Vita e opere

Enciclopedia machiavelliana (2014)

Vita e opere

Giorgio Inglese

Nascita e famiglia

Niccolò Machiavelli nacque a Firenze il 3 maggio 1469, nel ‘popolo’ di S. Trinita. Era figlio di Bernardo (→), dottore in legge di modesta condizione economica, e di Bartolomea de’ Nelli (→). Nonostante l’antichità e il prestigio del cognome, il ramo di Bernardo e Niccolò non era qualificato per la partecipazione al Consiglio maggiore della Repubblica. Su Bernardo gravava poi una diminuzione sociale di natura non chiara – nascita non legittima o infedeltà fiscale – che almeno in un’occasione fu contestata a Niccolò (Biagio Buonaccorsi a M., 28 dic. 1509: «una notificazione [...] conteneva che per esser nato voi di padre etc., non potete a modo alcuno esercitare lo officio che voi tenete», Lettere, p. 208). M. ebbe due sorelle più grandi, Primavera (1465-1500) e Margherita, nata nel 1468, e un fratello minore, Totto, ecclesiastico (m. 1522). Nell’autunno 1501 sposò Marietta Corsini (→), dalla quale ebbe Primerana, Bernardo (→), Lodovico (1504-1530), Guido (→), Piero (→), Bartolomea (Baccina) e Totto (1525?). Sono noti due testamenti di M.: il primo, del 22 novembre 1511, nomina Marietta curatrice dell’intero patrimonio, e, in mancanza di lei, curatori Francesco Del Nero e Filippo Casavecchia; il secondo, del 27 novembre 1522, distinguendo l’eredità fra Marietta e i quattro figli maschi, permette di censire il patrimonio di M. (una casa a Firenze; boschi, poderi e case a Sant’Andrea in Percussina; un bosco all’Impruneta). Negli autografi, la forma volgare del cognome è Machiavegli, con la grafia [ch] per la velare di grado forte e la palatalizzazione di [lli] in [gli]; la firma latina era Nicolaus Machiavellus.

Adolescenza e giovinezza

Secondo il Libro dei ricordi del padre, relativo agli anni 1474-87, Niccolò studiò grammatica dal 1476, abaco dal 1480, e dal 1481 seguì le lezioni di latino di ser Paolo Sasso da Ronciglione, professore di ‘grammatica’ nello Studio fiorentino. Dalla medesima fonte si ricava che, fin dall’adolescenza, M. poteva frequentare storici come Giustino e Livio, una non identificata stampa del quale risulta che Bernardo avesse ricevuta in compenso per la compilazione di un corposo indice toponomastico degli Annales ab urbe condita. Bernardo possedeva anche un esemplare delle Deche di Biondo Flavio; il volume, recentemente identificato, reca scarni notabilia di mano di M. (Martelli 1990). Bernardo era in relazioni abbastanza strette con il cancelliere Bartolomeo Scala (→), e quindi, almeno indirettamente, con gli Adriani, padre e figlio (Virgilio e Marcello): questo l’ambiente in cui si formò M., il quale inoltre, nel 1492-94, dovette intrecciare qualche rapporto con Giuliano di Lorenzo de’ Medici. Non si spiegherebbe altrimenti perché, nella disgrazia del 1513, proprio a lui chiedesse e da lui ottenesse aiuto (cfr. il sonetto “Io ho, Giuliano, in gamba un paio di geti”, e la lettera del 18 marzo 1513 a Francesco Vettori). Può essere dunque Giuliano il «giovanetto giulìo» e «celeste» destinatario di due componimenti, che per lo stile impacciato e poco originale si vorrebbero ascrivere alla giovinezza di M.: il capitolo pastorale in terza rima “Poscia che all’ombra sotto questo alloro” e la canzone a ballo “Se avessi l’arco e le ale”. I due testi, accomunati dall’assimilazione, vagamente omoerotica, del destinatario a Ganimede (“Poscia...”, v. 81; “Se avessi...”, v. 21; assimilazione plausibile, se Iacinto [“Poscia...”, v. 24] è l’adolescente Iuliano del 1492-94, ma inconcepibile come diretta a Lorenzo, duca d’Urbino, secondo l’ipotesi di Martelli 2001, pp. 252-53, o al Giuliano trentaquattrenne del 1514, come suggerisce Godman 1998, p. 236), sono compresi in una silloge poetica imperniata su testi di Lorenzo il Magnifico che Biagio Buonaccorsi compilò nell’attuale ms. Laur. 41.33 (la cui datazione è discussa: fine Quattrocento secondo Emanuele Casamassima, riferito in Casadei 1987, p. 449). Qui si trovano, di M., anche i due strambotti “Io spero e lo sperar cresce ’l tormento” e “Nasconde quel con che nuoce ogni fera” («stanze» machiavelliane musicabili sono ricordate in una lettera di V[espucci?] a M. del 24 apr. 1504) e il sonetto amoroso “Se sanza a voi pensar solo un momento”. Di tutt’altro tenore, e altra tradizione manoscritta, sono il sonetto burchiellesco al padre, “Costor vivuti sono un mese o piue” (certo anteriore, e probabilmente di molto anteriore, al 1500), e il canto carnascialesco “Le pine” (per altri minuscoli frammenti poetici, di M. o a lui attribuiti, → Rime sparse).

Sulla base di una deformata notizia negli Elogia di Paolo Giovio («constat eum, sicuti ipse nobis fatebatur, a Marcello Virgilio graece atque latinae linguae flores accepisse», ed. a cura di R. Meregazzi, 1972, p. 112), si può ipotizzare che Niccolò frequentasse le lezioni di Marcello Virgilio Adriani (secondo Godman 1998, p. 184, il termine flores è «tecnico» e «caratterizza con precisione il metodo dell’Adriani come professore: prendere brani scelti degli autori antichi e usarli come punto di partenza per disquisizioni etiche e politiche»), come docente privato oppure, dopo il 25 ottobre 1494, come professore di poetica e retorica allo Studio; non c’è tuttavia alcuna prova che M. abbia mai potuto leggere il greco. A questa fase sembra appartenere una lettura filosoficamente impegnativa come quella di Lucrezio, documentata dal ms. Vaticano Rossiano 884, copia autografa e firmata del De rerum natura e dell’Eunuchus terenziano. Una recente ipotesi assegna alla stessa epoca anche il volgarizzamento dell’Andria (→), prima stesura. Per la sua competenza di letterato, Niccolò fu incaricato di redigere, a nome dell’intera Maclavellorum familia, una supplica, datata 2 dicembre 1497, al cardinale Giovanni Lopez nell’occasione di una lite con la famiglia Pazzi per il patronato della chiesa di S. Maria di Fagna; è questo il suo più antico autografo datato, e l’‘autografia’ è anche espressiva, nelle parole d’esordio: «Tutte le cose che dagli uomini in questo mondo si posseggono, el più delle volte [...]». Un testo acefalo, in latino, che sembra attinente al medesimo affare, si trova nell’Apografo Ricci, attribuito al nostro Machiavelli.

Il 1494 è l’anno ‘orribile’ in cui la discesa in armi di Carlo VIII (29 ag. 1494 - 16 sett. 1495) inaugura le guerre d’Italia. Espulsi i Medici da Firenze (9 nov.) e affermatasi l’autorità di Girolamo Savonarola, M. sembra vicino a quei settori dell’aristocrazia che, dopo una fase di ambiguo consenso, passarono all’opposizione aperta nei confronti del Frate (cfr. F. Guicciardini, Storie fiorentine xiii). Un tono di sprezzante ostilità verso Savonarola, di fatto già sconfitto, si coglie infatti nella lettera del 9 marzo 1498 a Ricciardo Becchi, prelato di curia a Roma. Siffatti legami spiegano forse come sia avvenuto che, entrato in concorso fin dal febbraio per un minore ufficio, subito dopo il supplizio del Savonarola (23 maggio) M. fosse designato (28 maggio) e nominato (19 giugno) segretario della seconda cancelleria (→ cancelleria della Repubblica fiorentina). Dal 14 luglio fu anche segretario dei Dieci, magistratura deputata alla guerra e alla sicurezza nel dominio. È comunque probabile che la nomina fosse favorita da Marcello Virgilio Adriani, che dal 16 febbraio era primo cancelliere.

Segretario fiorentino (1498-1506). L’attività ufficiale di M. quale segretario è documentata da un’imponente mole di scritti, per lo più corrispondenza tenuta in nome degli organi di governo centrali con i funzionari e i comandanti militari sparsi per il dominio di Firenze (una gran parte dei documenti è riferibile alla guerra per la riconquista di Pisa, che si era ribellata nel 1494 profittando della crisi di regime). Ma è anche più importante, per quella «esperienza delle cose moderne» che viene rivendicata nella prima pagina del Principe, il servizio diplomatico che a M. toccò svolgere presso le principali corti italiane e straniere con la qualifica di ‘mandatario’ del governo (non con quella politica di ‘oratore’). Poteva inoltre avvenire che a M. venissero richiesti, da membri della Signoria o di organi assembleari, speciali rapporti su questioni del dominio, ovvero sui risultati delle missioni oltre confine. Nel piccolo mondo della cancelleria, che M. animò per quattordici anni, spiccano i nomi di Agostino Vespucci, di cui restano alcune, divertenti, lettere al Segretario, e di Biagio Buonaccorsi (→), modesto letterato in proprio e anche copista di scritti machiavelliani. L’amicizia fraterna, e quasi gelosa, di Blasius per Niccolò si può seguire in un buon numero di lettere, dal 19 luglio 1499 al 27 agosto 1512.

La prima missione diplomatica di M., di cui si abbia notizia, è quella che lo portò a incontrare il signore di Piombino, Iacopo IV d’Appiano, a Pontedera (24 marzo 1499), per discuterne la retribuzione quale condottiero della Repubblica nella guerra per Pisa. Anche il più antico dei cosiddetti scritti politici minori di M., un breve Discorso sopra Pisa, è dedicato al modo di riconquistare la città ribelle: fu scritto forse in preparazione della consulta del 2 giugno, e vuol mostrare l’inderogabile necessità di usare la forza per «riavere Pisa». Dal 15 al 24 luglio (le credenziali sono datate 12) M. soggiornò presso Caterina Sforza Riario, contessa di Forlì, per trattare la riconferma di una condotta a Ottaviano Riario; il Segretario ottenne di rinnovare la condotta a condizioni più favorevoli per Firenze, senza però troppo impegnare la Repubblica in difesa di Caterina.

