CUOCO, Vincenzo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 31 (1985)

CUOCO, Vincenzo

Mario Themelly

Nacque a Civitacampomarano (prov. di Campobasso) il 1° ott. 1770 da Colomba de Marinis e da Michelangelo, un avvocato sensibile alla influenza dei lumi.

Nel piccolo comune del Molise, che il conterraneo Gabriele Pepe chiamava non senza ironia "l'Atene cisbifernina", si era formato in quegli anni un vivace centro di cultura. Il C. imparò a leggere e scrivere da un allievo del Genovesi, Francesco Maria Pepe, e compì i primi studi di matematica e filosofia sotto la guida di "un uomo dotto e strano", il marchese Costantino Lemaître. Nel 1784 subì il primo attacco di quella malattia nervosa che trenta anni dopo avrebbe posto una tristissima fine alla sua attività intellettuale.

Nell'anno 1787 la famiglia lo avviò a Napoli perché vi continuasse gli studi preparandosi alla carriera forense. Giunse nella città quando la grande età delle riforme inclinava al tramonto. Accolto nella casa e chiamato a collaborare alla Società letteraria e' tipografica del molisano G. M. Galanti, il C. si trovò immesso nel pieno del dibattito sulle riforme. Ma il Galanti dei tardi anni Ottanta aveva perso la giovanile fiducia nella ragione, e subentravano in lui inquietudini protoromantiche. Dal 1782 era impegnato nel lavoro di redazione della Nuova descrizione storica e geografica delle Sicilie, un'opera nella quale l'indagine corografica, economica e statistica si intrecciava alla ricostruzione della storia delle antiche popolazioni dell'Italia,preromana e alla celebrazione del mito di un Sannio carico di energie primitive: pensava che si dovesse risalire sino ai Sanniti "per trovare un mondo giusto e libero; dopo, tutto era decadenza". Il C. collaborò alla raccolta dei materiali del IV volume della Descrizione; dalla consuetudine con il Galanti trasse i primi dubbi nei confronti della filosofia dei lumi, l'abitudine alla ricerca storica e statistica fondata su una documentazione di prima mano, l'interesse per l'antico mondo italico. Verosimilmente dal contatto con il Galanti, che aveva tentato una edizione napoletana del Machiavelli, derivò l'amore per questo autore il cui realismo antimetafisico costituì il fondo della sua dottrina sin dai primi anni della giovinezza.

Pur non avendo conseguito il titolo di procuratore, nel 1790 il C. cominciò ad esercitare l'avvocatura; accanto alla pratica degli affari continuò a tener vivi gli studi: mostrò interesse anche per la filosofia, ma tra gli autori citati non appare ancora il nome del Vico, ai cui scritti approdò negli anni immediatamente successivi.

Dei Vico non colse, anzi "fraintese" gli aspetti gnoseologicamente innovatori (Gentile); lo attrasse la scoperta dell'insostituibilità del passato nel disegno dello sviluppo e la concezione di un ordine provvidenziale preesistente al mondo, d'una trama divina che sorregge "l'infinita varietà delle azioni e delle opinioni umane" (Scritti vari, II, p. 317). Era una visione della storia innanzi alla quale scolorivano gli entusiasmi della palingenesi rivoluzionaria. L'altro tema della filosofia vichiana fortemente sentito dal C. fu la celebrazione della antichissima sapienza italica, che egli concepì come uno spontaneo rampollare di energie dal profondo dell'animo popolare; uno spunto che svilupperà tra il 1803 e il 1806 quando vorrà contrapporre all'egemonia francese il primato autoctono della nazione. Dovette anche far proprio lo ideale vichiano della "monarchia perfettissima", di uno Stato retto energicamente da una minoranza di dotti e di forti, il modello, cioè, che ispirò a Napoli, negli ultimi decenni del Settecento, tanto la politica dei riformatori, quanto, dopo la svolta reazionaria della monarchia, i congiurati del 1794e i rivoluzionari del 1799 (Cortese, 1927, p. 104). Entro questa prospettiva latamente politica il C. si definì cultore e continuatore di Vico e, nel corso degli anni Novanta, ne ricercò e raccolse a Napoli gli opuscoli perduti e, i manoscritti proponendosi di curarne l'edizione.

Conseguiva intanto "un'onesta fortuna", raccoglieva intorno a sé una cerchia di amici ed otteneva l'amore di T. C., una colta gentildonna che sarebbe divenuta la Mnesilla del Platone in Italia. Costei gli ispirò un'operetta la cui prima stesura andò dispersa: Sulla natura dei piacere e sui caratteri del bello.

Anni dopo, nell'esilio, il C., ricordando i "giorni felici" nei quali "sulle deliziose colline di Posillipo" dedicava alcune ore del giorno al dibattito intellettuale con l'amica, sottolineerà come egli fosse allora filosoficamente distaccato dalla politica, incurante delle sorti della rivoluzione "che... bolliva forte e turbava le menti de' democratici con false speranze, degli aristocratici con falsi timori, degli indifferenti con la curiosità di sapere come sarebbe andato il mondo dopo la rivoluzione". Concludeva il ricordo rappresentando se stesso e l'amica confortati dalla fiducia nell'esito provvidenziale degli avvenimenti: "noi... credevamo superfluo parlare della rivoluzione perché in ogni caso tutto poi, senza l'opera nostra, si sarebbe accomodato per lo meglio. Dunque parlavamo di filosofia" (Scritti vari, II, p. 297).

Nel 1799 con l'ingresso dei Francesi a Napoli il C. si trovò (così ancora ricorda) "strascinato in un vortice che [egli] odiav[a] ma a cui era impossibile resistere" (Ruggieri, p. 33), e solo perché pensava che "il buon cittadino debba amare la patria qualunque sia la forma di governo che essa abbia" (Scritti vari, II, p. 298) accettò una rivoluzione e una repubblica che non approvava. Fu visto comunque andare in città "co' capelli rasi" alla moda giacobina e sembra abbia contribuito con i suoi consigli epistolari alla "democratizzazione" di Avigliano, un comune lucano (Romano, 1904). Il ristagno degli affari e la crisi dell'attività forense lo spinsero ad indirizzare una petizione al governo provvisorio per ottenere un impiego. Accettò di diventare il segretario di Ignazio Falconieri, commissario organizzatore del dipartimento del Volturno a Nolas poi presidente del tribunale rivoluzionario a Capua e seguì il battagliero prelato in queste sedi, ne sottoscrisse i proclami. Molto verosimilmente nell'aprile e nel maggio (ibid.) formulò le ragioni del suo dissenso dalla democrazia dei patrioti scrivendo quelle lettere a Vincenzio Russo che dovevano vedere la luce due anni dopo in appendice al Saggio storico. Quando, nell'aprile, Luisa Sanfelice lo mise al corrente della congiura dei Baccher, non esitò a'scrivere di proprio pugno la denunzia della controrivoluzione. Il 13 giugno l'armata del cardinale Ruffo occupò Napoli; la casa del C. fu saccheggiata: andarono dispersi il testo del discorso sul Piacere, e i materiali raccolti per l'edizione vichiana. La denunzia dei Baccher gli aveva attirato l'ira del re Ferdinando; il C., arrestato tra luglio e agosto, trascorse otto mesi nelle carceri napoletane: temeva la forca ma, per l'intercessione dei parenti (ibid.), fu condannato a venti anni d'esilio e alla confisca dei beni. S'imbarcò per Marsiglia ove giunse il 5 maggio del 1800. "Sopra la barca" aveva cominciato a scrivere il Saggio storico sulla rivoluzione napoletana, la cui stesura lo avrebbe occupato con vari intervalli sino al 1801.

Da Marsiglia andò in Savoia, poi in Piemonte, quindi a Parigi. Fu un periodo avventuroso e difficile: "io doveva essere ucciso - ricorda il C. in una lettera - dai briganti di Provenza, poi da' barbetti del Piemonte, poi doveva morir di disagi, d'incommodo, di fame, di peste, di guerra" (Scritti vari, II, p. 300). Le asprezze dell'esilio lo fecero "tornare filosofo". Il ricordo dei "bei giorni" di Napoli lo spinse ad una seconda redazione dell'opuscolo sul Piacere, ma anche questa volta il manoscritto, pronto per le stampe, si perdette e d'esso non rimangono che il proemio e due dediche. A Parigi rifiutò il sussidio di una lira al giorno che il governo pagava ai rifugiati, ed uno scritto pubblicato nel 1806 testimonia la frequentazione che il C. allora ebbe con le dame della buona società e ricorda anche i discorsi e i ragionamenti tenuti con esse. In quel periodo F. Lomonaco aveva presentato al cittadino Carnot, ministro della Guerra, il suo Rapporto sulle recenti vicende napoletane; lo scritto ebbe successo, si accesero le polemiche ed anche queste, probabilmente, spinsero il C. a riprendere la redazione del Saggio, cui continuò a lavorare in un periodo magmatico, caratterizzato da grandi incertezze ed insieme da speranze. Alle riflessioni sul fallimento della rivoluzione si aggiungevano gli entusiasmi suscitati dalle vittorie francesi in Italia e dalla proclamazione a Milano della Repubblica cisalpina, mentre il sorgente astro napoleonico suggeriva nuove ipotesi di fondo al suo pensiero politico.

