BELLINI, Vincenzo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 7 (1970)

BELLINI, Vincenzo

Raffaele Monterosso

Nacque a Catania da Rosario e da Agata Ferlito, primo di sei fratelli, il 3 nov. 1801 e fu battezzato il 4 novembre. Le notizie della prima infanzia del B. me ì ritano, nel complesso, scarso credito: è infatti evidente l'intenzione di ittribuire al bimbo quasi ancora in fasce tutte le caratteristiche dell'enfant prodige. Una fonte poco nota è costituita da un manoscritto anonimo e in gran parte inedito - tranne i brani che vennero riportati dal Policastro prima e dal Pastura poi - steso alla buona e senza alcuna ambizione letteraria: il Pastura opina che sia stato scritto da un parente del B. qualche zio o qualche fratello - allo scopo di fornire una traccia per i successivi biografi.

Tutti i biografi sono concordi nel riferire che a sei anni il B. compose un Gallus cantavit, motetto per voce di soprano: ma tale composizione non è stata mai più rintracciata o identificata; neppure si è trovata traccia di altre composizioni infantili citate da cronisti catanesi, tra cui uno o due Tantum ergo e una messa per la monacazione di una conoscente. Né meno inderte possono considerarsi le testimonianze sugli studi letterari compiuti dal Bellini.

L'anonimo ms. elenca tutta una serie di professori che gli avrebbero dato lezioni nelle più disparate discipline, dal latino e dal greco alla filosofia e alla lingua inglese. A sentire l`anonimo, verso il 1816 il B. avrebbe addirittura frequentato la facoltà di medicina. Ci manca la possibilità di riscontrare la veridicità di tali affermazioni: quello che è certo, è che il B. non fu una persona colta nel senso scolastico del termine. Anche da adulto conobbe poco il francese, quasi nulla l'inglese: la stessa lingua italiana - a giudicare dall'epistolario - era venata da influssi dialettali siciliani, e rimase sempre parecchio incerta, oltre che nel lessico, anche nella morfologia e nella sintassi.

Il B. ebbe piuttosto una iruiata e forte predilezione per la poesia, che egli lesse con avidità, se pur in maniera disordinata. Forse la sua prima musica a noi giunta è un gruppo di nove versetti da cantarsi il venerdì santo, scritti a quattordici anni: una serie di ariette composte nella tipica maniera settecentesca, e in cui sarebbe vano ricercare tracce di originalità.

È probabile che molta musica di questo primo periodo catanese sia rimasta ancor oggi conservata negli archivi privati delle famiglie presso cui il giovanissimo B., probabilmente introdotto dal nonno, si recava per dare saggi di sé: certo è che, con i reperimenti di nuovi abbozzi e frammenti autografi di musiche belliniane, acquistano consistenza talune notizie dei biografi coevi su musiche belliniane che si potevano credere inventate dalla fantasia dei cronisti.

Col passare degli anni, le composizioni belliniane superstiti si fanno sempre più frequenti: l'anno più fertile è il 1818, quando il B. scrisse vari Tantum ergo, messe, litanie e versetti vari. La ragione di tale improvvisa fertilità consiste probabilmente nel progetto, già ventilato, di mandare il B. a Napoli perché seguisse regolari studi di musica: dovendo superare un esame di ammissione per poter entrare al conservatorio, è naturale che egli si esercitasse quanto più pot eva. Tuttavia le precarie condizioni econorniche della famiglia indussero il B. a indirizzare una supplica all'intendente del Vallo di Catania per ottenere un sussidio che gli permettesse di continuare i suoi studi all'estero. La supplica fu accolta, e il decurionato gli concesse 36 onze annue per quattro anni, con l'obbligo per il B. di restituire il denaro qualora al termine dei suoi studi egli non si fosse stabilito in Catania.

A Napoli il B. giunse il 18 giugno 1819, e fu subito, senza troppe formalità, ammesso al Real Collegio di Musica di S. Sebastiano. Nonostante la discreta mole di lavori presentati, egli fu ammesso a una classe inferiore di armonia, sotto la guida del maestro Giovanni Fumo. Subito si legò di intima amicizia con Francesco Florimo, calabrese, di poco maggiore per età, ma assai più avanzato negli studi. Nonostante le notevolissime diversità dei carattere - tutto slancio, sentimento, ipersensibilità il B.; metodico, puntiglioso e raziocinante il Florimo - l'amicizia tra i due, mai intaccata nella sostanza nonostante i brevi e violenti diverbi, è rimasta proverbiale.

Al termine del primo anno di studi il B. superò gli esami con esito tanto favorevole, che gli venne conferito il posto gratuito. Sempre nel 1820 il B. e il Flqrimo si iscrissero alla carboneria, travolti dall'esultanza popolare per la concessione ai Napoletani, da parte di Ferdinando I, della costituzione. Ma di lì a pochi mesi il rettore del collegio indusse il Florimo e il B. a rinunciare a ogni velleità politica: e, per tutto il resto della sua vita, il B. rimase estraneo, non che alle vicende, anche all'atmosfera risorgimentale. Significativo è l'atteggiamento da lui tenuto durante la composizione dei Puritani, in cui il librettista Pepoli, esiliato a Parigi, non aveva esitato a introdurre più volte la proibita parola "libertà". Il B. comunica scherzosamente al Florimo (lettera del 5 genn. 1835) che qualche pagina della sua opera è "d'un liberale che fa paura": pagine che il B. si affrettò a togliere nel rifacimento di tale opera per il S. Carlo di Napoli.

Dalla scuola del Furno il B. passò a quella di contrappunto, sotto la guida di G. Tritto. Pochissimo sappiamo sulle composizioni scritte in questo periodo: è facile arguire che esse dovettero essere poche, dovendo il giovane B. pensare molto di più agli esercizi scolastici, da condurre secondo la più stretta impersonalità. Intanto, il 26 nov. 1822, l'Intendenza del Vallo di Catania, stando ormai per scadere il sussidio quadriennale concesso nel 1819, rinnovava il sussidio stesso per gli altri tre anni. Nel 1823 il B. passava alla scuola di composizione dello Zingarelli, direttore del collegio: questi, pur essendo rigoroso conservatore della tradizione, non solo non opprimeva gli alunni sotto il peso delle, regole, ma, anzi, li incitava a sviluppare al, massimo il senso dell'inventiva. Così il B., sotto la guida dello Zingarelli, compose un gran numero di solfeggi; secondo la testimonianza del Florimo uno dei più frequenti consigli dello Zingarelli era il seguente: "Da me imparate la grammatica, la semplice e nuda arte; e, una volta conosciutala, e divenuti maestri, studiate il modo di nasconderla...". In quel medesimo 1823 il B. fece la conoscenza di una signorina napoletana, Maddalena Fumaroli, figliola di un magistrato, cui diede lezioni di canto, e che egli desiderò ardentemente di sposare. Ma, i genitori di lei ricusarono, per tre volte, anche dopo che il felice esito dell'Adelson e Salvini, e della Bianca, aveva conferito al B. una certa notorietà. E quando, dopo il successo del Pirata in Milano nell'anno 1827, i genitori concessero il consenso, allora il B., ormai tutto dedito al suo lavoro, lasciò cadere gli ideali matrimoniali della sua prima giovinezza. Nel 1824 il B. venne promosso primo maestrino fra gli alunni: poté così godere di una maggiore libertà e anche acquistarsi un pianoforte, come era stato suo sogno sin da quando era giunto a Napoli nel 1819 (lettera del 31 luglio 1819). La produzione musicale del 1824 è vasta: tra essa, molta musica sacra, che per altro venne abbandonata quasi definitivamente dopo il 1825; varie sinfonie in forma di ouverture; e molta musica vocale da camera, tra cui una misteriosa cantata nuziale Ismene (o Imene) la cui identificazione, negli sparsi autografi belliniani, è molto problematica. In generale, però, tutta questa produzione non esce di molto dai limiti della esercitazione scolastica.

Nel congedarsi dalla scuola, il B. compose - a titolo di saggio finale - un'opera in tre atti, rappresentata nel teatrino di S. Sebastiano nel carnevale del 1825: l'Adelson e Salvini. Scritta su libretto di Andrea Leone Tottola, l'operina ebbe ottima accoglienza e fu più volte replicata in quel medesimo 1825. Più tardi, forse tra il 1827 e il 1828, essa venne rimaneggiata, o dallo stesso B. o su precisi suggerimenti di lui: gli atti si ridussero a due e le parti in dialetto napoletano vennero tradotte in italiano. Ma l'opera non fu mai più ripresa, nemmeno in tempi moderni.

Essa contiene una sola pagina d'ispirazione genuina: l'aria di Nelly "Dopo l'oscuro nembo" che il B. trasferì, con modifiche significative, nei Capuleti ("Oh quante volte"). Tranne questa sola pagina, di notevolissimo valore, le rimanenti melodie sono scarsamente personali; a parte la maggiore o minore felicità degli spunti tematici, esse sono palesemente influenzate dal modello rossiniano, così ben assimilato che più di una pagina potrebbe senz'altro essere attribuita al maestro pesarese.

Degni di attenzione sono ancora il rondò di Salvini, nel primo atto, sulle parole: "Oh quante amare lagrime"; il terzetto del I atto fra Nelly, Salvini e Bonifacio; un motivo nell'aria di Bonifacio nell'atto secondo, in quanto anticipa direttamente il duetto del II atto della Norma: "Deh con te, con te li prendi": tutte pagine che sono lontanissime dalla generica e impersonale fraseologia dell'opera buffa napoletana, presentando esse la duplice caratteristica di una linea melodica distesa e ampiamente fraseggiata, e di un accompagnamento dinamicamente mosso, a volte persino agitato. L'operina ha un altro pregio basilare: l'organicità dell'ispizione. Tutte le situazioni teatrali di questo lavoro, sia quelle più decisamente brillanti, sia quelle più serie e tendenti al drammatico, sono risolté in un'atmosfera di limpida serenità. È nell'insieme, una musica schiettamente cordiale, non priva di anticipazioni della futura drammaticità belliniana.

Il successo dell'Adelson aprì facilmente al B. la strada per altre e più impegnative prove. Per interessamento dello Zingarelli e del sovraintendente ai teatri di Napoli, egli fu scritturato dal Teatro S. Carlo per comporre un'opera nuova da rappresentarsi il 12 genn. 1826, giorno genetliaco del principe ereditario Ferdinando. Questa volta il B. preferì ricorrere, per il libretto, all'opera di un giovane allora quasi sconosciuto, Domenico Gilardoni, che in seguito, nel resto della sua breve vita, godette qualche notorietà preparando libretti per Luigi Ricci, Giovanni Pacini e Gaetano Donizetti., Da un "dramma flebile" intitolato Carlo, duca d'Agrigento nacque il libretto che si chiamò Bianca e Fernando, mutato dalla censura in Bianca e Gernando perchè non venisse profanato il nome del principe ereditario, il festeggiato. Ma la prima rappresentazione dell'opera fu rinviata al 30 maggio per malattie e lutti presso la corte borbonica. L'opera ebbe un successo felice, e fu molto apprezzata anche dal Donizetti. Essa venne ampiamente rimaneggiata più tardi, tra il febbraio e l'aprile del 1828, quando il B. accettò di inaugurare la stagione al Teatro Carlo Felice di Genova; mancandogli il tempo per comporne una nuova, pensò bene di ritoccare l'opera napoletana.

Di tali rifacimenti, e delle discussioni che dovette sostenere con i capricciosi cantanti, il B. parla a lungo nel suo epistolario, e specialmente nelle lettere al Florimo del 27 febbraio, del 2 e del 5 apr. 1828. Le modificazioni non furono né poche né lievi; parecchio egli tagliò, e molto aggiunse di nuovo, tra cui la sinfonia dell'opera, una cavatina di Bianca nel I atto e un coro di congiurati nel II atto. Per le modificazioni al libretto si valse della collaborazione di Felice Romani, che già gli aveva approntato il testo del Pirata, rappresentato alla Scala l'anno precedente.

Nonostante il valore musicale della Bianca nelle due edizioni - quella napoletana e quella genovese - sia piuttosto modesto, quest'opera è importante almeno per due motivi. Il primo è che in essa si trovano tre spunti melodici che il musicista utilizzerà più tardi nella Norma: una frase di Fernando, nell'introduzione, sulle parole "Ah, annunzia", i cui cromatismi e le cui appoggiature ricorreranno in una frase di "Casta Diva"; la cabaletta di Bianca, nel finale del 1 atto, il cui spunto iniziale verrà a costituire il rondò di "Casta Diva": "Ah bello a me ritorna"; e il coro dei congiurati del II atto, che ritomerà, con poche modifiche, nel coro "Non partì" del II atto della Norma, dopo essere stato utilizzato anche nella smembrata Zaira.Il secondo motivo che fa di questo lavoro un momento insopprimibile nella ricostruzione del linguaggio belliniano consiste nella nuova struttura che il musicista infonde qui al suo periodare melodico. Anche se l'Adelson e il Pirata sono, sotto l'aspetto della limpidezza e della chiarezza melodica, superiori alla Bianca, quest'ultima possiede, nella maggior parte, un discorso, musicale pochissimo simmetrico nella struttura obbligata dell'antecedente e del conseguente, un fraseggio ampio, continuo, che disdegna il facile appoggio delle cadenze obbligate. La melodia appare spesso sacrificata, quanto a morbidezza di linee; ma, in compenso, il disegno intrinseco della frase si allarga, i periodi sono più tormentati e più protesi alla ricerca di una espressività più intensa, e, soprattutto, la rigida distinzione fra recitativo e aria comincia a dar luogo a una forma, il declamato arioso, che, non nuovo storicamente, trovò nel B. il suo massimo poeta.