Il 13 agosto 1499 le forze del nuovo re di Francia, Luigi XII, portarono l’attacco al Milanese, che venne rapidamente occupato. I fiorentini sottoscrissero con il re nuovi patti d’alleanza (12-15 ott. 1499), piuttosto gravosi, anche per ottenerne sostegno nella guerra pisana. Dal 10 giugno all’11 luglio 1500, M. fu al campo, al seguito dei commissari Giovan Battista Ridolfi e Lucantonio degli Albizzi; poté così assistere al disastroso sbandamento dei guasconi condotti da Charles de Beaumont (7 luglio) e al successivo sequestro dell’Albizzi (9-10 luglio) da parte dei mercenari svizzeri. Sulla spinta di tali eventi, Francesco Della Casa (con M. al fianco) fu inviato in corte di Francia per richiedere all’alleato un maggiore impegno bellico e, contemporaneamente, contenere le sue esose richieste di tributi. La missione di M. durò dal 17 luglio 1500 (data delle credenziali) al gennaio 1501 («Nicolaus reversus est die xiiii januarii»; dal 26 settembre al 24 novembre, ultimo documento prima del viaggio di ritorno, le lettere ai Signori sono firmate dal solo M., essendosi ammalato il Della Casa), e gli permise di mettere alla prova, sulla scena della grande politica internazionale, le meditazioni certo già scaturite dalle letture sulla virtù degli antichi. Spicca l’ammonimento a seguire l’esempio di quanti «hanno per lo addrieto volsuto possedere una provincia esterna» (insomma, dei Romani antichi), rivolto al cardinale Georges d’Amboise, ‘primo ministro’ di Luigi XII, registrato nella lettera del 21 novembre 1500 (LCSG, 1° t., pp. 519-26), e ripreso, quasi alla lettera, nel cap. iii del Principe. Sul piano della politica estera, nella situazione del 1500-01, era molto importante per la Repubblica valutare la probabilità che la tensione tra Francia e impero per le sorti di Milano (in diritto, feudo imperiale) sboccasse in una guerra: al tema è infatti dedicata la relazione stesa da M. al rientro, Discursus de pace inter imperatorem et regem, che conclude per la pace «ad 80 per 100». Riportando un colloquio, non si sa se reale o fittizio, con un personaggio della corte, M. ha anche modo di abbozzare le linee di un giudizio sulla monarchia di quel Paese, quale emergeva dalla distruzione delle grandi potenze feudali. Sono legate a questo soggiorno francese anche diciannove brevi notazioni, psicologiche e politiche, De natura Gallorum (incrementate nel 1503).

L’occupazione francese di Milano aveva aperto la strada, fra l’altro, alla campagna di Cesare Borgia in Romagna: dalla conquista di Imola, 27 novembre 1499, a quella di Faenza, 25 aprile 1501, dopo la quale Cesare assunse il titolo di Dux Romandiolae. Le imprese del duca acuivano l’instabilità di tutta l’Italia centrale, mentre la Repubblica fiorentina doveva fronteggiare sia le minacce dei Medici fuorusciti, sia i tumulti di Pistoia tra Panciatichi (filomedicei, sostenuti da Vitelli e Orsini) e Cancellieri (sostenuti da Bologna); in tale quadro trovano motivazione due incarichi di M., per colloqui con Pandolfo Petrucci (18 ag. 1501) e con Giovanni Bentivoglio (1° maggio 1502). Il Segretario fu a Pistoia nel luglio e nell’agosto del 1501, e nuovamente a ottobre per controllare la tenuta della pace imposta dalla Repubblica (cfr. la lettera del 26 ottobre Commissariis Pistorii, LCSG, 2° t., pp. 198-202). Compose, forse, per il carnevale del 1502 (2-8 febbr.) il canto dei “Diavoli iscacciati di cielo” e venuti a «prendere il governo» di Firenze (Ponte 1967; il canto fu pubblicato, adespoto, in un volumetto di Laude devote, stampato da Zanobi della Barba tra il 1507 e il 1515). In vista della consulta del 22-23 marzo 1502, scrisse una relazione informativa De rebus pistoriensibus (→).

Fatto gravissimo, il 4 giugno Arezzo si rivoltò, spalleggiata da Vitellozzo Vitelli, e seguita dall’intera Val di Chiana. Dal 22 dello stesso mese (data delle credenziali), M. coadiuvò il vescovo di Volterra Francesco Soderini nell’ambasciata a Cesare Borgia, allora impadronitosi di Urbino. Forte del successo, il Valentino («molto splendido e magnifico e animoso», lo descrive M. nella lettera del 26 giugno, LCSG, 2° t., p. 247) fece in quell’occasione inaudite pressioni su Firenze, chiedendo addirittura un mutamento del suo governo; tanto che il Soderini rimandò M. (26 giugno) perché riferisse subito alla Signoria. In realtà, la posizione del duca era piuttosto fragile, sia nei riguardi dei suoi luogotenenti (Vitellozzo Vitelli, Oliverotto Euffreducci, Paolo Orsini gli si sarebbero rivoltati contro alla fine di settembre), sia nei riguardi dell’alleato francese (nel luglio, il contrasto con gli spagnoli per la spartizione del Regno di Napoli sarebbe sfociato in guerra).

Rientrato a Firenze, M. continuò a seguire la guerra pisana, allora affidata ad Antonio Giacomini Tebalducci, e i fatti di Arezzo (occupata dai francesi il 1° ag., riconsegnata alla Repubblica il 27 dello stesso mese), mentre l’assetto politico interno si consolidava con l’elezione di Piero Soderini, fratello di Francesco, quale gonfaloniere perpetuo (22 sett.; entrò in carica a novembre). M. si legò a lui di sincera fedeltà, fino a diventarne il più fidato collaboratore (cfr. F. Guicciardini, Storie fiorentine xxvi; e B. Cerretani, Ricordi, a cura di G. Berti, 1993, p. 214: «era come una spia del gonfaloniere»), senza che ciò gli impedisse di censurarne la scarsa risolutezza: accanto ai giudizi formulati in Discorsi III iii è da porre l’epitaffio satirico “La notte che morì Pier Soderini”, di data incerta, ma comunque in vita di Piero (cfr. Carrai 1985-1986). E già il 6 ottobre partiva, da solo, per una missione delicatissima: andare «a trovare ad Imola» il duca Valentino e offrirgli il sostegno di Firenze (nel quadro dell’alleanza francese) contro la lega dei condottieri ribelli, cui si erano associati Giampaolo Baglioni e Pandolfo Petrucci. Poté così assistere al capolavoro di astuzia e crudeltà grazie al quale il Borgia liquidò i suoi nemici, e anche i meno fidati tra gli amici (come Ramiro de Lorqua).

Il fatto di Senigallia (31 dic.) si trova descritto a caldo da M. in una lettera (scritta poco dopo il 14 gennaio 1503 e giuntaci priva di conclusione e indirizzo, LCSG, 2° t., pp. 554-58), che anticipa la più meditata narrazione del Modo che tenne il duca Valentino per ammazzar Vitellozzo, Oliverotto da Fermo, il signor Paolo e il duca di Gravina Orsini in Senigaglia, redatto all’incirca nel 1514.

Rientrato il 23 gennaio, tornò al servizio quotidiano (interrotto solo da una breve commissione a Siena, 26-28 apr. 1503, per mantenere un filo di contatto con il Petrucci), che gli lasciò tempo e modo per comporre due notevolissime prose consultive: le Parole da dirle sopra la provvisione del danaio, datate «1503 marzo» sull’autografo, composte probabilmente per Piero Soderini in vista della consulta del 28 marzo (per motivare la nuova legge tributaria, vi si fissa il principio che «sanza forze, le città non si mantengono, ma vengono al fine loro», § 10, SPM, p. 447); e il discorso sul Modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati, forse un rapporto al gonfaloniere databile al luglio successivo, impostato sul parallelismo tra il savio comportamento dei Romani contro i Latini ribelli e l’atteggiamento incerto dei fiorentini nei confronti di Arezzo: la storia insegna che «i popoli ribellati si debbono o beneficare o spegnere, e che ogni altra via sia pericolosissima» (§ 25, SPM, p. 463).

Nell’estate del 1503, la minaccia del Valentino su Firenze si faceva più stringente (cfr. Principe vii 3536), al punto da spingere la Repubblica a una mobilitazione militare nei territori dell’Appennino tosco-emiliano (cfr. la lettera del 28 luglio 1503 ad Antonio da Filicaia e altri funzionari). Ma, all’improvviso, il 18 agosto 1503, Alessandro VI morì e il Valentino rimase quasi ucciso, avendo padre e figlio – narra Francesco Guicciardini – bevuto per errore il vino avvelenato che avevano preparato a un ospite. Dopo la brevissima transizione del papato di Pio III (22 sett. 18 ott.), si riaprì il conclave. Il 24 ottobre M. partì per Roma, dove rimase fino al 18 dicembre, con la missione di sostenere, per quanto possibile, la candidatura di Georges d’Amboise, e comunque di spingere la curia a contrastare le iniziative veneziane in Romagna. Poté assistere all’elezione di Giuliano Della Rovere (Giulio II), e vide e commentò lucidamente gli errori del duca in quella, pur difficilissima, congiuntura (cfr. la lettera del 14 nov.). Il soggiorno romano dette anche a M. l’occasione di consolidare l’amicizia con Francesco Soderini (divenuto cardinale il 31 maggio), il quale, per sancirla, si fece compare di battesimo del figlio di Niccolò, Bernardo, nato l’8 novembre.

Il 1° gennaio 1504, con la caduta di Gaeta, si completava la vittoria spagnola nel Regno; pochi giorni prima (28 dic.), Piero de’ Medici era morto combattendo, dalla parte dei francesi, sul Garigliano. Il 19 gennaio (data della commissione), incaricato di tutelare gli interessi della Repubblica nella definizione della tregua imminente con la Spagna, M. partì per Lione – dove già si trovava, come ‘oratore’, Niccolò Valori; ratificata la tregua, il 1° marzo si mise in viaggio per rientrare in patria. Il 2 aprile svolse una delicata ricognizione a Piombino, minacciata dai senesi. Dall’estate del 1504 fino alla successiva M. fu impegnato quasi esclusivamente nelle vicende della guerra in Toscana (compreso l’infelice tentativo di deviare l’Arno per lasciare Pisa in secco, 15 ag. - 15 ott. 1504). Fanno eccezione il viaggio a Cortona (911 apr. 1505) per incontrare Giampaolo Baglioni e decifrarne l’atteggiamento nei confronti della Repubblica; una missione a Mantova, di cui è rimasta scarsissima documentazione (data del mandato: 4 maggio); una legazione a Siena, dai cui carteggi (1724 luglio) si trae un penetrante ritratto del Petrucci e, più in generale, una lezione di raffinato realismo diplomatico. Pur essendo fallito il tentativo di accordarsi con il signore di Siena, la Repubblica riuscì a fermare una spedizione di Bartolomeo d’Alviano, che moveva in aiuto ai pisani; la bella vittoria sul campo di San Vincenzo, il 17 agosto, si accredita alla regia politica di M. (cfr., per es., la lettera del 16 ag.) e all’abilità strategica di Antonio Giacomini.

