CERCHI, Vieri

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 23 (1979)

CERCHI, Vieri (Oliviero)

Franco Cardini

Nato presumibilmente attorno al quarto decennio del Duecento, figlio di Torrigiano di Oliviero, succedette al padre - fatto prigioniero nella battaglia di Montaperti (1260)e in seguito defunto - nella cura degli affari del banco. Il suo tirocinio si svolse durante il periodo dell'esilio della parte guelfa seguito alla vittoria ghibellina del 1260; nel luglio 1264, con gli zii Gherardino, Lapo, Brunellino, Arrigo e Consiglio e con il cugino Donatore (Dore) di Puccio di Oliviero giurò fedeltà al papa Urbano IV, che allora si stava apprestando, insieme con Carlo d'Angiò, a sferrare la decisiva offensiva contro Manfredi di Svevia. Dopo il rientro dei guelfi in Firenze (1267), fu insignito della dignità cavalleresca in ringraziamento per quel che la sua casata aveva fatto per la causa antighibellina. Nel maggio 1273 lo troviamo tra i testimoni del testamento del conte Alessandro Alberti, che lasciava alla parte guelfa i castelli di Mangona, Vernio e Montaguto.

Nonostante questa sua posizione di rilievo, era ovvio che egli, ancor relativamente giovane, rimanesse a lungo nell'ombra degli zii, soprattutto di Cerchio e di Consiglio, rispettati e autorevoli capi sia del banco sia della consorteria. Lo vediamo comparire in ogni caso in parecchi documenti: nel 1268figura come teste in una vendita effettuata dal cugino Dore di Puccio; l'8 novembre 1280 poi, il conte Guido Salvatico di Dovadola vendeva a Bindo di Cerchio e al C., cugini, che l'acquistavano anche a nome degli altri loro congiunti, la quarta parte dei palazzi, delle case, dei terreni e delle terre dei conti Guidi site nel sesto di Porta San Piero, e interessanti i "popoli" di S. Margherita e di S. Procolo. Il prezzo era stabilito in 3.000lire di fiorini piccoli (pagabili tuttavia in fiorini d'oro in ragione di 33 fiorini piccoli per un fiorino d'oro); anche se il valore effettivo degli immobili era molto più elevato, come ebbe a dichiarare espressamente il conte. Nel 1286 il C. acquistò un pezzo di terra presso Bibbiena. Percorreva intanto il normale cursus honorum dei membri delle casate magnatizie provvisti di cintura cavalleresca, adiva cioè ai pubblici incarichi nelle città in buoni rapporti con Firenze: lo troviamo così, nel 1283, podestà di Padova.

Con la progressiva scomparsa della generazione dei figli di Oliviero, toccò al C. e ai suoi cugini, soprattutto Giovanni di Niccolò e Bindo di Cerchio - la "seconda generazione" cerchiesca che vide la scissione della compagnia in bianchi e neri - subentrare ad essi nella guida della consorteria e del banco. Al C. toccò in particolare la guida della compagnia dei Cerchi neri: la ufficiale denominazione era "compagnia di messer Bindo de' Cerchi".

Il momento a partire dal quale e per oltre un decennio la figura del C. campeggiò sulla scena politica fiorentina fu comunque quello della guerra tra Firenze ed Arezzo. Egli, fedele alla tradizione di moderazione e di abilità diplomatica della sua famiglia, personalmente d'indole mite e soprattutto dedito agli affari bancari della sua famiglia, aveva tentato fino all'ultimo di evitare quella guerra, a tal fine disposto anche ad impegnare, forse a fondo perduto, ingenti capitali. Per testimonianza comune del Compagni e di Giovanni Villani, una trattativa segreta condotta tra il Comune fiorentino e il vescovo d'Arezzo, Guglielmino degli Ubertini, era sul punto di recare a Firenze, senza bisogno del ricorso alle armi, tutte le terre e i castelli afferenti alla potente signoria episcopale aretina; in cambio, il prelato chiedeva un ingente vitalizio annuo (3.000 fiorini, d'oro secondo il Compagni, 5.000 secondo il Villani); e il C., nel quale l'Ubertini riponeva evidentemente la massima fiducia, sarebbe stato il garante del pagamento. Ma le trattative fallirono e la situazione precipitò all'ultim'ora: le truppe di Arezzo occuparono Bibbiena, e a quel punto i Fiorentini non poterono che scendere in guerra. Nel decisivo, celebre scontro di Campaldino (11 giugno 1289) tanto il C., che comandava i "feditori" a cavallo, quanto il figlio Giano si comportarono con grande valore.