Dopo il successo della Bianca napoletana il più attivo degli impresari di quel tempo, Domenico Barbaia, offrì al B. una scrittura per un'opera nuova da, rappresentarsi alla Scala. A Milano il B. giunse il 14 apr. 1827, e, aiutato da Mercadante, vi fece la conoscenza del principe dei librettisti, il genovese Felice Roman 1, allora trentanovenne e già ben noto.

"Classicheggiante" convinto, seguace e imitatore di V. Monti, P. Romani non seppe esser mai poeta. Gli argomenti dei suoi libretti sono tutti di seconda mano, di diversissima provenienza, ma la collaborazione che offri al B. fu sotto certi aspetti utile, poiché il Romani, tecnicamente abile, sapeva accontentare il compositore in tutte le sue richieste, che non erano né poche né lievi.: D'altronde, va anche rilevato che, per il Romani, era indifferente scrivere un libretto per il B. o per l'ultimo dei compositori dilettanti, sì che era costantemente sovraccarico di impegni e non in grado di rispettare le incombenti scadenze teatrali del Bellini. Ciò fu in più occasioni pregiudizievole al buon esito delle opere del B.: nel caso della Beatrice di Tenda, poi, il comportamento del Romani fu decisivo nel determinare I'insuccesso del lavoro.

La prima opera che il B. scrisse su libretto del Romani fu il Pirata, iniziato probabilmente verso il mese di maggio. Egli si occupò attivamente anche della preparazione della compagnia, formata dal soprano Enrichetta Méric-Lalande, dal baritono Antonio Tamburini e dal tenore G. B. Rubini. La prima esecuzione del Pirata ebbe luogo il 27 ott. 1827, con successo di pubblico e di critica. Poco più tardi, nel febbraio 1828, l'opera veniva replicata, con ottimo esito, a Vienna. Anche questo spartito segna un decisivo passo innanzi verso una più compatta unità del melodramma belliniano.

I recitativi drammatici prendono maggior ampiezza e consistenza; accanto ad arie affatto convenzionali ve ne sono altre, orientate verso una ricerca di intensissima drammaticità. Tra queste, ricordiamo, oltre alla tempesta e al quintetto del I atto, l'ultimo allegro nel terzetto del Il atto tra Imogene, Gualtiero ed Emesto, sulle parole "Io fuggir? Furente, insano, ti cercai due lustri invano" espresse con un feroce declamato, veramente inaudito nella storia del melodramma italiano; e l'allegro finale dell'opera, nella scena della pazzia di Imogene, sulle parole "Oh sole, ti vela di tenebre oscure".

Il 16 giugno 1828 il B., dopo molte perplessità, firmava un contratto con l'impresario Barbaia, impegnandosi a comporre l'opera nuova che il 26 dicembre di quell'anno avrebbe inaugurato la stagione lirica di carnevale alla Scala. I suoi migliori amici gli avevano fatto osservare che, dopo il successo pieno del Pirata, era un grande rischio presentarsi ancora alla Scala con un'opera affatto nuova: ma il B. accettò ugualmente la prova, riflettendo che un ulteriore successo avrebbe definitivamente consolidato la sua fama. Anche per quest'opera egli ebbe a collaboratore poetico Felice Romani, la cui solita pigrizia fu questa volta complicata da una malattia.

La composizione dell'opera - iniziata il 9 settembre - venne ultimata verso i primi di gennaio del successivo 1829. Il B. lavorò con il consueto impegno, senza quasi muoversi da Milano, eccettuati pochissimi giorni di vacanza, forse in compagnia di Giuditta Turina Cantú, che il musicista aveva conosciuto a Genova durante la rappresentazione di Bianca e Fernando. Il legame del B. con la Turina Cantù durò sino al 1833, quando, a causa di una lettera imprudente dello stesso B., il marito della signora ottenne la separazione legale: il che fu causa della definitiva rottura tra il B. e la signora. L'unica considerazione che, nella storia di questo legame, meriti di essere fatta, è che in nessuna maniera - positiva o negativa - la Turina Cantù poté influenzare la vita artistica del Bellini.

La Straniera fu rappresentata il 14 febbr. 1829, subito ottenne un successo ancora superiore a quello del Pirata, ed ebbe ventisei repliche con teatro affollatissimo. La critica del tempo intuì, almeno parzialmente che quest'opera non solo si manteneva indipendente dal modello, rossiniano, ma iniziava anche una via nuova verso un'espressione decisamente orientata in senso drammatico.

Esplicita, al riguardo, una cronaca pubblicata su L'Eco del 20 febbr. 1829, in cui l'anonimo estensore osservava che uno dei pregi principali della nuova opera del B. consisteva nel canto declamato, mediante il quale la musica poteva commentare liberamente la parola, senza cristallizzarsi obbligatoriamente in belle èantilene atte ad essere riprodotte facilmente dagli organetti. Effettivamente, questa Straniera, nonostante il libretto assurdo e risibile, e nonostante risulti ancora appesantita da arie poverissime di originalità, presenta alcune pagine, come il finale del I atto (e specialmente l'abbozzo melodico di Alaide "Un grido io sento") e il finale dell'opera (ancora un declamato di Alaide: "Or sei pago, o ciel tremendo") le quali costituiscono ormai un preludio eloquente di quella che sarà la più compiuta melodia belliniana: un linguaggio che, pur esprimendosi mediante una semplice monodia appena sostenuta da accompagnamenti presso che schematici, non fa desiderare affatto la presenza di una più ricca e consistente elaborazione.

Una nuova importante occasione di lavoro fu offerta al B. verso il giugno del 1828. Stava, per essere ultimata la costruzione del nuovo Teatro ducale di Parma, e la stessa duchessa Maria Luigia volle che l'inaugurazione avvenisse nella maniera più sontuosa, chiamando per l'occasione i migliori artisti disponibili.

Si era pensato in un primo momento a Rossini, ma le trattative fallirono perché Rossini aveva posto la condizione di scrivere la nuova opera rimanendo a Parigi, ove risiedeva da ormai quattro anni. Allora il "corrispondente teatrale" Bartolomeo Merelli (il medesimo che ebbe tanta influenza sugli inizi della carriera artistica di Giuseppe Verdi) prese accordi col B., pur manovrando segretamente perché il Teatro scritturasse invece altri compositori. Le trattative ebbero esito favorevole per il B., che firmò il contratto nel novembre del 1828; l'opera nuova avrebbe dovuto essere rappresentata il 12 maggio 1829. In quel periodo il B. era impegnatissimo nella composizione della Straniera, ma si occupò anche dell'opera parmense, che subito gli diede fastidi non lievi.

Revisore degli spettacoli del Ducale era un avvocato, Luigi Torrigiani, una delle immancabili glorie locali, che propose al B. un suo libretto, dal titolo Cesare in Egitto. Il B. rifiutò tout court un soggetto "vecchio come Noè", provocando l'immediata reazione del Torrigiani, che in una lettera al direttore della Commissione teatrale parmense protestò vivacemente, accusandolo di ripudiare il genere classico, come "freddo e noioso" e di prediligere i sentimenti, "romantici ed esagerati". Tuttavia il B., forte di una clausola del contratto che lo autorizzava a scegliere un libretto di suo pieno gradimento, tenne duro, e una volta di più poté avere il suo Romani. È noto che, a causa di una malattia del Romani stesso, la prima rappresentazione della Straniera subì un rinvio di quasi due mesi. Si arrivò così alla metà di febbraio; poi il B., assai stanco, lasciò passare alcuni giorni prima di rimettersi al lavoro; inoltre scartò vari argomenti prima di accettare, d'accordo col Romani, la Zaira, desunta dalla tragedia omonima di Voltaire. Solo il 17 marzo, quando mancavano meno di due mesi all'inaugurazione del Ducale, il B. e il Romani giunsero a Parma, ancora a mani vuote. Contrariamente al solito, e per l'unica volta nella sua vita, il B. procedette svogliatamente nel suo lavoro, tanto da essere più volte richiamato garbatamente ai suoi doveri dal conte Sanvitale, sovrintendente del Ducale. Estremamente inopportuno fu poi un infelice "Proemio dell'Autore" che il Romani stampò in testa al suo libretto; proemio in cui, quasi a dar corpo alle dicerie che correvano in città, affermava che "la poesia fu scritta a brani mentre si faceva la musica" e che "poesia e. musica furono compiute. in meno di un mese". Tutto questo complesso di circostanze finì con l'indispettire i Parmigiani, feriti nel loro orgoglio civico vedendo con quanto scarso impegno la. nuova opera fosse stata composta. Si arrivò così al 16 maggio, data della prima rappresentazione, spostata di qualche giorno per gli impegni di un cantante, il basso Lablache. La Zaira ebbe accoglienza fredda, a tratti persino ostile: i resoconti del tempo parlano di pochi applausi all'autore, ma, nel complesso, non pare si sia trattato di un fiasco completo. Il B., che aveva previsto ottimisticamente un esito pari a quello delle opere precedenti, non presenziò alla seconda recita. E, dopo otto rappresentazioni, l'opera sparve, e per sempre, dalle scene.

La partitura autografa - inedita - è depositata nella Biblioteca del conservatorio S. Pietro a Maiella in Napoli. Il B. trasferì varie pagine di essa nei Capuleti, negli abbozzi dell'Ernani e persino nella Beatrice di Tenda: da quanto possiamo giudicare, il valore dell'opera è mediocre, anche se non mancano pagine, come il declamato di Orosmane sulle parole "Io saprò da qual deriva", non certo inferiori, per vigoria di declamazione, agli analoghi esempi delle opere precedenti.

Mentre il B. si trovava a Milano, in attesa di una scrittura, ebbe modo di incontrarsi, nel mese di agosto, con Rossini. Di questo colloquio, messo frequentemente in dubbio da vari biografi, esiste la prova in una lettera del B. allo zio Ferlito del 28 ag. 1829, pubblicata integralmente dal Pastura. Il 28 settembre il B. fu insignito della medaglia d'argento del Real Ordine di Francesco I. In ottobre si recò a Torino, non sappiamo per quali cause: ivi conobbe Alessandro Lamperi, segretario del ministero degli Esteri sardo, che divenne uno dei suoi più fedeli amici. Il 12 dicembre parti da Milano per Venezia, per mettere in scena, al Teatro La Fenice, il Pirata. Ma ben più gravoso era il lavoro che attendeva il compositore. In data 5 genn. 1830 egli sottoscriveva un preliminare di contratto con l'impresario Lanari, in cui si impegnava a comporre e a mettere in scena, entro quarantacinque giorni, l'opera nuova Giulietta Cappellio (sic!), su libretto del Romani, nel caso che il compositore catanese Giovanni Pacini non avesse mantenuto fede all'impegno sottoscritto di essere a Venezia entro il 14 gennaio per comporre un'opera nuova.

Questa volta la scelta dell'argomento fu decisa senza perplessità a causa del pochissimo tempo a disposizione: Felice Romani avrebbe adattato una sua precedente Giulietta e Romeo, già musicata dal Vaccai, e il B. contava di avvalersi del materiale melodico già scritto per la sua sfortunata Zaira. Nel 1796 anche lo Zingarelli aveva musicato. una Giulietta e Romeo, sì che il B., secondo la testimonianza del Florimo, scrisse al suo maestro, dicendogli delle diflicoltà in cui si era venuto a trovare, e chiedendogli perdono per un atto che non era, né voleva in alcun modo essere, un'indelicatezza. Lo Zingarelli rispose esortando il suo antico allievo a continuare senza scrupoli il suo lavoro. Lo stesso B. in una succinta lettera al Florimo del 20 gennaio attesta che su di lui, perplesso e titubante specie dopo l'insuccesso della Zaira, furono esercitate fortissime pressioni anche da parte di personalità assai in vista.

Come era facilmente prevedibile, il Pacini non giunse a Venezia per il 14 gennaio: tuttavia l'impresario Lanari e il 13 si accordarono per una proroga sino al 20, a causa del maltempo che aveva reso le strade impraticabili. Scaduto anche questo termine, al B. non rimase che mettersi al lavoro con tutto l'impegno. L'ambiente veneziano gli era certamente assai favorevole, specialmente dopo l'esito lusinghiero del Pirata, rappresentato in prima esecuzione alla Fenice il 16 gennaio. Le lettere scritte dal B. durante la stesura della nuova opera testimoniano che il musicista aveva affrontato un impegno "pericoloso": "fattigo dalla mattina alla sera e sarà un miracolo se me la sorto senza qualche malanno" (lettera alla Turina del 26 gennaio 1830). Gli erano di conforto la con sapevolezza che l'ambiente veneziano era ben disposto nei suoi confronti e la notizia che in quei giorni la Straniera veniva replicata "con furore crescente". Il primo atto fu terminato nella prima settimana di febbraio: verso il 21 dello stesso mese avevano inizio le prove, quando l'opera non era ancora ultimata, come risulta da una lettera alla Turina del 3 marzo, in cui è detto che rimaneva ancora da comporre una scena del II atto.

