MONTI, Vincenzo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 76 (2012)

MONTI, Vincenzo

Giuseppe Izzi

MONTI, Vincenzo. – Nacque il 19 febbraio 1754 alle Alfonsine (ora in provincia di Ravenna), ottavo degli undici figli di Fedele Maria e di Domenica Maria Mazzarri.

Il nonno, Giovanni, e il padre, perito agrimensore e proprietario terriero, erano stati fattori dei marchesi Calcagnini a Fusignano e alle Alfonsine. Qui, nel 1749, Fedele Maria acquistò un piccolo podere, l’Ortazzo, e costruì, nel 1751, una casa, in via del Passetto, dove nacque Vincenzo. Nel 1773, poi, la famiglia fece ritorno a Fusignano, in località Maiano.

Dopo i primi studi a Fusignano sotto la guida di Giovanni Antonio Farini, don Pietro Santoni e Marcello Padovani, tra il 1766 e il 1771 Monti completò la sua istruzione nel seminario di Faenza, dove prese la tonsura e, sotto la guida di don Francesco Maccabelli e don Francesco Contoli, lavorando soprattutto sulla Bibbia, su Virgilio e sulla poesia di Carlo Innocenzo Frugoni, acquisì quella preparazione letteraria di cui sono documento le composizioni italiane e latine presentate nelle accademie ed esercitazioni del seminario.

Abbandonata l’idea di farsi prete o frate sulle orme dei fratelli Cesare e Gianfedele (al secolo Giambattista), si iscrisse, alla fine del 1771, alla facoltà di giurisprudenza e, dal 1773, a quella di medicina dell’Università di Ferrara, di recente riformata, inserendosi in una vivace vita culturale che finì per favorire la sua vocazione letteraria. Monti frequentò, infatti, oltre a colleghi come Giovanni Battista Costabili Containi, studiosi come Girolamo Ferri, professore di eloquenza e antichità greche e romane nonché a capo dell’Arcadia ferrarese, l’abate Gaetano Migliore, professore di eloquenza, lo storico Antonio Frizzi, il matematico Gianfrancesco Malfatti, cugino di Clementino Vannetti. Malfatti era partecipe del progetto della Nuova Enciclopedia italiana dell’ex gesuita Alessandro Zorzi e bibliotecario dei marchesi Bevilacqua, nel cui salotto, ma non solo, Monti ebbe modo di allargare la sua cultura poetica alle opere di Lodovico Savioli, Angelo Mazza, Alfonso Varano e Onofrio Minzoni.

Se le numerose poesie d’occasione gli valsero l’iscrizione all’Arcadia dal 14 luglio 1775 col nome di Autonide Saturniano, la pubblicazione, nel 1776, a Ferrara prima, a Parma poi, del poemetto in terzine La visione di Ezechiello, in lode del predicatore Francesco Filippo Giannotti e con dedica, nell’edizione di Parma, al cardinale Scipione Borghese, legato pontificio a Ferrara, gli aprì la strada per Roma. A conseguire tale obiettivo e a vincere le resistenze della famiglia concorsero altri versi di Monti, visioni e poesie galanti, l’allargarsi delle relazioni letterarie e forse anche l’incontro con Francesco Cancellieri avvenuto a Fusignano nel 1777 in casa del marchese Francesco Calcagnini. Finalmente, con il viatico di un modesto assegno familiare per tre anni, partì per Roma, dove arrivò il 26 maggio 1778, abitando dapprima nel palazzo Doria Pamphili in Piazza di Spagna, poi presso i marchesi Roberti.

A Roma Monti fu ben presto presente in Arcadia, dove l’11 giugno 1778 recitò, probabilmente, La visione di Ezechiello, e in altre accademie e adunanze letterarie come quelle degli Aborigeni e degli Accademici Occulti del principe Baldassarre Odescalchi.

Accanto a prove minori, a rendere evidenti le ambizioni del poeta fu il Saggio di poesie, progettato dalla fine del 1778 e stampato a sue spese a Siena, presso Pazzini Carli, con falsa indicazione di Livorno, nel luglio 1779, in cui Monti raccolse parte della produzione giovanile e cose più recenti come la cantata Giunone placata per nozze Caetani-Albani. Se la dedica alla marchesa Maria Maddalena Trotti Bevilacqua segnava il congedo dall’esperienza ferrarese, il Discorso preliminare, indirizzato a Ennio Quirino Visconti, e le altre lettere dedicatorie aprivano all’atmosfera cosmopolita della cultura romana, nella ricerca di una strada tra suggestioni classiche ed europee e nel confronto con la cultura dell’Arcadia di Gioacchino Pizzi, Luigi Godard e Giovanni Cristofano Amaduzzi. I richiami delle dediche ai salmi, a Milton, Klopstock, Shakespeare, le aperture al patetico, all’entusiasmo, al sublime accompagnarono, infatti, anche le contemporanee polemiche sul libro dell’irlandese Martin Sherlock, Consiglio ad un giovane poeta, e la importante corrispondenza, in pubblico e in privato, con Vannetti. Tali aperture furono bilanciate da La prosopopea di Pericle (più volte rivista), letta in Arcadia il 23 agosto 1779 nella celebrazione dei voti quinquennali in onore di Pio VI convalescente. L’ode segnò una prima consacrazione del poeta, abile a sfruttare il suggerimento di Visconti, allargando al tema della rinascita dell’Atene di Pericle nella Roma di Pio VI la celebrazione del ritrovamento di un busto dello statista ateniese nella villa di Cassio presso Tivoli, da collocare nel Museo Pio Clementino, accanto al busto di Aspasia ritrovato a Civitavecchia. Il componimento suscitò invidie e polemiche, in particolare con Antonino Galfo, ma confermò il ragionato eclettismo e la motivata tensione sperimentale di temi e di forme che non abbandonarono mai l’opera di Monti, servendo, inoltre, insieme con il Saggio, alla promozione del poeta presso letterati come Aurelio Bertola, Girolamo Tiraboschi, Francesco Albergati Capacelli.

La visibilità pubblica di Monti toccò uno dei suoi punti più alti quando lesse in Arcadia, il 19 agosto 1781, La bellezza dell’Universo (Roma 1781; poi in Versi, nel 1783 e 1787; l’ultima correzione in Opere varie, nel 1826), poemetto in terzine per l’acclamazione in Arcadia dei novelli sposi Costanza Falconieri e Luigi Braschi Onesti, nipote di Pio VI. Prendendo spunto da un discorso di Francesco Maria Zanotti e utilizzando immagini letterarie e scientifiche, Monti descrive le manifestazioni naturali della divina Bellezza, che, come il busto di Pericle, risplende nella Roma di Pio VI. Il poemetto, insieme anche all’interessamento del cesenate abate Francesco Mami, concorse a far sì che Monti divenisse segretario del nipote del papa nell’ottobre dello stesso anno, con un compenso di 12 scudi mensili, cui si aggiunse una pensione papale di 50 scudi annui con l’aumento di altri 50 per 7 anni.

Collocato nel cuore del nepotismo papale, Monti si adoperò, sia pure con esiti modesti, per far fruttare le sue informazioni in mediazioni e senserie a vantaggio suo e della famiglia. Agente d’affari in Roma dei Comuni di Rieti e di Osimo e, dal 1794, del card. Barnaba Chiaramonti, diverrà dal 1791 bussolante e segretario degli avvocati concistoriali, subentrando in questa carica a Godard.