Intanto, il quadro della politica interna fiorentina si era animato. Nel corso del 1504 «si cominciò a dividere la città, da una parte Pietro Soderini [...] da altra molti uomini di qualità, de’ quali si facevano più vivi e’ Salviati, e di poi Giovan Batista Ridolfi» (F. Guicciardini, Storie fiorentine xxv). Il conflitto si inasprì intorno ai temi militari, in particolare intorno al progetto di una milizia ‘propria’ della Repubblica, una ‘ordinanza’ formata da cittadini e sudditi. Al progetto erano fortemente avversi coloro che paventavano un eccessivo rafforzamento del gonfaloniere, e addirittura che questi «adoperassi [i battaglioni] a occupare la libertà» (F. Guicciardini, Storie fiorentine xxvi). M. intervenne in prima persona a sostegno dell’ordinanza, con il poemetto in terzine dantesche Compendium rerum decemnio in Italia gestarum. La vivacissima cronistoria degli anni 1494-1504 tutta si risolveva, rivelando il proprio senso politico, nell’appello finale: «ma sarebbe il cammin facile e corto / se voi il tempio riaprissi a Marte». L’operetta era compiuta nell’ottobre 1504 e presentata, in un tentativo di captatio benevolentiae, al più influente capo del partito ottimatizio, Alamanno Salviati; la lettera di dedica è datata 9 novembre sul ms. Laurenziano 44.41, di mano di Luca Fabiani (→). M. curò personalmente una limitata diffusione per copie manoscritte; un esemplare autografo fu destinato, con ogni probabilità, a Roberto Acciaiuoli (→). Il poemetto venne dato alle stampe solo nel febbraio 1506, con il titolo volgarizzato Decennale, senza dedica (nel frattempo il contrasto tra il gonfaloniere e il Salviati si era incattivito), ma preceduto da un’epistola di Agostino Vespucci ‘ai Fiorentini’. Secondo Vespucci, il poemetto andava considerato come ‘arra’ di un più impegnativo lavoro storiografico in prosa. Indizio di un certo successo può essere considerata la ristampa pirata che subito comparve (cfr. lettera di Vespucci a M., 14 marzo 1506; → tipografia fiorentina).

Nonostante il convinto sostegno del cardinale Soderini (cfr. lettere a M. del 27 genn. e del 26 ott. 1504), soltanto dopo l’ennesimo fallimento dei mercenari sotto Pisa (8-15 sett. 1505) si poté dare inizio al reclutamento in Mugello e all’addestramento dei primi contingenti («una impresa da riformare una provincia»: lettera ai Dieci, 2 genn. 1506, LCSG, 5° t., p. 252), che M. curò personalmente (dic. 1505 marzo 1506). La prima rassegna, di 400 fanti, si svolse il 15 febbraio 1506; con grande scandalo degli ottimati fiorentini, il 1° aprile fu assunto quale ‘capitano del distretto e contado’ don Miguel Corella, il famigerato Micheletto, luogotenente e boia del Valentino. Nonostante i pessimi risultati delle prime prove in combattimento (luglio), l’arruolamento continuò fino a raggiungere le 5000 unità all’inizio di novembre. La provvisione definitiva fu votata il 6 dicembre 1506, sulla base di un documento politico-tecnico steso da M. a metà settembre (La cagione dell’Ordinanza), interessante anche per la chiarezza e solennità delle premesse politiche («chi dice imperio, regno, principato, repubblica, chi dice uomini che comandono [...] dice iustizia e armi. Voi della iustizia ne avete non molta, e dell’armi non punto», §§ 2-3, SPM, p. 470).

Nell’agosto 1506, Giulio II decise di dare il via alle operazioni «per purgare le terre della Chiesa da e’ tiranni» (M. ai Dieci, seconda lettera del 28 sett. 1506, LCSG, 5° t., p. 489), e, in particolare, per ristabilire la piena autorità di Roma su Perugia e Bologna. Il governo fiorentino volle fornire all’impresa un sostegno formale, ma poco impegnativo nel concreto. Dal 25 agosto (data delle credenziali) al 26 ottobre 1506 (ultima lettera) toccò a M. unirsi alla corte papale in marcia attraverso l’Umbria e la Romagna. Giulio entrò a Perugia il 13 settembre, e a Bologna l’11 novembre. Da un evento cruciale in quella spedizione – l’imprevista resa del ‘tiranno’ perugino Giampaolo Baglioni al male armato Giulio (cfr. Discorsi I xxvii; la sostanziale correttezza della valutazione di M. esce confermata dall’analisi di Sergio Bertelli, in N. Machiavelli, Legazioni e commissarie, 2° vol., 1964, pp. 941-44) – traggono spunto i famosi Ghiribizzi al Soderino, epistola responsiva di M. a Giovan Battista Soderini, la cui missiva è datata 12 settembre. Vi si teorizza che solo il felice «riscontro», fra il «modo di procedere» dell’uomo e la «qualità dei tempi» in cui ci si trovi a operare, dà luogo alla vittoria; ma poiché gli uomini, osserva M., «non mutono [...] e’ loro modi di procedere», la teoria giunge a contemplare la crisi della razionalità politica: «non consigliar persona, né pigliar consiglio [...] eccetto [...] che ognun facci quello che li detta l’animo e con audacia» (Lettere, pp. 135-38). Probabilmente, la lettera (di cui è nota la tormentata minuta autografa) non fu mai spedita, ma la sua materia passò in gran parte nel coevo capitolo “Di Fortuna”, in terzine, indirizzato al medesimo Soderini; e di qui, con sensibili aggiustamenti, nel cap. xxv del Principe e in Discorsi III ix.

Cancelliere della milizia (1507-12). Nominato il 12 gennaio 1507 cancelliere dei Nove ufficiali dell’ordinanza e milizia fiorentina, M. si occupò ancora del reclutamento nel contado (marzo-aprile). Ma incombeva la minaccia del passaggio in Italia del re dei Romani Massimiliano d’Asburgo; se questi fosse davvero comparso nella penisola, avrebbe offerto una sponda agli avversari della Francia: e tali erano virtualmente, in quanto opposizione al governo soderiniano, gli ottimati fiorentini. M. fu designato, in giugno, per osservare la Dieta imperiale a Costanza, ma subito «cominciorono a gridare molti uomini da bene che e’ si mandassi altri» (F. Guicciardini, Storie fiorentine xxviii), sì che fu inviato, invece di M., Francesco Vettori. Sembra che M. si risentisse per essere stato debolmente difeso da Piero Soderini (cfr. la lettera di Filippo Casavecchia a M., 30 luglio 1507); e appartiene forse a questi tempi un capitolo in terzine a Giovanni Folchi, intitolato appunto all’“Ingratitudine”. In estate, M. si portò a Siena (10-14 ag.), dove era atteso Giulio II; era stato inviato in cerca di informazioni, ma il frutto fu scarso.

Solo in dicembre il gonfaloniere riuscì a far partire per il Tirolo anche M., sia pure con la funzione ufficiale di «mero cancellieri» di Vettori: era infatti troppo importante che fossero valutate con esattezza la possibilità e la pericolosità, per Firenze, di una discesa in Italia di Massimiliano in opposizione ai veneziani, anzitutto, ma anche ai francesi (la reazione degli antisoderiniani alle ‘fredde’ lettere di M. è testimoniata da B. Cerretani, Storia fiorentina, a cura di G. Berti, 1994, p. 160). Per evitare i territori veneziani, M. prese «la via di Ginevra» (dove arrivò il 25 dic.) e raggiunse la corte imperiale a Bolzano l’11 gennaio, passando per Friburgo (qui raccolse notizie sull’assetto politico-militare degli svizzeri: cfr. lettera del 17 genn. 1509), Sciaffusa e Innsbruck. Vettori e M. trattarono con Massimiliano (che proprio in quei giorni, il 10 febbr., assumeva il titolo di imperatore) l’entità della taglia che Firenze avrebbe dovuto pagare per non essere considerata ostile all’impero. Le discussioni si trascinarono senza risultato (ma intanto, fra M. e Vettori si stabiliva un rapporto amicale destinato ad acquisire, nella vita del primo, un rilievo decisivo). Quando gli asburgici, battuti sul campo, e i veneziani siglarono una tregua (proclamata l’8 giugno), M., adducendo anche ragioni di salute, poté lasciare la missione (10 giugno). Rientrato a Firenze, per la più breve via di Bologna, stese un Rapporto di cose della Magna (17 giugno) in cui sono appunto messi in luce i limiti politici e personali di Massimiliano e, soprattutto, il difetto strutturale, la ‘disunione’, che teneva la Germania in stato di inferiorità rispetto a Francia e Spagna. In seguito, M. ripigliò l’argomento nella tarda estate del 1509 (15 ag. - 4 sett., Discorso sopra le cose della Magna e sopra l’imperatore) e infine nel 1511-12 (Ritratto delle cose della Magna).

Tornato ai suoi uffici militari (lo distrasse forse, per un momento, la composizione del Canto de’ ciurmadori, il cui autografo è databile al carnevale del 1509 [14-20 febbr.], come suggerisce Martelli 1978, pp. 413-14), M. ebbe parte notevole nella riconquista di Pisa: sovrintese alle operazioni, condusse trattative (missione a Piombino, 14-15 marzo: M. riesce a insinuare una divisione entro la delegazione pisana, fra l’ambasciatore e il portavoce del contado), redasse una sintesi del piano di battaglia (Provvedimenti per la riconquista di Pisa, 28-31 marzo), e controfirmò la resa della città (4 giugno 1509). Era quello, in effetti, il culmine delle fortune della Repubblica fiorentina, e dello stesso Machiavelli. «Ogni dì vi scopro el maggiore profeta che avessino mai gli Ebrei o altra generazione», gli scrive allora, in una curiosa lettera di congratulazioni, l’amico Filippo Casavecchia (17 giugno, Lettere, p. 190). Da allora, la strada sarebbe stata tutta in salita – fino al precipizio conclusivo.