La prima rappresentazione dei Capuleti ebbe luogo la sera dell'11, con ottimo esito. Nemmeno lo stesso B. sperava in un successo simile, anche per le preoccupazioni che nutriva sul conto della compagnia ("questi mezzi-cani di cantanti", lettera dell'8 febbraio alla Turina). Durante la rappresentazione però gli artisti superarono se stessi ("La compagnia da quel grado che era e come, in quest'opera figura è come dal mediocre al sublime": lettera del 16 marzo al Lamperi): la Grisi, nella parte di Romeo, la Carradori in Giulietta, e persino il tenore Bonfigli, quel medesimo che il B. aveva gratificato di "salame". Insomma, il successo ottenuto dall'opera fu tale da ricompensare il musicista deTintenso sforzo da lui compiuto. Tra. i motivi che lo avevano indotto a correre il grosso rischio di scrivere un'opera nuova in pochi giorni - dopo il recente episodio, ammonitore della Zaira - c'era stato anche il proposito di utilizzare, in parte, le melodie dell'opera caduta a Parma.

In effetti, alcuni motivi - una decina in tutto - passarono dall'uno all'altro spartito: ma la fatica che costò al compositore questo lavoro di travestimento non fu proporzionata all'utile che ne derivò. Nella migliore delle ipotesi si trattava di un assestamento affatto. nuovo dell'impalcatura prosodica, e spesso era necessario sovrapporre elementi nuovi a strutture vecchie, tale da richiedere più impegno che se si fosse trattato di creazione interamente originale. Valga come esempio l'aria "Oh quante volte oh quante", la cui linea melodica sembra ricalcare fedelmente l'aria "Dopo l'oscuro nembo" dell'Adelson e Salvini. In realtà, il passaggio di quest'aria dall'operina giovanile ai più maturi Capuleti si è accompagnato a un'impostazione strutturale del tutto diversa. Nuova, infatti, è l'ampia scena, un originalissimo "declamato", che precede l'aria vera e propria: una mirabile sintesi di recitazione e di canto, presagio certo del B. maggiore. Dove!, invece, il trapasso dei motivi all'una all'altra opera si è limitato a un diverso assestamento della prosodia e della metrica musicale, lasciando inalterata la sostanza della melodia, allora la pagina risulta convenzionale, fredda, ambigua: e sono certo queste pagine che hanno suggerito, anche a critici recenti, parole di severa condanna per i Capuleti. I quali contengono invece una chiarissima intuizione di tutta una nuova maniera di intendere il melodramma. Nel finale, il canto di Romeo moribondo si sviluppa secondo una concezione lontanissima dalla consueta linea spiegata, di intonazione patetica ma sviluppantesi pur sempre secondo i consueti schemi morfologici regolari. Il canto di Romeo morente si basa invece su un declamato, costituito di frasi, brevi, apparentemente spezzate, e che trovano la loro unità più nell'identità dell'affetto ispiratore che non nella chiarezza morfologica della linea esterna. Questa ricerca di nuovi mezzi espressivi, destinata a diventare d'ora in poi motivo essenziale dell'arte belliniana, spiega a sufficienza il motivo per cui la stessa Maria Malibran - applauditissima interprete, negli anni immediamente seguenti, dei Capuleti - abbia sostituito il finale deI, B. con quello, assai più scialbo e convenzionale, ma più in linea con la tradizione regolare della melodia operistica italiana, della Giulietta e Romeo del Vaccai. Le accoglienze dei critici moderni a quest'opera sono in genere assai contrastanti, appunto perché essa da un lato ha accolto alcune melodie di provenienzae di ispirazione diversissima, e che, nonostante l'abile metamorfosi prosodica, non sono riuscite ad adeguarsi a un modo espressivo troppo differente da quello per cui erano state in un primo tempo concepite; in secondo luogo, perché l'apertura verso una nuova maniera d'intendere la melodia risente qui di un certo sforzo, e appare più intuita che chiaramente espressa.

Tornato a Milano da Venezia, il B., come informa egli stesso in una lettera (cfr. L. Cambi, pp. 261 s.), fu sciolto dal contratto che aveva sottoscritto con l'impresarlo Crivelli per scriv ere un'altra opera per il Teatro La Fenice di Venezia. Si era infatti costituita una nuova società teatrale, composta dal duca Litta e dai due negozianti Marietti e Soresi, la quale aveva intenzione di assumere la gestione del Teatro alla Scala: a questo fine la nuova impresa aveva già scritturato i migliori cantanti allora disponibili, impegnando altresì il B. e Donizetti. L'impresa Marietti non riuscì a ottenere la Scala, ma in compenso rilevò il teatro Carcano, che sino a quel momento aveva avuto un peso secondario nella vita artistica inilanese, con l'intenzione di far concorrenza alla Scala. Il B. si trovò così scritturato per un'opera nuova da rappresentarsi nella prossima stagione 1830-31, dietro compenso di 2.400 ducati più mezza proprietà dello spartito, per un totale presuinibile di 3 mila ducati: quasi il doppio del precedente contratto col Crivelli. Prima però di mettersi al lavoro il B. subì il primo assalto di quel male che lo doveva condurre a morte.

In una lettera allo zio Vincenzo (Cambi, p. 252) il B. descriveva tutte le caratteristiche della sua malattia, che egli attribuisce all'eccesso di lavoro del periodo veneziano. Guarito, andò a trascorrere la convalescenza a Como, da dove, in data 1° luglio, scrisse una affettuosa lettera al fratello Carmelo, comunicandogli la sua intenzione di assicurare, entro i prossimi tre o quattro anni, un vitalizio alla famiglia rimasta a Catania. Il 15 luglio, scrivendo all'editore Cottrau, era già in grado d'informarlo che il soggetto dell'opera nuova sarebbe stato l'Ernani, dal dramma omonimo di Victor Hugo: la scelta era stata approvata sia dal Romani, sia da Giuditta Pasta, che avrebbe dovuto essere la protagonista, in vesti fenuninili, del nuovo lavoro. In agosto il B. dovette sobbarcarsi la fatica - grave per lui convalescente, e ancora debilitato - di una replica della Straniera a Bergamo. Purtroppo l'epistolario, assai lacunoso in questo periodo, non ci permette di seguire puntualmente le vicende del progettato Ernani: sappiamo, da una lettera ad Alessandro Lamperi del 7 nov. 1830, che della nuova opera non era stata scritta - sino a quella data - nemmeno una nota, anche perché il Romani, tutto preso dalla stesura dell'Anna Bolena di Donizetti, che il 26 dicembre avrebbe dovuto inaugurare solennemente la stagione al Carcano, era tuttora arenato a stendere, il "piano del soggetto". La situazione è chiarita dallo stesso B. in una lettera al Perucchini del 3 genn. 1831, ove si legge: "Sapete che non scrivo più l'Ernani perché il soggetto doveva subire qualche modificazione per via della polizia, e quindi Romani per non compromettersi l'ha abbandonata, ed ora scrive la Sonnambula ossia I due fidanzati svizzeri, ed io ne ho principiato introduzione ieri appena...". Mette conto di notare al riguardo che il B., come del resto tutti i musicisti della sua generazione, non prese parte attiva al fermento risorgimentale, sì che il fattore censura, divenuto nel giovane Verdi motivo di aperta ribellione e di vigorosa polemica musicale, per il B. è poco più di un incidente tecnico. Persino i Puritani, scritti da un fuoruscito che tentò pesantemente di introdurre nel libretto accenti liberali, suscitarono nel musicista, non altra risonanza se non quella connessa ai destini teatrali della nuova opera. Scrivendo al Florimo da Puteaux, il 26 maggio 1834, e narrandogli l'argomento del libretto, a proposito dell'introduzione, ove si leggono le parole "All'alba sorgerà il sol di libertà", scrive testualmente: "Quest'inno è fatto per il solo Parigi, ove si amano pensieri di libertà. Hai capito? Per l'Italia Pepoli cambierà egli stesso tutto l'inno e non nominerà neanche il motto libertà, e così cambierà se nell'opera ci saranno frasi liberali: quindi non ti prendere cura, ché il libro sarà accomodato, se lo vorranno dare a Napoli". Nel caso dell'Ernani, il disappunto del B. per il veto poliziesco dovette essere forte, tenendo conto che della nuova opera erano state già composte diverse parti. I frammenti superstiti dell'Ernani vennero rintracciati nel 1885, in casa dell'avvocato Francesco Chiarezza Astor da Antonino Amore, il quale - ignaro di musica - li fece esaminare da uno oscuro maestro Domenico Bonica al solo scopo di smentire - in polemica con Michele Scherillo - che la musica dell'Ernani fosse stata trasferita nella Sonnambula. Al riguardo, esiste, una testimonianza, forse un poco dubbia, dello stesso B., il quale, in una lettera pubblicata prima, anonima dai giornali e poi in francese dal Pougin, ma di cui non si conosce l'autografo, così si sarebbe espresso all'editore Giovanni Ricordi, in data 14 giugno 1834: "Non ho io scritto la Sonnambula dall'11 gennaio al 6 marzo? Ma fu un caso, e poi avevo alcune idee del mio Ernani che era stato proibito". Parte dei frammenti superstiti sono stati pubblicati con accurato commento da F. Pastura: dalla lettura di tali frammenti risulta chiaro che il materiale melodico dell'Ernani confluìin piccola misura nella Sonnambula, ma, a giudicare da quanto è giunto sino a noi, molto di più nella Norma. Abbiamo quindi più di un motivo per rimpiangere il soffocamento sul nascere di una opera le cui restanti melodie appaiono improntate ad una concezione più robusta e assai meno convenzionale di quanto fosse sin lì avvenuto.

Nel momento in cui si accingeva a iniziare la stesura della Sonnambula il B dovette anche inaugurare, la sera del 26 dicembre, la stagione scaligera, con i Capuleti e i Montecchi, nuovi per Milano. Le accoglienze del pubblico furono ottime: la critica invece si mostrò riservata, se non addirittura ostile, osservando persino che delle tre opere omonime composte dallo Zingarelli, dal Vaccai e dal B., quella belliniana era da ritenersi la peggiore. Lo stesso B.. non sapeva spiegarsi il motivo per cui l'opera gli faceva "metà effetto di quello che ne sentìva in Venezia", e ne attribuiva la colpa alla cattiva esecuzione, in cui il primo violino e direttore d'orchestra Alessandro Rolla "slargava i tempi". Nelle repliche seguenti, egli fu persino obbligato a introdurre modifiche nella musica, a causa appunto della precarietà dell'esecuzione.

Pochissime notizie conosciamo delle intense settimane che il B. trascorse componendo la Sonnambula: può darsi che la quasi totale mancanza di lettere a noi giunte sia dovuta al pesante lavoro cui si sottopose. Da una lettera che la contessa Giuseppina Appiani scrisse nel maggio 1837 al Florimo - pubblicata parzialmente dal Pastura - pare certo che, dal novembre 1830 a tutto il 1831, il B. sia stato ospite nel palazzo degli Appiani in Borgo Monforte a Milano. Scrivendo al Lamperi il 7 febbr. 1831, egli lo informava tra l'altro di aver terminato il I atto della Sonnambula e di essere in procinto di iniziare il secondo, "se il poeta mi darà parole". Tenendo conto che la prima rappresentazione ebbe luogo il 6 marzo, e che almeno gli ultimi dieci giorni furono spesi nelle prove, è quanto mai probabile che il II atto fu scritto in circa quindici giorni. La nuova opera fu dedicata al maestro Francesco Pollini, verso cui, e verso la cui consorte, il B. aveva un forte debito di riconoscenza dopo l'assistenza che aveva avuto in casa loro durante la sua grave malattia della primavera precedente. Il successo della Sonnambula fu pieno e incondizionato, sia da parte del pubblico, sia da parte della critica: l'anonimo "estensore", dell'Eco del 9 marzo 1831 pronosticava, in occasione della seconda rappresentazione, che "questa musica più si sentirà e sempre andrà piacendo di più".

Nulla o quasi sappiamo dell'attività del B. dal marzo all'autunno del 1831. Nella primavera dell'anno precedente, scrivendo allo zio Vincenzo Ferlito, tgli accennava alla probabilità di essere scritturato dalla Scala per due opere nuove, una per l'autunno del 1831 e una per la primavera del 1832. Il contratto fu effettivamente stipulato, in epoca imprecisabile: scrivendò al Lamperi da Como il 23 luglio 1831, il B. gli annunziava di avere scelto il soggetto della nuova opera, una tragedia intitolata Norma di A. Soumet.

Mai, sino a quel'momento, il B. si era accinto a comporre una nuova opera con tanto impegno, nel senso di assicurarsi un ampio margine di tempo, di vagliare attentamente le possibilità vocali della compagnia di canto, di affiatarsi con gli artisti e specialmente con la protagonista, la celeberrima Giuditta Pasta.