Monti compose nel febbraio 1782, su richiesta del card. François-Joachim de Pierre de Bernis, due Cantate per la nascita del Delfino di Francia, con musiche di Domenico Cimarosa e Antonio Boroni, e, nello stesso anno, il Pellegrino apostolico, poemetto in terzine per l’infruttuoso viaggio a Vienna di Pio VI presso Giuseppe II, ulteriore, non felice tassello della sua celebrazione di casa Braschi. Sempre nel 1782 si innamorò di Carlotta Stewart, conosciuta a Firenze in casa di Fortunata Sulgher Fantastici, coltivando per alcuni mesi progetti di matrimonio e indebitandosi per arredare casa, aiutato economicamente da Sigismondo Chigi.

Questo amore non arrivato a buon fine si tradusse nell’elegia del sentimento e della natura delle lasse dei Pensieri d’amore e degli sciolti Al principe don Sigismondo Chigi, che poggiavano su una traduzione francese del Werther di Goethe e furono pubblicati nel secondo dei due volumi di Versi, il primo dedicato al pontefice e il secondo a Luigi Braschi, usciti a Siena nel 1783. Malgrado violente polemiche antiarcadiche, attestate dal sonetto del 1783 Cattedratici infami ed ateisti e in parte legate al non felice esito della sua candidatura alla carica di procustode, Monti lesse in Arcadia, il 4 marzo 1784 e con grande successo, l’ode Al Signor di Montgolfier, in cui il poeta, novello Orfeo, celebra le imprese degli Argonauti del cielo e la fede illuministica nei progressi della scienza.

Il 1° gennaio 1785 morì il padre, nel testamento del quale Monti fu escluso da parte dell’asse ereditario a ricompensa delle spese sostenute dalla famiglia per il suo mantenimento; a esplicita riprova di quella partita di dare e avere con i parenti che lo accompagnò per tutta la vita. Una inquieta originaria aspirazione, l’esempio di Alessandro Verri, nonché il successo delle recite delle tragedie alfieriane durante il soggiorno del poeta a Roma mossero l’ispirazione tragica di Monti. La partenza, poi, dello stesso Alfieri da Roma, accompagnata da violenti sonetti di Monti in risposta a quello feroce dell’Alfieri, gli lasciò uno spazio libero che ben presto occupò con l’Aristodemo, composto fra l’ottobre del 1784 e i primi del 1786 (Parma 1786, presso Bodoni; poi, rivisto, Roma 1788, presso Puccinelli, con una lettera di Gioacchino Pessuti, l’Esame e i Pentimenti del Monti).

Rappresentato a Parma nell’autunno 1786 con l’attrice Cesira Gardosi, insignito con la medaglia d’oro ducale, l’Aristodemo fu messo in scena al teatro Valle, per il carnevale 1787 (16 gennaio), con protagonista Petronio Zanarini e spettatore Goethe. Seguì, per il carnevale del 1788, il Galeotto Manfredi principe di Faenza (Roma 1788, con dedica al card. Fabrizio Ruffo: prima rappresentazione teatro Valle, 15 gennaio; poi 1817, 1823, 1826, con significativi interventi). Nelle due tragedie all’esempio alfieriano si aggiunse la meditazione attenta del teatro di Shakespeare, letto nella traduzione francese di Pierre Le Tourneur e utilizzato soprattutto per la costruzione della dinamica psicologica dei personaggi, nella cui interiorità si sviluppano gli elementi che portano alla catastrofe, come nel caso del suicida Aristodemo. Il Galeotto Manfredi è, poi, una singolare sperimentazione in cui al motivo privato della gelosia di Matilde per il marito Galeotto, in parte derivato dall’Otello, si uniscono ambigui spunti contro i tiranni e gli uomini di corte, affidati al conflitto fra Ubaldo e Zambrino, personificazioni ricche di sostanza autobiografica del cortigiano buono e del cortigiano cattivo. Alle tragedie si accompagnarono nuove polemiche letterarie che coinvolsero Francesco Zacchiroli, Matteo Berardi, Giuseppe Lattanzi, Angelo Mazza, e si estesero, soprattutto in quest’ultimo caso, fuori di Roma, ripercuotendosi anche sui rapporti con Tiraboschi.

Nel 1787 comparvero a Parma dei nuovi Versi, mentre, nello stesso anno, il 6 ottobre, dopo quattro aborti, nacque un figlio a Costanza Braschi, preceduto dal sonetto augurale di Monti A S. Nicola da Tolentino del 10 settembre, che suscitò sarcastiche polemiche, cui Monti rispose con il caudatissimo sonetto A Quirino, occasione per regolare i conti con il mondo letterario romano. Il clima polemico, il raffreddamento dei rapporti con Braschi anche per le insinuazioni sui rapporti della moglie con il poeta, l’allontanamento da casa Ferretti, dove si era trasferito dal 1783, per gelosia di Paolo nei confronti della moglie Clementina, spinsero Monti a diradare i suoi interventi e a dedicarsi a studi e letture che avrebbero dato frutto negli anni a venire.

Abbozzò nel 1788 il Caio Gracco, non spingendosi oltre il primo atto, compose e lesse in Arcadia, per il Venerdì Santo dello stesso anno, i quattro sonetti Sulla morte di Giuda, che segnarono l’inizio delle sue polemiche con Francesco Gianni, e scrisse gli sciolti Alla marchesa Anna Malaspina della Bastia, come introduzione all’edizione dell’Aminta, curata da Pier Antonio Serassi per i tipi bodoniani (Parma 1789) in occasione delle nozze di Giuseppina Amalia, figlia della marchesa, con il conte Artaserse Baiardi. Di là dal motivo encomiastico, che pure si allarga a temi più generali nell’elogio della corte parmense, spicca nei versi di Monti l’amore per la tradizione letteraria italiana, soprattutto nei ritratti di Dante esule e di Tasso.

Anche la vita privata di Monti acquistò maggiore equilibrio quando, il 3 luglio 1791, sposò, nella chiesa di S. Lorenzo in Lucina e in forma privata, la bellissima Teresa Pikler (1769-1834), figlia di Giovanni, famoso incisore di pietre dure, da cui ebbe due figli, Costanza (1792-1840) e Giovan Francesco (1794-1796). Prima del matrimonio Teresa si fece fare da Monti donazione dell’intero suo patrimonio, presente e futuro, lasciandogli l’usufrutto e la libertà di testare solo per un ventesimo. Le cresciute necessità economiche di Monti, che si era fatto anche carico della famiglia della moglie, ospitando nella sua nuova casa di via dei Prefetti 22 il cognato Giacomo, si accompagnarono, di conseguenza, a rinnovate richieste di denaro alla famiglia e a contestazioni sull’amministrazione dei beni, acuite dal dissidio tra il fratello prete Cesare, amministratore dei beni comuni, e l’altro fratello Francesco Antonio.

Intanto le forze della rivoluzione premevano sullo Stato pontificio, creando in Roma un clima fortemente antifrancese che culminò nell’uccisione del segretario della legazione francese a Napoli, Nicolas- Jean Hugou de Bassville, inviato in missione a Roma, ferito in un tumulto popolare il 13 e morto il 14 gennaio 1793. La corte pontificia preferì sorvolare sulle provocazioni repubblicane di Bassville: ne accreditò la morte con i conforti religiosi, fece celebrare i funerali e spedì la famiglia a Napoli con un indennizzo.