Giunse a Milano a novembre o a dicembre del 1800. Visse lavorando oscuramente come guardiano aggiunto in un magazzino, pubblicò qualche articolo sul Redattore cisalpino (ibid., I, pp. 271 ss.). portò a termine la redazione del Saggio storico. La città, retta da una Consulta installata dai Francesi, era turbata, mal sofferente delle violenze delle autorità militari; dalle province provate dalla carestia giungevano notizie di sommosse. Nel febbraio 1801 la pace di Lunéville sembrò consolidare l'egemonia francese nell'Italia padana, ma il panorama politico della seconda Cisalpina rimase agitato ed incerto. I progetti di costituzione che la Consulta inviava a Parigi erano di volta in volta respinti e corretti; il Direttorio metteva in discussione non solo i particolari dell'ordinamento istituzionale ma il problema stesso dell'indipendenza e dell'autonomia dello Stato. Un gruppo che si riuniva intorno a Francesco Melzi d'Eril avanzava la critica di quella che già si definiva la rivoluzione "importata" o "passiva", ma insieme cercava la collaborazione con i Francesi sul piano delle "idee medie" ed avanzava la proposta di una politica italiana nell'ambito dell'alleanza con la "Grande Nation". Entro questo quadro si spiega il successo della prima edizione (resa possibile negli ultimi mesi del 1801 da un prestito privato di 800 lire) del Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799; un'opera che, raccogliendo i consensi della parte "italianisante" dei moderati e dell'ala liberale degli antigiacobini, seppe interpretare, in Francia come in Italia, l'affiorante opinione media rassicurata dalle vittorie di Napoleone.

Al centro dei cinquanta fitti capitoli del Saggio, non è soltanto la rivoluzione di Napoli, ma anche "la storia della rivoluzione di tutti i popoli della terra e specialmente della Rivoluzione francese": questa "ha attaccato e rovesciato l'altare, il trono... i diritti e le proprietà delle famiglie"; ma il C., differenziandosi dal pensiero dei reazionari, ne riconosce la "legalità", la considera, cioè, come la conclusione necessaria della lunga crisi dell'antico regime, l'esplosione improvvisa "di una infinita materia accumulata da molti secoli" (cap. VII). La Rivoluzione ha generato la guerra continentale che è divenuta indispensabile alla Francia come lo era stata per Roma; nei giorni in cui il C. scriveva i primi capitoli del Saggio, la "democratizzazione" sorreggeva l'arco delle vittorie francesi che, dilatandosi sull'Europa, minacciavano di imporre un "impero universale" (cap. II). Entro questo quadro egli paragona le campagne combattute nel 1796 da Bonaparte in un'Italia "divisa in piccoli stati", prostrata da "servitù e protezione" alle invasioni del XVI sec. e denuncia la contraddizione della politica italiana del Direttorio tra "le parole date ai popoli e quelle date ai re" (cap. III). In Francia, dopo la fase "legale" della Rivoluzione, nel corso della quale "il popolo fece sempre operazioni al livello delle sue idee" (cap. XVIII), il regicidio segnò la rottura dell'equilibrio, le riforme divennero esagerate e superflue, sino a che col Terrore "la causa della libertà" diventò "la causa degli scellerati" (ibid.).

Ma il fiero critico della Rivoluzione era ben lungi dal dubitare della grandiosità dell'evento: paragonava i fatti di Francia a quelle catastrofi naturali che sconvolgendo la crosta terrestre rivelano l'interno assetto degli strati geologici e con l'eruzione di grezzi materiali determinano una nuova tettonica. Così la Rivoluzione, spazzando quel che era fatiscente nell'antico regime, aveva aperto la prospettiva di nuovi equilibri politici e fatto irrompere nella storia le forze popolari: "il popolo è il grande, il solo agente della rivoluzione e della controrivoluzione... ecco tutto il segreto delle rivoluzioni: conoscere ciò che il popolo vuole e farlo, egli allora vi seguirà... arrestarsi tostoché il popolo più non vuole; egli allora vi abbandonerebbe" (cap. XVII). Questa è la tesi più nota del Saggio, la premessa del pensiero del Cuoco. Dall'esigenza di adeguare l'azione politica alla volontà degli strati popolari, egli ricava conclusioni profondamente diverse da quelle proposte dai conservatori e dai reazionari dei suoi tempi, dal Burke e dal de Maistre. Egli infatti sa che la volontà popolare non è destinata a rimanere immobile sulla linea delle idee tradizionali; poiché l'esperienza insegna che le idee dei popoli possono mutare, il Saggio affida alla classe dirigente il compito di promuoverne la trasformazione. Spetta al riformatore trarre "dal fondo della nazione" le idee e le esigenze che oscuramente fermentano nella coscienza popolare, chiarirle per mezzo della istruzione, inserire gradualmente le plebi nel corso progressivo della storia: "le prime idee che si devono far valere sono le idee di tutti, quindi le idee dei molti, in ultimo le idee dei pochi... Tutto si può fare: la difficoltà è solo nel modo; noi possiamo giungere col tempo a quelle idee alle quali sarebbe follia voler giungere oggi" (cap. XIX).

Emerge così una prospettiva dinamica, politico-pedagogica, che tempera il realismo conservatore dell'opera, ma si manifesta insieme l'ambiguità che è all'origine delle divergenti interpretazioni del pensiero del Cuoco. All'idea vichiana, inconsapevolmente herderiana, vitalistica e protoromantica delle spontanee energie popolari creatrici di storia, si contrappone, in una mente che nonostante le profonde intuizioni moderne rimane ancora legata alla cultura dell'intellettualismo (Vecchietti), la concezione settecentesca di un processo storico diretto dall'alto, riconducibile ad uno schema del quale il saggio può prevedere e regolare i tempi e le fasi: "il corso delle idee - scrive il C. - è quello che deve dirigere il corso delle operazioni e determinare il grado di forza negli effetti" (cap. XIX). In conseguenza di tale premessa, e considerando che nel popolo le "idee" sono solo in germe o in potenza, il C., che privilegia, secondo la logica antica, l'atto nei confronti della potenza, pone in primo piano, accanto al popolo o, sopra di esso, le élites mediatrici: per "produrre la rivoluzione" - scrive - è necessario "il numero", ma sono altrettanto "necessari i conduttori, i quali presentano al popolo quelle idee ch'egli talora travede quasi per istinto, che molte volte segue con entusiasmo, ma che di rado sa da se stesso formarsi" (cap. XV). Nello svolgimento successivo del Pensiero del C. la funzione delle élites, e con essa l'egemonia dei ceti medi, assumerà un rilievo preponderante, ma già in qualche passo del Saggio la spontaneità popolare appare subalterna alla sapiente regia delle minoranze illuminate: "il gran talento del riformatore è quello di menare il popolo in modo che faccia da sé quello che vorresti far tu" (cap. XIX).

Ricondotto nella prospettiva che gli compete il tema della spontaneità e creatività popolare (sarà valorizzato dagli interpreti liberali), emerge - come problema centrale del Saggio - il rapporto tra le masse e le, élites. Tutto il contesto, anche lessicale, dell'opera - con l'insistita frequenza dei termini "popolo" e "nazione" - rivela come la riflessione sulle vicende francesi e napoletane abbia spinto il C. a trovare, per quel rapporto, soluzioni ben più articolate e complesse di quelle già avanzate dall'assolutismo illuminato (Villani). Per risolvere i problemi creati dall'azione popolare in una società in sviluppo, il C. avanza delle proposte che, rimanendo aderenti alle esigenze della realtà italiana, aprono la strada sulla quale procederà e coglierà larghi successi il liberalismo moderato dell'Ottocento.

Due linee, dunque, si intrecciano nel Saggio: la critica antilluministica ed antigiacobina, ispirata soprattutto ai problemi del '99 napoletano, e la proposta di dare uno sbocco positivo alla crisi trasferendone i problemi dal piano politico a quello pedagogico. Questa seconda linea, teoricamente sottesa a tutto il Saggio, è però appena accennata: ispirerà negli anni successivi l'impegno civile e l'attività culturale del C. funzionario dei regni napoleonici; la polemica antigiacobina, invece, costituisce la parte più nota e più ampiamente svolta dell'opera che nella sua struttura rimane ancorata al '99, ai problemi della rivoluzione fallita. La repubblica era caduta - argomenta il C. disegnando un modello storiografico che solo ai nostri giorni è stato sottoposto a revisione - perché la rivoluzione aveva interrotto nel momento più delicato il processo di sviluppo della "nazione napolitana" iniziato con le riforme; portata da armi straniere, tesa ad affermare idee "non intese né curate dal popolo", incapace di interpretarne i bisogni, la rivoluzione era rimasta "passiva". La repubblica era caduta "per soverchia virtù", per "eccesso di lumi" del suo gruppo dirigente. La distanza esistente tra "le idee de' patrioti" e le "idee della nazione" non era stata colmata. Anche quando i patrioti, per rompere l'isolamento, avevano tradotto nel dialetto i loro programmi, essi avevano continuato a parlare il linguaggio della ragione e dei diritti politici, incomprensibile al popolo. Chiusa in una concezione involontariamente aristocratica della repubblica, la classe dirigente non aveva ignorato il popolo, ma lo aveva giudicato per allora inerte, scisso dalla nazione della quale si era considerata sola rappresentante. Da tali premesse aveva tratto la decisione, rivelatasi fatale, di "tutto riformare" senza tener conto delle resistenze che incontrava nel basso. Così nel '99, con l'insurrezione sanfedista delle plebi, l'incomunicabilità tra i "due popoli" era giunta alla sua conclusione drammatica.

