VIRGINIA de’ Medici, duchessa di Modena e Reggio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 99 (2020)

VIRGINIA de' Medici, duchessa di Modena e Reggio

Laura Turchi

VIRGINIA de’ Medici, duchessa di Modena e Reggio. – Nacque il 28 maggio 1568 a Firenze dal granduca Cosimo I de’ Medici e da Camilla Martelli, all’epoca sua concubina e figlia di Antonio, un gentiluomo fiorentino di modeste condizioni economiche. Il granduca e la Martelli si sposarono alla fine di marzo del 1570, con una cerimonia privata, suscitando le ire dell’erede di Cosimo I, il primogenito Francesco, nonostante il matrimonio fosse morganatico. Virginia fu legittimata solo dopo le nozze dei genitori e trascorse i primi due anni di vita nella casa di Antonio de Montalvo, primo cameriere ducale, passando per figlia di suo figlio Diego.

Nel 1570 il padre le costituì una dote di 25.000 scudi di moneta fiorentina, depositati sul Monte di pietà di Firenze. Per volontà di Cosimo, alla morte della madre Virginia avrebbe dovuto usufruire anche di una rendita annua di 5760 scudi, assegnata alla madre nel 1573. Tuttavia, poco prima della morte del padre, avvenuta il 21 aprile 1574, Francesco de’ Medici con un atto notarile del 20 febbraio 1574 impugnò ogni donazione, assegnazione o privilegio fatto da Cosimo I a favore di Camilla o Virginia.

Dopo la morte di Cosimo, non risulta che Virginia abbia seguito stabilmente la madre nei monasteri fiorentini delle Murate prima, di S. Monaca poi, dove Francesco I volle esiliare quest’ultima. Stando alle sue lettere, ella visse infatti nelle ville medicee di Pratolino e di Poggio a Caiano o a Livorno, lontana comunque dalla corte. A giudicare dalla sua goffa grafia, ricevette un’istruzione abbastanza sommaria.

Nel 1575 fu promessa in sposa da Francesco I e dal cardinale Ferdinando de’ Medici al conte Francesco Sforza di Santa Fiora, nipote di Mario Sforza, generale delle milizie di Francesco I; il granduca approvò il matrimonio anche perché Sforza avrebbe dovuto essere l’erede del ricchissimo cardinale Alessandro Sforza, il quale tuttavia morì nel 1581 senza lasciare al nipote la sospirata eredità.

All’ottobre di quello stesso anno risalgono i primi contatti fra i cardinali Luigi d’Este, fratello del duca di Ferrara Alfonso II, e Ferdinando de’ Medici per far sposare Virginia a Cesare d’Este, figlio di don Alfonso, marchese di Montecchio, e di Giulia Della Rovere. Don Alfonso, entrato a sua volta nelle trattative matrimoniali per il figlio così come la granduchessa Bianca Cappello, era figlio naturale del duca Alfonso I d’Este e della sua concubina Laura Dianti ed era stato legittimato dal padre insieme al fratello Alfonsino poco dopo la nascita, nel 1532; nondimeno, Ercole II, successore di Alfonso I, aveva conculcato a favore dei propri figli i diritti successori dei due giovani, per via della loro nascita illegittima.

Il contratto dotale di Virginia fu rogato l’8 dicembre 1583 e previde una dote di 100.000 scudi – contro i 150.000 originariamente ventilati agli Este dal cardinale de’ Medici – così composta: 40.000 scudi depositati presso il Monte di pietà di Firenze, ossia i 25.000 originari e gli interessi decorsi; 30.000 scudi versati da Francesco I, 10.000 dal cardinale Ferdinando e 20.000 da Camilla, di cui 10.000 in gioielli e beni preziosi e altri 10.000 in rate annue da 1000 scudi a partire dal giorno delle nozze per verba de praesenti.

Il 7 dicembre 1583 Virginia aveva ritirato il proprio consenso alle nozze con Francesco Sforza, che a giorni sarebbe divenuto cardinale, adducendo a motivazione la propria età pupillare all’epoca del primo contratto dotale, risalente al 25 ottobre 1575. Francesco I riversò su Virginia il rancore nutrito per la madre di lei: infatti in cambio dei 30.000 scudi di dote da lui sborsati, Virginia dovette rinunciare a 400 scudi di vitalizio mensile, che avrebbero dovuto esserle versati per volontà di Cosimo I dopo la morte della madre e che provenivano della rendita originariamente costituita a quest’ultima dal marito. Camilla, oltre naturalmente a provvedere al corredo della figlia ricamato dalle suore di S. Monaca, dovette cedere le sue gioie a Virginia e dichiararla erede di tutti i propri beni, riservandosene solo l’usufrutto, oltre a garantirle 10.000 scudi in dieci anni.