Prima ancora che l'argomento fosse stato scelto, ossia nel mese di maggio, il tenore bergamasco Domenico Donzelli aveva scritto al B. una lettera in cui, con accenti di umiltà dignitosa e devota, esponeva al maestro i pregi e i difetti della propria voce, affinché il compositore potesse ricavame l'uso migliore. A Giuditta Pasta il B. scrisse il 1° settembre. Nell'annunziarle che stava per iniziare a scrivere la musica della nuova opera, di cui appena il giorno prima il Romani gli aveva, comunicato l'intreccio, egli propone alla grande artista di dargli qualche suggerimento, se lo avesse ritenuto utile, sul modo di caratterizzare personaggi e situazioni, e la esorta inoltre a "portare i figurini dei personaggi simili al come si sono eseguiti in Parigi; e se lo credete potete farli migliorare, se il vostio talento non li trovasse di fino gusto". La Pasta aveva infatti assistito alle rappresentazioni della Norma di Alexandre Soumet, recitata la prima volta a Parigi il 6 aprile di quel medesimo 1831 con pieno successo, tanto che il suo autore si gloriava pubblicamente di aver saputo fondere la terribile maestà dei teatro greco - la Medea - con la irruenza del moderno sentire romantico.

La Pasta, che emergeva sulle altre artiste anche per la magnifica esuberanza del suo temperamento drammatico, era certo la più adatta ad assumere la parte della protagonista della nuova opera. Alla stesura della quale il B. attese col massimo impegno, come è documentato dalla vigilanza assidua che esercitò sul librettista, e dal lavoro di lima, che una, volta tanto non incalzato dalla fretta, ebbe modo di effettuare sullo spartito. La collaborazione tra lui e il Romani richiama sotto molti aspetti quella che si sarebbe poi verificata tra Verdi e il Piave.

Ai tecnici della versificazione i due musicisti lasciavano il compito di tradurre in versicoli manierati le grandi linee dell'azione; ma i particolari dell'intreccio, l'impostazione dei caratteri, la linearità della condotta scenica erano suggeriti, quando non imposti, dai compositori. La recente pubblicazione degli autografi romaniani del libretto dovuta a Franco Schlitzer (v. Bibl.), ci permette una proficua collazione tra gli abbozzi di ciò che intendeva il Romani e la stesura definitiva voluta dal B., il quale vide quasi sempre giusto quando suggerì al Romani di tagliare tutto il superfluo e di imprimere all'azione stringatezza e rapidità.

La composizione della musica procedette rapida: il 7 settembre il B. aveva quasi finito la sinfonia e sbozzato il coro d'introduzione, ma lavorava un poco svagato. per le preoccupazioni di un "maledettissimo cholera che minaccia tutta Europa". E poco dopo, il 19 settembre al Florimo: "Sto scrivendo l'opera senza alcun impegno, perché quasi sono sicuro che il cholera arrivera in tempo che farà chiudere i teatri...". Poi un'altra lacuna dell'epistolario fa perdere le tracce della cronologia della Norma. Sulla scorta di una lettera del Mercadante, parzialmente pubblicata dal Pastura, sembra di poter desumere che l'opera era terminata verso la fine di novembre, poiché nel mese di dicembre ebbero luogo le prove. La stesura dell'opera era stata condotta, un po, qui un po, là. Nel settembre, mentre scriveva il I atto, il B. fece la spola tra Milano e Como. A Milano era di nuovo il 10 dicembre. Nulla sappiamo della sua residenza nei, mesi di ottobre e novembre: non si può pertanto escludere che egli sia stato, anche a Casalbuttano presso Cremona, ospite dei Turina.

Le prove della Norma furono laboriose e tormentate: la partitura autografa e gli abbozzi sparsi confermano che le correzioni e i pentimenti si protrassero sino al momento di andare in scena. Probabilmente le notizie certe si mescolarono alle fantasie; impossibile sapere cosa c'è di vero nelle otto redazioni diverse di "Casta Diva", che il B. avrebbe fatto per l'incontentabile Pasta, ma di cui manca ogn i traccia, e ciò contro l'usanza del B., che era solito conservare le varianti delle sue musiche. È, certo solo che la stesura definitiva di "Casta Diva" è più bassa di untono (fa maggiore contro sol magg. che si osserva nella partitura autografa): modificazione strettamente tecnica, più che espressiva, e fatta certamente per facilitare l'esecuzione alla Pasta, la quale, nonostante la duttilità della sua voce, per altro difettosa nell'intonazione, avrà trovato la tessitura originaria troppo spinta verso l'acuto. Per le altre, e numerose varianti autografe della Norma, non abbiamo nessuna prova certa per stabilire se vennero effettuate nel corso della stesura o durante le prove. È certo invece che le prove continuarono massacranti, sino al giorno stesso della prima esecuzione: la mattina del 26 dicembre era stato provato l'intero II atto.

Come è notissimo, la prima rappresentazione della Norma segnò un insuccesso. L'opera non cadde, ma fu accolta con freddezza e, il B., che era ben cosciente di aver scritto il suo capolavoro, ne provò ùna delusione cocente. La famosissima lettera al Florimo, scritta appena terminata l'opera, e in cui si trovano espressioni di amaro disappunto e una prima acuta autocritica, è stata certamente ritoccata e arricchita di fronzoli dal Florimo stesso: pure, conserva un'eco abbastanza fedele di quello che il musicista dovette provare nel momento più difficile della sua carriera.

Le lettere certamente autentiche che il B. scrisse il 28 dicembre allo zio Ferlito e il 31 dicembre agli amici Perucchini e Ruggeri, oltre alle testimonianze di Donizetti, sin da principio incondizionatamente entusiasta della nuova opera, ci assicurano che il I atto fu largamente applaudito: in particolare piacquero l'introduzione, la sortita di Pollione, quella della Pasta, e il duetto che inizia il terzetto finale. Quest'ultimo, invece, fu accolto freddamente. Il Il atto piacque quasi interamente (tranne il coro "Non partì"), e alla fine dell'opera ci furono quattro chiamate per il maestro le per gli interpreti. A oltre centrotrent'anni di distanza è facile vedere i motivi della tiepida accoglienza: l'esecuzione certo assai mediocre, probabili intrighi orditi a danno del B. dalla contessa Samoyloff, amica del musicista catanese Giovanni Pacini, che, subito dopo la Norma, doveva mettere in scena il Corsaro; ma soprattutto le novità strutturali e intrinseche della nuova partitura. Non era certo nelle consuetudini che un atto terminasse con un finale senza concertati affollati di cori, di, comprimari, di comparse: e il I atto di Norma termina per l'appunto con un semplice terzetto, secondo le consuetudini dell'opera veneziana, e vivaldiana in specie, caduta del tutto in disuso nell'800. Secondo quanto scrive il B. al Romani il 24 ag. 1832, l'idea di terminare il I atto contro le solite usanze fu del librettista: "... lo trovano un bel finale, anche senza il concerto di pertichini, Druidi, Druidesse e altri cori da far chiasso. Tu avevi ragione ad essere ostinato che fosse così... Ti hanno fatto perdere la pazienza!... Ma ora son contento anch'io". Significativa è poi la testimonianza di Gian Iacopo Pezzi sulla Gazzetta privilegiata di Milano del 3 genn. 1832, pubblicata dal Pastura. In quel resoconto, scritto dopo la quarta rappresentazione della Norma, ossia dopo che l'opera aveva ottenuto il più caloroso dei consensi, leggiamo, in mezzo a tante parole vuote di senso, la frase seguente: "La musica di B. è declamata, ei la fa servire ragionevolmente alla parola ed appunto perché ricalca una via disusata, i nostri orecchi han d'uopo di più lunga attenzione per giudicarla con rettitudine".

È certo che sin dalla seconda rappresentazione la Norma fu applaudita con sempre maggiore convinzione, sì che, quando, il B. partì per Napoli il mattino del 5 genn. 1832 dopo la sesta rappresentazione, il successo si era consolidato in via incondizionata e definitiva. A Napoli egli si trattenne dall'11 gennaio al 25 febbr. 1832. La sera di domenica 5 febbraio furono rappresentati al Teatro S. Carlo i Capuleti, alla presenza di Ferdinando II; il successivo mercoledì il B. fu ricevuto in privata udienza dalla regina madre Isabella di Spagna, vedova di Francesco I. Il 25 dello stesso mese, accompagnato dal fedelissimo amico F. Florimo, s'imbarcava per Messina, ove giunse nella serata del 26. Durante il soggiomo, messinese, protrattosi fino al termine di febbraio, il B. presenziò a una recita del Pirata, durante la quale fu, festeggiato sino al fanatismo. In diligenza si trasferì da Messina a Catania, ove giunse, pare, il 3 marzo. Durante il viaggio, gli erano state tributate affettuose manifestazioni di simpatia.

Il soggiorno catanese d el B. ormai celebre fu variamente narrato da cronisti e biografi, che spesso non fecero distinzione tra avvenimenti reali e amplificazioni o addirittura invenzioni dovute alla fantasia popolare. Certo è che il musicista fu onorato con varie manifestazioni. Il Decurionato di Catania approvò fra l'altro due delibere: una che concedeva una pensione al padre, e l'altra che stabiliva di coniare una medaglia in onore del Bellini. Nessuna delle due delibere, venne, però, eseguita.

Il B. lasciò Catania il 5 aprile e raggiunse Palermo il 9, sempre in compagnia di Florimo. Il soggiorno palermitano fu del tutto simile a qùello catanese, in quanto il musicista dovette presenziare a parecchie manifestazioni artistico-mondane allestite in suo onore.

Il B. partì il 23 aprile da Palermo, dove aveva avuto occasione di conoscere l'avvocato Santocanale, destinatario, a partire da quel, momento di un fitto carteggio. Il 25 aprile era a Napoli, per ripartirne verso il 30. Quasi nulla ci è í noto dei breve soggiorno partenopeo: le tre lettere sinora note scritte da Napoli ci informano che già egli stava pensando all'opera nuova per la Fenice. Pare che più lungo sia stato il soggiorno romano: ma al riguardo le ricerche dei biografi non sono finora approdate a nulla. È certo che il 19 maggio, il B. era a Firenze, dove assistette a una recita della Sonnambula.Sull'esecuzione egli si espresse in maniera netta e inappellabile: "Tutti i tempi a galoppo: la Carradori [Arpina] più ghiaccio del ghiaccio istesso: i cori gridano come energumeni: il tenore Duppez [Elvino] dice assai bene l'aria del II atto: il resto è orribile!" (lettera al Ricordi del 24 maggio). Il 10 luglio era a Milano; successivamente si recò a Bergamo, ove dimorò per circa un mese. per presenziare a un nuovo allestimento della Norma. La rappresentazione ebbe luogo il 22 agosto, il B. ne diede notizia in almeno due lettere, una al conte Barbò e una al Romani: lettere traboccanti di esultanza per l'esito trionfale dell'opera, nonostante le manchevolezze dell'orchestra. Per la prima volta il B. poté ascoltare il suo capolavoro in una esecuzione che, abneno per quanto riguardava i cantanti, gli fece sembrare nuova la. musica sua; e il trionfo bergamasco fu certamente tale da ricoffipensarlo per le amarezze della esecuzione scaligera.

Ancora prima di recarsi a Bergamo il B. pensava alla nuova opera che avrebbe dovuto rappresentare alla Fenice di Venezia, nel carnevale 1833, secondo il contratto firmato con l'impresario Lanari in Firenze nel maggio 1832. Inutilmente, per tutto il giugno, il luglio e sino al 10 agosto (ossia al momento di partire per Bergamo), egli chiese un argomento per un libretto al Romani, che rispondeva invariabilmente di essere in attesa di nuovi drammi da Parigi (lettera del B. al Romani del 29 maggio 1834). Da una successiva lettera al Santocanale del 24 settembre apprendiamo che nulla era stato ancora deciso circa, l'argomento. Solo nella lettera del 6 ottobre, diretta ancora al Santocanale, troviamoche l'argomento della nuova opera è Cristina regina di Svezia; ma circa un mese più tardi, scrivendo a Giuditta Pasta il 3 novembre, il B. informa che il soggetto èstato cambiato e che la scelta è caduta su Beatrice di Tenda.

Varie possono essere state le ragioni del mutamento: la più probabile è che la stessa Pasta, la quale aveva assistito, in compagnia del B., alla ra. e di un balletto. ppresentazion ricavato dalla vicenda di Beatrice di Tenda, ne fosse rimasta colpita, avendo trovato in esso delle analogie con Maria Stuarda: perlanto ella stessa deve aver proposto il cambiamento, cui il B. aderì ben volentieri, forse anche perché l'intreccio della Beatrice appariva più semplice e lineare nei confronti dell'intricatissima Cristina. Nessuna prova diretta noi possediamo che il Romani avesse nel frattempo scritto alcunché della Cristina; solo nella lettera aperta pubblicata su l'Eco di Milano il 10 marzo 1833 il Romani accenna ad alcuni pezzi già composti della Cristina. Che questi pezzi siano realmente esistiti è quanto meno dubbio, sia perché il Romani non ne fece mai più cenno in tutta l'acre polemica, sia perché la vedova del Romani, Emilia Branca, la quale rintracciò anche le minuzie poetiche lasciate dal consorte, non potè pubblicare nemmeno un verso della Cristina.

Il B. rimase a Milano sino ai primi di dicembre: la sola notizia del mese di novembre è riportata dall'Eco di lunedì 26 novembre. Giunto a Venezia l'8 dicembre, iniziò subito le prove della Norma, che avrebbe inaugurato, la stagione di carnevale, alla Fenice.

Il 10 scrisse allo zio Vincenzo Ferlito, e il 12 al Santocanale, esprimendo in termini vivamente allarmati il proprio disappunto per non aver ancora ricevuto poesia dal Romani. Il B. stesso, o l'impresario Lanari, o entrambi, presero l'iniziativa di ricorrere al governatore di Venezia, il quale informò dell'inadempienza da parte del Romani il governatore di Milano.

