XVII nel suo insieme da una parte acquistava in potenza espressiva, contenendo una denuncia così clamorosamente impietosa e beffarda, dall'altra si caricava di valore funzionale, giocando, primariamente, come denuncia delle pratiche usurarie di Fiorentini e Padovani, associati nel giudizio divino come lo erano storicamente nella realtà dei legami di affari del tardo Duecento e del primo Trecento (Davidsohn, Storia V 259, VI 856-857) e rappresentando quindi uno dei momenti dell' ‛ antipatavinità ' di D. (sottolineata già dal Belloni in D. e Albertino Mussato e, con diversa finezza, da E. Raimondi); secondariamente, come vendetta, quasi in nome del buon Gherardo (non possiamo sapere se vivente), contro i due creditori del comune trivigiano.

Bibl. - G. Morpurgo, I prestatori di denaro al tempo di D., in D. e Padova, Padova 1865, 213 ss.; Rejna, Le origini delle famiglie padovane e gli eroi dei romanzi cavallereschi, in " Romania " IV (1875) 166; G. Biadego, D. e gli Scaligeri, in " Nuovo Arch. Veneto " XVIII (1889) 437-465; A. Belloni, L'usuriere V., in " Giorn. stor. " XLIV (1904); ID., D. e Albertino Mussato, ibid. LVIII (1916); ID., Nuove osservazioni sulla dimora di D. in Padova, in " Nuovo Archivio Veneto " XLI (1921) 83; G. Biscaro, D. e il buon Gherardo, in " Studi Medievali " n.s., I (1928); Zingarelli, Dante 439, 458-459, 950; A. Scolari, Verona e gli Scaligeri nella vita di D., in D. e Verona, Verona 1965; E. Raimondi, D. e il mondo ezzeliniano, in D. e la cultura veneta, Firenze 1966, 56; G. Petrocchi, La vicenda biografica di D. nel Veneto, ibid., 13-27 (rist. in Itinerari danteschi, Bari 1969, 119-141).

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