Il 10 dicembre 1508 a Cambrai era stata formata la lega europea contro Venezia. Il successivo 14 maggio l’esercito al soldo di San Marco, comandato da Niccolò Orsini e Bartolomeo d’Alviano, subì la durissima sconfitta di Agnadello (nota anche come battaglia di Vailate, o della Ghiara d’Adda), in seguito alla quale la terraferma veneta cadde nelle mani di francesi e imperiali. Ma già nel luglio la reazione di Venezia si dimostrava forte ed efficace. Così quando, nel novembre-dicembre, M. si recò a Mantova, presso la marchesa Isabella d’Este (15-21 nov.; il marito, Francesco Gonzaga, era caduto prigioniero dei veneziani), e poi a Verona (22 nov. - 10 dic.) come latore di un tributo a Massimiliano, poté constatare l’impotenza e la consueta inconcludenza dell’imperatore, l’incerta strategia del re di Francia e l’ostinata e rabbiosa dedizione dei contadini veneti alla causa della Dominante (lettera del 26 nov.). Al soggiorno veronese appartengono anche la stupenda lettera dell’8 dicembre a Luigi Guicciardini (con la descriptio della pestilenziale puttana la cui bocca «somigliava a quella di Lorenzo de’ Medici, ma era torta da uno lato», Lettere, p. 206) e, probabilmente, il capitolo “Dell’Ambizione”, al medesimo destinatario.

Raggiunto l’obiettivo di fiaccare la potenza veneta e arrestarne definitivamente l’espansionismo, Giulio II passò alla fase successiva del suo disegno, rovesciando contro i francesi il gioco delle alleanze. Il 15 febbraio 1510 il papa e Venezia firmarono la pace. Il 24 giugno M. partì per una terza missione in Francia, con il mandato di convincere Luigi a «non rompere col papa». Il 17 luglio raggiunse, a Blois, la corte, che, dopo la morte di Georges d’Amboise (25 maggio), era diretta dal tesoriere Florimond de Robertet. M. si trovò a fronteggiare una stringente richiesta di fedeltà alla Francia, mentre le ipotesi di pacificazione erano di fatto vanificate dall’aggressività di Giulio II verso gli Estensi, alleati dei francesi. Le lettere di M. al governo fiorentino insistono sulla assoluta necessità di compiere scelte chiare, evitando gli enormi rischi di una posizione incerta o neutrale fra le due parti in lotta (cfr. in particolare la lettera del 9-10 ag.). Dopo il rientro (19 ott.), anche stavolta M. prese a elaborare la sua «esperienza», e scrisse un Ritratto di cose di Francia (lasciato, imperfetto, dopo il 1512) molto ricco di dati: soprattutto, vi è limpidamente individuata, nel solido controllo della casa reale sui baroni, la principale «cagione» della potenza francese. Pure fra il 19 ottobre e il 7 novembre, scrisse un Discorso sulla milizia a cavallo (frammento di un abbozzo), aspramente polemico con gli oppositori interni.

La posizione della Repubblica fiorentina, stretta fra le pressioni di un alleato lontano e di un nemico vicino, si faceva in effetti sempre più difficile. A M. toccarono servizi diplomatici delicati (Siena, 2-4 dic.), oltre che nuove incombenze militari, come la sistemazione di fortezze (Pisa, Arezzo, Poggio Imperiale) e il reclutamento della cavalleria (redige il testo della Ordinanza de’ cavalli, deliberata il 7 nov. 1510). L’11 aprile 1511 gli Otto di guardia archiviarono una querela che imputava a M. la sottrazione di un documento (Cavallar 1988). Il primo maggio del 1511 si poté fare la prima ‘mostra’ di cento cavalleggeri. Non ebbe successo, invece, la proposta machiavelliana di assumere Iacopo Savelli come capitano delle fanterie (Ghiribizzo circa Iacopo Savello, 6 maggio 1511). La guerra frattanto continuava con alterne vicende (il 21 genn. 1511 Giulio II prendeva Mirandola, ma il 21 maggio perdeva Bologna); in maggio si consumava la rottura fra il papa e un gruppo di cardinali (Carvajal, Briçonnet, Borgia, Sanseverino e altri), che convocarono un concilio scismatico. Partito il 10 settembre per la Francia, sulla via, a Borgo San Donnino, M. incontrò i cardinali ribelli (13 sett.); giunse a Blois il 22, e vi si trattenne fino a metà ottobre, sempre con il mandato di disporre il re a una politica di pace, ma non ottenne risultati significativi. Appena rimpatriato dovette portarsi a Pisa (2-11 nov.), presso il concilio scismatico, per indurre quei prelati a lasciare il territorio fiorentino: il concilio si trasferì a Milano, ma tanto non valse ad attenuare l’ostilità di Giulio II verso la Repubblica, colpita da interdetto – mentre sempre più si consolidava l’accordo fra il papa e Giovanni de’ Medici, cardinale di S. Maria in Domnica: il secondo figlio maschio di Lorenzo il Magnifico era a capo della famiglia, dopo la scomparsa del fratello maggiore Piero.

I primi mesi del 1512, preparandosi lo scontro decisivo tra le forze francesi e quelle della lega (principalmente spagnole), vedono M. dedito agli estremi preparativi di difesa (reclutamento di fanti, organizzazione della milizia a cavallo). Dopo la terribile battaglia di Ravenna (11 apr. 1512) e il ritiro dei francesi dalla Lombardia (maggio), la Repubblica tentò di trattare con la lega. Il 24 agosto forze militari spagnole passavano l’Appennino in direzione di Barberino. A prescindere dall’impegno di singoli funzionari, come M., il governo fiorentino prese provvedimenti frettolosi e contraddittori (impietosamente narrati da F. Guicciardini, Storia d’Italia XI iii); sì che il giorno 29 le fanterie d’ordinanza dislocate a Prato furono annientate e la cittadina furiosamente saccheggiata. Il 31, M. assisté al drammatico colloquio fra una delegazione di aristocratici, guidata da Paolo Vettori, e Piero Soderini, il quale infine, sotto garanzia di incolumità, accettò di lasciare la carica e la città – e andò a rifugiarsi in Dalmazia, a Ragusa.

Dopo il brevissimo interregno del gonfaloniere Giovan Battista Ridolfi, i Medici presero il potere (16 sett.; una relazione degli eventi si trova nella lettera di M. a un’illustrissima gentildonna che va identificata con la marchesa di Mantova). In questo bimestre, settembre-ottobre, immaginiamo M. in una specie di ozio forzato, che – per pura ipotesi – potrebbe aver ospitato la stesura del ‘ragionamento sulle repubbliche’ cui allude il secondo capitolo del Principe. Alla fine di ottobre, M. scrisse una pagina di Ricordi a Giovanni de’ Medici, per esortarlo alla moderazione («io credo che ’l bisogno della casa vostra sia guadagnarsi amici e non torsegli»; minuta autografa); e un breve, nervoso appello Ai Palleschi (o meglio: a un ‘pallesco’, come suggerisce Bausi 2005, p. 71, identificabile probabilmente in Paolo Vettori), imperniato sull’invito a continuare la linea antiottimatizia del Soderini: ma non era questo l’orientamento destinato a prevalere. Di tutt’altro tono – e ciò non stupisce il lettore di M. – è il sonetto a Giuliano de’ Medici, “Io vi mando, Giuliano, alquanti tordi”, che plausibilmente Francesco Bausi suggerisce di datare all’ottobre-novembre 1512 (e forse piuttosto all’ottobre che al novembre).

Post res perditas (1512-15). L’amara espressione «1512 post res perditas», da tempo e irrevocabilmente fatta propria dai biografi, si legge, di mano di M., aggiunta all’intestazione della Cagione dell’Ordinanza (vedi supra) come appunto archivistico, forse per segnare la data del riordinamento delle carte che M. portò con sé lasciando il Palazzo. Il 7 novembre 1512 M. fu cassato dall’ufficio (prese il suo posto un fedelissimo dei Medici, Niccolò Michelozzi); il 10, condannato a un anno di confino entro il dominio fiorentino (relegatio; cfr. la lettera a F. Vettori del 9 apr. 1513); il 17 gli fu proibito di entrare in Palazzo per un anno. Sospettato di partecipazione alla congiura repubblicana ordita da Agostino Capponi e Pietro Paolo Boscoli (con qualche complicità di due vecchi amici del nostro: Niccolò Valori e Giovanni Folchi), il 12 febbraio 1513 fu arrestato e sottoposto al tormento della fune: ne ebbe sei tratti. Nell’angustia dell’ora cercò aiuto in amici potenti, come i fratelli Paolo e Francesco Vettori, e soprattutto in Giuliano de’ Medici (cui inviò due sonetti: “Io ho, Giuliano, in gamba un paio di geti” e “In questa notte, pregando le Muse”). Mentre Capponi e Boscoli furono mandati a morte (25 febbr.), e Valori e Folchi condannati a due anni di fortezza, agli altri imputati furono inflitti anni di confino o il solo obbligo di dare «sodamento», ossia di pagare una cauzione, quali sospetti oppositori al regime. Non si sa se a Niccolò toccasse il confino o, com’è più probabile, il sodamento (secondo il Cerretani, Ricordi, cit., p. 300, «lo confinorno nelle Stinche in perpetuo»); fatto è che, dopo pochi giorni, uscì senz’altro di prigione grazie all’amnistia seguita all’elezione di Giovanni de’ Medici, papa Leone X, l’11 marzo 1513. M. si ritirò allora nel podere dell’Albergaccio, a Sant’Andrea in Percussina. E qui, mentre pur tentava, contando sul (tiepido) interessamento dei fratelli Vettori, di ottenere qualche incarico dai nuovi governanti, poté dedicare la parte migliore delle sue giornate al colloquio con gli antichi e alla composizione letteraria.

Va dal 13 marzo 1513 al 31 gennaio 1515 il carteggio con Francesco Vettori: studiate epistole ‘familiari’ (una, 4 dic. 1514, è in latino), talora dense di riflessioni sulla politica internazionale, talora vivacissime nella rappresentazione di episodi e personaggi; l’ultima della serie include addirittura il sonetto amoroso “Avea tentato il giovinetto arciere”, per una bella vicina in villa. Nelle lettere si staglia l’autoritratto dell’intellettuale-politico: «la Fortuna ha fatto che, non sapendo ragionare né dell’arte della seta e dell’arte della lana, né de’ guadagni né delle perdite, e’ mi conviene ragionare dello stato, e mi bisogna o botarmi di stare cheto o ragionare di questo» (9 apr. 1513, Lettere, p. 241). «Venuta la sera [...] entro nel mio scrittoio [...] e rivestito condecentemente entro nelle antique corti delli antiqui uomini, dove [...] mi pasco di quel cibo che solum è mio e [...] non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni, e quelli per loro umanità mi rispondono» (è la celeberrima lettera del 10 dic. 1513, Lettere, pp. 295-96).