I Medici trassero i maggiori benefici da questo matrimonio, uscendo dall’isolamento politico in cui li aveva posti nella penisola il raggiungimento del titolo granducale e imparentandosi per la seconda volta con una dinastia di antico lustro come gli Este; in cambio, cedettero una discendente dalla nascita illegittima, dotata decorosamente, ma assai meno del previsto. In tal modo, essi sancirono la loro vittoria sugli Este nella causa di precedenza, vittoria giunta definitivamente nel 1579, quando anche Filippo II aveva accordato a Francesco I de’ Medici il trattamento riservato al titolo granducale del principe toscano. Meno chiare le motivazioni che spinsero gli Este, anche se lo sposo apparteneva a una linea esclusa all’epoca dalla successione al ducato e aveva un quarto di illegittimità: in effetti, Alfonso II si sarebbe deciso a scegliere Cesare come suo erede solo con il testamento del 17 luglio 1595, dopo aver visto fallire tutti gli altri tentativi di avere un successore.

Il duca attese comunque prima di dare il proprio consenso: non solo la dote era inferiore a quanto era stato sperato, ma i 100.000 scudi pattuiti non erano tutti certi, dal momento che il contratto dotale stabiliva che, se Camilla fosse morta prima che fossero scaduti i dieci anni dalle nozze, Francesco I e i suoi eredi non avrebbero dovuto versare le rate mancanti. Inoltre i 10.000 scudi promessi dal cardinale Ferdinando de’ Medici furono surrogati da un’analoga somma promessa alla nuora come aumento dotale da don Alfonso d’Este.

La cerimonia nuziale ebbe luogo privatamente a palazzo Pitti il 6 febbraio 1586, alla presenza del cardinale Alessandro de’ Medici, arcivescovo di Firenze, di Maffeo de’ Bardi, vescovo di Chiusi, e di Ottavio Abbioso, coadiutore del vescovo di Pistoia. Seguirono sontuosi festeggiamenti a corte durante il Carnevale, fra cui la rappresentazione in una sala del palazzo degli Uffizi di una commedia con intermezzi musicali, L’amico fido di Giovanni de’ Bardi dei conti di Vernio, di cui l’architetto e artista di corte Bernardo Buontalenti curò l’allestimento.

I due sposi furono festeggiati anche da quattro componimenti di Torquato Tasso: una canzone e tre sonetti, di cui uno menzionato dall’autore, ma non più rinvenibile. La canzone Ciò che Marte rallenta, Amor, ristringi e il sonetto Alma città, dove inalzar sovente furono scritti in onore delle nozze; l’altro, Per la figlia di Cosmo accogli et orna, per l’arrivo di Virginia a Ferrara. Il poeta lo fece pervenire alla principessa tramite Camillo Albizzi, ambasciatore mediceo a Ferrara, mentre gli altri due sonetti furono inviati da lui a Cesare d’Este, a Firenze. In realtà, la canzone come i sonetti fecero parte di una serie di rime dedicate da Tasso alle donne della famiglia Medici e ad Albizzi in un momento in cui il poeta sperava da loro aiuto.

Poco o nulla si sa della vita di Virginia a Ferrara, dove visse a palazzo dei Diamanti, ceduto alla coppia dal cardinale Luigi d’Este e dove si distinse per le iniziative caritatevoli. Le lettere di Virginia al marito testimoniano l’affetto che ella gli portava, così come alla madre, morta nel 1590, e ai membri della famiglia materna, con cui rimase sempre in contatto. Quanto ai Medici, sono testimoniate relazioni continuative con il fratellastro Giovanni de’ Medici, figlio di Cosimo I e di Eleonora degli Albizzi, e con la nipote Maria de’ Medici, figlia di Francesco I e Giovanna d’Asburgo.