Sin dalla prima edizione il Saggio fu corredato in appendice dai Frammenti di lettere dirette a Vincenzio Russo. Queste pagine, la cui prima stesura è anteriore a quella del Saggio, sono polemicamente ispirate dalla costituzione repubblicana di Mario Pagano, ma la critica dei C. investe il principio stesso della legislazione rivoluzionaria che indirizzandosi agli uomini come ad astratti soggetti del diritto universale, fondato sulla natura e sulla ragione, ignora i contesti storici entro i quali gli individui sono avvolti. Le leggi così arbitrariamente formulate non potranno mai "regnare nei cuori". Nei confronti di queste e di altre simili osservazioni, che avanzando la tesi dello svolgimento organico delle istituzioni dalla vita dei popoli corrodevano i miti del Settecento giusnaturalista e aprivano in Italia il corso del pensiero storicistico, sono state avanzate delle riserve. È stato osservato come sfuggisse al C. che proprio dall'universalità ed astrattezza dei suoi principi traeva forza l'ideologia rivoluzionaria, e lo storicismo dei C. è stato definito "privo di substrato storico" per la sua incapacità di cogliere la tensione morale propria delle società rivoluzionate; significativo è sembrato, a questo proposito, il rifugiarsi del C., in antitesi all'ideale progetto del Pagano, nel particolarismo delle fossilizzate assemblee municipali del Mezzogiorno rurale (Salvatorelli, Vecchietti).

Ad offrire una finale chiave di lettura di tutta l'opera, prorompe, nella dedicatoria Lettera dell'autore a N. Q. paradossale e coerente insieme, l'invocazione a Napoleone. Paradossale se si pensa che la Lettera, verosimilmente scritta mentre i torchi gemevano e strutturalmente estranea al testo, col commosso ringraziamento all'eroe che "sulle ali de' venti, simile alla folgore" giunge in Italia per spezzarne "le catene" e farle "dono" della libertà, liquida la tesi dello sviluppo spontaneo e graduale delle istituzioni, vanifica la polemica contro la rivoluzione passiva, ribalta l'asse politico di un'opera che aveva considerato alla stregua di un'invasione straniera l'intervento francese nella penisola. L'invocazione a Napoleone, instauratore di "un nuovo ordine di cose", appare invece coerente all'impianto generale del Saggio se si pensa alla funzione egemonica che in esso il C. riserva alle élites; appare soprattutto in armonia con l'ispirazione nazionale unitaria che sin dalle prime pagine percorre l'opera, ove si consideri che, col nuovo corso napoleonico, nella mente del C. si accese la speranza di realizzare l'unità italiana come parte del "grande insieme" di nazioni e di popoli che trova nella Francia il suo centro.

La fase biografica che immediatamente segue la pubblicazione del Saggio è poco nota, illuminata da rari accenni del carteggio. L'opera aveva avuto successo, ma era stata pubblicata anonima, e il C. continuava a "vivere alla giornata" prendendo parte a un "negozietto di stamperia". Nonostante la Lettera dedicatoria segni l'inizio d'una nuova fase della sua biografia politica, nei primi mesi del 1802 le prospettive del C. rimangono incerte, come incerta ed imprevedibile era ancora la parabola di Napoleone e precaria, prima dei Comizi di Lione, la vita della Cisalpina. Una confidenza epistolare del 7 gennaio rivela uno sconfortato quadro esistenziale e il permanere dell'antica professione misogallica. Scrive infatti ad un amico lucano di essere "cisalpino perché [vive] a Milano" e "odiator de' Galli [come era stato] nel '93, nel '94, nel '95, nel '96, nel '97, nel '98, e finalmente a Capua nel '99": ribadisce che questi suoi sentimenti "sono eterni" (Scritti vari, II, p. 300). Nel carteggio si alternano parole di malinconia, propositi di suicidio, speranze di un imminente cambiamento dell'"organizzazione di governo": erano i giorni dei Comizi di Lione. Ma nel marzo rifiuta la possibilità di tornare a Napoli; "che potrei fare nella patria ? a che potrei occuparmi? a che travagliare ? ... qui mi amano mi stimano personalmente, vedremo" (ibid., p. 304). Una spinta risolutiva era venuta dalle nuove prospettive aperte, dopo la proclamazione della Repubblica italiana, dalla vicepresidenza di Francesco Melzi d'Eril. Entro un involucro estrinsecamente democratico si delineava un nuovo modello di Stato illuminato e forte, ancorato alla borghesia attiva e al patriziato, capace di liquidare rapidamente le "teste calde" ma aperto ad un programma di riforme e aduna imprecisata prospettiva italiana. Si verificava, così una obiettiva convergenza con l'antigiacobinismo, il patriottismo, il riformismo che costituivano il fondo del pensiero politico del rifugiato molisano.

Nell'aprile il C., accettò una proposta di collaborazione avanzatagli, col benestare dei governo, dal conte Lodovico Lizzoli, commissario straordinario del dipartimento dell'Agogna. Si trattava di riordinare un vasto materiale documentario in gran parte già raccolto, di redigere, su quelle basi, una dettagliata descrizione statistica, geografica, economica del Novarese. Si accinse all'impresa come ad un lavoro occasionale ed invece finì con lo scoprire in quella indagine storico-sociale una direttrice di lavoro alla quale avrebbe dedicato, per tutta la vita, parte delle sue energie intellettuali.

L'operetta, scritta di suo pugno, uscì col nome del Lizzoli ed ebbe fortuna. Incoraggiato dai successi e dal plauso governativo il C.. decise di dedicarsi ad una opera di vasto respiro, la Statistica della Repubblica italiana, della quale stese il progetto sottoponendolo al Melzi d'Eril. Questi il 17 ag. 1802 diede il suo appoggio all'iniziativa.

Dell'opera progettata e incompiuta rimane l'indice dei 25 capitoli, la stesura manoscritta di alcune sezioni e moltissimi appunti ed abbozzi. Seguendo l'esempio di G. M. Galanti, ma facendo anche propri i metodi di lavoro del napoleonico Bureau de statistique, il C. intendeva giovarsi dell'ausilio delle scienze storiche, matematiche e naturali, valersi di una serie d'inchieste circostanziate per studiare le basi flsico-geografiche della società, i movimenti della demografia, lo stato dell'economia. La Statistica, piuttosto che disegnare "quegli splendidi quadri delle nazioni che tanto piacciono alla fantasia e tanto poco istruiscono la ragione" doveva offrire un "pubblico servizio" elaborando i dati conoscitivi indispensabili all'opera del legislatore.

Nell'estate del 1802, dunque, l'adesione del C. a quello che ormai si configura come il sistema napoleonico è convinta ed esplicita, coronata, nell'agosto 1803, dall'invito del Melzi a formulare il programma del Giornale italiano, destinato a diventare l'organo ufficiale della vicepresidenza della Repubblica. Progettò un giornale che, continuando la linea della Statistica, movesse dall'economia per investire la sfera del costume e della politica. Il nuovo corso napoleonico rendeva finalmente praticabile la sua aspirazione a trasformare il Problema politico in problema pedagogico; spettava agli intellettuali difendere e propagare le "idee medie" e quel che la situazione storica consentiva del progetto nazionale.

Il foglio, trisettimanale, doveva mostrare come la politica della repubblica garantisse, insieme alla sicurezza sociale, il progresso civile e lo sviluppo economico delle classi attive. Il C., pur facendo delle concessioni alle "curiosità" dei lettori (con questo termine riduttivo si riferiva alle cronache politiche), voleva riservare la parte più consistente dei giornale ai problemi dell'agricoltura, dei commercio, delle finanze. Ma il compito più alto consisteva nel formare lo "spirito pubblico", la coscienza nazionale. Guardando al di là dei confini della repubblica napoleonica, il C. si proponeva il problema dell'"Italia una", dei "destini futuri"; per l'immediato presente chiedeva la collaborazione di "tutti gli uomini di lettere" della penisola, sì che il giornale potesse far di Milano "la sede della mente universale della nazione" (Scritti vari, I, p. 8). Ciò sarebbe stato possibile utilizzando criticamente le memorie del passato ed aprendo largamente l'Italia alla cultura contemporanea. Era necessario misurarsi "almeno col pensiero" con le altre nazioni, che erano "più grandi" di quanto non fosse l'Italia. Ma questa apertura all'informazione internazionale ed al dibattito nasconde una segreta aspirazione nazionalistica. Il C. spiegherà più tardi, nel 1806, cosa intendesse per discussione: la discussione delle idee altrui stimolerà "per amor proprio" la nascita delle "massime contrarie..., nate una volta, queste massime contrarie prenderanno il carattere di massime nazionali; accresceranno l'amore della patria..., accresceranno l'odio contro le nazioni straniere, la fiducia nelle proprie forze, la energia nazionale" (Saggio, 2 ed., 1806, p. 41). Sotto la superficie del linguaggio ufficiale napoleonico, emerge il tema protonazionalistico della nazione rescissa dall'umanità e traspare, appena velata, l'"eterna" traiettoria misogallica.

Dal settembre 1803 gli fu affidata "la direzione principale e la principale responsabilità" del Giornale italiano: lo stipendio di 350 lire mensili corrispostogli sui fondi del ministero degli Interni fece di lui un funzionario napoleonico, un attento interprete delle direttive del centro.