Nell’eccezionale produzione poetica di circa 600 componimenti di vario genere che accompagnò la morte di Bassville, cui era seguita quella di Luigi XVI il 21 gennaio 1793, Monti si inserì con la Bassvilliana, poemetto in terzine e su modello danteschi (In morte di Ugo di Bassville, Roma 1793), in cui Bassville, pentito e accompagnato da un angelo, assiste alla rovina della Francia a causa della rivoluzione, fino all’esecuzione di Luigi XVI e all’invocato sorgere della coalizione antifrancese. A maggio uscirono i canti I e II, a giugno il canto III, ad agosto il canto IV e nello stesso 1793 vide la luce l’edizione dei quattro canti con note dell’autore, in cui comparve anche l’ode saffica Invito di un solitario ad un cittadino, composta alla fine del 1792. L’opera, che ebbe un successo europeo e costituiva forse la prova più alta di Monti nello stile sublime, si richiamava a Milton e a Klopstock, alla Bibbia e a Dante, il cui linguaggio riapparve improvvisamente vitale all’orizzonte poetico, sulla scia della prima edizione romana della Commedia, uscita nel 1791, con il commento di Baldassarre Lombardi e promossa da Liborio Angelucci, poi amico e medico del Bassville. La cantica fu interrotta per il mutare delle condizioni politiche e, con accorto bilanciamento tematico, al posto della sua continuazione fu offerta al pubblico, probabilmente nel 1794, la Musogonia, in ottave, con un primo canto in cui, seguendo Esiodo, si celebrava l’origine delle Muse e l’abbozzo di un secondo che avrebbe dovuto essere dedicato alla missione civilizzatrice delle stesse Muse sulla terra.

Probabilmente a questa data va fatto risalire anche l’inizio del lavoro intorno all’incompiuta Feroniade, poemetto in versi sciolti in tre canti, in cui si narra della ninfa Feronia, amata da Giove, che vede il suo regno prima distrutto da inondazioni e incendi per opera della gelosa Giunone e poi salvato dall’intervento di Giove, preludio al risanamento delle paludi Pontine intrapreso da Pio VI. Se alla fine del I canto della Musogonia si leggeva ancora una deprecazione delle armi francesi e un’invocazione a Francesco II, rimosse nell’edizione del 1797, in realtà sin dalla fine del 1793 Monti aveva capito che la situazione politica era cambiata in modo irreversibile. Nel 1794, anno delle congiure giacobine di Bologna e Napoli, scrisse la Lettera di F. Piranesi al signor generale D. Giovanni Acton, su commissione e probabilmente sulla base di appunti dell’incisore, ministro di Svezia a Roma. La Lettera, anonima, difende Francesco Piranesi dall’accusa di aver tentato di uccidere il barone svedese Gustav Mauritz Armfelt nel quadro delle lotte di potere seguite all’assassinio di Gustavo III e attacca la corte napoletana. Il pamphlet servì anche al poeta, in vista di un’imminente invasione francese, per far acquisire al fratello Francesco Antonio una specie di immunità diplomatica con la nomina a viceconsole svedese.

Le lettere ai fratelli e a Costabili Containi, come le contemporanee lettere di Alessandro Verri al fratello Pietro, sono una specie di diario della invivibile situazione romana, in cui si susseguono crisi economica, pane cattivo, aumenti di prezzi, moneta di carta, cambi di moneta, ori e argenti conferiti alla Zecca, torbidi, violenze popolari e difficoltà di controllo da parte delle autorità. Ne emergeva un quadro di paura fisica e di difficoltà di rapporti con la corte di Roma, cui Monti cercò di far fronte con la lettera del 24 ottobre 1796 al cardinale Ignazio Busca, nuovo segretario di Stato, in cui si difendeva dai sospetti di giacobinismo. Ma, dopo l’invasione francese delle legazioni di Bologna e Ferrara, l’arrivo dei francesi a Roma, il trattato di Tolentino (19 febbraio 1797), la lunga crisi maturò nella fuga da Roma, il 3 marzo 1797, nella carrozza di Auguste Marmont, aiutante di campo di Bonaparte. Monti lasciò a Roma la figlia e la moglie, cui Braschi, sorpreso e senza notizie, passò ancora due mesi di stipendio. A Firenze, in casa della marchesa Marianna Venturi, dove conobbe Urbano Lampredi, recitò parte del Prometeo, cui lavorava dalla fine del 1796. Nel passaggio dalla Repubblica Cispadana alla Cisalpina (29 giugno 1797) fu dapprima a Bologna, dove lo raggiunsero la moglie e la figlia, poi a Venezia e a Milano, come segretario al Dipartimento degli Esteri della Repubblica Cisalpina.

Dietro suggerimento di José Nicolás de Azara dedicò a Napoleone l’edizione del primo canto del Prometeo (Bologna 1797, incompiuto, altri due canti, corretti, nel 1825), premessovi un artificioso parallelo fra l’eroe della storia e l’eroe del mito, al quale gli sciolti del poemetto assegnano quei compiti di diffusione di civiltà affidati alle Muse dall’incompiuta Musogonia. Anche questo poemetto, del resto, presentato come opera nuova nelle edizioni in un solo canto, di Venezia e poi di Milano del 1797, vide sostituita l’originaria invocazione finale all’imperatore austriaco con quella a Bonaparte. L’operazione non sfuggì all’antico nemico Gianni, che lo attaccò violentemente.

Intanto, per far dimenticare la Bassvilliana o almeno sottrarsi al processo ideologico imperniato su di essa, scrisse una pubblica lettera a Francesco Saverio Salfi (18 giugno 1797) e le cantiche anticlericali in terzine, pubblicate nel 1797, tra Venezia e Milano, Il Fanatismo e La Superstizione, sostenendo che la Bassvilliana era servita di copertura ai suoi veri pensieri e presentandosi come vittima del governo pontificio e dei suoi sentimenti di padre e di marito. La terza cantica di quell’anno, Il Pericolo (Milano 1797, settembre), denuncia dei pericoli di restaurazione monarchica a Parigi, si affiancò alla di poco precedente canzone Per il congresso di Udine, petrarchesca nello schema metrico e nell’intonazione politica e che legava, nei suoi versi, la libertà dell’Italia a Bonaparte. Alla fine del 1797 Monti e Luigi Oliva, nominati commissari per la Romagna con compiti di riordino amministrativo, si imbatterono in vendite truffaldine di beni nazionali e furono accusati di illecito dal marchese Alessandro Guiccioli e dal faccendiere Domenico Baronio, ma le accuse caddero rapidamente. Guardato con diffidenza da reazionari e giacobini, attaccato da nuovi e vecchi nemici, come Gianni e Lattanzi, Monti fu colpito da una legge del 1798, pensata contro di lui e contemplante l’esclusione dagli incarichi pubblici di chi, dopo il 1792, avesse scritto contro la rivoluzione. Il provvedimento non fu applicato e diede occasione al giovane patriota Ugo Foscolo di scrivere l’Esame su le accuse contro V. M. (1798), difesa e insieme profilo del poeta, rivelato come autore della Lettera di F. Piranesi. L’evento, infine, che nella Bassvilliana era il culmine degli orrori rivoluzionari, la decapitazione del re, fu celebrato da Monti nell’inno, per voci e coro, Per l’anniversario della caduta dell’ultimo re di Francia (1799), eseguito al teatro alla Scala di Milano il 21 gennaio 1799, con musica di Ambrogio Minoja.