Il Romani si recò a Venezia, dedicandosi alla stesura della Beatrice, ma, a quanto pare, con scarso impegno e con ostentata indifferenza, forse per ritorsione contro le chiamate della polizia.

Freddezza, fra i due, v'era di certo: lo attesta il B. nella citata lettera del 29 maggio 1834 al Romani: "Il mio cuore lagrimava... quando ti incontrava nelle strade di Venezia in quell'epoca sciagurata che mai oblierò in mia vita; sì, t'incontravo, e con sensibile pena mi dicea: Dunque dovrò romperla con chi mi procurò tanta gloria? Chi fu l'amico dei più segreti miei pensieri?...". Le poche lettere che di tale periodo ci sono rimaste testimoniano che il B. lavorava con la più disperata intensità, e in condizioni di spirito tutt'altro che serene.

L'opera nuova dovette. subire continui rinvii, creando un'impressione, poco favorevole tra il pubblico veneziano. La Norma, che aveva inaugurato la stagione il 26 dicembre dell'anno prima, era stata replicata assai più del previsto, ed aveva ottenuto un successo di pubblico e di critica continuamente crescente, creando, intorno alla nuova opera sempre promessa e sempre differita, un'impaziente attesa. Si aggiunse anche la forzata sostituzione del basso Crespi col basso Cartagenova, le cui differenti possibilità vocali comportarono numerosi, mutamenti alle arie già composte.

Un'eco fedele del nervosismo con cui si attendeva la Beatrice si ha attraverso la Gazzetta privilegiata di Venezia del 6, 13 e 16 marzo, ove sono contenute la notissima lettera che il redattore della Gazzetta immagina scritta da un fantomatico abbonato del giornale e le due risposte dell'estensore, ossia del redattore. Con tono troppo scopertamente ironico, è dato corpo alle ombre; il giornale insinua che i motivi del ritardo siano non perfettamente chiari, offrendo così alla cittadinanza pettegolezzi su pettegolezzi. Felice Romani, secondo una consuetudine radicata in lui sin dai tempi della Zaira parmense, stampò in testa al libretto una prefazione che termina così: "In questa storia che si può leggere nel Bigli, nel Redusio, nel Ripamonti... - è fondato il frammento del presente Melodramma. Dico frammento perché circostanze inevitabili ne hanno cambiato l'orditura, i colori, i caratteri. Esso ha d'uopo di tutta l'indulgenza dei lettori". È evidente che una simile excusatio non petita - sullo stile di quelle satireggiate da B. Marcello nel Teatro alla moda - non poté non riconfermare nella cittadinanza l'inipressione che qualcosa non avesse funzionato a dovere durante l'allestimento dell'opera.

La prima rappresentazione della Beatrice, avvenuta sabato 16 marzo, ebbe esito molto contrastato. Difficile scendere in particolari, poiché gli stessi resoconti dell'epoca spesso si contraddicono a vicenda. Il pubblico, dopo i malumori della prima serata, dovuti in parte alle ragioni psicologiche di cui s'è detto, mostrò un interesse sempre crescente per la nuova opera, che ebbe in tutto sei rappresentazioni. Ma il risultato complessivo non fu favorevole, e lo stesso B. si mostrò scarsamente ottimista sulla possibilità di sopravvivenza della sua opera.

Ciò che soprattutto urtò il B., come egli stesso ebbe a scrivere al Santocanale il 25 marzo, fu l'insinuazione che la nuova opera fosse una ripetizione della Norina, per cui pubblicò sulla Gazzetta privilegiata di Venezia una lettera, firmata "un amico del M. Bellini", in cui, oltre a spiegare che il ritardo era stato causato dalla lentezza del librettista, e dal cambiamento del basso, mette a riscontro i passi della Norma e della Beatrice che erano stati giudicati simili. La lettera del B. dette origine alla polemica tra il Romani, dalle colonne d'ella Gazzetta di Venezia e de L'Eco di Milano, ed un certo Pietro Marinetti (forse uno pseudonimo di qualche amico del musicista), da quelle del Barbiere di Siviglia, che non si sollevò, però dal piano del pettegolezzo e dell'insulto, ivi compresi accenni alla relazione tra il B. e Giuditta Turina Cantù. La rottura col Romani non fu però definitiva: il 4 ottobre 1834 il B. in una lettera al Florimo esprimeva la sua soddisfazione per il ritrovato accordo col librettista.

Ma, al di fuori dei fatti di cronaca, è assai più importante chiederci a centotrent'anni dalla prima sfortunata rappresentazione, se la Beatrice di Tenda meritava la severa condanna senza appello che ne, determinò la scomparsa pressoché totale dalle scene. L'ultima rappresentazione, avvenuta nel 1961 alla Scala, sembra aver confermato il sostanziale giudizio negativo che ne diedero i contemporanei. Non sappiamo fino a che punto l'assurdo e impossibile libretto possa avere influito sull'esito infausto. dell'opera; certo è che la mu sica costituisce un momento insopprimibile nella storia dell'espressione artistica belliniana, trovandosi realmente a mezza strada., e non solo in senso cronologico, fra la Norma e i Puritani.Non si tratta di rintracciare, nella Beatrice, melodie o frammenti di melodie comuni agli altri spartiti belliniani; le analogie che se ne ricavano, pur essendo piuttosto frequenti, non proverebbero affatto che il B. abbia., trasferito, nella Beatrice, melodie della Norma, o che abbia trasportato materiale dalla Beatrice, ai Puritani.

Per limitarci a un solo esempio, lo spunto iniziale della prima cavatina di Beatrice, "Ma la sola, ohimé son io", richiama da vicino le parole "Io lo posso" nel duetto "In mia mano" fra Norma e Pollione, per via dell'energica appoggiatura. Nell'insieme, la Beatrice ricorre ancora alle progressioni melodiche, irrobustite dall'incalzare dell'andamento dinamico, secondo quanto era già stato messo in pratica nel concertato finale del 1 atto della Sonnambula e nel finale della Norma: nella Beatrice, l'esempio più significativo è nel concertato del II atto, a partire dalla frase di Beatrice "Al tuo fallo ammenda festi". D'altra parte, una ricerca più attenta di nuovi elementi armonici, uno strumentale più ricco, una più variata alternanza di stacchi agogici fanno sentire prossima la tecnica compositiva dei Puritani.

La prima esecuzione milanese della Beatrice ebbe luogo al Teatro Carcano la sera del 19 luglio 1833, mentre il B. si trovava a Londra. La stampa dedicò all'opera giudizi nettamente favorevoli, nonostante fossero ancora assai fresche le notizie dell'insuccesso veneziano. Molto significativa. una frase scritta dalla Gazzetta privilegiata di Milano, ove si legge che i Veneziani non si sarebbero certo mostrati così animosi e ostili contro la nuova opera se essa fosse stata rappresèntata alla data promessa.

Qualche giorno dopo essere tornato da Venezia il B. partì per Londra, probabilmente intorno al 10 aprile. Dalla lettera scritta allo zio Vincenzo Ferlito il 1° aprile 1835 apprendiamo che durante il viaggio si fermò qualche giorno a Parigi, ove il direttore del Grand'Opéra gli propose di scrivere un'opera in francese. Il B. rispose che volentieri l'avrebbe fatto, ma al suo ritorno da Londra.

Del soggiorno londinese siamo scarsamente informati: ci rimangono due lettere e un poscritto. Una lettera è indirizzata ad Alessandro Lamperi, sottosegretario di Stato nel ministero, degli Affari Esteri del Regno di Sardegna, e l'altra, del 26 giugno, al Santocanale. Il 31 maggio il B. diresse il Pirata, cantato dalla Pasta, dal Rubini e dal Tamburini: i giornali inglesi non dedicarono molto spazio all'avvenimento, perché l'opera era già, nota in Inghilterra sin dal 1830. Il- 20 giugno andò in scena la Norma: nonostante le riserve sulla musica avanzate da alcuni giornali, il Times del 23 giugno. si espresse in termini assai favorevoli, e il B. ne rimase contentissimo. Possiamo dunque ritenere inesatte le informazioni della Revue musicale che annunziava un insuccesso.

Un'ulteriore conferma del buon esito della Norma è nella lettera scritta dall'avv. Giuseppe Pasta alla suocera con un poscritto entusiasta del Bellini. La terza opera rappresentata durante il soggiorno londinese fu I Capuleti e i Montecchi (il20 luglio). I giornali si espressero in termini misuratamente elogiativi. Un altro episodio degno di nota del soggiorno londinese del B. è il suo incontro con la celebre cantante Maria Felicia Malibran. La Malibran aveva appena interpretato la Sonnambula a Napoli; il 1° maggio 1833 cantò in inglese la stessa opera al Drury-Lane di Londra. L'incontro è narrato, con romanzesca vivacità, dal Florimo, che rielaborò a modo suo una lettera del B. in cui esso sarebbe stato descritto. Anche sui rapporti tra la Malibran e il B. sono stati creati, forse dal nulla, romanzi e fantasticherie d'ogni sorta: dal tono delle lettere sicuramente autentiche, scritte dal B. alla cantante e sino a questo momento note, non pare che tra i due ci sia stato qualcosa, di più di una fervida ammirazione per la donna e per la cantante da parte del B., e una stima devota per il musicista illustre che le aveva promesso un'opera nuova tutta per lei, da parte della Malibran.

Il soggiorno londinese piacque assai al B., che più volte si dichiarò entusiasta della metropoli e degli abitanti. In più occasioni, durante i molti trattenimenti mondani, il B. accompagnò al pianoforte la Pasta ed altre cantanti. Nella prima quindicina di agosto egli lasciò Londra. Era sua intenzione fermarsi una ventina di giorni a Parigi, per poi rientrare definitivamente a Milano. Invece il programma subì una sostanziale modifica. Il B. si incontrò di nuovo col direttore del Grand'Opéra francese, ma le trattative non approdarono a nulla "a cagione di differenze d'interessi; allora l'Impresa del Teatro Italiano mi fece delle offerte, che MI convenne accettare, primo perché la paga era più ricca di quella che finora avevo preso in Italia, sebbene di poco; poi per una compagnia sì magnifica; e in ultimo per restar i Parigi a spese d'altri... " (lettera a Vincenzo Ferlito, del 1° apr. 1835).

In realtà, trascorsero parecchi mesi prima che il B. pensasse seriamente a riprendere il lavoro. Di tale lunga inattività, che si aggiungeva a quella del periodo londinese, il musicista ebbe a rammaricarsi: "... confesso che ne provo dei grandi rimorsi per tutto il tempo perduto; ma se riflettete un momento che un giovane nella mia posizione, per la prima volta a Londra e a Parigi, non potea che distrarsi immensamente, mi compatirete. A gran stento ora posso di bel nùovo abituarmi alla lettura di musica e scrivere qualche nota, dopo un anno di vero sonno ferreo" (lettera al Fiorimo dell'11 marzo 1834).

Nel mese di ottobre 1833 fu rappresentato, con ottimo esito, al Teatro Italiano, il Pirata; nel successivo novembre, sempre al medesimo teatro, ebbero successo i Capuleti. Certamente, fin dai primi tempi del soggiorno parigino, il B. ebbe occasione di rivedere Rossini, dopo il primo incontro avvenuto nell'agosto 1829. In molte lettere egli attesta esplicitamente che Rossini, almeno nei primi momenti, non ebbe verso di lui un atteggiamento eccessivamente amichevole.

È probabile che il "maestro di color che sanno", come lo chiama scherzosamente il B. nella lettera al Florimo del 24 ott. 1834, sisia mostrato all'inizio piuttosto riservato col giovane compositore, per cui nutriva certo stima (altrimenti il B. non sarebbe stato scritturato dal Teatro Italiano, interamente dominato dall'influenza rossiniana), ma che doveva sentire lontano, per qualità d'ispirazione e per temperamento, dal suo mondo artistico. Il B. seguì tuttavia una condotta deferente e accorta al tempo stesso: con un pizzico di galanteria, seppe conquistarsi la benevolenza di Olimpia Pélissier, l'influente amica di Rossini (lettera del 24 ott. 1834). Del comportamento tenuto con Rossini ci parla lo stesso B. in una lettera al Florimo del 4 ottobre 1834. Ècerto comunque che la sua affabilità valse un poco alla volta a conciliargli una sempre maggiore benevolenza da parte di Rossini, ferme restando però le riserve che il Pesarese, anche a distanza di molti anni dalla morte del suo giovane amico, continuò a formulare sulla musica di lui, troppo e inconciliabilmente lontana dalla sua.

L'inverno 1833-1834 trascorse nell'ozio più completo (cfr. lettera ad A. Lamperi del 12 febbr. 1834 e quella del 14 febbraio al Santocanale). Il B. era divenuto frequentatore assiduo di illustri ambienti mondani, primo fra i quali il salotto della principessa Cristina di Belgioioso. In quel. salotto avvenne l'incontro tra il B. e Heinrich Heine, che lasciò scritta una serie di aneddoti, spesso caustici sino alla malignità, sul conto di Bellini.