Dal gennaio 1804 all'agosto 1806 prestò una costante collaborazione al Giornale, pubblicando almeno 187 articoli su vari argomenti di politica, legislazione, economia, storia, letteratura, divulgazione, erudizione (un catalogo ragionato è in Scritti vari, I, pp. 233-68), che fanno luce sulle sue nuove scelte politiche. Capovolgendo uno dei presupposti del Saggio, il C. nel 1805 teorizza la necessità di un "potere esterno" come il solo che possa garantire la salvezza in un'Italia ove "ogni forza di patria è da tempo distrutta" (ibid., I, p. 149). Predomina il senso di un'inesorabile necessità. In pagine che risentono fortemente del Machiavelli, afferma che il nuovo Regno d'Italia non poteva rimanere "in balia di se stesso perché non abbastanza forte, non abbastanza concorde"; per evitare che "cada in preda del più forte", deve essere "governato da un eroe... unito ad un potentissimo impero" (ibid., p. 157). Il regime napoleonico gli pareva che unisse "i vantaggi della repubblica e la forza del principato". Per quanto riguardava i primi, rifletteva sul fatto che "tutta la macchina delle libertà politiche" non serve ad altro che a garantire le libertà civili; enumerava queste ultime e constatava che esse erano già rese fruibili nel Regno d'Italia dall'atto costituzionale, e da questo assicurate per sempre (ibid., p. 155). Si profila un liberalismo che dell'eredità della rivoluzione fa proprio soltanto ciò che d'essa giunge filtrato attraverso il sistema napoleonico: abolizione del feudalesimo, eguaglianza giuridica, nuovo diritto di famiglia, protezione della proprietà privata. Manca al liberalismo del C., fermo alla teoria delle libertà civili, il senso della libertà politica, il momento della rottura, dell'imprevedibilità e della lotta istituzionalizzate alla base della società; infatti il modello cui tende non è lo Stato liberale parlamentare, quale si configurava in quegli anni nel pensiero liberale europeo, ma il modello della monarchia amministrativa e dello Stato forte napoleonico, con una scandita accentuazione del ruolo delle élites. Da questa impostazione - che interpretò le spinte progressiste dell'opinione borghese illuminata, ma conservò, nel suo fondo, una sostanziale ambiguità e la possibilità di cedimenti autoritari - derivano i connotati del liberalismo moderato italiano che sul pensiero del C. si formò nei decenni centrali del Risorgimento e che della lezione cuochiana senti la suggestione anche dopo l'apertura europea che gli impresse Cavour.

Nel periodo milanese l'attività intellettuale del C. erompe con grande forza e vivacità, ma, con la gestione contemporanea di progetti e studi diversi, si profilano i rischi della dispersione e della incompiutezza, che pur segnano il consuntivo della sua opera. Nel 1803 e nel 1804, il C., oltre alla collaborazione e alla direzione del Giornale italiano, si interessò ancora alla Statistica e lavorò al Platone in Italia, ideò ed abbozzò un gruppo di opere che non avrebbe portato a termine e delle quali rimangono più o meno cospicui frammenti: una Storia dell'umanità, un Corso di legislazione comparata, una Ideologia, una serie di Lettere sull'antica agricoltura italiana, le Osservazioni sulla storia d'Italia anteriore al V secolo di Roma. Negli ultimi mesi del 1802 subì il secondo attacco della malattia nervosa che lo aveva colpito in giovinezza. La convalescenza e le cure durarono sino al marzo 1803.

Rinfrancato, si gettò nella stesura del Platone i cui due primi volumi furono pubblicati a Milano nel 1804 ed il terzo, sempre a Milano, nel 1806. Riprendendo uno schema suggerito dalla letteratura didascalica settecentesca, il C. immagina il viaggio che, al principio dei V secolo di Roma, Platone e Cleobolo, personaggio immaginario e verosimilmente autobiografico, compiono nella Magna Grecia per conoscere gli uomini, le città, i costumi.

Le vicende del viaggio costituiscono una cornice narrativa entro la quale il C. raccoglie materiali eterogenei: rappresentazioni di luoghi, personaggi, stati d'animo diversi (dal ricordo dei lontani luoghi della giovinezza alla romantica descrizione delle rovine di antiche città., all'evocazione d'incontri e colloqui sullo sfondo di campagne deserte, rive di fiumi, portici, taverne); frammenti di storia (i posteri con F. Nicolini, la considereranno "pseudostoria") delle antiche popolazioni italiche; abbozzi di filosofia; dissertazioni sulle istituzioni, leggi, costumi e arti dell'Italia preromana; miti, leggende, profezie; brani d'un epistolario d'amore tra Cleobolo e Mnesilla.

L'unità di materiali così diversi è data dalla fortissima accentuazione politica: nella rappresentazione commossa delle sciagure civili dell'Italia antica sull'orlo della conquista romana, il lettore riconosce la crisi della Italia contemporanea tra Rivoluzione ed Impero. Sin dalle prime pagine l'accenno alla soluzione napoleonica rende trasparente il piano allegorico sotteso a tutto il romanzo; il C. nella prefazione invita "gli italiani" a fare il paragone "tra due età [caratterizzate] dagli stessi cangiamenti politici, dallo stesso ondeggiar d'opinioni" ed a rendere "le dovute lodi a quei guerrieri generosi li quali hanno saputo imporre con mano potente un freno all'anarchia delle idee e degli ordini, ed accordare un asilo sicuro alla filosofia minacciata dall'ultimo sterminio".

I contemporanei intesero l'allegoria e lessero il Platone come un'opera politica e patriottica, accogliendola con un favore che è testimoniato dal succedersi delle edizioni nei primi decenni del secolo. Dei molti temi che si intrecciano nel romanzo fecero propria soprattutto la celebrazione romantica e protonazionalistica dell'antichissimo primato italico. L'affermazione del primato nelle scienze, nelle arti, nella legislazione ecc. era polemica nei confronti dell'egemonia francese: anche qui, al di sotto dell'impianto celebrativo, corre un'istanza nazionalista che è anche misogallica e che per questo è costretta a rifugiarsi nel linguaggio cifrato dell'allegoria. In tutto il discorso sulla nazione la rottura con la tradizione culturale del Settecento è molto netta; il C., distaccandosi dai suoi contemporanei, non tenta la mediazione tra nazione e cosmopoli, si chiude nell'esaltazione degli archetipi; perciò, negli stessi anni dei Discorsi di Fichte, il Platone inaugura la rischiosa parabola della missione dei popoli eletti (Salvatorelli, Vecchietti).

L'altra grande linea tematica che corre lungo tutto il romanzo è l'allegoria del pitagorismo. Questo è presentato come un complesso di cognizioni spontaneamente formatesi nell'antichissima Italia ed accresciute coi volgere delle generazioni. Queste dottrine non costituiscono un corpus teoretico, ma piuttosto una lezione di saggezza politica che può risolvere i problemi del mondo in crisi. Il compito del romanzo consiste nella divulgazione del segreto dei pitagorici e, fuor dell'allegoria, nella divulgazione della filosofia politica dei moderati. Nei discorsi e nelle parabole dei pitagorici il mondo appare organizzato secondo uno schema binario. Nell'alto è il cielo delle élites che "conoscono le vere cagioni dell'universo", ad esse spetta stabilire le leggi della città, trasferendo con una serie di sapienti aggiustamenti l'armonia delle leggi cosmiche nella realtà umana e storica. Nel basso è il "popolo", o il "volgo" che "i saggi" non devono mettere a parte di tutta la loro dottrina: per il popolo "conoscere le ragioni ultime è inutile perché non potrebbe farne quell'uso che ne fanno i savi, è però necessario che ne conosca una in cui la sua mente si acqueti" (Platone, II, p. 104). Emerge, come negli scritti del '99, la teoria dei "due popoli" e si ripropone il problema del rapporto tra élites e masse. Anche nel Platone questo problema trova la sua soluzione sul piano pedagogico, ma viene meno quanto vi era di felicemente indeterminato negli accenni alla mediazione pedagogica che si leggono nel Saggio.

Nel corso del 1803 il C. formula una vera e propria teoria della istruzione, adombrandola nel messaggio dei pitagorici, ma i vecchi timori e la nuova suggestione del modello elitario degli stati napoleonici lo spingono a ridurre il popolo da soggetto storico, quale lo aveva proclamato nel Saggio, ad oggetto pedagogico, come lo rivela il Platone. Il pensiero dei C. segna ancora una svolta. Una svolta, non una frattura; una svolta che conclude un processo che conserva la sua coerenza, per quanto presenti "i caratteri dell'aporia" (Vecchietti). Il C., infatti, con la sua scoperta della spontaneità popolare, aveva intuito il reale significato di una democrazia, ma lo svolgimento del suo pensiero rende manifesto ch'egli si serve della sua tesi unicamente come d'uno strumento critico contro la "falsa democrazia" dei giacobini. Perennemente diffidente del popolo, non poté fare di questo il fondamento del nuovo edificio. Cosicché proprio il grande e polemico assertore della spontaneità popolare dovette teorizzarne l'imbrigliamento attraverso un processo educativo che trasferiva nel basso le idee delle élites o una parte delle idee delle élites.