Coeve alla corrispondenza con il Vettori sono verosimilmente due composizioni di carattere cronistico-storico: il secondo Decennale (incompiuto, narra eventi dal 1505 al 1509; la cupa coloritura dei versi indurrebbe a situarne la stesura in una delle fasi di più acuta disillusione, attraversate da M., tra la fine del 1512 e il 1514) e il memoriale, o novella tragica, sul Modo che tenne il duca Valentino per ammazzar Vitellozzo, Oliverotto da Fermo, il signor Paolo e il duca di Gravina Orsini, di incerta datazione (la bella copia autografa in cui lo si legge è del 1514-17, secondo Paolo Ghiglieri). Al versante del colloquio con gli antichi scrittori si possono ritenere pertinenti anche il breve frammento di volgarizzazione del Libro delle persecuzioni d’Africa di Vittore di Vita (autografo databile al 1514-16), e le otto cosiddette Sentenze diverse, estratte da letture di storia romana (trasmesse dall’apografo Ricci).

La cronologia dell’opera cui più si deve la fama di M., universalmente nota con il titolo che gli applicò la stampa romana di Antonio Blado (Il Principe, 1532; cfr. comunque l’autocitazione in Discorsi III xlii 8: «nel nostro trattato de principe»), è invece fissata entro termini sicuri: per un verso, la citata lettera del 10 dicembre 1513 («ho [...] composto uno opusculo de principatibus [...] Filippo Casavecchia l’ha visto, vi potrà ragguagliare [...] ancorché tutta volta io l’ingrasso e ripulisco», Lettere, p. 296); per l’altro, il primo documento esplicito della circolazione del testo, la lettera di Niccolò Guicciardini al padre Luigi (29 luglio 1517), in cui si cita il caso di Oliverotto da Fermo «come dice el Machiavello in quella sua opera de principatibus». Altri elementi interni al testo (per es., i «passati venti anni», xxvi 19, contati dalla discesa di Carlo VIII nell’agosto 1494; il riferimento a Luigi XII come «re di Francia presente» in xvi 9 ecc.) e motivi di ordine biografico («la necessità che mi caccia», confessata a Vettori nella famosa lettera) inducono a collocare il completamento dell’opera entro la primavera del 1514. La prima parte (capp. i-xi) spiega quali siano i generi dei principati: ereditari, nuovi, misti di una parte antica e di una nuovamente acquisita; quali i modi di tale acquisto: virtù e forze proprie, fortuna con forze altrui, il delitto, il favore dei concittadini. Dopo i tre capitoli (xii-xiv) dedicati ai diversi tipi di esercito (mercenario, ausiliario, proprio, misto), M. discute le qualità per cui gli uomini di Stato sono lodati o vituperati: contro la tradizione moralistica, l’autore afferma il valore supremo della «verità effettuale» e la necessità di affrontare gli uomini per ciò che sono e non per ciò che si vorrebbe fossero. Infine, spiegato perché i signori d’Italia hanno perso i loro Stati di fronte alle invasioni straniere (cap. xxiv) e riassunta la propria complessa dottrina della fortuna (cap. xxv), M. rivolge un’appassionata esortazione alla casa de’ Medici perché guidi una riscossa italiana contro il «barbaro dominio» di spagnoli e svizzeri. Nonostante la ridotta circolazione, il De principatibus suscitò presto polemiche, come attesta la dedica di Biagio Buonaccorsi a Pandolfo Bellacci, in occasione del dono del ms. oggi Laur. 44.32, databile per indizi convergenti al 1516 («ti mando l’operetta composta nuovamente de’ principati dal nostro Niccolò Machiavelli [...] preparati acerrimo difensore contro a tutti quelli che, per malignità o invidia, lo volessino [...] mordere o lacerare»).

In un primo momento, M. aveva pensato di indirizzare l’opera a Giuliano de’ Medici, fratello minore del papa e gonfaloniere della Chiesa; secondo la tradizione biografica, a tale ipotesi di dedica (e relativa presentazione del libro) era legato ancora il viaggio a Roma cui M. dovette rinunciare nella primavera del 1514 (cfr. la lettera a Francesco Vettori del 10 giugno). Fatto è che il Principe quale noi lo leggiamo si apre con la dedica a un altro Medici, quel Lorenzo di Piero cui Leone X aveva affidato la guida del potere familiare a Firenze. Un certo riscontro positivo tra M. e Lorenzo non dovette mancare: un frammento autografo (un ritratto del Magnifico, in cui «pare che ciascuno cominci a riconoscere in lui la felice memoria del suo avolo»), datato da Roberto Ridolfi al febbraio-marzo 1514, attesta che a M. almeno si schiusero le porte della ‘casa’ di Lorenzo (fu l’occasione per presentare l’opuscolo?). Negli stessi mesi (?) a M. si chiedeva un parere tecnico (Ghiribizzi d’Ordinanza, sulle quali → Ordinanza, Scritti sull’) sulla ricostituzione della milizia (deliberata il 19 maggio 1514). D’altro canto, Giuliano, aspirante a una signoria su Parma, Piacenza, Modena e Reggio, meditava forse di prenderlo al suo servizio (lettera di M. a F. Vettori, 31 genn. 1515; il quadro politico era in movimento, dopo la successione di Francesco I a Luigi XII sul trono francese, 1° genn.). Ma nel febbraio del 1515 dalla corte di Roma, il vero centro del potere mediceo, venne un fermo diniego a ogni riabilitazione (lettera di Piero Ardinghelli, per conto del cardinale Giulio de’ Medici, a Giuliano, con la formale raccomandazione di «non si impacciare con Niccolò»). Si spiegano così l’amarezza e lo sconforto che traspaiono da una lettera di M. al nipote Giovanni Vernacci, figlio di Primavera: «i tempi [...] sono stati e sono di sorte che mi hanno fatto sdimenticare di me medesimo» (18 ag. 1515, Lettere, p. 351).

Gli Orti Oricellari (1516-19). Nel 1516 o 1517, M. si avvicinò a Zanobi Buondelmonti (→) e al gruppo di giovani letterati che si riuniva nei celebri Orti Oricellari, attorno a Cosimo Rucellai. Il tradizionale umanesimo oricellario poteva offrire ospitalità al culto di M. per l’antica repubblica romana, senza però respingere posizioni e personaggi nettamente filomedicei, come il futuro storico Filippo de’ Nerli (a lui M. dedicò, in data imprecisabile, l’epigramma “Dell’occasione”, libera traduzione da Ausonio). La più antica testimonianza di rapporti fra M. e questo ambiente è la lettera del 17 dicembre 1517 a Lodovico Alamanni, ma essa descrive una relazione già solida (dei carteggi del 1516 sono pervenute solo due lettere, una al Vernacci [15 febbr.], cupissima, l’altra a Paolo Vettori [10 ott.], per un modesto servizio a Livorno).

Al Rucellai e al Buondelmonti sono dedicati – ed è questo il dato principale – i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, il capolavoro di M., grandiosa opera di meditazione storico-politica in forma di libera glossa al testo liviano. L’opera è divisa in tre libri, di misura ineguale, cui l’autore attribuisce una caratterizzazione tematica piuttosto debole: il primo libro discorre «sopra quelle cose occorse dentro [Roma] e per consiglio publico»; il secondo, tratta delle deliberazioni «che il popolo romano fece pertinenti allo augumento dello imperio suo»; il terzo, vuole «dimostrare [...] quanto le azioni degli uomini particulari facessono grande Roma e causassino in quella città molti buoni effetti». In realtà, ciascuno dei tre libri risulta dall’aggregazione, a un blocco tematico relativamente coeso, di un certo numero di discorsi-glossa nell’ordine del testo liviano: la sezione tematica del primo libro ha per motivo unificante l’ordinamento della repubblica; quella del secondo libro, l’arte della guerra; quella del terzo, il «riscontro» fra l’individuo e i tempi. Spicca, nel primo libro, il capitolo secondo, costruito sul ripensamento critico del frammento polibiano (VI 3-18) relativo al ‘ciclo’ dei governi e alla costituzione ‘mista’: un testo molto raro, che M. conobbe in una versione latina ancora non identificata con certezza filologica.

Per la storia della composizione dei Discorsi bisogna partire dalla lettera dedicatoria, in cui l’autore afferma di essere stato «forzato» da Rucellai e da Buondelmonti a scrivere «quello che [...] mai per [sé] medesimo non avre[bbe] scritto», dove si deve intendere che dalla «instanza» (F. de’ Nerli, Commentari, 1728, p. 138) di Rucellai (e verosimilmente da suoi emolumenti) dipende la stesura dell’opera in quanto tale, nel suo presente assetto formale. Il più stringente riferimento cronologico interno al testo («pochi giorni sono», II x 11) è infatti quello alla riconquista del ducato di Urbino da parte di Lorenzo de’ Medici, nel settembre 1517. Ma i Discorsi del 1517 presuppongono senza dubbio un cospicuo materiale, su Livio e su altri argomenti di teoria politica, i cui elementi più antichi possono risalire persino alla giovinezza dell’autore (e certamente agli anni del segretariato: basti pensare al discorso sulla Valdichiana o ai Ghiribizzi al Soderino); fra queste carte doveva trovarsi anche il già menzionato ‘ragionamento sulle repubbliche’, corrispondente forse alla materia di Discorsi I i-xviii. Degli autografi, si è salvato solo un minuscolo frammento del primo proemio. Secondo la testimonianza ex auditu di Bernardo Giunti (1531), M. «non bene si sattisfaceva» del testo dei Discorsi, in cui è effettivamente reperibile qualche traccia di incompiutezza; il che non toglie che l’opera abbia circolato fra gli amici dell’autore: per es., F. Guicciardini era in possesso fin dal 1520-21 di un testo dei Discorsi, che commentò parzialmente nel 1529-30.