Quando, nel 1799, gli Austro-Russi abbatterono la prima Cisalpina, Monti, che era diventato segretario del Direttorio per la sezione degli Affari esteri ed interni, mandò la figlia in Romagna presso i fratelli e fuggì (26 aprile) prima in Piemonte, poi a Chambéry, dove il Direttorio Cisalpino si era trasferito. Qui probabilmente concluse la versione in ottave della Pucelle d’Orléans di Voltaire (pubblicata postuma nel 1878, sottratta alla distruzione del manoscritto voluta dall’autore alla fine della vita), omaggio al suo Ariosto più che allo scrittore francese. Nell’autunno, ricongiuntosi con la moglie, dopo una tappa a Lione, si recò a Parigi, dove fu aiutato da Ferdinando Marescalchi, conobbe il matematico Lorenzo Mascheroni (morto a Parigi il 14 luglio 1800), Giulia Beccaria e Carlo Imbonati e fu raggiunto dalla notizia della morte della madre (16 settembre 1800). Vivendo di sussidi e dell’ospitalità degli amici scrisse, su incarico del governo, l’inno Per la liberazione d’Italia (1800), a celebrazione della battaglia di Marengo, portò a termine il Caio Gracco e compose i primi due canti della Mascheroniana. Pur avendo ricevuto notizia dal 1800 della sua nomina alla cattedra di eloquenza e poesia (dal 31 ottobre 1803 eloquenza latina e italiana) presso l’Università di Pavia, rientrò in Italia solo nel 1801 (il 3 marzo era a Milano). Sistemati provvisoriamente gli affari familiari con la firma di una procura generale al fratello Cesare, si impegnò con la sua opera non solo per se stesso ma per la seconda Cisalpina, prima, e per la Repubblica Italiana poi, in una prospettiva di indipendenza e stabilizzazione costituzionale e in un confronto con Foscolo e i circoli democratici, il cui discrimine era segnato dalle speranze di Monti nell’opera di Bonaparte. In questa cornice ideale e poetica si collocò anche l’inizio dei rapporti con Vincenzo Cuoco e della feconda e duratura amicizia con il giovane Manzoni, colpito, come tanti, dalla condanna della corruzione e della violenza della Cispadana e della prima Cisalpina e dal recupero della tradizione milanese di Verri, Parini, Beccaria presenti nella cantica in terzine In morte di Lorenzo Mascheroni (primi tre canti: Milano 1801; IV e V postumi, a eccezione di un frammento del IV pubblicato da Bettoni nel 1808). L’intreccio fra speranze del popolo, indipendenza dell’Italia e azione di Bonaparte animò la canzone Per il Congresso cisalpino di Lione e fu sullo sfondo dell’intenso Caio Gracco (prima ed., marzo 1802; seconda immediatamente successiva, forse in vista della rappresentazione del 21 ottobre 1802, con varianti che ne accentuavano il messaggio complessivo patriottico, legalitario e antidemagogico). La tragedia fruttò al poeta 100 zecchini dal governo e 2000 dei 3000 esemplari della tiratura complessiva.

Divenuto il 5 ottobre 1802 membro dell’Istituto nazionale e ricusata l’offerta di passare all’Università di Bologna, dopo la chiusura dei Comizi di Lione (26 gennaio 1802) e la proclamazione della Repubblica Italiana, con Francesco Melzi d’Eril vicepresidente, prese servizio a Pavia, dove insegnò dal 24 marzo 1802 al settembre 1804. Con le sue doti di grande declamatore di poesia e la sua calda oratoria messa al servizio del patriottismo letterario Monti ebbe immediato successo. Allontanandosi dichiaratamente dalla precettistica per offrire piuttosto letture dirette di testi suggestivamente comparati, il suo insegnamento spaziò da Omero a Virgilio, da Dante a Tasso a Milton, con interessanti riletture dei dialoghi platonici nelle lezioni su Socrate e i sofisti e adattando alle sue esigenze non solo Tiraboschi o Buonafede ma anche il De la littérature di M.me de Staël.

Le lezioni e le prolusioni di Monti furono colpite dalla censura civile ed ecclesiastica e da quella postuma della figlia Costanza e di Paride Zajotti, così che ne rimane solo la parte in cui spicca la prolusione del 26 novembre 1803 Dell’obbligo di onorare i primi scopritori del vero in fatto di scienza, rivendicazione della tradizione culturale italiana e del nesso tra lettere e scienze, basi di un rinnovamento di lingua e pensiero. Alla fine del 1803 uscì anche la traduzione delle Satire di Persio (Milano 1803; ibid. 1826, molto rivista), dedicata a Melzi: brillante prova delle capacità tecniche di Monti nelle scelte metriche e lessicali, mentre nelle note si riflette sul rapporto del poeta con il potere tra denuncia e collaborazione. La traduzione di Persio, le Prolusioni pavesi e, poco dopo, il Teseo furono attaccati sul Nuovo giornale dei letterati di Pisa da Giovanni Salvatore De Coureil, cui Monti rispose violentemente nelle note di Del cavallo alato d’Arsinoe. Lettere filologiche (Milano 1804), indirizzato a Giovanni Paradisi, in cui sosteneva che l’ales equos della Chioma di Berenice di Catullo-Callimaco dovesse identificarsi con lo struzzo e non con Zefiro, come aveva invece giustamente intuito Foscolo.

Lasciò l’insegnamento in quanto, il 28 settembre 1804, fu nominato «Poeta del Governo italiano ed Assessore consulente presso il Ministero [dell’Interno] per ciò che spetta alle Belle Arti ne’ loro rapporti colla letteratura» e, nell’agosto 1805, «Istoriografo del Regno d’Italia». Entrambe le cariche, di là dalle denominazioni ufficiali, richiedevano a Monti, in cambio di una relativa tranquillità economica, di prestare consulenze varie al governo e di offrire la perizia non passiva della sua penna a varie occasioni celebrative. Così per l’azione drammatica Teseo (alla Scala, 3 giugno 1804, con musica di Vincenzo Federici), per ordine del vicepresidente della Repubblica, in occasione della festa nazionale del 3 giugno, fondata sull’immagine di Napoleone che libera i popoli come Teseo libera la terra dai mostri; e per le successive Visione (conosciuta anche come Il beneficio, aprile-maggio 1805), per l’incoronazione di Napoleone a re d’Italia, e La spada di Federico II, in ottave (Brescia 1806), sulle campagne militari in Prussia. Nel 1805 l’incontro con la nemica di Napoleone, M.me de Staël, si sviluppò in un rapporto denso di implicazioni sentimentali e culturali, che vide anche una visita di Monti a Coppet, al termine di un viaggio che, nell’ottobre-novembre 1805, lo aveva prima portato a Torino, Ginevra e Berna. Il 9 dicembre 1805, con una delegazione del Regno Italico che doveva congratularsi con l’imperatore per le sue vittorie sugli Austro-Russi, partì per Monaco di Baviera da dove tornò verso il 16 gennaio. Dal viaggio e da un incontro con Napoleone scaturì l’impegno per Il Bardo della Selva Nera. Poema epico-lirico, progettato in 12 canti ma di cui solo i primi 6 uscirono in diversi formati, per i tipi di Bodoni (Parma 1806), a spese e con diffusione del governo, con ricompensa al poeta di 2000 zecchini, 1000 subito, 1000 all’uscita della seconda parte.