L'istruzione non assume per i moderati "pitagorici" del Platone il significato di una esperienza liberatrice; si configura come un processo di graduale elevazione ma anche di sostanziale integrazione delle plebi entro l'ordine civile progettato dai saggi. Con termini inequivocabili il C. definisce il carattere aristocratico della scienza che "rimane sempre proprietà di pochi ben educati e migliori", ed altrettanto chiaramente teorizza la necessità che le plebi siano guidate e condotte quasi per mano (Platone, II, p. 190 e passim). Lo sviluppo delle energie popolari è affidato alle cure di una minoranza virtuosa, interprete dei potenziali valori che pur fermentano e muovono negli strati profondi della società. Il processo tende nella sua prospettiva ultima, ma indefinitamente lontana, all'innalzamento delle plebi al piano delle élites, ma è diretto e dosato dall'alto: "errano quei filosofi - afferma Archita, legislatore pitagorico - i quali vogliono mettere il popolo a parte di tutti i segreti dei saggi... ciò che veramente è necessario in una città è che ciascuno stia al suo luogo, cioè che sappia lavorare ed ami l'ordine. Ad ottenere l'uno e l'altro sono egualmente necessarie la scienza e la subordinazione" (ibid., p. 106). La prospettiva gradualistica, più che da un calcolo machiavellico, nasce dall'idea della continuità, sentita dal C. come momento "forte" dei processi di trasformazione. La saggezza dei magistrati "pitagorici" sta infatti nella loro capacità di valorizzare la sapienza popolare, di scorgere nella tradizione, nei proverbi, nelle leggende gli "addentellati" sui quali appoggiare l'edificio nuovo che essi sanno, in questo modo "rendere eterno" (ibid., I, p. 101).

Se attraverso questa difficile opera le classi dirigenti potranno consolidare le basi dello Stato e integrarvi i ceti inferiori, nell'immediato presente l'obbedienza alle leggi è resa possibile dalla pratica della "virtù". La virtù per i pitagorici del C. non è un'esperienza teoretica, la sua pratica riesce facile e dolce anche al rozzo sannita: "virtù è agire come i padri e gli antenati, virtù è seguire il costume tradizionale" (ibid., I, p. 197). Virtù è soprattutto amor del lavoro, agricoltura: "agricoltura e virtù non bastano esse sole a render felice un popolo?" (ibid., II, p. 199). I capitoli del secondo libro dedicati al Sannio, selvatica patria della virtù, presentano una comunità di piccoli proprietari e di coltivatori diretti che hanno trovato la "felicità" (ibid., II., p. 115) nel lavoro dei campi, nella frugalità, nella severa disciplina militare. Il C. costruisce in questo modo un modello che nei decenni successivi la classe dirigente utilizzerà con la letteratura rusticale destinata ai ceti agricoli, mentre le catoniane virtù dei Sanniti prefigurano l'immagine dell'"italiano nuovo" che sarà alla base dell'ideologia nazionalpatriottica del Risorgimento (Bollati, De Tommaso).

Accanto al Sannio, un'altra inesauribile sorgente di esempi e di allegorie è offerta dalla storia di Roma antica. Ma questa ha un carattere antinomico: Roma, come la Francia d'allora, rappresenta insieme l'odiata conquistatrice e il modello della saggia legislazione: il C. predilige la seconda linea tematica. Lo spunto, mutuato da Machiavelli, del carattere dinamico della. lotta tra ottimati e plebei, gli offre l'occasione per dimostrare con esempi diversi l'eccellenza della moderazione. È giusto che il popolo esprima "sempre nuovi bisogni" ma è necessario che "pretenda con modestia e riceva con gratitudine"; il mantenimento della lotta politica entro questi limiti è ciò che si chiama "temperanza" e costituì la forza del costume romano. Ma nel C. gli entusiasmi repubblicani sono effimeri. Pur essendo il romanzo collocato nel V secolo, nelle profezie e nelle metafore del discorso cuochiano la storia romana si conclude idealmente col principato e con l'impero: "volete che il potere sia giusto? rendetelo eterno, sarà temperante perché tranquillo e tranquillo perché sicuro". L'allusione napoleonica è scoperta: come nell'universo napoleonico a Roma regna l'eguaglianza civile, le diseguaglianze economiche permangono perché sono eterne, ma le strutture promozionali consentono agli "uomini nuovi" di raggiungere le più alte cariche dello Stato; la religione ha ritrovato il posto che le compete, le riforme connettono sapientemente il nuovo con l'antico.

La pubblicazione del Platone, cui presto si unì la prima traduzione tedesca e la seconda edizione milanese, non più anonima, del Saggio (1806), diede al C., se non la desiderata agiatezza, fama e consensi. Egli corrispondeva con personalità italiane e straniere, frequentava gli ambienti di governo e gli uomini di cultura: era stimato e ascoltato dal giovane Manzoni, ebbe rapporti cordiali, pur non privi di screzi, con il Monti. L'operosità del periodo milanese fu spezzata dalla crisi del Giornale italiano: ilsegretario di Stato, congedati i redattori, aveva affidato la gestione economica del foglio all'editore F. Agnelli: "mi si toglie il soldo - scrisse il C. il 14 marzo al viceré Eugenio - ... dovrei restare alla discrezione di un privato" (Scritti vari, II, p. 338), e poiché non riuscì ad ottenere la direzione dell'ufficio di statistica, scartata l'offerta di una cattedra universitaria a Cracovia, decise di tornare in patria. Dal marzo, dopo la fuga del Borbone, reggeva il trono di Napoli Giuseppe Napoleone e fu per il tramite di un personale collaboratore del re, il giurista pisano Tito Manzi (forse anche grazie al suo vecchio maestro G. M. Galanti, divenuto bibliotecario del Consiglio di Stato), che il C. ebbe l'invito ad assumere la direzione di un nuovo giornale che doveva appoggiare la politica di "conciliazione" voluta dal sovrano.

Giunse a Napoli sul principio dell'agosto e scrisse subito il "Prospetto" del nuovo foglio ricalcando il progranuna politico ed anche la formula editoriale del Giornale italiano (ibid., p. 253). Il primo numero del Corriere di Napoli uscì il 16 agosto per continuare con scadenza trisettimanale sino al 1811 quando si fuse col Monitore napoletano, prendendo il titolo di Monitore delle Sicilie, un quotidiano posto sotto la responsabilità del ministro di Polizia, ufficialmente diretto da Emanuele Taddei, ma realmente ispirato dal C. che ne fu "l'altro direttore, anzi il vero direttore" (Nicolini). Dal 16 ag. 1806, quando il Corriere pubblicò le Osservazioni del C. sulla recentissima legge di abolizione della feudalità, sino al 19 maggio 1815, immediata vigilia della restaurazione borbonica, egli collaborò al Corriere ed al Monitore con 147 articoli i cui temi mostrano quello stesso largo ventaglio di interessi che si è indicato trattando degli articoli del Giornale italiano (il catalogo ragionato è in Scritti vari, II, pp. 253-86).

Ma nel periodo napoletano l'attività culturale del C. fu dapprima intralciata, poi quasi soffocata, dal crescente impegno politico e dalle responsabilità amministrative: l'incontro con i Napoleonidi trasformò il giovane studioso molisano in un alto funzionario del Regno, in uno dei maggiori protagonisti delle riforme giuseppine e murattiane.

Nel novembre 1806 venne nominato consigliere del Sacro Real Consiglio: dovette rimandare la presa di servizio, essendo ancora sprovvisto di laurea, ma la carica cominciò presto a fruttargli quel 3.000 ducati annui che gli consentirono "casa e carrozza". In quello stesso anno Giuseppe Napoleone, strappate agli Anglo-borbonici le ultime fortezze della Calabria, diede inizio alle grandi riforme. La legge del 20 apr. 1807 tracciò le linee della nuova organizzazione giudiziaria del Regno; il C. fu nominato membro della commissione che doveva "adattare i Codici francesi" (3 luglio), e dell'altra (28 settembre) cui sarebbe spettata la riforma dei tribunali e la scelta dei nuovi magistrati; sicché l'ironia della storia volle che proprio l'assertore della genesi autoctona delle istituzioni dovesse trasferire il Codice napoleonico nella legislazione meridionale ed organizzare i tribunali del Regno sul modello razionale e moderno francese. Si diede inizio a un'opera grandiosa che, abbattendo la giurisdizione feudale e "l'immensa congerie degli errori dell'antica giurisprudenza", doveva in breve tempo trasformare la vita civile del Mezzogiorno. In una serie di articoli pubblicati sul Corriere, ilC. presentò il positivo bilancio della nuova organizzazione giudiziaria, ma il carteggio e gli abbozzi di studi, le relazioni rimaste manoscritte rivelano l'altro aspetto della riforma, lo sforzo di adeguare le norme alla realtà meridionale, le riserve, i meditati e parziali rifiuti (De Martino).

L'11 nov. 1807 fu nominato membro della Commissione feudale, una magistratura straordinaria che, dando applicazione ai principi fissati dalle leggi eversive della feudalità, doveva determinare il crollo dell'aristocrazia d'antico regime ed affermare il concetto moderno della proprietà. All'opera di questa commissione il ministro G. Zurlo impresse una forte spinta antibaronale che ad alcuni contemporanei parve persecutoria. Dell'attività del C. nella commissione si sa poco, anche se è stata tramandata la notizia del suo dissenso dalla linea rappresentata dallo Zurlo.

L'edizione di alcuni importanti rapporti (Viaggio in Molise, Rimboschimenti e bonifiche, in Scritti vari, II, pp. 183-228) ha fatto luce su almeno una delle ragioni della divergenza: mentre lo Zurlo considerava i demani "la riserva dei cittadini poveri" e sosteneva la necessità di distribuirli tra i contadini dando piena applicazione alla legge, il C. difendeva i diritti acquisiti dalla borghesia rurale che aveva occupato le terre ex feudali o comunali mettendole a coltura e rendendole produttive. In questa difesa dei "cittadini industriosi... non baroni... non prepotenti", appannandosi il suo abituale realismo, gli sfuggiva tutto ciò che era di vessatorio ed iniquo nella usurpazione borghese della terra. Contestava la quotizzazione, cioè la procedura che più fortemente qualificava in senso progressista la legislazione riformatrice: "E perché poi - scriveva - questa sovversione della proprietà?" La quotizzazione rendeva possibile, a suo avviso, soltanto il passaggio delle terre "dalle mani di coloro che le coltivano a quelle di coloro che non hanno i mezzi di coltivarle... passeranno le terre ma non i capitali per coltivarle... il Regno si immerge in una guerra civile" (ibid., p. 120).