Simultaneamente alla firma del contratto che lo impegnava per un'opera nuova al Teatro Italiano, il B. ricevette dalla "Società di industria e belle arti", assuntrice dell'Impresa del Teatro S. Carlo di Napoli, la proposta di scrivere una opera nuova; ma egli dovette rifiutare, poiché era già impegnato con Parigi, e di scrivere due opere insieme proprio non si sentiva (cfr. lettera al cav. Galeota, segretario del S. Carlo, del 14 febbr. 1834). Volentieri avrebbe invece accettato la scadenza, per Napoli, del 30 maggio 1835, sempre che avesse trovato un buon libretto (cfr. lettera forse al cav. Galeota, scritta verso il marzo 1834). Mancandogli il Romani, il B. si rivolse per il libretto al conte Carlo Pepoli, il miglior poeta italiano che in quel momento si trovasse a Parigi. Il B. aveva fiducia in lui. Tra marzo e aprile l'argomento della nuova opera era stato scelto di comune accordo; ma la prima impressione favorevole sul Pepoli doveva subire di lì, a non molto una forte modifica.

Scriveva infatti al Florimo il 26 maggio 1834: "Pepoli lavora, e mi costa assai fatica il portarlo innanzi; la pratica gli manca, ch'è gran cosa". E il 4 agosto dello stesso anno: "Se tu sapessi che ho sofferto e soffro per fare andare innanzi Pepoli è incredibile...". Carlo Pepoli mancava effettivamente di esperienza teatrale.: soprattutto nei primi mesi della collaborazione col B., le discussioni tra librettista e compositore dovettero assumere un carattere particolarmente vivace. In una lettera del maggio 1834 il B. polemizzava contro i precetti di estetica generale che il Pepoli. imbevuto di regole e di classicismo, tentava ingenuamente di salvaguardare anche nella stesura di un libretto melodrammatico: "le tue assurde regole... tutte buone per far delle chiacchiere". Il B. esigeva, così nella poesia come nella musica, "naturalezza e niente più": e anche il famoso paradosso belliniano: "il buon dramma è quello che non ha buon senso" deve essere inteso come un appello alla preminenza da riservarsi alle azioni e ai sentimenti, senza sottilizzare se le azioni narrate difettino di logica; peggio ancora, se per voler fare a tutti i costi apparire logico ogni personaggio e ogni aspetto della vicenda, il librettista perderà tempo in sottigliezze e in ragionamenti. Il libretto, per importante che esso sia, deve essere solo un mezzo, non un fine; un tramite necessario a giustificare la presenza della musica, cui tocca veramente la preminenza nello spettacolo d'opera. Pazienza se si tratta di un'estetica troppo semplicistica: "Tu chiamerai il mio ragionare con tutti i titoli che vorrai, non avrai manco provato nulla. Scolpisci nella tua testa a lettere adamantine: il dramma per musica deve far piangere, inorridire, morire cantando". Documento di singolare importanza, quello che è stato qui riassunto, poiché è forse l'unico sicuramente autentico in cui il B. esprima con chiarezza le sue idee sul teatro in musica: idee che, detto per inciso, collimano in sostanza con quella che sarà la prassi di Giuseppe Verdi; la maggior parte dei libretti da lui musicati scarseggiano o sono del tutto privi di "buon senso", ma in compenso ridondano di situazioni nette e ben definite, e tutta la narrazione in essi è essenziale e stringata. Bon gré, mal gré, il Pepoli rinunziò ai suoi sogni di trageda e si piegò alla volontà del B., che, quando si trattava di musica, sapeva essere veramente dispotico.

Nel mese di maggio ebbe inizio il lavoro serrato per la stesura della nuova opera. Forse per allontanarsi dalle distrazioni parigine, il B. accettò l'ospitalità che gli offrì "uno stretto amico inglese Mr. Lewis" a Puteaux, allora modesto villaggio della banlieue. Il titolo della nuova opera fu più volte modificato prima della scelta definitiva, I Puritani, annunziata nella lettera al Florimo del 4 settembre 1834.

Il 24 luglio il B. scriveva da Puteaux al Florimo accludendogli copia di una lunga lettera all'impresario Lanari, in risposta a una nuova offerta di contratto che gli era pervenuta dal S. Carlo di Napoli, dopo il fallimento delle trattative del febbraio precedente. Ma anche questa volta tutto andò a monte. La società aveva proposto al, B. la composizione di tre opere nuove, e il B. chiese un onorario di 10.000 ducati, mentre, invece, durante le trattative precedenti, egli aveva chiesto 4.000 ducati per una sola opera. Poi ridusse le sue pretese a g.000 ducati complessivi per le tre opere, ma l'impresa contropropose 7.500 ducati, e il B. rifiutò, tanto più che anche le date che gli si proponevano non collimavano con i suoi impegni parigini (lettera al Santocanale del 21 settembre). Anche le trattative in corso con l'Opéra Comique per un'opera nuova in tre atti fallironono, come informa il B. scrivendo al Florimo il 21 settembre. Ben presto, tuttavia, le trattative col S. Carlo ripresero. Il 13 ottobre il B. informava Florimo che avrebbe sottoscritto il contratto. se gli avessero corrisposto 9.000, ducati per tre opere, due delle quali affatto nuove, mentre la terza, sarebbe consistita in un adattamento dei Puritani per la Malibran, la cui voce piuttosto bassa avrebbe comportato il trasporto della parte di Elvira per il registro del mezzo soprano. Anche la difficile questione delle date sembrava composta: e finalmente, il 21 dicembre, il B. riceveva il contratto definitivo, che accoglieva integralmente tutte le condizioni da lui volute. C'era solo. una clausola, che mise "in apprensione il musicista. I Puritani nel nuovo allestimento avrebbero dovuto essere rappresentati al S. Carlo subito dopo la "prima" parigina., ossia verso i primi giorni di febbraio, perciò il contratto prevedeva esplicitamente che il primo atto avrebbe dovuto giungere in Napoli il 12 gennaio, e il secondo il 20, a cura del B.; non giungendo l'opera entro detti termini, il contratto si intendeva automaticamente nullo. Il B. non risparmiò fatiche e spese per giungere in tempo, ma un motivo di forza maggiore frustrò ogni sforzo. Il I atto, che avrebbe dovuto viaggiare da Marsiglia a Napoli via mare, rimase giacente a Marsiglia, perché a causa del colera le navi non partivano. Così il II atto, spedito con la posta ordinaria, giunse a Napoli il 29 gepnaio, e il I atto l'11 febbraio. La società del S. Carlo fu irremovibile nel denunciare l'inadempimento contrattuale, nonostante la Malibran si fosse personalmente adoperata per superare la controversia, come risulta dalla lettera del B. al Florimo del 18 febbr. 1835.Il B. ne rimase profondamente amareggiato e promise al Florimo (5 genn. 1835)che non sarebbe più venuto a Napoli "ne anche per tutti i tesori del mondo.

In mezzo a tante preoccupazioni, la stesura dei Puritani procedeva abbastanza spedita nonostante la scarsa collaborazione del Pepoli. L'epistolario belliniano permette di seguire punto per punto le varie fasi del lavoro, poiché, ogni volta che un pezzo importante è terminato, il B. ne dà esultante notizia ai suoi amici. Ancora ai primi d'agosto del 1834 il FIorimo era preoccupato che anche questa volta egli si riducesse a lavorare fino all'ultimo momento, con l'acqua alla gola; ma il 4 settembre il B. gli annunziava di aver già terminato il I atto, "e del secondo resta a fare un terzetto e la stretta del finale: del terzo, un duetto e l'ultima scena: figurati ho ancora tre mesi; quindi sarò a tempo di toccare e ritoccare". Il 21 settembre, sempre al Florimo: "... l'ho poi istrumentato d'una accuratezza indescrivibile che ogni pezzo che finisco guardandolo provo una grandissima sodisfazione... Il I atto toltone due pezzi è tutto strumentato, del II ho strumentato tutto quello che ho posto in carta...". L'ultimo pezzo cui il B. lavorò ancora pochi giorni prima d'andare in scena fu il duetto finale del II atto "Suoni la tromba, e intrepido", che egli rielaborò a lungo prima di dare ad esso la stesura e la collocazione definitiva. Ancora il 5 gen, naio 1835, come risulta dalla lettera in pari data al Florimo, il B. progettava di premettere ai Puritani una sinfonia, ma il disegno non venne realizzato.

La prima rappresentazione ebbe luogo il 24 gennaio, e fu un successo pieno. Già qualche mese prima l'esecuzione della Sonnambula, il 23 ottobre al Teatro Italiano, aveva ottenuto un'accoglienza entusiastica, si che il pubblico parigino era già disposto più che benevolmente verso la nuova opera, la quale vide dunque la luce in un'atmosfera opposta a quella veneziana della Beatrice. Anche i giornali si espressero con termini ampiamente elogiativi; poche nel complesso le riserve. Il ministro dell'Interno, Adolphe Thiers, fece nominare il B. cavaliere della Legion d'Onore. Il B. rimase addirittura istupidito dal successo (lettera all'editore Ricordi del 16 febbraio), i progetti da lungo tempo accarezzati, di fissare a Parigi la sua dimora stabile e di ottenere scritture regolari dal Teatro Italiano, gli parevano ora assai più realizzabili, anche perché adesso poteva veramente contare sull'appoggio benevolo di Rossini (lettera al Florimo del 3-4 marzo). I Puritani furono rappresentati per l'ultima volta il 31 marzo 1835, a chiusura della stagione lirica del Teatro Italiano.

La cronaca degli ultimi mesi di vita del B. è piuttosto scialba. Il grande successo ottenuto coi Puritani aveva lasciato sperare che le scritture per le altre opere sarebbero venute facilmente; invece, sia per le condizioni poste dal B. (egli voleva scrivere solo per la Francia e possibilmente per il Grand'Opéra, ed era deciso a chiedere compensi elevati), sia per la difficile situazione francese (i mutamenti nella direzione del massimo teatro parigino, e soprattutto i torbidi politici del 28 luglio), solo verso gli ultimi giorni della sua vita il musicista ebbe la quasi certezza di una nuova scrittura.

Stando alla testimonianza di Rossini, in una sua lettera del 27 sett. 1835 (quattro giorni dopo al morte del B.), sembrerebbe che il contratto fosse già stato concluso: cosa che, dal 16 lettere del B. giunte a noi, non appare così certa. Nell'attesa di questa scrittura che non veniva mai, il B. lavorò poco o nulla: qualche abbozzo di temi musicali, che raccoglieva in fogli sparsi, la lettura di qualche tragedia o di qualche libretto, per trovare, un soggetto adatto per la sua nuova opera. Avrebbe anche dovuto sottoporre a una revisione generale la Norma, specie nell'orche, strazione: molti avevano notato la differente tecnica adoperata al riguardo nei Puritani e facevano ora pressione sul B. perché estendesse la medesima tecnica anche alla Norma, in previsione di un'esecuzione a Parigi. Per fortuna il B. seppe resistere a tali assurde pretese: si veda la lettera da lui scritta al Florimo il 13 ag. 1835: "E tu ritorni sempre con la Norma!...Tu credi che io potrò usare la maniera di istrumentare dei Puritani? T'inganni: in qualche parte potrà essere, ma generalmente mi sarà impossibile per la natura piana e corsiva delle cantilene che non ammettono altra natura d'istrumentazione che quella che vi è: e ciò l'ho ben riflettuto", dimostrandosi in tal modo critico acuto di se stesso. Tuttavia la forzata inazione finì col dispiacergli. Invano tentò, nella citata lettera del 13 agosto, di giustificarsi: "Se tu fossi stato qui, avresti approvato la mia tenuta condotta, e giusto il tempo che ho perduto, sacrifizio dovuto al mio decoro, ed alla posizione ove sono, ed a quella che appresso deve attendere". Qualche giorno più tardi, il 2 settembre, nell'ultima lettera al Florimo, diceva esplicitamente: "Non posso più vedermi senza far niente".

In quasi tutte le lettere scritte in questi mesi al Florimo ritorna insistente l'invito all'amico carissimo perché lo raggiungesse a Parigi: per una breve visita, o addirittura per fermarsi stabilmente. Nella stessa missiva, sognava per sé di succedere al Paer nella carica di maestro di corte: tutti progetti che la morte doveva troncare entro pochi giorni.

Nella lettera del 17 giugno al Florimo compaiono due elementi biografici molto diversi dai consueti. In apertura di foglio il B. smentì, e in termini piuttosto divertiti, la falsa notizia che egli fosse rimasto ucciso in duello. Al Florimo, ben al corrente delle avventure amorose dell'amico, non doveva evidentemente essere parsa troppo assurda la voce. Più avanti, nella stessa lettera, il B. partecipa brevemente il suo profondo dolore per la morte di Maddalena Fumaroli, la giovinetta che tanto aveva amato quando era studente a Napoli. Veramente la Fumaroli era morta in Napoli il 15 giugno 1834, e il B. ne aveva appreso la notizia giusto un anno più tardi: con ogni probabilità, come ben suppone il Pastura, il Florimo aveva voluto attendere che i Puritani fossero terminati, prima di distrarre l'amico con una notizia che lo avrebbe turbato.

Nelle lettere al Florimo del 1834 e del 1835 il B. tornò anche a più riprese sull'argomento di un suo eventuale matrimonio. Per temperamento era portato più agli incontri brevi e alle infatuazioni violente e passeggere che agli affetti duraturi.