Il poema, di cui il settimo canto e un frammento dell’ottavo uscirono postumi, vuole innovare sia sul piano dell’invenzione, sostituendo la mitologia classica con quella ossianica amata da Napoleone, sia sul piano della struttura metrica, facendo seguire due canti in ottave ai primi quattro canti in endecasillabi sciolti inframezzati da brani lirici. Per realizzare l’ambizioso assunto di celebrare tutte le imprese di Napoleone, Monti immagina che il bardo Ullino, testimone dalla Selva Nera della campagna prussiana, raccolga il soldato ferito Terigi, curandolo assieme alla figlia Malvina e ascoltandone il racconto delle gesta napoleoniche.

Il ruolo ufficiale di Monti e le sue amichevoli relazioni con alti funzionari come Luigi Vaccari e Luigi Rossi lo resero provvidenziale benefattore di insegnanti e scrittori e richiesto mediatore politico, tanto da essere interpellato, nel novembre 1806, a nome del papa dal conte Luigi Marconi per una intesa economica con il governo e da ottenere, nel 1809, la riunificazione del territorio Leonino e delle Alfonsine sotto la potestà del comune di Fusignano. Anche la famiglia, in lutto nel luglio 1806 per la morte del fratello Gianfedele, continuò a richiedere il suo impegno. Nello stesso 1806 si adoperò in favore dei figli della sorella Maria Cristina e del notaio Domenico Matteo Camerani, imprigionati con l’accusa di aver fatto fuggire due disertori, mentre, nello stesso periodo, si cominciò a parlare di nozze per Costanza, dal 1805 nel collegio delle Orsoline di Ferrara. Nel periodo fra dicembre 1806 e gennaio 1807 fu a Genova, ospite di Gregorio Cometti, in un soggiorno allietato anche dalla presenza di Antonietta Costa, una delle sue amicizie sentimentali e letterarie.

La prima metà del 1807 fu di particolare rilievo nella storia letteraria di Monti, non tanto per l’ode In occasione del parto della Vice-Regina d’Italia, pur così significativa nella sua celebrazione di pacifici studi, quanto perché avviò il cantiere dell’Iliade, pubblicando la versione del primo canto del poema e le Considerazioni sulla difficoltà di ben tradurre la protasi dell’Iliade nell’Esperimento di traduzione della ‘Iliade’ di Omero (Brescia 1807), ideato da Foscolo. Nel giugno uscì la brillante Lettera all’abate Bettinelli, feroce, ulteriore polemica con Gianni e altri letterati, importante anche per la sua poetica. Monti fu poi a Roma con la moglie nel luglio 1807, ricevuto da papa Pio VII, e nel maggio 1808 di ritorno da Napoli. Ambedue le volte abitò al primo piano del palazzo Sciarra sul Corso, in casa del conte Marconi, di cui frequentò anche la villa a Frascati. A Napoli Monti fu dal 4 settembre 1807 al 2 maggio 1808, per scrivere il testo de I Pittagorici, opera in un atto con musica di Giovanni Paisiello, per una visita di Napoleone poi non avvenuta. Il dramma fu compiuto, dopo una interruzione per malattia del poeta, il 18 gennaio: le prove, con Paisiello, si tennero dal 24 febbraio e la rappresentazione avvenne con grande successo il 19 marzo, onomastico del re. Monti ricevette una scatola d’oro tempestata di diamanti, una lettera di apprezzamento del re, una pensione annua di 3000 franchi e, il 13 aprile 1811, l’investitura dell’Ordine reale delle Due Sicilie. Dietro il conflitto tra i Pitagorici e il tiranno Dionigi si poteva leggere quello tra i martiri della rivoluzione napoletana del 1799 e Ferdinando IV e nell’apoteosi di Archita quella di Napoleone pacificatore.

Dopo un breve soggiorno a Fusignano per affari domestici tornò a Milano dove, il 19 giugno 1808, lo raggiunse la notizia della morte del fratello Cesare.

Il 22 gennaio 1809 fu a Pavia, alla prolusione del Foscolo, invano invitato a un moderato ossequio alle autorità. Il lavoro di traduzione dell’Iliade, ormai serrato, fu interrotto dalla stesura della Palingenesi politica, in endecasillabi sciolti tratti dalla parte non pubblicata del Bardo, per le vittorie napoleoniche in Spagna e il passaggio di Giuseppe Bonaparte dal trono di Napoli a quello spagnolo, e dall’inno a Venere Urania, per Amalia Augusta, in visita alla copia del Cenacolo di Leonardo fatta da Luigi Bossi. Nello stesso 1809 vide la luce la versione del secondo canto del poema omerico nelle Memorie dell’Istituto nazionale, mentre, finalmente, nel 1810-11, a Brescia, presso Bettoni, uscì l’intera versione dell’Iliade (I-III, in vari formati, con dedica al viceré Eugenio de Beauharnais), poi rivista nell’edizione di Milano del 1812 (presso la Stamperia reale, con parere favorevole dell’Istituto e raccomandazione per le adozioni del governo), nel 1820 (presso Stella), nel 1825 (ancora da Bettoni).

Sulla base di versioni italiane e latine, soprattutto di quelle letterali in prosa italiana di Melchiorre Cesarotti e in prosa latina di Samuel Clarke, Monti si avvalse non passivamente, per la prima e soprattutto per la seconda edizione, dei consigli e suggerimenti di Andrea Mustoxidi, Luigi Lamberti, Urbano Lampredi ed Ennio Quirino Visconti. Il testo omerico, trasportato armonicamente nell’alveo di una tradizione attenta al valore letterario e musicale della parola poetica, divenne l’Iliade di Monti, riconosciuto punto d’arrivo non solo dell’opera del poeta ma del gusto e della cultura del neoclassicismo. Il successo della traduzione coincise con la rottura con Foscolo, esplosa nell’aprile 1810, in seguito a due negative recensioni a versi di Cesare Arici, scritte da Pietro Borsieri e Luigi Pellico, ma ispirate da Foscolo e apparse negli Annali di scienze e lettere. A contrastare l’azione culturale di questa rivista fu Il Poligrafo, periodico domenicale redatto da Lamberti, Lampredi e Francesco Pezzi, in cui Monti ebbe parte e che uscì presso il Veladini dal 7 aprile 1811 al 27 marzo 1814.

Proseguivano, intanto, i suoi impegni di poeta ufficiale con La Ierogamia di Creta (Parigi 1810), in cui le nozze fra Giove e Giunone sono allegoria di quelle dell’imperatore con Maria Luisa d’Austria, e Le api panacridi in Alvisopoli (Milano 1811), invocazione alle api che nutrirono Giove con il loro miele per la nascita del re di Roma.

Sempre stringenti erano anche gli impegni familiari. Nel 1810-11 difese il nipote Giuseppe, figlio del fratello Francesco Antonio, implicato nel processo a una società segreta antinapoleonica, costituitasi a Lugo: la difesa, vittoriosa, fu affidata alle capacità tecniche e alle amicizie massoniche di Pellegrino Rossi. Il 7 giugno 1812 la figlia Costanza sposò Giulio Perticari, matrimonio combinato che si collocava in un contesto di promozione sociale, che aveva fatto sfumare le promesse montiane a Mustoxidi e scegliere l’assai più noto e solido conte Perticari, accettandone le esose richieste dotali e sorvolando sulla sua relazione con la popolana Teresa Ranzi, da cui aveva avuto un figlio. In onore degli sposi vide la luce A gli dei consenti (Parma 1812), raccolta di 15 inni di vari autori in terzine dantesche, per iniziativa della Accademia Rubiconia Simpemenia dei Filopatridi di Savignano e in particolare di Bartolomeo Borghesi, mentre l’elegante stampa fu omaggio di Giambattista Bodoni.