Nel maggio 1808 Giuseppe Bonaparte, destinato al trono della Spagna e delle Indie, lasciò Napoli, e da Baiona promulgò il nuovo statuto del Regno di Napoli, un breve testo ispirato da Napoleone che definiva il cattolicesimo religione di Stato, stabiliva i modi della successione dinastica, concedeva un Parlamento di nomina regia con funzioni consultive. La sorte volle che spettasse al critico di Mario Pagano far parte della deputazione di sei funzionari che manifestarono a Giuseppe "il ringraziamento della nazione per la donata Costituzione". Conclusi i festeggiamenti, i dignitari proseguirono per Parigi ove il 4 settembre ebbe luogo tra Napoleone e il C. un colloquio del quale si sa soltanto che questi ebbe in dono una tabacchiera d'oro "contornata di brillanti e fregiata della sigla imperiale".

Il nuovo re di Napoli Gioacchino Murat, continuando nella direzione già segnata da Giuseppe Napoleone, affrontò col decreto del 27 genn. 1809, il problema del rinnovamento dell'istruzione. Lo stesso giorno il C. fu chiamato a far parte della commissione che pochi mesi dopo presentò al re quel Rapporto la cui redazione, pur sottoscritta da cinque membri della Commissione, è universalmente attribuita al C. e sin dal 1848 pubblicata sotto il suo nome. Il documento (diviso in due parti, una introduttiva e teorica - il Rapporto vero e proprio -, l'altra - il Decreto -consistentenegli articoli del progetto di legge) fu dato alle stampe a spese del governo, ma ebbe una contrastata influenza nella storia dell'istruzione meridionale. Il progetto, osteggiato dallo Zurlo, fu respinto dal Consiglio di Stato per la sua difformità dai modelli imperiali e - al termine di un lungo dibattito che vide impegnati, oltre al C., G. Zurlo e M. Galdi - solo alcune sue istanze furono accolte nel piano organico approvato dal sovrano il 29 nov. 1810.

Rapporto e Decreto costituiscono, però un momento importante nella biografia politica del C.; mostrano come la teoria della mediazione pedagogica intuita nel Saggio e svolta nel Platone giunga ad un nuovo e definitivo esito. Entrato in contatto con la società meridionale il C. pone tra il cielo delle élites filosofiche - i grandi intellettuali "destinati a promuovere la scienza" - e le plebi disorganiche, una fitta trama di intermediari: la piccola e media borghesia cittadina e rurale, tutti coloro la cui istruzione "ha per oggetto di facilitare le comunicazioni tra i pochi e i moltissimi". Così lo schema binario del Platone, nel Rapporto diventa ternario. Questo sistema di mediazione fu pensato dal C. nella prospettiva di un ordinato e graduale progresso civile, ma non si può non sottolineare che una struttura dominata da intellettuali e proprietari poteva facilmente trasformarsi in quel blocco per l'organizzazione del consenso su posizioni conservatrici, la cui esistenza nella società meridionale verrà denunciata e descritta più di un secolo dopo. "È necessario - scrive il C. - che vi sia una istruzione per tutti, una per molti, una per pochi.... La prima non deve formare del popolo tanti sapienti, ma deve istruirlo quel tanto che basta perché possa trarre profitto dai sapienti.... I grandi scienziati, sempre pochi, non possono essere a contatto con tutto il popolo... ad ottenere questo sono utilissimi i proprietari, i quali con l'istruzione e mezzi maggiori... sono più facilmente in contatto con gli scienziati e con i loro libri, e sono più efficaci a persuadere il popolo" (Scritti vari, II, p. 5).

Il Rapporto organizza la scuola in tre ordini (elementare, medio, sublime) e, consentendo l'insegnamento ai privati, riserva allo Stato una funzione d'intervento e di controllo che si esercita attraverso una direzione generale dipendente dal ministero degli Interni. L'organo centrale garantisce l'uniformità e lo sviluppo degli studi, controlla i docenti, coordina i programmi, impedisce che entrino nella scuola i testi "non approvati dalle pubbliche autorità". L'istruzione non deve prendersi cura solo della scienza, ma anche della politica e della morale. Questa prescinde dalla religione, si fonda sul concetto di proprietà, sull'"orgoglio nazionale", sulla "subordinazione, prima virtù d'ogni cittadino". La scuola elementare deve diffondersi "in ogni angolo del Regno", aprendo le sue porte a maschi e femmine; l'insegnamento non è obbligatorio ma largamente incentivato con premi agli scolari ed ai loro genitori; reso gradevole da gare e da feste, il linguaggio dei maestri deve sapersi avvicinare alla sensibilità della fanciullezza. Il rinnovamento pedagogico europeo lambisce, dunque, la scuola elementare del Mezzogiorno, ma su questa incombe una drastica limitazione; nulla essa offre oltre "leggere, scrivere, far di conto e la morale", nulla più di quanto serva per lavorare e servire. Messo alla prova dell'esperienza, il sistema gradualistico promozionale dell'istruzione si rivela illusorio: la scuola. suggella la frattura tra i "due popoli". Non si può non notare il contrasto con la scuola che il Rapporto riserva ai ceti medi: per essi si apre il microcosmo dello scibile, quel sapiente dosaggio di studi letterari, filosofici e scientifici che nel corso del secolo segnò il successo dei ginnasi e dei licei.

Il dibattito intorno ai progetti di riordinamento della scuola continuò negli anni 1811 e 1812, intrecciandosi ai contrasti interni del gabinetto murattiano e si concluse con l'allontanamento del C. dall'Istruzione, cui immediatamente seguì la sua nomina (28 febbr. 1812) a direttore del Tesoro reale. Non si trattò, come parve a un contemporaneo, del suo "seppellimento nella polvere d'una computisteria" (d'Ayala). Murat gli aveva affidato l'arduo compito di riorganizzare un dissestato settore dell'amministrazione, un lavoro che il C. compì in due anni riuscendo a condurre la Tesoreria napoletana dal caos in cui la trovò a quell'ordine ed efficienza in cui la lasciò nel 1815. La gravosa incombenza gli rese "interamente impossibile - si legge nel carteggio - ogni occupazione letteraria". Ai nuovi incarichi si aggiungeva la necessità di portare a termine i compiti assunti negli anni precedenti. Era giunto al vertice di una carriera segnata da una serie di difficili mansioni. Dal marzo 1810 era consigliere di Stato per la sezione legislativa; faceva o aveva fatto parte di importanti commissioni: per la formazione del Catasto provvisorio, dal 4 aprile 1910; per l'epurazione della magistratura, dal 20 novembre dello stesso anno. Sempre dal 1810 era presidente del Consiglio generale del Molise; nel 1812, quando le società di agricoltura vennero ampliate in società economiche, era stato nominato socio onorario di quella dei Molise e socio corrispondente di quelle di Terra di Bari e di Basilicata. Dal 1808 era socio onorario della Regal Società d'incoraggiamento e storia naturale di Napoli, e nel 1811 ne era stato eletto presidente. Non gli mancarono i riconoscimenti accademici e le onorificenze: nel 1807 era stato chiamato a far parte dell'Accademia italiana di scienze e lettere di Livorno; dal 1808 presiedeva la risorta Accademia Pontaniana, nel 1809 era stato designato socio corrispondente della Accademia Taurinense. Gioacchino Murat lo aveva nominato nel 1808 cavaliere dell'Ordine delle Due Sicilie, e l'imperatore, dopo il colloquio di Parigi, gli aveva concesso di fregiarsi delle insegne dell'Ordine della Corona di ferro.

Quando, dopo la spedizione di Russia, i rapporti tra Gioacchino Murat e Napoleone si incrinarono, il progetto unitario che il C. aveva sempre considerato un possibile corollario della politica dei Napoleonidi parve improvvisamente realizzabile. Le fonti sono reticenti, ma dal posteriore contegno del C. può ragionevolmente dedursi che egli, nel corso del 1813, avesse preso posizione tra coloro che nel Consiglio di Stato chiesero di rompere l'obbedienza a Napoleone e di schierarsi con gli Austro-inglesi (Cortese, Nicolini). Dopo mesi di incertezze e di trattative segrete questa linea politica prevalse e nel gennaio del 1814, dopo il clamoroso trattato austro-napoletano, Murat avanzò nell'Italia centrosettentrionale, occupò Roma e Bologna, assediò Ancona, ed impegnò militarmente i Franco-italiani dei viceré Eugenio a Reggio, sul Taro e sul Mincio. Entro questo quadro deve essere collocata l'attività del C. che, tra il gennaio e il maggio 1814, fu nel ristrettissimo gruppo dei fiduciari di Murat, che, con la qualifica di commissari civili, organizzarono i governi provvisori nei dipartimenti di volta in volta occupati dalle truppe napoletane. Di questo periodo si sa soltanto che, partito da Napoli il 29gennaio 1814, il C. giunse a Bologna in data non precisata; qui il 17 febbraio fu nominato direttore generale del Tesoro dell'armata. assistette il 31 marzo all'ingresso in città di Pio VII; poi sembra abbia seguito i diversi spostamenti del quartier generale di re Gioacchino (Cortese, Nicolini).