"Volubile conie il vento" si autodefinisce, al riguardo, nella lettera dell'ii marzo 1834; il 30 novembre dello stesso anno si dichiara anch'egli succubo dell'eterna contraddizione propria dei caratteri un po, fatui: "Io sono così anche, amo la donna, che non ho in progetto di sposare, e mi annoia quando questo progetto si affaccia...". Tuttavia, negli ultimi mesi di vita, pensò più volte di prendere moglie. Sin troppo spregiudicati erano i consigli che gli elargiva il Florimo. "Sento che ti va cessando la smania di prendere moglie. Se devi fare una tal minchioneria cerca di prendere gran denari, e non ti curare della bellezza che per legge di natura va diminuendo giorno per giorno" (lettera a B. del 15 ag. 1835). Il B. nelle frequenti lettere in cui ritorna sull'argomento, pur mostrando di pensare in primo luogo all'indipendenza economica che gli sarebbe stata procurata da una moglie ben provvista di dote, è sinceramente ansioso anche di altri requisiti, tra cui soprattutto la mitezza del carattere.

Un altro tema che ricorre nell'ultimo epistolario è quello che riguarda l'ìmpiego fatto dal B. dei propri risparmi. Egli, che nelle trattative con gli impresari si mostrava intransigente sino alla rottura nel non deflettere dai compensi che riteneva giusto gli fossero corrisposti, si direbbe più per rivendicare la dignità del proprio lavoro che per amore di guadagno, amministrò poi il denaro con scarsa oculatezza.

Scrivendo al Florimo il 14 ag. 1834, gli dava notizia di aver perso 15 mila franchi dei circa 30 mila investiti in titoli spagnoli, le cui quotazioni avevano subito un tracollo per motivi politici; ma aggiunge subito: "Non credere che tale minacciata disgrazia m'occupi assai: tu sai se io amo il denaro. Son giovane ed ho salute e braccia per ancora lavorare e per farmi un avvenire". L'operazione finanziaria non ebbe esito così disastroso, e il 4 ottobre il B. poteva annunziare al Florimo di aver recuperato una parte del denaro perduto; analoga comunicazione dava allo zio Vincenzo nella citata lettera del 10 apr. 1835. Ma tutte queste informazioni vengono da lui date con distacco e con tono di noncuranza.

La malattia che condusse il B. alla tomba si manifestò il 31 agosto o il 1° settembre. Si trattava dello stesso disturbo che già altre volte, e ripetutamente, aveva afffitto il musicista e che, nel maggio-giugno 1830, aveva messo in pericolo la sua vita.

La storia della malattia mortale del B. è narrata con abbondanza di particolari da tutti i biografi. Qui basterà ricordare che tre sono le nostre fonti di documentazione: il laconico diario del barone Augusto Aymé d'Aquino, attaché all'ambasciata napoletana a Parigi e nipote del maestro Michele Carafa; gli ancora più laconici bollettini sanitari del medico curante, un oscuro Montallegri, forse da identificare nel dottor Luigi Montallegri da Faenza, medico dell'armata italiana di Napoleone, patriota, amico di Carlo Pepoli ed esule a Parigi; infine, il referto dell'autopsia eseguita 36 ore dopo la morte dal dottor A. Dalmas, professore aggregato alla facoltà di medicina di Parigi. Dal breve diario del barone d'Aquino, amico sia del B. sia del Florimo, apprendiamo che il d'Aquino riuscì a vedere il B., ormai a letto nella villa di Puteaux da parecchi giorni, solo l'11 settembre. Invano tentò di entrare nella casa dei Lewis, ospiti del B., anche il 12 e il 13: il giardiniere-custode aveva avuto la consegna di non far passare nessuno. Il 14 poté entrare dal B. il maestro Carafa, che si era fatto passare per medico di corte. Poi gli amici si disinteressarono della malattia sino al giorno 24, quando il d'Aquino, entrato nella villa alle cinque pomeridiane, dopo un furioso temporale, trovò il B. già cadavere, mentre i Lewis erano partiti per Parigi. Il curante dottor Montallegri rilasciò cinque bollettini in cui l'ottimismo iniziale si muta nel disperato annunzio della fine imminente. Il referto autoptico permette di inferire che la malattia mortale fu una dissenteria di probabile eziologia amebica, da cui il B. fu affetto, a partire dal 1830, con cadenza stagionale sempre durante i calori estivi. L'empirismo farmacologico di quel tempo favorì un cronicizzarsi della malattia, che nell'ultima fase aveva determinato lesiom* probabilmente irreversibili.

Nessun fondamento hanno le dicerie, diffuse subito dopo la morte del compositore avvenuta il 24 settembre 1135, cheil B. sarebbe morto avvelenato: e anche lIsolamento rigoroso in cui egli fu tenuto dai suoi ospiti durante la malattia si spiega facilmente ricordando che in quei giorni il colera stava serpeggiando in tutta la Francia.

Le onoranze funebri furono celebrate con la pompa più solenne. Rossini - sulla cui amicizia il B. aveva sempre formulato qualche riserva - assunse su di sé le principali iniziative: fece eseguire l'autopsia ed imbalsamare corpo e cuore del maestro; formò una commissione dei più celebri artisti di Parigi per organizzare la cerimonia; aprì una sottoscrizione il cui provento doveva coprire le spese dei funerali ed erigere un monumento al B.; si offrì di raccogliere tutto quanto - danaro e oggetti - fosse rimasto di lui a Parigi, per inviarlo alla famiglia, a Catania. Là stampa francese dell'epoca scrisse ampi resoconti dei funerali, che riuscirono davvero imponenti, Svoltisi il 2 ottobre nella Cappella degli Invalidi, ove fu eseguita la Messa da Requiem di Cherubini e altre musiche dello stesso Bellini. Nel 1876 la salma fu solennemente traslata da Parigi a Catania.

Nel pur vasto epistolario il B. ha lasciato scarsi riferimenti alla propria tecnica compositiva. Quanto già riportato più sopra (e soprattutto la lettera al Pepoli pubblicata da L. Cambi, p. 399) costituisce quasi tutta la posizione teorica del Bellini. Un cenno a parte merita la cosiddetta "lettera" ad Agostino Gallo, la cui autenticità da oltre un secolo divide i biografi..

Questo Agostino Gallo, che secondo il Pastura entrò a far parte degli amici del B. durante il soggiorno di quest'ultimo a Palermo del 1832, non lasciò tracce apprezzabili nell'epistolario belliniano: più volte il B., scrivendo al Santocanale, elenca parecchi amici cui estendere i suoi saluti, e tra questi amici compare di tratto in tratto anche il Gallo. Il Pastura ci dà altre notizie su questo personaggio, che era un modesto letterato locale. A un quasi estraneo, dunque, il B. avrebbe indirizzato una lettera che è poco meno di un "manifesto" teorico, o una rivelazione del ", segreto" della sua arte. Ecco il testo integrale, come è riportato dal Pastura: "Poiché io mi sono proposto di scrivere pochi spartiti, non più che uno l'anno, ci adopro tutte le forze dell'ingegno. Persuaso, come sono, che gran parte del loro buon successo dipende dalla scelta di un tema interessante, dal contrasto delle passioni, dai versi armoniosi e caldi d'espressione, non che dai colpi di scena, mi do briga, prima di tutto di avere da pregiato scrittore un dramma perfetto, e quindi ho preferito a chiunque il Romani, potentissimo ingegno, fatto per la drammatica musicale. Compiuto il lavoro, studio attentamente il carattere dei personaggi, le passioni che li predominano e i sentimenti che esprimono. Invaso dagli affetti di ciascuno di loro, immagino essere divenuto quel desso che parla, e mi sforzo di sentire e di esprimere efficacemente alla stessa guisa. Conoscendo che la musica risulta da varietà di suoni e che le passioni degli uomini si appalesano parlando con tuoni diversamente modificati, dall'incessante osservazione di essi ho ricavato la favella del sentimento per l'arte mia. Chiuso quindi nella mia stanza, comincio a declamare la parte del personaggio del dramma con tutto il calore della passione, e osservo intanto le inflessioni della mia voce, l'affrettamento e il languore della pronunzia in questa circostanza, l'accento insomma ed il tuono dell'espressione che dà la. natura all'uomo in bafla delle passioni, e vi trovo i motivi ed i tempi musicali adatti a dimostrarle e trasfonderle in altri, per mezzo dell, 'armonia.

Li gitto tosto sulla carta, li provo al clavicembalo, e quando ne sento io stesso la corrispondente emozione giudico di eíserci riuscito. In contrario tomo all'ispirarini finché abbia conseguito lo scopo".

Preso in sé e per sé, il documento è palesemente e indiscutibilmente apocrifò. Già altri ha osservato che di questa lettera non si è mai trovato l'autografo, che lo stile di essa è lontanissimo dal consueto modo di esprimersi che fu proprio del B.: nessun dubbio quindi che, almeno dal punto di vista formale, il documento sia da ritenersi falso. Altri studiosi invece (I. Pizzetti, S. Pugliatti e F. Pastura) si sono pronunciati in favore dell'autenticità della lettera, sia pure con differenti sfumature di interpretazione. La posizione più equilibrata è quella del Pastura, che ritiene "autentiche le dichiarazioni di B., le quali dovettero essere fatte nel corso di una o più conversazioni tra amici e che, raccolte da Agostino Gallo, vennero da questo, moltissimo tempo dopo, rielaborate e pubblicate - forse - in forma di lettera". A riprova di tale suo assunto, il Pastura cita diligentemente una larga messe di appunti musicali autografi del B., che, testimoniando in maniera eloquente il travaglio creativo dei musicista, confermerebbero nella sostanza il discusso documento. Non è certo da escludere che il B. abbia potuto, durante una conversazione, lasciarsi sfuggire - nonostante il suo estremo riserbo in materia - qualche confidenza sul modo da lui tenuto nello scrivere musica; ma è 1 certo che di quegli eventuali accenni poco o nulla rimane nella "lettera" incriminata. Non foss'altro, inconsistente sino alla puerilità è l'atteggiamento alfieriano di cui l'autore della lettera ha rivestito il B.: come giustamente osserva la Cambi (Epistolario, p. 188), la veste alfieriana di cui il B. è qui ricoperto coincide palesemente con la leggenda, siciliana d'origine, di un B. tanto innamorato delle tragedie dell'Alfieri da proporsi di mettere in musica l'Oreste così come stava, tutto in un recitativo continuato. Né occorreva certo la testimonianza del documento apocrifo per farci sapere che, per il B., il lavoro di composizione non era mai improvvisazione. Egli non aveva il dono mozartiano della melodia facile. Numerosissime, al riguardo, le frasi dell'epistolario da cui risulta quale lavoro massacrante fosse per lui lo scrivere musica: la più sintetica, e la più efficace di tutte si legge nella lettera al Florimo del 14 giugno 1828: "... col mio stile devo vomitar sangue". Spiegabile è dunque la congerie di appunti musicali trovati fra gli autografi belliniani, riferentisi a prove, rifacimenti, rielaborazioni di intere frasi, prima che la melodia assumesse la forma definitiva. In nessun modo invece il documento apocrifo merita credito, quando raffigura il B. "invasato" dal demone dell'immedesimazione nel personaggio, sino a mutuare da esso e dalla prosodia del linguaggio prestatogli dal librettista l'ispirazione principe per la propria musica. Si deve osservare al riguardo che, dal punto di vista della corrispondeúza prosodica fra metrica del verso e metrica musicale, il B. discende direttamente dalla tradizione napoletana, la quale `almeno sin dai tempi di Pergolesi, se non anche prima, aveva rivolto particolari attenzioni a stabilire una simile corrispondenza. Compositori come Iommelli (Didone abbandonata), Hasse (La Clemenza di Tito, Cleofide), Paisiello (Matrimonio inaspettato) e altri furono espertissimi, oltre che nel modellare il fraseggio musicale su quello testuale, anche nel combinare variamente interi versi o parte d'essi, in modo che ne risultassero altri versi, di senso compiuto e rigorosamente esatti dal punto di vista metrico.