Come è noto, il 27 ottobre 1597, alla morte di Alfonso II, Cesare I gli succedette come ultimo duca di Ferrara e il 13 gennaio 1598 Ferrara fu devoluta alla Chiesa grazie alla capitolazione faentina. Il 28 gennaio 1598 il duca e la consorte lasciarono quindi Ferrara per Modena, destinata a diventare la nuova capitale, seguiti da un migliaio di sudditi, fra i quali pochissimi patrizi ferraresi e cortigiani di rango, passati in maggioranza alla fedeltà al papa. A Modena la coppia si stabilì nel vecchio castello estense e Virginia funse più volte da reggente durante le assenze del marito.

La duchessa doveva aver ereditato dalla madre una certa fragilità psicologica, che si abbinò a una religiosità fortemente venata di misticismo: Virginia compiva regolarmente penitenze ed elemosine, proteggeva e dotava fanciulle da marito dalla reputazione pericolante, portava il cilicio, si vestiva e acconciava con la maggior semplicità possibile concessa dal suo rango, digiunava a pane e acqua il giorno prima di comunicarsi ed era solita trattare le dame e i membri della sua corte con un’umiltà inconsueta per la sua posizione. Sin dal 1598 entrò nella confraternita della Cintura, costituita ufficialmente nel 1584 e legata all’immagine miracolosa della Vergine affrescata nel Trecento da Tommaso da Modena sul muro esterno della chiesa modenese di S. Agostino, che alla fine del Quattrocento i frati agostiniani avevano traferito in una cappella interna appositamente costruita.

Le prime notizie in città sui segni di squilibrio mentale della duchessa sono riportate dal cronista modenese Giovan Battista Spaccini (1999) alla data 2 gennaio 1608, ma ella aveva accusato i primi sintomi già nell’autunno del 1605 dopo l’ennesimo parto – quando si era scoperta indemoniata la figlia Laura, sposa del principe di Mirandola Alessandro Pico – e di nuovo nel 1607. Per tale motivo, Virginia non presenziò nell’aprile del 1608 alle feste per il matrimonio fra il figlio primogenito Alfonso e l’infanta Isabella di Savoia. Negava però con foga la diagnosi di indemoniamento emessa il 29 marzo 1608 dal gesuita ferrarese e confessore ducale Girolamo Bondinari, rifiutava di prendere le medicine e al contempo non accettava la presenza del marito.

La misteriosa malattia di Virginia si trasformò subito in un affare di Stato, poiché l’accertamento di una vena di pazzia nella sua casata d’origine sarebbe stato infamante sia per i Medici sia per Cesare I e i loro discendenti. Si preferì quindi fin dall’inizio pensare all’opera del diavolo e il primo a convincersi in tal senso fu proprio il fratellastro Ferdinando de’ Medici, granduca di Toscana dal 1587; tuttavia, già nella primavera del 1608 anche il duca si decise ad accreditare tale tesi. Cesare I cercò quindi aiuto da Firenze tramite il residente mediceo a Modena, Giovanni Boni. Se tuttavia da un punto di vista diplomatico l’ipotesi della possessione diabolica pagava, dal punto di vista interno presentava problemi: attorno al capezzale della malata si accostavano infatti sia esorcisti e confessori sia medici, reciprocamente ostili. Per guarire la moglie, Cesare I ottenne che il granduca inviasse a Modena il sacerdote toscano Antonio Stanghellino, già impiegato con successo nel 1605 per liberare dagli spiriti diabolici la principessa Laura. La missione di Stanghellino si concluse con un fallimento, giacché egli sostenne di non aver riscontrato nella duchessa alcun sintomo di possessione. Ai primi di settembre del 1608 la cura della malata passò dunque a un monaco benedettino, fra Girolamo da Napoli, raccomandato dal duca di Parma, il quale, pur non spingendosi a sostenere l’esistenza di un patto con il diavolo, giunse alla clamorosa conclusione che non solo la duchessa era indemoniata da vent’anni, ma che era il suo consenso alla possessione a rendere impossibile l’espulsione degli spiriti maligni, specie dei più pericolosi, quelli che la spingevano a rifiutare la sua condizione di donna sposata. Di nuovo, però, la prospettiva di una complicità con il demonio, anziché dell’esserne semplicemente vittima, metteva a repentaglio la reputazione della duchessa e dei Medici. Dopo un iniziale successo, anche il benedettino dovette scontrarsi con l’umore melanconico e la disubbidienza della sua assistita, mentre a Firenze si rifiutava di prendere atto delle sue conclusioni, vista anche la riconosciuta buona indole e la vita di penitenza in precedenza condotta da Virginia. Lo stesso vescovo di Modena Lazzaro Pellicciari condannò i metodi violenti di fra Girolamo, inadatti al lignaggio della malata: raderla, percuoterla, spiarla da un buco nel muro, esorcizzarla alla presenza di molti spettatori. Forse d’intesa con il vescovo, alcuni esorcisti modenesi affacciarono allora l’ipotesi che un’incolpevole duchessa fosse stata semplicemente ammaliata da altri. Il 4 agosto 1610 sotto l’arca di S. Geminiano, alla presenza di tutta la corte estense, Laura Pico fu esorcizzata dal modenese Agostino Buoncugino e rivelò che lei e la madre erano state affatturate a Mirandola.