Costanza rivide il padre nei mesi estivi del 1813, quando Monti fece un lungo giro da Pesaro a Fusignano, Bagnocavallo, Ravenna, Savignano, ma non ebbe accanto né lui né la madre quando, il 22 febbraio 1814, diede alla luce Andrea, morto dopo 18 giorni, mentre lei era in pericolo di vita. Le responsabilità familiari del poeta si accrebbero dal 1815, quando si fece carico dei 5 figli del fratello della moglie, Giacomo, morto improvvisamente (solo nel 1825 riuscì a sistemare i tre superstiti tra collegio militare e orfanotrofio).

Intanto l’8 maggio 1814 il generale austriaco Heinrich Joseph Bellegarde era entrato a Milano, e Monti cercò di stabilire un dignitoso compromesso tra passato e presente con la lettera a lui indirizzata il 3 dicembre 1814. In realtà il poeta sembrò accettare il governo austriaco con rassegnazione, tranne che per il patriottismo letterario che si rafforzò, poi, nella Proposta. Intanto ebbe ridotta la pensione di storiografo, per la personale opposizione dell’imperatore Francesco I, pur prestando la sua opera poetica al governo, come indicano la cantata Il mistico omaggio (15 maggio 1815 alla Scala, con musica di Vincenzo Federici), in onore dell’arciduca Giovanni, l’azione drammatica Il ritorno di Astrea, con musica di Joseph Weigl, eseguita alla Scala il 6 gennaio 1816 alla presenza di Francesco I e dell’imperatrice Maria Lodovica, l’inno drammatico Invito a Pallade, con musica di Johann Simon Mayr, che doveva rappresentarsi nel giugno 1819, in occasione di una visita mancata dei coniugi imperiali. Invitato, poi, dal governo a far parte della direzione della Biblioteca italiana, accettò con lungimirante riluttanza, facendo entrare nella compagine Pietro Giordani con cui aveva ricomposto dissidi degli anni passati. Già il primo anno di vita della rivista, il 1816, vide però esplodere i primi contrasti con Giuseppe Acerbi, nelle cui mani e in quelle del governo la rivista rimase nel 1817. Abortito, per veto del governo, il tentativo di dar vita a una nuova rivista, concentrò allora i suoi sforzi sulla Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al vocabolario della Crusca (I-III, in 6 tomi, Milano 1817-24, e un’appendice, ibid. 1826). Monti, che già nelle lezioni pavesi aveva mostrato il suo interesse per le questioni di lingua, dal 23 gennaio 1812 era divenuto socio corrispondente dell’Accademia della Crusca, da Napoleone reintegrata nel 1808 e ufficialmente ricostituita nel 1811, e aveva pubblicato sul Poligrafo, nel 1813, tre dialoghi sulla lingua, che avevano come bersaglio polemico il purismo di Antonio Cesari e la sua edizione del Vocabolario della Crusca (1806-11). Respinta dalla Crusca la proposta di collaborazione del R.I. Istituto lombardo, appurata la volontà del governo austriaco quantomeno di non ostacolare la realizzazione di un nuovo vocabolario italiano, Monti si dedicò al lavoro della Proposta, con vari collaboratori, tra cui Giordani, il sempre più prezioso Giovanni Antonio Maggi e Perticari, del quale inserì nell’opera, rispettivamente nel primo e nel secondo volume, i trattati Degli scrittori del Trecento e dei loro imitatori e Dell’amor patrio di Dante.

Monti, in un’opera che è di metodo e, appunto, di proposta, preliminare a un nuovo vocabolario, mirava a una lingua unitaria degli scrittori italiani, che escludesse il lessico più desueto e facesse tesoro della tradizione letteraria, aprendola agli apporti di scrittori trascurati e del linguaggio degli scienziati. La difesa dell’Illuminismo e della lingua come vincolo unitario della nazione, sostitutivo e preparatorio di quello politico, e le caute aperture verso una lingua più moderna lo esposero agli attacchi della Biblioteca italiana portati da Giovanni Pagni, con lo pseudonimo di Farinello Semoli, ma gli assicurarono il parziale apprezzamento degli uomini del Conciliatore, in particolare di Ludovico Di Breme. Monti fu coinvolto nella preparazione di questa rivista, da cui si defilò già a metà agosto del 1818, sia per il rifiuto di accogliere nel primo numero del giornale la traduzione di Giovanni Rasori di Gli Dei della Grecia di Schiller, sia per motivi di prudenza politica, che non gli impedirono, peraltro, di avere buoni rapporti con Luigi Porro Lambertenghi, Silvio Pellico, Giovita Scalvini e altri sospetti.

Alla ormai lunga consuetudine con Manzoni (che il 15 giugno 1827 gli inviò i Promessi Sposi) si aggiunse l’omaggio di Leopardi che il 21 febbraio 1817 gli spedì la traduzione del secondo libro dell’Eneide, dedicandogli, poi, nel 1819, le canzoni All’Italia e Sopra il monumento di Dante, dedica riproposta, con qualche attenuazione, nell’edizione delle Canzoni del 1824. Anche Tommaso Grossi gli mandò, tramite Carlo Porta, l’Ildegonda (15 settembre 1820), mentre, tra il 1818 e il 1821, Monti ebbe rapporti non insignificanti con Carlo Alberto, per cui fu messo sotto sorveglianza dalla polizia austriaca, anche perché Perticari, suo genero, era fondatamente sospettato di essere iscritto alla Carboneria.

La primavera del 1820 e l’inverno del 1821 lo videro in Veneto, tra estimatori e amici (incontrò Cesari a Verona), in viaggi che erano anche un sollievo rispetto all’assillo di problemi economici, accresciuti dalla difficoltà di mantenere gli impegni dotali assunti col matrimonio della figlia. Alle sopravvenienti infermità, una fistola all’occhio destro operata a Milano e la progressiva sordità, si aggiunse la morte di Perticari il 26 giugno 1822, in casa del cugino Francesco Cassi a San Costanzo, causa di grande dolore per Monti, aggravato dalle accuse dei parenti di Giulio rivolte a Costanza di aver causato la morte del marito.

Costanza tornò dal padre, che la difese con l’ode Se generoso sdegno (1822, per nozze Persico-Gozzola, fermata dalla censura) e si avvalse della sua collaborazione nel lavoro letterario e nell’amministrazione. Dopo qualche tempo, infatti, per ovviare alle crescenti difficoltà economiche, causate anche dalla pessima conduzione dell’amministrazione dei beni romagnoli prima da parte del nipote Giuseppe, poi dell’abate Francesco Sinibaldi, Costanza fu inviata in Romagna per seguire direttamente gli affari di famiglia (aprile 1824- novembre 1825).

Malgrado tali traversie, Monti, sollecitato dal marchese Gian Giacomo Trivulzio e dalla possibilità di usufruire della sua ricca biblioteca e preparato dalla sua familiarità con Dante e con la tradizione letteraria italiana, scrisse il Saggio diviso in quattro parti dei molti e gravi errori trascorsi in tutte le edizioni del Convito di Dante (Milano 1823), in parte frutto di un lavoro collettivo che sfociò in un’opera insigne per impegno filologico e ricchezza di commento: la duplice edizione del Convivio, prima quella privata e di servizio in pochi esemplari a Milano nel 1826, poi quella definitiva, uscita a Padova alla fine del 1827. Vi si accompagnarono l’edizione della Vita nuova (1827) e del Dittamondo di Fazio degli Uberti (Milano 1826), cui, come per il Convivio, aveva lavorato con Perticari e che gli causò dissapori con la figlia e una denuncia, finita nel nulla, per appropriazione indebita dei manoscritti del genero da parte del fratello di questo, Gordiano. Nella speranza, infine delusa, di ottenere un decisivo appoggio per il reintegro della sua pensione di storiografo, insieme a Andrea Maffei, tradusse alcuni episodi della Tunisiade, poema di János László Pyrker, patriarca di Venezia. Si cimentò anche in un saggio di traduzione in ottave dell’Iliade, uscito nel fascicolo di dicembre del 1824 [ma 1825] della Biblioteca italiana.