L'abdicazione di Napoleone e il ritorno dei principi legittimi sul loro trono fecero crollare il precario equilibrio italiano che si era costituito nella primavera intorno al Murat. Ma questi, consapevole che il Regno di Napoli rappresentava nella penisola l'unico sopravvissuto modello della civiltà scaturita dalla Rivoluzione e da Napoleone, chiese un rinnovato impegno per riprendere l'opera di riforma interrotta dalla guerra. Furono nominate quattro commissioni per continuare il lavoro sui codici, sull'esercito, sull'amministrazione, sulle finanze. La competenza mostrata dal C. nel riordinamento del Tesoro, gli valse, il 16giugno 1814, la nomina al Consiglio speciale di contabilità. Avrebbe dovuto, secondo le indicazioni del decreto, "compiere un attento paragone di tutte le leggi e le istituzioni vigenti nel Regno con le disposizioni legislative e regolamentarie esistenti [in Europa]" ed estrarne tutto ciò che poteva essere utile per allestire un "centro di contabilità" efficiente e moderno. Su questa poco nota fase biografica ha gettato qualche luce un documento della polizia austriaca che ha rivelato la partecipazione del C., nel gennaio e nel febbraio 1815, al tentativo di costituire un fronte indipendentista italiano appoggiato alla carboneria della Toscana e delle Marche, posto sotto la tutela della diplomazia britannica. Il gruppo dei cospiratori si riuniva a palazzo Gravina e il C. è indicato come uno dei personaggi "più marcati e influenti" (Scritti vari, II, p. 386).

La fuga di Napoleone dall'Elba suggerì al Murat di inserirsi ancora una volta nella crisi europea riprendendo la guida del movimento nazionale italiano. Progettò di impadronirsi militarmente della penisola per trattare da posizioni di forza col vincitore dello scontro continentale. Che di questa politica il C. fosse, se non l'ispiratore, uno dei più risoluti sostenitori non lo dimostra soltanto l'ispirazione ed alcune ricorrenti espressioni dei Proclama di Rimini (Nicolini); ma la serie di articoli che nell'aprile e nel maggio egli scrisse per il Monitore esortando gli "italiani degli stati di Napoli" a concorrere con le armi e con il denaro alla lotta per l'indipendenza, tornando con nuovo entusiasmo ai temi che gli erano, sin dal periodo milanese, consueti: "l'orgoglio nazionale", "l'amor di patria", i doveri dei cittadini in tempo di guerra. Gli ultimi articoli sono drammaticamente concitati. L'11 maggio, nell'imminenza del crollo, lanciò un appello contro le voci disfattiste che si spargevano nella città. Il 23gli Austriaci entravano in Napoli.

Con la Restaurazione Ferdinando I fu costretto dal trattato di Casalanza a rispettare i ruoli dell'amministrazione murattiana e il C. rimase al Tesoro. Ma gli ultimi suoi anni furono amari. Alle sempre più frequenti manifestazioni della malattia nervosa che lo affliggeva, si aggiunse l'inquietudine per la incongruità. del suo inserimento nello Stato borbonico. Le biografie sono ricche di aneddoti che rivelano come la malevolenza della corte e del ministero nei suoi riguardi fosse unita ad un formale rispetto che giunse sino all'elargizione di nuovi titoli accademici e, quando la malattia gli impedì il servizio, alla concessione di una "mediocre pensione". Dava ormai manifesti segni di pazzia, alternando a sempre più rari momenti di lucidità, improvvise accensioni di furore e crisi di depressione. M. d'Ayala ricorda che "quando non delirava, il povero Cuoco leggeva di continuo, ma materialmente, quasi compitando, i suoi scritti, e andava rotolando le sue carte e i suoi libri" (Vita, p. XXX). Sopravvisse così nove anni. Nel 1820 gli amici sperarono che la notizia del nuovo corso costituzionale potesse risvegliare la sua ragione, ma ascoltando le vicende cittadine, "egli sogghignava stoltamente" (ibid.). Nel 1821 G. Orloff, dopo averlo visitato, osservò che il solo grande e severo storico della rivoluzione napoletana del '99 era stato schiantato dalla Restaurazione ed espresse un parere senza speranza sulle sue condizioni mentali (Mémoires historiques..., V, Paris 1822, p. 83).

Nel 1823 una caduta gli provocò la frattura dei femore e, colpito da febbre e da cancrena, mori il 14 dicembre a Napoli nella casa dei marchesi De Attellis alla salita Tarsia. Il suo corpo fu sepolto nella cappella di S. Giuseppe de' nudi e più tardi, sopravvenuto il divieto di inumazione nelle chiese, fu gettato nell'ossario.

Opere: Le carte del C. sono conservate nella Bibl. naz. di Napoli (Mss. XV, B. 97, 98, 99; cod. XIV H, 41); il fondo è costituito da una ingente mole di frammenti più o meno ampi, in parte inediti: progetti ed abbozzi di opere incompiute, stesure parziali di opere edite; studi su vari argomenti, note, memorie, appunti, lettere. Cfr., per una sommaria descrizione delle carte e per il concorso cuochiano bandito dall'Accademia di scienze mor. e polit. di Napoli, in occasione dell'acquisto dei mss., il Supplemento alla Riv. d. bibl. ed arch., Milano 1905, pp. 3 ss.

Carte autografe del C., relazioni e rapporti da lui scritti o dettati, atti d'ufficio e documenti concernenti la sua biografia sono presso l'Arch. di Stato di Napoli, disseminati nei fondi del ministero degli Interni, del ministero delle Finanze, nelle poche serie superstiti del Consiglio di Stato. Le ricerche intraprese da N. Cortese e da F. Nicolini in occasione della edizione degli Scritti vari (1924) non sono state continuate.

Alla prima ediz. del Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, I-III, Milano, anno IX rep. (1801), seguirono la traduz. tedesca, Berlin 1805, e la 2 ed. con aggiunte e varianti, Milano 1806. Su questa fu eseguita la traduz. francese, Paris 1807. Le più importanti ediz. ottocentesche sono. Milano 1820; Paris 1842; Torino 1852; Napoli 1861; Firenze 1865. Il testo è stato fissato criticamente nella ed. curata da F. Nicolini, Bari 1913; nel 1926 N. Cortese ha pubblicato a Firenze la più compiuta ed. del Saggio, corredata da un prezioso apparato di note storiche e bibliografiche.

I primi due volumi del Platone in Italia, traduzione dal greco di V. Cuoco furono pubblicati a Milano nel 1804; il terzo volume, comprendente le inconcluse e provvisorie Appendici già promesse nel Discorso preliminare, fu pubblicato nel 1806 sempre a Milano. Seguì la traduz. francese, Paris 1807, e la traduz. parziale tedesca, Berlin 1808, nota ma irreperibile in Italia. Nella 2 ed. italiana, Parma 1808, i tre volumi dell'ediz. milanese furono raccolti in due tomi e questa partizione fu osservata in tutte le ediz. successive: Bruxelles 1842; Lugano 1843; Torino 1852; Torino 1854; Napoli 1861. L'ediz. critica, corredata in appendice da un lungo frammento inedito delle Osservazioni sulla storia d'Italia anteriore al V secolo di Roma, è stata curata da F. Nicolini, I-II, Bari 1916-24.

Gli Scritti vari, a cura di N. Cortese-F. Nicolini, I-II, Bari 1924, raccolgono la parte maggiore delle opere rare ed inedite. La parte prima, relativa al periodo milanese (1801-06) raccoglie ventisette articoli pubblicati sul Giornale italiano e il catalogo ragionato di tutti gli articoli che possono essere attribuiti al C.; due articoli pubblicati su Il Redattore cisalpino; frammenti della Statistica italiana; scritti sulla filosofia di Vico e di Kant; un frammento del Corso di legislazione comparata; la prefazione alla Storia dell'umanità. La parte seconda, relativa al periodo napoletano (1806-15) raccoglie: Il rapporto al re Gioacchino Murat; il Progetto di decreto per l'organizzazione della Pubblica Istruzione; Varianti al Progetto; uno scritto sul Regio Istituto d'incoraggiamento di Napoli; il Viaggio in Molise; le Proposte per i rimboschimenti e le bonifiche; l'Elogio di G. M. Galanti; il Discorso sulla utilità delle scienze e specialmente della storia; il Saggio sul vero significato della cosiddetta inutilità della storia; il catalogo ragionato degli articoli pubblicati sul Corriere di Napoli e sul Monitore delle Sicilie ed attribuiti al C.;. Il carteggio consistente nel testo integrale o frammentario di 123 lettere inedite o già sparsamente edite.