Non sono emerse prove del fatto che Virginia sia stata esorcizzata con manipolazioni dei suoi genitali, come avvenne a partire almeno dal 1610 a un gruppo di presunte ossesse modenesi di buona famiglia curate dal teatino modenese fra Girolamo Mazzoni fino al 1624, quando ebbe inizio il processo inquisitoriale di quest’ultimo. Tuttavia fra i due casi esistono alcuni collegamenti: uno dei seguaci di Mazzoni, tale padre Ludovico, esorcizzò intorno al 1609 anche la duchessa, che come le pazienti di Mazzoni soffriva di stati di delirio e di perdita della coscienza.

Uno dei pochi vantaggi politici per la casa d’Este legati alla figura di Virginia fu il persistere di un esile legame dinastico fra Modena e la corte di Parigi, grazie all’affetto di Maria de’ Medici negli anni in cui Modena, essendo Cesare I divenuto nel 1601 protetto di Filippo III d’Asburgo, interruppe ogni relazione diplomatica con i Borbone, con la sola eccezione della fuga in Francia e Inghilterra del figlio Luigi nel biennio 1612-13. Per esempio, ancora nel 1603 l’ultimo residente estense a Parigi, Filippo Molza, trattò prima di fare rientro in patria il matrimonio di una delle figlie di Cesare I e Virginia, presumibilmente la primogenita Giulia, con Henri I di Savoia-Nemours, figlio di Anna d’Este e del secondo marito di lei, Jacques di Savoia-Nemours, ma tale possibilità sfumò.

Con la morte di Ferdinando de’ Medici il 3 febbraio 1609 e la successione di Cosimo II, a lei assai meno legato, era nel frattempo finito l’interessamento mediceo alla malattia di Virginia, che sarebbe proseguita fino al 15 gennaio 1615, giorno della sua morte a Modena.

La duchessa lasciò nove figli: Giulia, Laura, Alfonso, Luigi, Eleonora, Ippolito, Niccolò, Borso e Foresto. Il suo corpo, per sua volontà, fu vestito alla cappuccina e trasportato nella cappella dei nuovi lussuosi camerini fatti approntare dal marito nel castello di Modena. Fu sepolta nella chiesa del Corpus Domini. Il duca fece allestire un fastoso funerale in duomo per il 27 febbraio 1615 alla presenza sua, del fratello cardinale Alessandro, dei principi Alfonso e Luigi e dell’ambasciatore di Toscana Giulio Medici. Il gesuita Agostino Mascardi recitò l’orazione funebre. Il 7 ottobre 1902 fu trasferita nella cappella funebre degli Estensi in S. Vincenzo a Modena, anche se senza una lapide propria. Un unico loculo racchiude i suoi resti, quelli di Maria e Vittoria Farnese mogli di Francesco I d’Este, pure sepolte dopo di lei al Corpus Domini e di altri Estensi già tumulati in altre chiese.

Il misero corredo di vestiti usati e stoffe stracciate redatto subito dopo la sua morte è spia della triste esistenza che le fu riservata negli ultimi anni, continuamente preda della sua malattia. La misteriosa infermità di Virginia è un esempio del «conflitto fra medicina e religione nel governo dei disturbi psichici», degli «ambivalenti sviluppi delle attività esorcistiche, della pratica della confessione e della direzione spirituale per le donne» (Romeo, 1998, p. 76), tutte questioni storiche di rilievo nell’Italia del primo Seicento.

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