Risultati ancora felici di alta letteratura sono tuttavia da ricercarsi negli epitalami Le nozze di Cadmo ed Ermione (aprile 1825), per le nozze delle principesse Trivulzio, e Sulla mitologia (luglio 1825), per quelle del figlio di Antonietta Costa, difesa del significato storico della sua esperienza di scrittore e del senso del suo ricorso alle favole antiche, ma anche compiaciuto e letterario ritratto dell’artista da vecchio. Questo tema, in particolare, ritornerà l’anno successivo, in tono più intimo, nella canzone libera Pel giorno onomastico della mia donna Teresa Pikler, pubblicata nella Biblioteca italiana e significativa, come del resto il Sermone sulla mitologia, per i rapporti con la poesia di Leopardi.

Non riuscì, invece, a portare a termine la Feroniade, la cui copia era stata recuperata tra le carte di Perticari da Francesco Maria Torricelli alla fine del 1824: ma l’opera, apparsa postuma, mancante degli ultimi versi eppur compiuta nell’armonia dei suoi endecasillabi, mantenne quel significato che vi avevano visto Foscolo e Giordani di rivelazione dei segreti di un lungo itinerario artistico. A questo itinerario vollero rendere omaggio anche le due edizioni delle opere di Monti, avviate vivente il poeta a Bologna e Milano, con problemi non indifferenti, per le opere del periodo rivoluzionario e napoleonico, con la censura austriaca, che proibì anche la riproduzione della dedica a Melzi nella nuova edizione, molto rivista, del Persio (Milano 1826).

Nei frequenti soggiorni a Caraverio, presso Luigi Aureggi, e a Sesto di Monza, presso i Calderara, cercò conforto alle amarezze degli ultimi anni: il mancato reintegro della pensione, le interminabili questioni d’affari con i parenti, le maldicenze sui rapporti tra Zajotti e la figlia Costanza, i dissidi di questa con la madre. Anche lo turbò la pubblicità data dai giornali al suo ritorno al cattolicesimo, con l’assistenza di don Ambrogio Ambrosoli, tanto che fu spinto a ribadire la sua perenne fedeltà al Vangelo il 6 settembre 1827 nella Gazzetta di Milano.

Ancora cercato dai giovani, come Carlo Cattaneo, in verità attratto anche dalla bellezza di Costanza, già colpito il 9 aprile 1826 da un colpo apoplettico che lo aveva paralizzato dal lato sinistro, subì il 21 maggio 1828 un nuovo colpo.

Morì il 13 ottobre del 1828 a Milano: dalla sua casa in contrada di S. Giuseppe n. 1065 (ora via Verdi) le spoglie furono portate, il giorno 15 al cimitero di S. Gregorio fuori Porta Venezia, oggi distrutto, dove Felice Bellotti tenne l’orazione funebre.

Monti sembrò incarnare nel suo tempo l’idea stessa della poesia, oltre che per la sua opera capillarmente presente agli appuntamenti della cronaca se non della storia, anche per la sua stessa presenza, per la sua bella fisicità e per le sue doti di declamatore, come testimonia una ricca aneddotica che comprende i nomi di Foscolo e Manzoni, Goethe e Byron, M.me de Staël e Schlegel, Sismondi e Stendhal. Davano, inoltre, ulteriore spessore alla sua figura la capacità di interloquire con le tendenze e le istituzioni culturali che si presentavano al suo orizzonte e di inserirsi nel dibattito politico, in una dimensione che andava spesso al di là dell’interesse personale.

Questa immagine complessiva di poeta e di impegnato uomo di cultura andò attenuandosi nel tempo a favore di una interpretazione della figura di Monti basata prevalentemente sull’opera letteraria, sottoposta al duplice giudizio dei mutati canoni estetici e dei risentimenti morali e politici, da Leopardi a De Sanctis, da Carducci a Croce. Tuttavia, con il saggio di Croce (1921) e con l’edizione dell’Epistolario (1928-31) curata da Bertoldi si aprì un lungo percorso di riesame critico di Monti che è dietro l’attuale fase di ricerche, aperta nel 1969 dal fondamentale saggio di Gennaro Barbarisi, animato dalla volontà di reinserire l’opera letteraria di Monti nel contesto che la vide nascere e affermarsi. Con proficua varietà di accenti e di risultati si sono inseriti in questo solco studiosi come Arnaldo Bruni, Angelo Colombo, Luca Frassineti, Angelo Romano, William Spaggiari e tanti altri che è qui impossibile ricordare, mentre è possibile ricavare dalle loro ricerche qualche sintetica indicazione per la ricostruzione del profilo biografico.

La rilettura dell’opera e della personalità di Monti intrapresa negli ultimi decenni e culminata nelle pubblicazioni che hanno accompagnato le celebrazioni per i 250 anni dalla nascita del poeta ne ha privilegiato, infatti, con diverse sfumature, la dimensione culturale e civile. Proprio leggendone in positivo l’importanza culturale la critica più recente, sviluppando anche le indicazioni, tra gli altri, di Luigi Russo, Mario Fubini, Walter Binni, Guido Bezzola, ha fornito di Monti un ritratto più equanime e comprensivo, sulla base di nuovi dati e nuove edizioni e di una rilettura del periodo storico in cui visse e dell’intera sua opera letteraria, linguistica e filologica. Da questo lavoro di scavo emerge, rispetto al profilo biografico tradizionale, una figura molto più consapevole, pronta a trar frutto dall’ambiente cosmopolita di Roma, abile nel far crescere il peso del suo ruolo tra Rivoluzione e dominio napoleonico, rassegnata ma non doma negli impegni filologici e linguistici del tempo della Restaurazione. E sicuramente questi elementi saranno confermati man mano che si farà maggior luce su momenti della sua vita, pur molto studiati, come il periodo romano, e su aspetti particolari come i rapporti con gli ambienti marchigiani, emiliani e romagnoli, o quelli con gli artisti e gli storici dell’arte, anche se già ora non mancano importanti contributi sulle relazioni con Antonio Canova e Andrea Appiani, Ennio Quirino Visconti e Leopoldo Cicognara. Allo stesso modo andranno approfonditi i contatti con la massoneria, sul piano sia personale sia delle opere, per le quali interessanti spunti si ritrovano nelle analisi compiute sulla Lettera a Piranesi, sul Prometeo, sui Pittagorici. Dalla ricerca emerge con maggiore organicità anche il ruolo di Monti come mediatore e innovatore nella tradizione letteraria, in particolare il complesso rapporto di dare e avere con Foscolo, Manzoni e Leopardi, in intrecci e scambi letterari che la critica ha studiato con sempre maggiore attenzione ribadendone il significato storico.