La vita attiva di M., in questi anni, è pressoché inesistente: si ricorda solo un viaggio a Genova (marzo-apr. 1518), per conto di mercanti fiorentini implicati in un fallimento truffaldino. Il 25 gennaio 1518 scrive a Giovanni Vernacci: «la sorte, poi che tu partisti, mi ha fatto el peggio ha possuto» (Lettere, p. 359). Fervida, invece, è l’attività letteraria: dall’amaro poemetto satirico in terzine l’Asino, incompiuto (è ricordato nella lettera a Lodovico Alamanni del 17 dic. 1517, in curiosa congiunzione con l’Orlando furioso, da poco pubblicato; il poemetto contiene un inciso patentemente antimediceo [I, vv. 50-54], che vincola la datazione e anche spiega il successivo abbandono dell’operetta); alla perfetta Favola antiuxoria di Belfagor arcidiavolo spedito sulla Terra per indagare sulla malizia delle femmine (l’autografo appare coevo a quelli dell’Arte della guerra, 1519-20); da una bella Serenata in ottave, di materia ovidiana (mostra un vago legame tematico con il canto carnascialesco di “Amanti e donne disperati”, in sé non collocabile cronologicamente), alla versione dell’Andria di Terenzio, esperimento ed esercizio di vivace prosa dialogica (una prima stesura della traduzione risale forse alla giovinezza). L’interesse di M. per il teatro – che culminerà nella composizione della Mandragola – è documentato anche dalla sua trascrizione della cosiddetta Commedia in versi dell’amico Lorenzo Strozzi (→ apocrifi). Di altri due testi teatrali machiavelliani, incompiuti, dà notizie il nipote Giuliano de’ Ricci nel suo Priorista: Le maschere (1504?), «ragionamento a foggia di commedia» di imitazione aristofanesca, composto «ad instanzia di m. Marcello Virgilio» (che nuovamente compare come mediatore fra testi greci e M.); e una Sporta, dall’Aulularia di Plauto, i cui frammenti sarebbero stati carpiti e plagiati da Giovan Battista Gelli.

Ancora Rucellai e Buondelmonti, con Battista Della Palla e Luigi di Piero Alamanni, sono interlocutori del protagonista Fabrizio Colonna nei dialoghi De re militari, ambientati nel 1516, più noti come Arte della guerra. Di Cosimo Rucellai si parla, nelle pagine introduttive, con vivo compianto (era morto il 1° [?] nov. 1519); d’altro canto, una trascrizione del testo è registrata, nel Diario di Biagio Buonaccorsi, sotto la data del 15 settembre 1520. In sette libri, l’autore ribadisce la necessità di tornare ai principii dell’arte militare romana, e soprattutto al modello della «popolazione armata» contro l’uso moderno dei mercenari, al predominio della fanteria contro quello della cavalleria e dell’artiglieria.

Ultima stagione ‘medicea’ (1520-27). Dopo la morte del duca Lorenzo (4 maggio 1519), con la quale perdeva d’attualità una prospettiva di principato a Firenze, il cardinale Giulio de’ Medici si stabilì in città, inaugurando un regime «con apparenza di civiltà e di libertà» (I. Nardi, Istorie della città di Firenze, a cura di L. Arbib, 2° vol., 1841, p. 68). In questo clima la diffidenza della famiglia dominante nei confronti di M. parve finalmente attenuarsi: grazie ai buoni uffici di Lorenzo Strozzi, Niccolò fu ricevuto dal cardinale il 10 marzo 1520. All’incirca nello stesso periodo (15-21 febbr.?) fu rappresentata in Firenze la Mandragola, che papa Leone X, subito dopo, volle vedere a Roma (lettera di Battista Della Palla a M., 26 apr. 1520). La copia manoscritta della commedia (Laur. Redi 129) reca la data 1519 (stile fiorentino); la prima stampa, Comedia di Callimaco et di Lucrezia, con il centauro Chirone in frontespizio, è senza note tipografiche (così come la seconda, recante nel frontespizio Omero [?] che suona la viella, attribuita al veneziano Alessandro Bindoni e datata al 1522). La composizione della Mandragola è sicuramente posteriore al 1512, ma verosimilmente di pochissimo anteriore alla rappresentazione del 1520, dati i precisi rapporti testuali con l’Arte della guerra (si cfr. Mandragola IV ix 135 con Arte della guerra II 165, 166 e 243).

Quella che è parsa a molti la migliore commedia del Rinascimento italiano mette in scena la beffa giocata dal parassita Ligurio ai danni dello stolido messer Nicia, che finisce per mettere, con le proprie mani, nel letto della moglie Lucrezia il giovane Callimaco, di lei innamorato. Attraverso una trama serratissima, di estrazione decameroniana, la Mandragola si caratterizza per la rappresentazione grottesca di un mondo affatto spoglio di valori, in cui la spicciola razionalità dei beffatori mette in amara caricatura le «regole» della grande politica. Ai margini della Mandragola si possono perciò situare i Capitoli per una compagnia di piacere (autografo databile al 1519-20), che ridicolizzano gli statuti delle confraternite: il § 9 obbliga le donne «ad andare quattro volte al mese a’ Servi almeno», cioè in quella chiesa dell’Annunziata, dove la mandragolesca Lucrezia fu molestata da un «fratacchione» (III ii 7).

Nell’estate del 1520, M. fu «mandato dalla Signoria» a Lucca (11 luglio - 10 sett.), per negoziati relativi al fallimento di un Michele Guinigi, che coinvolgeva interessi fiorentini (e, in particolare, medicei). Nell’occasione, compose un Sommario delle cose di Lucca (sull’ordinamento politico di quella Repubblica) e un esercizio di prosa storiografica, la Vita di Castruccio Castracani dedicata a Luigi di Piero Alamanni e a Zanobi Buondelmonti (il quale ne dava ricevuta con lettera del 6 settembre, provvista di onorifica soprascritta «A [...] Nicolò Machiavegli segretario»; è notevole l’elenco di quanti avevano letto e «commendata» l’operetta, oltre ai dedicatari: Francesco Guidetti, Iacopo Cattani da Diacceto, Antonfrancesco degli Albizzi, Iacopo Nardi, Battista Della Palla, Pierfrancesco e Alessandro Portinari). La scrittura della Vita era certo collegata al progetto di un incarico, da parte dello Studio fiorentino, per la composizione di una storia della città; Francesco Del Nero (fratello uterino di Marietta Corsini) era provveditore allo Studio dal 1514, ma solo nella nuova situazione poté favorire il cognato. L’8 novembre M. fu «condotto» dallo Studio per due anni, con un magro salario, per comporre «annalia et cronicas florentinas», e sbrigare altre incombenze politico-letterarie («et alia faciendum»; cfr. Ridolfi 1978, p. 285): fra queste si conta anche il parere costituzionale Discursus florentinarum rerum post mortem iunioris Laurentii Medices, del novembre 1520 - gennaio 1521, in cui il M. sosteneva la restaurazione di un regime repubblicano, basato su un Consiglio grande (non però grande quanto quello che i Medici avevano soppresso nel 1512), e temperato dall’autorità suprema riconosciuta al papa e al cardinale Giulio de’ Medici fintanto che fossero vissuti. Una benevola allusione al regime vigente si può cogliere anche nella protestatio de iustitia (→ Allocuzione ad un magistrato), composta per l’insediamento di una nuova magistratura (la Signoria?), il cui autografo è databile al 1520: «Questa Iustizia [...] ancora ha qualche volta abitato la nostra patria [...] e ora anche la mantiene e acresce» (§§ 9-10, SPM, p. 610). Sul versante delle «cose vane», invece, potrebbe situarsi nel carnevale del 1521 (6-12 febbr.) il canto dei “Romiti”, tutto giocato ironicamente sulla ‘profezia’ del diluvio «che debbe venire» (così la lettera del 18 maggio 1521 a F. Guicciardini, Lettere, p. 375).

Lasciata cadere una proposta d’impiego come segretario di Prospero Colonna (lettera di Piero Soderini a M., da Roma, 13 apr. 1521: «[...] meglio che stare costì a scrivere storie a fiorini di suggello», Lettere, pp. 369-70), M. si recò, per conto degli Otto di pratica, al capitolo dei frati minori in Carpi (11-20 maggio), latore della richiesta (accolta due anni più tardi) di costituire un’autonoma provincia francescana fiorentina. Si aggiunse poi l’incarico, da parte dell’Arte della lana, di concertare l’invio a Firenze di fra’ Giovanni Gualberto come predicatore per la successiva quaresima. La trasferta, in verità, è ricordata soprattutto perché in quell’occasione si approfondì l’amicizia fra M. e Francesco Guicciardini, allora governatore di Modena, e tra i due cominciò uno scambio epistolare straordinario per finezza psicologica e vivacità letteraria.

Nell’agosto seguente, M. poté finalmente stampare L’arte della guerra, presso i Giunti di Firenze, con dedica a Lorenzo Strozzi; nel frontespizio, al nome dell’autore fa seguito la dicitura «cittadino et segretario fiorentino», che enfatizza l’esperienza di governo fra i presupposti della competenza tecnico-militare. Il rinnovato interesse per M. può aver portato con sé anche una certa miglior fortuna del Principe, quale è testimoniata dal codice (irreperto) che Biagio Buonaccorsi copiò per Giovanni Gaddi (→) intorno al 15 settembre 1520; dal lussuoso ms. Barberiniano 5093 trascritto da Genesio de la Barrera (→), a Roma nel 1522-23; nonché dal semiplagio, o riscrittura in latino, del mediceo Agostino Nifo (De regnandi peritia, Napoli, 26 marzo 1523).

Il 1° dicembre Leone X morì; dopo un conclave piuttosto contrastato, il 9 gennaio 1522 fu eletto papa Adriano Florisz (Adriano VI), mentre in Lombardia continuavano gli scontri fra imperiali e franco-veneziani; l’augurio che il «nuovo pastore» potesse porre termine al «lungo strazio» della guerra venne tempestivamente formulato da M. nel canto carnascialesco degli “Spiriti beati” (27 febbr.-4 marzo?). Mentre continuava a lavorare per gli annali fiorentini, M. intervenne ancora nel dibattito sulla nuova costituzione da dare a Firenze, ravvivato dalla scomparsa di papa Leone: scrisse un Ricordo al cardinale Giulio e una Minuta di provvisione, dell’aprile 1522, in cui riproponeva in chiave accentuatamente repubblicana alcune ipotesi del Discursus. Ma poco dopo la discussione costituzionale si concluse bruscamente con la scoperta e la repressione di una congiura antimedicea ordita da Zanobi Buondelmonti e Luigi di Piero Alamanni: mentre i due principali imputati scampavano con la fuga, Luigi di Tommaso Alamanni e Iacopo Cattani da Diacceto finirono sul patibolo (6 giugno 1522). Non sembra che l’amicizia con i capi della congiura procurasse fastidi a M.; solo nel giugno del 1526, un tale Niccolò di Lorenzo Martelli testimoniò, fra molte altre cose, che Buondelmonti intendeva arruolare nella cospirazione anche M., ritenuto intimamente avverso ai Medici («Giornale storico degli archivi toscani», 1859, p. 244).