Fonti e Bibl.: Le prime notizie biografiche del C. si devono al cugino Gabriele Pepe che ne pubblicò il necrologio sull'Antologia italiana del Vieusseux, XIV, Firenze 1824; seguì, dopo altri accenni variamente apparsi in storie letterarie e discorsi commemorai, la Vita scritta da M. d'Ayala, premessa all'ediz. napoletana (1861) del Saggio storico. Gli studi sulla vita e sul pensiero del C. ebbero nei primi anni dei Novecento una rigogliosa fioritura suscitata dal ritrovamento dei mss. ed ispirata da interessi filosofici. memorialistico-eruditi nonché da suggestioni nazionaliste. Una esauriente bibliografia di questa prima fase degli studi è in G. Cogo, V. C. Note e documenti, Napoli 1909; non possono comunque qui non ricordarsi: G. Ottone, V. C.e il risveglio della coscienza nazionale, Vigevano 1903; N. Ruggieri, V. C. Studio storico-critico, Rocca San Casciano 1903; M. Romano, Ricerche su V. C. politico, storiografo, giornalista, Isernia 1904; G. Ottone. La tesi vichiana di un antico primato italiano nel Platone di V. C., Fossano 1925; A. Butti, La fondazione del Giornale italiano e i suoi primi redattori, 1802-1806, in Arch. stor. lomb., s. 4, XXXII (1905), 7, pp. 102-74; G. Gentile, Un discepolo di G. B. Vico, V. C., in Rivista pedagogica, II (1908), poi corredato di un'utile append. bibliogr. e raccolto in Studi vichiani, Messina 1915, e finalmente in V. C., Venezia 1927. Nel suo saggio del 1905 il Gentile, utilizzando i risultati delle ricerche parziali ed erudite condotte negli anni precedenti, tracciava una prima biografia critica nella quale, oltre a sottolineare la polemica antiastrattista e antigiacobina poneva in evidenza il contributo che il C.. anticipatore dei Mazzini e del Gioberti, aveva dato alla formazione della coscienza nazionale italiana. Il predominio francese in Italia era stato accettato nella generosa illusione di ottenere da Napoleone uno Stato forte e unitario; ma il C. sapeva che per l'Italia inserita nel sistema francese il problemi della nazionalità si poneva come problema di civiltà, di tradizione autonoma da salvaguardare (da qui il Platone), di educazione d'uno spirito forte e guerriero (da qui i progetti di istruzione pubblica). Un nuovo indirizzo negli studi cuochiani fu segnato da B. Croce che - dopo la marginale attenzione dedicatagli nelle ricerche - intorno a La Rivoluzione napoletana del 1799 (Bari 1912) - riservò al C. un posto di notevole rilievo nei saggi con i quali. nei primi anni della guerra mondiale, ricostruì le grandi linee della storiografia italiana dell'Ottocento. In questi scritti (raccolti in Storia della storiografia ital. nel sec. XIX, Bari 1920), il C. è inserito nel filone dello storicismo europeo, collegato idealmente al Burke e al de Maistre ed insieme considerato l'iniziatore. in Italia, della nuova storiografia risorgimentale "fondata sul concetto dello svolgimento organico dei popoli e della politica del liberalismo nazionale". Lo svolgimento critico del quadro proposto dal Croce è nelle riflessioni di G. De Ruggiero, in Il Pensiero politico meridionale nei secc. XVIII e XIX (Bari 1922). In pagine che conservano ancor oggi la loro importanza, De Ruggiero collocò il C. nell'età napoleonica, considerata, per la coercizione che essa esercitò sullo spirito rivoluzionario, la prima fase dell'età della Restaurazione. In questo quadro si chiarisce l'ideale coerenza del pensiero del C. che, grazie al suo intransigente rifiuto dell'antico regime. poté approdare dallo "istintivo" antigiacobinismo e anticosmopolitismo alla "monarchia popolare napoleonica", scorgendo peraltro in essa l'embrione di uno Stato nazionale forte e moderno. Il fatto che il C. rigorosamente escludesse da questo suo modello politico l'idea della rappresentanza, consentiva al De Ruggiero, nell'ulteriore svolgimento dei suoi studi, di collocare criticamente il C. nel contesto generale dei liberalismo italiano ed europeo (Storia dei liberalismo europeo, Bari 1925). Negli anni Venti gli studi cuochiani ebbero nuovo incremento per le esemplari ediz. del vol. II del Platone (1924), degli Scritti  vari (1924) del commento cortesiano al Saggio storico (1926). Sempre N. Cortese, in Stato e ideali politici nell'Italia meridionale del Settecento e l'esperienza di una rivoluzione (Bari 1927), tracciò un grande affresco della cultura meridionale prima e dopo la Rivoluzione ed in questo l'opera del C. trovò un posto significativo. Ma sempre negli anni Venti, e poi nel decennio successivo, si manifestò la tendenza a svolgere l'impostazione gentiliana portandola alle estreme conseguenze e ad accentuare nel pensiero cuochiano, forzando a volte il testo, l'indigenismo, il nazionalismo, l'autoritarismo. Questa linea aperta da F. Battaglia che, comunque, in L'opera di V. C. e la formazione dello spirito nazionale in Italia (Firenze 1925), mantiene un sostanziale equilibrio, culmina nel volume di M. Romano, V. C. nella storia dei Pensiero e dell'Unità italiana (Firenze 1933), che conclude trenta anni di studi cuochiani con uno scoperto riferimento al nuovo corso fascista del quale il C., teorizzatore dello Stato etico e corporativo, sarebbe stato l'antesignano.

Le pagine dedicate al C. da L. Salvatorelli, in Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870 (Milano 1935); ed. ampliata: Torino 1940. non solo si contrappongono all'indirizzo prevalente in quegli anni. ma segnano una revisione radicale dell'impianto dato da Croce agli studi cuochiani. In poche pagine, nutrite però dagli apporti delle edizioni recenti, il Salvatorelli, dopo aver definito "tutt'altro che priva di astrattezza, tútt'altro che sovrabbondante di senso storico" l'analisi della situazione del '99, rivendica la necessaria "astrattezza" dei principi della Rivoluzione ed osserva che il C., nel sottolineare i rapporti che la rivoluzione deve conservare coi passato, rimane chiuso nel suo "localismo" e nazionalismo, rivelandosi incapace di comprendere che il significato d'una rivoluzione non sta nel fondarsi sull'esistente, ma nel creare "qualcosa di nuovo, una coscienza che mancava". In realtà quel che ispirava il C. non era un concetto diverso di rivoluzione ma una pregiudiziale antirivoluzionaria, sicché la collocazione crociana del C. alle origini della nuova letteratura storica e politica italiana può essere accettata solo se accompagnata da una serie di doverose distinzioni e precisazioni. I nuovi spunti offerti da Salvatorelli furono approfonditi da T. Vecchietti. Contributo allo studio dei Pensiero Politico di V. C., inRiv. stor. ital., LVII (1941). pp. 197-214, 327-50. In questo saggio, che, pur ispirato alla cultura dell'idealismo, segna un momento di svolta negli studi cuochiani, l'autore fa derivare la costante opposizione dei C. all'illuminismo da una sua "machiavellica aderenza alla realtà dell'essere" che gli impedisce la sistemazione teorica nella itoria della categoria del dover essere; da ciò l'incapacità cuochiana a far propri i valori della democrazia storica e la sua utilizzazione "machiavellica" in funzione antigiacobina dei democratismo. Rimanendo radicato nella cultura del Settecento il C. tenta di dare forma razionale e pedagogica alla rivoluzione, ma finisce col porne tra parentesi la reale dinamica e di attribuirle il compito di convincere gli uomini ad accettare le "idee medie" concludendosi così la storia con quel "rinsavimento dell'umanità" che fu lo Stato napoleonico. Mentre le opere di G. Flores d'Arcais, La pedagogia di V. C. (Padova 1948) e di R. Laporta, La libertà nel pensiero di V. C. (Firenze 1957) rimangono nell'ambito delle interpretazioni tradizionali, i tre volumi pubblicati da F. Tessitore, Lo storicismo giuridico-politico di V. C. (Torino 1962), Lo storicismo di V. C., con appendice di frammenti inediti (Napoli 1965), V. C. tra illuminismo e storicismo (Napoli 1971), sono ispirati dalla esigenza di una più adeguata collocazione del C. nella storia della cultura. Prescindendo dal tentativo di rivalutazione del dubbio "costituzionalismo" dei C., questa linea di discussione tende a sfumare, svolgendo un noto tema meineckiano, l'antitesi radicale tra illuminismo e storicismo e, in una concezione articolata e complessa dei fluire della storia, a legittimare nel C. la coesistenza di motivi, se non contraddittori, diversi. Negli anni Sessanta e Settanta sono stati pubblicati utili studi su argomenti specifici: C. D'Alessio, Un giudizio di V. C. su V. Monti, Firenze 1960; R. De Felice, L'Italia nel periodo rivoluzionario, in Italia giacobina, Napoli 1965, notevole per la revisione dei concetto di "rivoluzione passiva"; M. Sansone, Romanzo archeologico e storicismo nel Platone in Italia di V. C., in Annuario d. Facoltà di lettere dell'università di Bari, 1966, pp. 221-40; M. A. Visceglia, Genesi e fortuna di una interpretazione storiografica: la rivoluzione del '99 come "rivoluzione passiva", in Annali d. Facoltà di magistero della università di Lecce, I (1970-71). pp. 163-207; A. De Martino, Antico regime e rivoluzione nel Regno di Napoli. Crisi e trasformazione degli ordinamenti giuridici, con appendice di frammenti cuochiani inediti, Napoli 1971; G. Bollati, L'Italiano, in Storia d'Italia, Torino 1972 (con osservazioni interessanti sul "catonismo" dei C.); C. Campanelli, Il realismo politico di V. C., Napoli 1974; P. De Tommaso. Il Platone in Italia dei C., in Belfagor, XXXIX (1974), pp. 389-410. Nel 1976, in occasione della ristampa a Bari dell'ediz. nicoliniana del Saggio storico (reprint, ibid. 1980), è stato premesso al testo un saggio di P. Villani che, ripensando i momenti fondamentali della biografia politica dei C., respinge tanto le interpretazioni grettamente conservatrici quanto quelle tardoilluministiche, e vede nel C. riflesso in maniera esemplare lo svolgimento culturale e politico della generazione che pose le premesse dei moderatismo italiano dell'Ottocento.

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