Inoltre le acquisizioni sul valore letterario dell’opera montiana sono state meglio storicizzate sia per il teatro, anche musicale, sia per l’uso delle fonti mitologiche e storiche, sia per la formazione di opere capitali come la traduzione dell’Iliade o la Proposta, fondate su una profonda conoscenza della lingua letteraria. Questo sembra essere uno dei fattori unificanti dell’opera di Monti, quello su cui egli fondava l’alta consapevolezza del suo magistero poetico. Sempre pronto alle liti e alle paci letterarie, sempre in lotta con parenti e potenti per la sua sopravvivenza economica, ebbe, infatti, anche un’alta coscienza di sé e del proprio lavoro e, come è stato osservato, un’indocilità critica che gli impedì di essere pienamente servile. D’altra parte Monti, che sempre lavorò per mantenersi adeguandosi agli ambienti in cui visse, colse benissimo, sin dall’inizio della sua attività, i meccanismi moderni della diffusione della cultura e la forza dell’opinione pubblica servita dall’industria editoriale. Anche tale fattore, di là dagli elementi caratteriali, spiega la frequenza delle sue polemiche, mentre il controllo della politica e le contraddizioni del mercato librario limitarono i risultati dei rapporti con editori come Bodoni, Stella, Bettoni, Silvestri, Sonzogno, cui Monti affidò opere lette dappertutto, ma anche ristampate dappertutto in assenza di diritto d’autore. Di qui, mancando le garanzie giuridiche che permettessero di vivere interamente del proprio lavoro, la necessità di usufruire anche di forme di mecenatismo, quali alti impieghi, pensioni, acquisti di copie, in un rapporto diretto con il potere che consentisse un equilibrio dignitoso tra le esigenze del proprio ingegno e quelle del servizio. Certo, questo equilibrio in Monti spesso mancò: ma, come ebbe a ricordare Carlo Cattaneo, se Monti «fu volubile e talvolta servile, lo fu sempre con tutta la nazione» (lettera a don Giovanni Brunati, 27 settembre 1863).

Opere: si ricordano prima le edizioni ottocentesche ancora indispensabili per molti testi: Opere varie, I-VIII, Bologna 1821-28; Opere varie, I-VIII, Milano 1825-27; Opere inedite e rare, I-V, ibid. 1832-34; Opere di V. M., IV, ibid. 1839-42 (con un’appendice di versi proibiti); Prose e poesie novamente ordinate, a cura di G. Carcano, I-V, Firenze 1847 (più un volume di versi proibiti edito a Bastia). Ancora preziosi risultano i volumi curati da G. Carducci per Barbera: Le poesie liriche, 2ª ed., Firenze 1862; Canti e poemi, I-II, ibid. 1862; Tragedie drammi e cantate con appendice di versi inediti o rari, ibid. 1865; Versioni poetiche con giunta di cose rare o inedite, ibid. 1869. Importante la revisione di T. Casini: Poesie liriche di V. M. novamente ordinate, Firenze 1891.

Per le edizioni moderne si parta dalle antologie: Poesie, a cura di A. Bertoldi, Firenze 1891 (2ª ed., ibid. 1907, rist. anast., a cura di B. Maier, ibid. 1957); Opere scelte, a cura di C. Angelini, Milano 1940; Opere, a cura di M. Valgimigli - C. Muscetta, Milano-Napoli 1953; la sezione dedicata a Monti, in Lo studio dell’antichità classica nell’Ottocento, a cura di P. Treves, Milano- Napoli 1962; Poesie, a cura di G. Bezzola, Torino 1969. Si prosegua poi con: Epistolario, raccolto, ordinato e annotato da A. Bertoldi, IVI, Firenze 1828-31; Versione dell’«Iliade», con introd. e commento di G. Chiodaroli, nuova ed. a cura di G. Barbarisi, Torino 1963; Persio, Le Satire, a cura di S. Vollaro, in appendice traduzione e note di V. Monti, Torino 1971; La Pulcella d’Orléans. Voltaire, traduzione in ottava rima di V. Monti, a cura di G. Barbarisi - M. Mari, Milano 1982; Esperimento di traduzione della Iliade di Omero di Ugo Foscolo, rist. anast., a cura di A. Bruni, Parma 1989; Iliade di Omero, introd. e commento di M. Mari, Milano 1990; Lettera di F. Piranesi al signor generale D. Giovanni Acton, a cura di R. Caira Lumetti, Palermo 1991; A. Dardi, Gli scritti di V. M. sulla lingua italiana, con introd. e note, Firenze 1990; Lettere d’affetti e di poesia, a cura di A. Colombo, Roma 1993; A. Colombo, Il carteggio M. - Bodoni. Con altri documenti montiani, Roma 1994; Aristodemo, a cura di A. Bruni, Parma 1998; Poesie (1797-1803), a cura di L. Frassineti, prefaz. di G. Barbarisi, Ravenna 1998; Iliade di Omero. Traduzione del cav. V. M., I-II, ed. critica a cura di A. Bruni, Bologna 2000 (di cui è uscito il vol. 2, ms. Piancastelli, in 3 tomi); Il Prometeo, ed. critica, storia, interpretazione, a cura di L. Frassineti, Pisa 2001; Lezioni di eloquenza e Prolusioni accademiche, introduzione e commento di D. Tongiorgi, testi e note critiche di L. Frassineti, Bologna 2002; L’Iliade di Omero, a cura di A. Bruni, Roma 2004; Galeotto Manfredi principe di Faenza, a cura di A. Bruni, Bologna 2005; Postille alla Crusca veronese, a cura di M.M. Lombardi, Firenze 2005; Saggio di poesie, a cura di A. Di Ricco, presentazione di G. Barbarisi, rist. anast., Trento 2006.

Fonti e Bibl.: nell’impossibilità di ripercorrere l’imponente bibliografia montiana si rimanda a G. Bustico, Bibliografia di V. M., Firenze 1924 e A. Romano, Bibliografia di V. M. (1924-2004). Con un’appendice sulla produzione 2005-2008, Milano 2009; cui si aggiungano: L. Frassineti, V. M.: i testi, i documenti, la storia, Pisa 2009; A. Colombo, Società letteraria e cultura politica nella formazione di V. M. (1779-1807), Roma 2009; nonché i volumi di atti citati di seguito, la cui descrizione analitica è nella Bibliografia di Romano: V. M. fra magistero e apostasia, Ravenna 1982; V. M. fra Roma e Milano, a cura di G. Barbarisi, Cesena 2001; V. M. nella cultura italiana, I, 1-2, a cura di G. Barbarisi, Milano 2005; II (V. M. nella Roma di Pio VI), a cura di Id., ibid. 2006; III (V. M. nella Milano napoleonica e post-napoleonica), a cura di G. Barbarisi - W. Spaggiari, ibid. 2006; V. M. e la Francia, a cura di A. Colombo, Parigi 2006. A questi volumi e alle indicazioni contenute negli apparati delle edizioni moderne delle opere si rimanda per la storia della critica e dei manoscritti montiani. Giovi ricordare, infine, un’opera benemerita e ancora utile: L. Vicchi, V. M. Le lettere e la politica in Italia dal 1750 al 1830 (triennio 1778-1780), Roma 1885; Id., V. M. Le lettere e la politica in Italia dal 1750 al 1830 (decennio 1781-1790), Faenza 1883; Id., Saggio d’un libro intitolato V. M. Le lettere e la politica in Italia dal 1750 al 1830 (triennio 1791- 1793), Faenza 1879; Id., V. M. Le lettere e la politica in Italia dal 1750 al 1830 (sessennio 1794- 1799), Fusignano 1887.

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