Il quondam Segretario tornò allora a concentrarsi sull’opera letteraria: tolto qualche episodio di scarso rilievo (come la stesura di una Istruzione a Raffaello Girolami sulla tecnica dell’ambasceria, dell’ott. 1522), questo periodo di tempo sembra tutto dedicato alla composizione delle Istorie fiorentine. Il primo libro offre un quadro di storia italiana, da Teodosio al 1434; i libri II-IV narrano la storia di Firenze dalla fondazione al 1434; i libri V-VIII la prolungano fino alla morte di Lorenzo il Magnifico (1492). Tutti i libri tranne il primo si aprono con capitoli di riflessione (II: l’uso di mandare colonie; III: confronto tra la storia di Firenze e quella di Roma antica, fulcro dell’intera opera; IV: confronto tra libertà, licenza e tirannide; V: cause della rovina delle repubbliche; VI: difetti delle guerre moderne; VII: disunione nelle repubbliche; VIII: le congiure, con rimando a Discorsi III vi). I primi quattro libri furono compiuti entro il primo biennio della condotta, ossia prima del dicembre 1522 (caduta dell’isola di Rodi in mano ai turchi, ignorata in Istorie fiorentine I xvii; inoltre, il proemio generale, che dà conto in modo analitico dei soli primi quattro libri, è indirizzato a Iulio Cardinale de’ Medici). Rinnovata, è da credersi, la condotta, i libri quinto-settimo furono terminati verosimilmente prima del 18-19 novembre 1523 (in alcuni codici, o in tutti, sono dedicati al cardinale de’ Medici, che in quella data divenne papa Clemente VII); l’ottavo libro (che in tutti i mss. è dedicato al papa, come al papa è rivolta la dedicatoria dell’opera intera) è lavoro del 1524 (cfr. la lettera del 30 ag. a F. Guicciardini: «attendo in villa a scrivere la istoria [...] arei bisogni di intendere da voi se offendo troppo o con lo esaltare o con lo abbassare le cose», Lettere, p. 389). All’autunno («in questo mio vendemmial negozio...») parrebbe invece risalire un intelligente, bizzarro e diseguale Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua (titolo editoriale, estratto dal ‘cappello’ di Giuliano de’ Ricci alla sua trascrizione del testo; il ms. BNCF, Filza Rinuccini 22, Discorso di Nic° Machiavelli nel quale si tratta [sic]), con il quale M., in polemica con l’«italianista» Gian Giorgio Trissino, prendeva posizione accanto ai difensori del primato fiorentino. Il testo machiavelliano passò quasi subito nelle mani di Ludovico Martelli (→), che largamente se ne servì nella sua Risposta al Trissino, pubblicata a Firenze nel dicembre 1524. Rimane dubbio se il Discorso o dialogo quale noi lo leggiamo, non privo di guasti piuttosto gravi, rispecchi in toto l’originale machiavelliano (→ Discorso intorno alla nostra lingua di Paolo Trovato) o abbia patito qualche interpolazione (Castellani Pollidori 1981; Inglese 1997).

I paragrafi più interessanti del Discorso o dialogo sono dedicati alla lingua e allo stile della commedia, in polemica con l’Ariosto (§§ 65-71). Il che ci riporta alla fortuna di M. quale scrittore per il teatro: si colloca appunto nel 1524 una messa in scena della Mandragola, da parte della Compagnia della Cazzuola di Domenico Barlacchia, in casa di Bernardino di Giordano, con scene dipinte da Andrea del Sarto e Bastiano da Sangallo; poco dopo, nel gennaio 1525, quasi per siglare la conclusione della grande opera storiografica, M. fece rappresentare a Firenze, in casa del ricco fornaciaio Iacopo Falconetti, la Clizia (ancora con scene del Sangallo). Basata sulla Casina di Plauto, la commedia è pervasa da franca autoironia sull’innamoramento senile per la cantante Barbara Salutati (per lei M. scrisse almeno due madrigali, “S’alla mia immensa voglia” e “Amor, i’ sento l’alma”, musicato da Philippe Verdelot (→); a quest’ultima voce si rinvia anche per le testimonianze – notevole quella del cognato Francesco Del Nero – sugli interessi e i talenti musicali di M.). Il prologo si apre con una battuta sul ripetersi dei «casi» nella storia, versione paradossale del paragone tra Firenze e le repubbliche antiche.

Alla fine di maggio, dopo qualche penoso rinvio (lettera di F. Vettori a M., 8 marzo), M. presentò al dedicatario Giulio de’ Medici, papa Clemente VII, gli otto libri delle Istorie; ne ricevette un dono di 120 ducati d’oro (Ridolfi 1978, p. 331). La situazione politica andava intanto facendosi pericolosa. Il 12 dicembre 1524 Clemente VII aveva stretto un accordo segreto con Francesco I, re di Francia, che il 24 febbraio 1525, a Pavia, fu sconfitto da Carlo V (imperatore dal 1519), e addirittura catturato. Il 21 giugno M. giunse a Faenza, inviato dal papa per organizzare una milizia; lo scetticismo subito mostrato da F. Guicciardini, presidente della Romagna, nei riguardi del progetto (stanti le aspre lotte di fazione in corso nella provincia) ne causò, o concorse a causare, l’abbandono (il 26 luglio M. è a Firenze).

Alla fine di agosto, M. si recò a Venezia (vi si trattenne fino al 15 sett.) per conto dell’Arte della lana, al fine di ottenere un risarcimento per tre mercanti fiorentini, vittime di una estorsione: il viaggio ha rilievo soltanto quale occasione di un contatto diretto con ambienti letterari (cfr. la lettera di Filippo de’ Nerli a M., 6 sett. 1525), ipoteticamente riconducibile alla rappresentazione della Mandragola che ebbe luogo nel successivo carnevale (lettera di Giovanni Manetti a M., 28 febbr. 1526). La stessa commedia dà spunti alla corrispondenza con Guicciardini, che intendeva metterla in scena a Faenza (lettere del 16-20 ott. 1525, post 21 ott. e del 3 genn. 1526, alla quale sono allegate cinque canzoni da cantarsi tra gli atti); non si ha però notizia di una rappresentazione, verosimilmente sfumata nell’urgenza di più ‘gravi’ impegni politici.

Del 15 ottobre 1525 è il rinnovo, a compenso maggiorato, dell’incarico come scrittore degli annali fiorentini (lettera a F. Guicciardini post 21 ott. 1525, firmata «Niccolò Machiavelli istorico comico e tragico»). Niccolò tornava così al vecchio progetto storiografico, parallelo al primo Decennale, per cui aveva redatto estratti e spogli di lettere (dal 1464 al 1497, noti dall’apografo Ricci; dal nov. 1497 al 1501, dall’autografo Riccardiano 3627; tre altri frammenti autografi relativi a nov.-dic. 1494, giugno-dic. 1495, ott.-dic. 1503), e medaglioni biografici (Nature di uomini fiorentini, il cui autografo è databile al 1506-08).È dubbio se i cosiddetti Frammenti storici, pagine quasi compiutamente elaborate relative a fatti compresi tra la primavera del 1493 e l’ottobre 1498 (trascritte nell’apografo Ricci), risalgano al 1506-08 o al 1525-26 (‘nono libro’ delle Istorie fiorentine); F. Vettori conosceva «diari, i quali egli [il M.] faceva per seguitar l’Istoria» (F. Vettori, Raccolto delle azioni di Francesco e di Pagolo Vettori, in Id., Scritti storici e politici, a cura di E. Niccolini, 1972, pp. 338-39).

Francesco I fu liberato il 18 marzo 1526, ma violò subito i patti cui era stato obbligato e promosse una lega antimperiale, cui aderirono anche il papa, Firenze e i veneziani (lega di Cognac, 22 maggio). In clima già di guerra, M. fu incaricato di seguire i progetti dell’ingegnere Pietro Navarra per migliorare la fortificazione di Firenze; scrisse la Relazione di una visita fatta per fortificare Firenze (5 apr.), e la portò personalmente a Roma, dove si trattenne fino al 25 aprile. In tale occasione, compose l’epigramma pasquinesco “Sappi ch’io non son Argo qual io paio”, sarcastico commento al rilascio di Francesco I. Il 18-19 maggio fu nominato provveditore e cancelliere dei Cinque procuratori alle mura, magistratura di cui aveva redatto la Minuta di provvisione. E intanto chiedeva al Guicciardini di influire su Clemente VII perché scegliesse risolutamente il partito della guerra contro Carlo V: «Liberate diuturna cura Italiam!» (lettera del 17 maggio, Lettere, p. 427).

Nel giugno, le forze della lega compirono deludenti operazioni in Lombardia. Guicciardini, in campo come luogotenente generale del papa, si fece raggiungere dall’amico M. a metà giugno (Ridolfi 1978, p. 357); ma il tentativo di migliorare l’efficienza delle truppe medicee fallì ancora una volta – donde la famosa battuta, nella lettera del Guicciardini a Roberto Acciaiuoli del 18 luglio: «El Machiavello si truova qua. Era venuto per riordinare questa milizia, ma, veduto quanto è corrotta, non confida averne onore. Starassi a ridere degli errori degli uomini, poi che non gli può correggere» (Carteggi, a cura di P.G. Ricci, 9° vol., 1959, pp. 15 e seg.). Nell’ambito di questa missione, M. partecipò anche (9-14 sett.) all’assedio di Cremona; rimane un suo appunto di Disposizioni militari al riguardo. Il successo della lega in quell’impresa (23 sett.) fu tuttavia anticipato e vanificato dall’aggressione dei Colonna (partigiani della Spagna) ai palazzi pontifici (19-20 sett.) e dalla conseguente tregua firmata dal papa (M. analizza la situazione nella sua lettera a Bartolomeo Cavalcanti, post 6 ott.).