Gli stretti legami tra prosodia testuale e prosodia musicale, evidentissimi in tutta l'opera del B., costituiscono il retaggio più significativo che la tradizione operistica settecentesca ha impresso nello stile belliniano. Con la sola eccezione dell'Adelson, il B. non usò mai il recitativo secco; l'aria col da capo è pure inesistente nella sua opera, e, quanto alle fioriture vocali, occorre distinguere. Quando esse sono poste su un punto coronato, indulgono alla tradizione belcantistica italiana, e sono fini a se stesse, indipendentemente dal fatto che siano scritte per esteso dal compositore: è noto infatti che il cantante aveva, ed ha, facoltà di adattare tali virtuosismi alle possibilità del proprio organo vocale e della propria tecnica. Quando invece i passi di agilità fanno parte integrante della linea melodica, allora è evidente che il B. non ha subordinato gli sviluppi musicali della frase al virtuosismo, ma che, al tontrario, il virtuosismo è uno stato di necessità determinato dalle esigenze in atto della dialettica musicale. C'erano tuttavia già stati, al riguardo, precedenti insigni: basti pensare alle opere, teatrali di Vivaldi, il quale sovraccarica spesso la linea vocale delle proprie arie con passi di natura squisitamente violinistica, in modo da trasferire anche nel vocalismo lo stesso incalzare delle progressioni che conferiscono tanta drammatica originalità a tutta la musica vivaldiana. La melodia belliniana, proprio per il fatto di accogliere entro di sé come parte integrante elementi solo esteriormente virtuosistici, ma in sostanza strumenti efficacissimì per infondere insolita energia alle volute ampie della vocalità, si stacca sensibilmente dalla tradizione napoletana per, aderire alla radicale trasformazione cui il romanticismo aveva condotto anche la: musicaDa questo punto di vista trovò una felice formula Giuseppe Mazzini quando nella Filosofia della musica parlò del B. come di un ingegno "di transizione". Formalmente il B. non è un innovatore Il "declamato" (sul tipo del "Dormono entrambi" all'inizio del II atto della Norma) rappresenta l'ampliamento di una struttura già largamente praticata nel secolo precedente; il recitativo, anche se permeato di un vigore inconsueto nella pratica del tempo, discende in linea retta dal vecchio recitativo, secco e accompagnato; la forma chiusa aderisce alle strutture esterne comuni in quell'epoca, ma accoglie anche, nel suo intimo, trasformazioruì le quali, se pur non appariscenti, sono tali da conferire all'aria, al duetto e al concertato un'energia e un dinamismo tipici dell'ansietà romantica del primo Ottocento, e tanto più efficace, quanto più contenuti e raccolti sotto le mentite spoglie di una tecnica in parte arretrata al Settecento. Un paziente e pur facile lavoro di analisi grammaticale potrebbe rivelare le ragioni di questa nascosta carica di vitalità nuova nella musica belliniana: la quale si regge sull'asimmetria delle melodie, su una nuova maniera di praticare le progressioni armonico-melodiche, sull'anticonvenzionalità delle modulazioni, in una parola, sull'imprevisto. Imprevisto, di cui spesso è assai difficile accorgersi, appunto perché le apparenze esteriori sono quelle tradizionali, e c'è il grosso pericolo che l'esecutore (e, dietro di lui, l'ascoltatore) si arrestino all'aspetto. più appariscente della musica belliniana, al lirismo cantabile delle melodie. Non meno pericolosa, nella sua ingannevole facilità, la tecnica coinpositiva belliniana, che è stata variamente giudicata. Qualcuno si chiese se nel B. i mezzi tecnico-formali, particolarmente armonizzazione e strumentazione, fossero o no all'altezza dell'invenzione melodica; e facendo, di contenuto e di forma, due entità assolutamente scisse, condannò l'armonia, l'orchestrazione, gli accompagnamenti del B. come troppo semplici e rudimentali a causa dell'impreparazione tecnica del compositore. Qualcun altro ammise il contrasto tra forma e contenuto, sostenendo però che "non si tratta già di assenze o difetti determinati da una vera e propria impossibilità creatrice o da una vera deficienza di magistero tecnico, ma si tratta di volontarie rinuncie imposte da una sensibilità di prodigiosa finezza e purezza e da una divina chiaroveggenza estetica (I. Pizzetti): giudizio che, a parte l'improprietà della parola "volontario" presupponente, nell'atto creativo di un artista, l'intervento di un preciso e logico atto di volontà e di riflessione, è fortemente viziato di certo romanticismo deteriore, portato a vedere ovunque dei prometei. Più chiaramente, seppure incompiutamente, L. Cherubini scrisse, sempre a proposito della tecnica belliniana, che "B. n'en eut pas pus placer une autre sous ses mélodies", volendo con ciò dire, anticipando le int uizioni crociane, che la forma esterna della musica belliniana è l'unica coerente con l'iiiscindibile unità dell'atto creativo. Sarebbe invece il caso di aggiungere che la veste esterna della musica del B. nasconde sotto di sé la più pericolosa delle difficoltà, subdolamente nascosta sotto gli andamenti comuni al linguaggio operistico del tempo. Il problema capitale della musica del B. è essenzialmente musicale, prima che critico, poiché, a giudicare almeno dalle correnti esecuzioni., manca ancora un'interpretazione musicale convincente e che non si accontenti di porre in primo piano la linea vocale come prevalente espressione di belcanto, ma che, integrando il melos vocale con quello strumentale (anche quando quest'ultimo si nasconda sotto le apparenze di un accompagnamento albertino), sappia giungere alla scoperta della ritmica e del fraseggio belliniani, nuovi, originalissimi e irripetibili, come è del resto dimostrato dalla mancanza di epigoni belliniani e dalla scarsa o nessuna influenza che lo stile belliniano ha esercitato, a differenza di quello G. Donizetti, sui maggiori compositori delle successive generazioni, Verdi compreso. E in questo senso ha un particolare significato il confronto fra il B. e Chopin, di cui è nota la simpatia per la musica belliniana e che volle essere seppellito accanto al catanese. Entrambi i musicisti sono stati creatori di una ritmica diversa da tutte le altre venute prima, e, come tale, non suscettibile di imitazioni.

Ciò che erge un'autentica barriera di divisione fra le opere maggiori (Norma, la Sonnambula e i Puritani) e le altre, è la presenza, saltuaria in queste, presso che continua in quelle, di tale ritmica, atta a trasformare e a trasfigurare ogni altro elemento. musicale conconiitante. S'intende che il termine "ritmica" deve essere inteso nella sua più vasta accezione, ossia come diretta emanazione della linea melodica, di cui è parte integrante e non scindibile. Troppo frequente invece è l'equivoco in cui cadono gli interpreti musicali, i quali intendono la linea melodica solo nel suo aspetto più esteriore, come manifestazione raffinata di belcanto, quando invece essa può assurgere alla compiutezza di un'orchestra sinfonica se rivissuta alla luce e nello spirito di quella medesima ansia, ora. selvaggia ed ora idilliaca, ora dolorosa ed ora rasserenante, di cui è permeata la ritmica romantica, da Beethoven a Brahms. E, analogamente a quanto avviene per la musica strumentale del medesimo periodo, non ha alcun senso comune chiedersi se e fino. a che punto la musica del B. rappresenti il dramma dei personaggi, o di tali drammi sia invece il superamento lirico. Certo la musica del B. è teatrale, perché non rinunzia a quegli elementi di contorno che M. Mila definisce acutamente ", intuito infallibile dell'ambiente". Ma, nell'opera del B., l'aderenza della musica a personaggi, intrecci, situazioni, decorazioni è puramente accessoria e non essenziale. Le più belle pagine da lui create possono benissimo vivere di vita autonoma, e anche, entro certi limiti, indipendentemente dal timbro cui sono affidate. Allo stesso modo in cui nessuno penserebbe più a ricostruire una storia psicologica di una sinfonia di Beethoven o di Schubert, così bisognerebbe rinunziare in gran parte al facile desiderio di trovare nei "libretti" di cui il B. si valse, un aiuto per interpretare meglio la musica che li riveste. Le migliori melodie belliniane possono fare a meno di riferimenti economici e contingenti a personaggi, a situazioni, a intrecci o, peggio, alla convenzionale prosodia del Romani. Ecco perché ritieniamo che la lettera al Gallo sia da respingere, proprio per considerazioni critiche sostanziali, e sia invece da considerare, con indulgenza, come il tentativo di qualche anuniratore di tradurre in termini chiari l'evidente, ma difficilissirno da esprimere con le parole, anelito romantico del B.: e nulla di più facile, in questo senso, che tradurre tale ideale sinfonismo nei termini macroscopici di adesione affettiva con i personaggi. Ecco perché il B. desiderava libretti chiari, in cui agissero caratteri lineari, dalle situazioni nette e definite, mostrando invece fastidio per ogni forma di arzigogolamento letterario (lettera al Pepoli del maggio 1834). Dal libretto ricavava le grandi linee secondo cui disporre l'intelaiatura generale del discorso musicale: ma il fatto stesso che accettasse di mettere in musica i versi come gli venivano forniti alla spicciolata dal librettista, senza attendere di avere innanzi il lavoro teatrale nella sua compiutezza, dimostra che il libretto, per il B., era poco più che una necessità tecnica, una sorta di intelaiatura la cui missione era esaurita col discendere su di essa della melodia. Non si accorse il Mazzini, nella Filosofia della musica, di rivolgere al B. il più valido degli elogi, nell'attimo stesso in cui condannava indirettamente la sua musica: "Chi sa dirmi le diversità che oggi regnano tra la musica d'un dramma romano, e quella d'un dramma tratto dalle storie dell'evo medio; tra le melodie d'uomini del paganesimo, e quelle che suonano su labbra di personaggi cristiani? Chi sa dirmi perché quell'attore si chiami Pollione, e quell'altro Romeo? Ché veramente èprivilegio del B. quello di ambientare la sua musica solo entro limiti assai vaghi, per quel tanto che è necessario alla teatralità dello spettacolo, senza però che l'identificazione tra l'ambiente e la musica assuma i caratteri dell'illustrazione di quello tramite questa. Ragioni di utilità politica, sociale o religiosa ammettono, anzi, favoriscono tale reciproca compenetrazione; la musica del B. sa evitare ogni eccesso, assorbendo dalla civiltà romantica italiana solo quella ritmica nuova, perturbáta. potente, di cui si diceva, e la cui mancata valorizzazione è la più grave remora che tuttora ne ostacoli una più intima comprensione.

Una simile interpretazione della melodia belliniana, che nasconde entro di sé, sotto andamenti apparentemente tradizionali, una ritmica affatto nuova perché protesa verso una concezione tutt'altro che elegiaca e sospirosa, bensì agonistica sino all'eroico, potrebbe, se tradotta in essere nella viva pratica dell'esecuzione musicale, illuminare di luce nuova soprattutto le pagine che per tradizione si basano sul languore del canto vocale spadroneggiante sulla dinarnica orchestrale completamente svuotata di ogni significato. In realtà, il B. appare sempre proteso verso una concezione dinamicamente attiva; anche nei momenti in cui la lentezza e la pacatezza dei movimento musicale sembrano espressione di raccoglimento e di contempiaziene, c'è sempre la sensazione imminente dell'interna lotta necessaria per la conquista di tale stato di calma.

Opere teatrali: Adelson e Salvini. Dramma in 3 atti di A. L. Tottola. Napoli, Conservatorio S. Sebastiano, carnevale 1825. Rifacimento in due atti, forse dello stesso B., pubblicato nella riduzione per canto e pianoforte da Ricordi; Bianca e Gernando. Melodramma in 2 atti di D. Gilardoni. Napoli, Teatro S. Carlo, 30 maggio 1826; Il Pirata. Melodramma in due atti di F. Romani. Milano, Teatro alla Scala, 27 ott. 1827; Bianca e Fernando, rifacimento dell'opera precedente Genova, Teatro Carlo Felice, 7 apr. 1828; La Straniera. Melodramma in 2 atti di F. Romani. Milano, Teatro alla Scala, 14 febbr. 1829; Zaira. Tragedia lirica in 2 atti di F. Romani. Parma, Teatro Ducale, 16 maggio 1829; I Capuleti e i Montecchi. Tragedia lirica in 2 atti di F. Romani. Venezia, Teatro La Fenice, 11 marzo 1830; La Sonnambula. Melodramma in 2 atti di F. Romani. Milano, Teatro Carcano, 6 marzo 1831; Norma. Tragedia lirica in 2 atti di F. Romani. Milano, Teatro alla Scala, 26 dic. 1831; Beatrice di Tenda. Tragedia lirica in 2 atti di F. Romani. Venezia, Teatro La Fenice, 16 marzo 1833; I Puritani. Opera seria in 3 atti di c. Pepoli. Parigi, Teatro Italiano, 24 genn. 1835. Musica sacra: tra la produzione giovanile anteriore al 1820 giunta a noi, ricordiamo: 5 Tantum ergo; Kyrie e Gloria da una Messa in sol magg. a 4 voci e orchestra; Kyrie e Gloria da un Messa in re magg. a 4 voci e orchestra; Salve Regina in fa min., per soprano e organo. Dopo il 1820, e sino al 1825, il B. scrisse ancora, fra l'altro: Salve Regina in la magg. per coro a 4 voci e orchestra; Messa in la min. per soli, coro e orchestra; 4 Tantum ergo, per soli, coro e orchestra; Messa seconda in sol min. per soli coro e orchestra; Te Deum per coro a 4 voci e orchestra; ecc. Musica da camera: Scena e aria di Cerere, per soprano e orchestra; Ombre Paciflche, terzetto per soprano e due tenori con pianoforte (prima del 1819); Dolente immagine di Filli mia, per mezzosoprano e pianoforte (prima del 1826); Vaga luna che inargenti, per mezzosoprano e pianoforte; sei ariette da camera, per mezzosoprano e pianoforte, dedicate alla signora Marianna Pollini; L'Abbandono, per mezzosoprano e pianoforte (composti dal 1827 al 1835), ecc. Musica strumentale: Sinfonia in re magg. per orchestra; Concerto per oboe e orchestra; sei sinfonie (composte in conservatorio dal 1821 al '24); ecc.

Ricordi ha ripubblicato in varie epoche tutti gli spartiti, la partitura della Norma e (in fasc.) della Sonnambula, un'antologia di romanze da camera e 3 sinfonie; l'Accad. d'Italia ha pubblicato in fasc. la partitura della Norma e una raccolta di Composizioni giovanili inedite: Salve Regina in la magg.; Sinfonia in re magg. per piccola orchestra; Tecum principiuni per soprano e orchestra: Sinfonia in mi bem. magg.

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