I lanzichenecchi imperiali di Georg von Frundsberg entrarono in Italia all’inizio di novembre; il 25, sulle rive del Po, si scontrarono con le «bande nere» di Giovanni de’ Medici, che restò ferito a morte. Il 30 novembre M. fu inviato a Modena, presso Guicciardini, per meglio considerare «l’ordine tutto di questa matassa», e valutare la possibilità di un accordo con il nemico (come sempre, lo ‘stato’ fiorentino preferiva l’accordo allo scontro aperto). Raccolte le informazioni sulle forze in campo e constatata l’impossibilità di qualsiasi trattativa diretta con i lanzi, Niccolò rientrò a Firenze (4 dic.). Alla fine di gennaio, lasciò al figlio Bernardo la cancelleria dei Procuratori delle mura, e tornò ad affiancare Guicciardini nei suoi ultimi tentativi di riorganizzare le forze della lega (Parma, Bologna, Forlì, 4 febbr. - 13 apr. 1527), ma nulla poté contro le indecisioni e le riserve mentali degli alleati (il duca d’Urbino Francesco Maria I Della Rovere, i veneziani), mentre il papa stesso continuava a sperare in un accordo con il nemico. Con toni accorati e ultimativi, il 23 marzo, raccomanda al governo fiorentino di reperire sessantamila fiorini, per «salvare la patria», spendendoli per armarsi piuttosto che per comprare una tregua (2 apr.). La coscienza della tragedia si rivela meglio nelle lettere private, come quella del 16 aprile a F. Vettori: «io non credo che mai si travagliassino i più difficili articuli che questi, dove la pace è necessaria e la guerra non si puote abbandonare, e avere alle mani un principe [Clemente VII] che con fatica può supplire o alla pace sola o alla guerra sola» (Lettere, p. 459). Evitato almeno che i lanzi (ora sotto il comando del transfuga Charles de Bourbon) passassero per la Toscana, si trattava di difendere Roma. Con le residue truppe della Chiesa, Guicciardini mosse verso il Lazio, preceduto di qualche giorno da M., incaricato di provvedere agli alloggiamenti. Ma i lanzi furono più veloci, e Roma fu messa a sacco il 6 maggio. M. si trovava a Bracciano con Guicciardini, o a Civitavecchia (donde scriveva al luogotenente il 22 maggio), quando fu raggiunto dalla notizia che, nel rovescio generale della lega, i Medici erano stati cacciati da Firenze ed era stata restaurata la Repubblica (17 maggio 1527).

La fine

Inviso per lungo e ininterrotto dissenso ai nuovi governanti di estrazione savonaroliana (per tacere della fama di ateismo che sempre lo aveva accompagnato), M. non fu richiamato in cancelleria: la segreteria dei Dieci fu invece affidata a un qualsiasi Francesco Tarugi (10 giugno). La testimonianza di Giovan Battista Busini, benché tarda (1549) e malevola, è attendibile: «l’universale, per conto del Principe, l’odiava: ai ricchi pareva che quel suo Principe fosse stato un documento da insegnare al Duca tòr loro tutta la roba; a’ poveri, tutta la libertà; ai Piagnoni pareva che e’ fusse eretico; a’ buoni, disonesto; ai tristi, più tristo o più valente di loro» (Lettere a Benedetto Varchi sopra l’assedio di Firenze, a cura di G. Milanesi, 1860, p. 84). Niccolò era, in effetti, già minato nel fisico, e si spense a Firenze il 21 giugno 1527 in presenza di pochi amici: Buondelmonti, Alamanni, Strozzi, Nardi. Fu sepolto in S. Croce l’indomani. Secondo la leggenda (riferita per primo da Anton Francesco Doni (→) e nota al citato Busini: «raccontò quel tanto celebrato sogno [...] e così si morì malissimo contento, burlando»), che può avere un fondo di verità, poco prima di morire narrò di aver visto in sogno le distinte schiere dei poveri straccioni, preti e suore, destinati al paradiso, e degli antichi filosofi e imperatori, destinati all’inferno: e confessò che a questi, non a quelli, avrebbe voluto accompagnarsi, per continuare in eterno i colloqui goduti nelle sere dell’Albergaccio. Alla tradizione del ‘sogno’ (→) furono opposti, dalla famiglia di M., documenti e testimonianze di vario peso. Di incerto valore è una lettera di Piero Machiavelli allo zio materno Francesco Nelli, nota in copia (CM I 84), attestante che Niccolò «lasciossi confessare le sua peccata da frate Matteo» (cfr. Epistolario, a cura di S. Bertelli, 1969, pp. 491-95; Procacci 1995, pp. 42331). Più attendibile è la testimonianza resa da una lettera di Vincenzio Borghini (→) a Ludovico Martelli, del dicembre 1571, secondo cui «frate Andrea [di Alessandro] Alamanni [un cugino di Lodovico e Luigi] [...] lo confessò alla morte» (ed. a cura di M. Pozzi, «Giornale storico della letteratura italiana», 1988, 165, pp. 218-19; che M. sia morto in regola con la Chiesa cattolica è del resto indubitabile, dato il luogo della sepoltura). Autografa (1526-27), e probabilmente autentica anche nella composizione, è la cristianissima Esortazione alla penitenza valorizzata da Giuliano de’ Ricci nel suo apografo (e in tempi moderni da studiosi come Roberto Ridolfi); ma lo scritto, che in fatto svolge un «capovolgimento puntuale e puntiglioso» di varie idee e temi reperibili nelle grandi opere machiavelliane (→ Esortazione alla penitenza di E. Cutinelli-Rendina), sarà stato realizzato su richiesta d’altri, come la già citata Allocuzione.

Bibliografia: Per le indicazioni archivistiche e bibliografiche relative alle opere di M., si vedano le voci dell’Enciclopedia a esse dedicate. La documentazione da cui si ricostruisce la vita di M. è pubblicata, o almeno indicata, nelle tre grandi biografie: O. Tommasini, La vita e gli scritti di Niccolò Machiavelli nella loro relazione col machiavellismo, 2 voll., Torino-Roma 1883-1911 (rist. anast. Bologna 1994-2003, con un Indice dei nomi, delle opere e dei luoghi, a cura di C. Farnetti, M. Tarantino); P. Villari, Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, 3 voll., Milano 1912-19143; R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, Firenze 19787. Si veda inoltre: F. Nitti, Machiavelli nella vita e nelle dottrine, 1° vol., Napoli 1876, 2° vol., a cura di S. Palmieri, G. Sasso, Bologna 1996. Sono comunque da segnalare il fondo Carte Machiavelli negli Autografi Palatini della Biblioteca nazionale centrale di Firenze (elenco cronologico in Tommasini, 2° vol., 1911, pp. 1257-407); il cosiddetto apografo Ricci, zibaldone machiavelliano allestito da Giuliano de’ Ricci, BNCF, Palatino E.B. 15.10 (cfr. Tommasini, cit., 1° vol., pp. 617-64); e il Priorista del medesimo (BNCF, Palatino E.B. 14.1, c. 160v). Il Libro di ricordi di Bernardo Machiavelli è edito a cura di C. Olschki, Firenze 1954 (rist. anast., con postfazione di L. Perini, Roma 2007), ma cfr. R. Black, New light on Machiavelli’s education, in Niccolò Machiavelli politico, storico, letterato, Atti del Convegno, Losanna 27-30 settembre 1995, a cura di J.-J. Marchand, Roma 1996, pp. 391-98.

Fonti cronistiche: F. Guicciardini, Storie fiorentine, a cura di R. Palmarocchi, Bari 1931; F. Vettori, Raccolto delle azioni di Francesco e di Pagolo Vettori, in Id., Scritti storici e politici, a cura di E. Niccolini, Bari 1972, pp. 338-55; B. Cerretani, Ricordi, a cura di G. Berti, Firenze 1993; B. Cerretani, Storia fiorentina, a cura di G. Berti, Firenze 1994; B. Buonaccorsi, Fatti di Pisa, in Id., Diario [...] dall’anno 1498 all’anno 1512 e altri scritti, a cura di E. Niccolini, Roma 1999, pp. 373-75.

Il catalogo completo delle edizioni machiavelliane nei secc. 16°-19° è offerto in S. Bertelli, P. Innocenti, Bibliografia machiavelliana, Verona 1979; per la letteratura critica cfr. A. Norsa, Il principio della forza nel pensiero politico di Niccolò Machiavelli, seguito da un contributo bibliografico, Milano 1936; D. Perocco, Rassegna di studi sulle opere letterarie del Machiavelli (1969-1986), «Lettere italiane», 1987, 39, pp. 544-79; S. Ruffo Fiore, Niccolò Machiavelli: an annotated bibliography of modern criticism and scholarship (1935-1988), New York-Westport-London 1990; E. Cutinelli-Rendina, Rassegna di studi sulle opere politiche e storiche di Niccolò Machiavelli (1969-1992), «Lettere italiane», 1994, 46, pp. 123-72.

Si limita qui la segnalazione agli interventi più rilevanti degli ultimi sessant’anni, o comunque citati supra: L. Russo, Machiavelli, Bari 1945; B. Croce, La questione del Machiavelli (1949), in Id., Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, Bari 1952, pp. 17486; A. Gramsci, Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno, Torino 1949; L. Huovinen, Das Bild vom Menschen im politischen Denken N. Machiavellis, Helsinki 1951; F. Chiappelli, Studi sul linguaggio del Machiavelli, Firenze 1952; R. von Albertini, Firenze dalla Repubblica al principato. Storia e coscienza politica (1955), Torino 1970; P. Pieri, Guerra e politica negli scrittori italiani, Napoli-Milano 1955, pp. 1-71; A. Renaudet, Machiavel, Paris 1956; N. Rubinstein, The beginnings of Niccolò Machiavelli’s career in the Florentine chancery, «Italian studies», 1956, 11, pp. 72-91; G. Sasso, Niccolò Machiavelli: storia del suo pensiero politico, Napoli 1958, Bologna 19802; L. Strauss, Thoughts on Machiavelli, Seattle-London 1958 (trad. it. Milano 1970); C. Pincin, Sul testo del Machiavelli. I Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, «Atti dell’Accademia delle scienze di Torino, Classe di Scienze morali, storiche e filologiche», 1961-1962, 96, pp. 71-178; F. Chabod, Scritti su Machiavelli, Torino 1964; F. Gilbert, Machiavelli e la vita culturale del suo tempo, Bologna 1964; F. Gilbert, Machiavelli and Guicciardini, Princeton 1965 (trad. it. Torino 1970); G. Sasso, Machiavelli e Cesare Borgia. Storia di un giudizio, Roma 1966; G. Ponte, Quando il Machiavelli scrisse la “Canzone de’ diavoli”?, «Rinascimento», 1967, 18, pp. 283-91; G. Sasso, Studi su Machiavelli, Napoli 1967; R. Ridolfi, Studi sulle commedie del Machiavelli, Pisa 1968; N. Badaloni, Natura e società in Machiavelli, «Studi storici», 1969, 10, pp. 675-708; F. Chiappelli, Nuovi studi sul linguaggio del Machiavelli, Firenze 1969; P. 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