La gloria di Campaldino e la prosperità economica fecero del C., ormai capo riconosciuto se non assoluto della potente consorteria cerchiesca, l'uomo più in vista di Firenze, particolarmente benvisto dai popolani grassi e medi che in lui e nei suoi interessi si riconoscevano, e che erano decisi ad opporsi alle famiglie di antica nobiltà che alla disprezzata ricchezza mercantile opponevano con orgoglio i vecchi valori feudali; d'altra parte, al C. guardavano con simpatia e fiducia anche le famiglie magnatizie ghibelline, le quali dalla tradizionale politica di moderazione dei Cerchi si attendevano un sollievo alle discriminazioni alle quali avevano dovuto sottostare dopo il 1267 e poi ancora dopo il 1280, dopo cioè che la pace del cardinale Latino aveva rivelato il suo carattere illusorio e inconsistente.

Comunque la casata dei Cerchi, in quanto ormai magnatizia, non poteva, almeno in un primo tempo, non risentire dello sviluppo del movimento popolano di Giano della Bella. Ciò avvenne in un momento in cui la condizione del C. era politicamente e psicologicamente delicata tra il 1291 e il '92 difatti egli, come capitano di parte, aveva caldeggiato le non brillanti né felici operazioni militari contro Pisa. Vittima del prevalere popolare, egli e i suoi si schierarono dunque con gli altri magnati contro Giano della Bella. Il C. e Nuto de' Marignolli furono anzi i protagonisti delle trattative con il vicario imperiale in Toscana, Giovanni di Chalon-Arlay, per rovesciare il governo popolano. Tuttavia, quando si trattò di passare praticamente all'azione, i Cerchi mancarono all'appuntamento con gli altri magnati: non parteciparono difatti alla loro sommossa del 5 o 6 luglio 1295 contro il popolo. Le ragioni di questo comportamento ambiguo sono difficili a cogliersi: probabilmente il C. non se la sentiva di impegnarsi in un gesto che avrebbe compromesso i suoi interessi - nonostante la sommossa godesse molto probabilmente delle simpatie e dell'incoraggiamento di papa Bonifacio VIII -, tanto più che, proprio in quanto aveva condotto le trattative con il vicario imperiale, sapeva che questi di fatto non si sarebbe mosso.

Il risultato diretto della sommossa fu il "temperamento" degli Ordinamenti di giustizia; il fatto che i Cerchi si fossero mantenuti, se non propriamente neutrali, estranei comunque alla rivolta magnatizia del luglio, recò al C. il conforto di ulteriore fama positiva tra i popolani. Ma era naturale che questa politica determinasse, come contraccolpo, l'astio di alcune famiglie magnatizie, in particolare dei Donati, degli Adimari, dei Pazzi.

La tensione esistente tra i due opposti schieramenti magnatizi, si polarizzò fatalmente nei due capi-fazione: il C. da un lato, Corso Donati dall'altro. Motivi di concorrenza e di rancore consortile e personale intervennero ad esacerbare ancora di più questi contrasti. Cerchi e Donati erano confinanti: sia in città, dove le case di entrambi si trovavano nel sesto di Porta San Piero, sia in contado, dove i loro possedimenti di Valdisieve e di Mugello erano vicini. I Donati, di illustre prosapia, non perdevano occasione per rinfacciare ai Cerchi l'umile origine comitatina; ma dietro tale disprezzo c'era una buona dose d'invidia, da parte di un casato che amava "grandeggiare" senza disporre dei necessari beni di fortuna.

La parentela costituiva un secondo motivo di inimicizia tra il C. e Corso. Il Donati aveva difatti sposato in prime nozze una Cerchi, figlia di Oliviero e zia di Vieri; essa era morta, e correva voce che il marito, essendo podestà in Treviso, l'avesse avvelenata. Il fossato di rancore scavato da questi sospetti si approfondì allorché Corso si unì in secondo matrimonio con Tessa del fu Ubertino da Gaville, i cui consorti - e gli stessi Cerchi parenti a loro volta della nuova sposa - erano contrari alle nozze.

La logica dei rapporti consortili e vicinali voleva che tutte queste tensioni sfociassero in violenze e vendette: la scintilla esplose il 16 dic. 1296, allorché un banale incidente avvenuto in occasione dei funerali di una donna di casa Frescobaldi causò un violento tumulto: in seguito ad esso, il C. ed alcuni dei suoi furono pesantemente multati. Dinanzi al profilarsi di un rapido deterioramento della situazione, il C. si comportò con la solita prudenza che lo aveva posto nelle condizioni, fin lì, di guadagnar terreno politico e seguaci. Ma questa volta tale atteggiamento non sortì l'effetto sperato. Contro il parere di certi più focosi membri del suo casato, che egli teneva costantemente a freno, il C. evitava di raccogliere le quotidiane provocazioni di Corso, che ormai pubblicamente lo insultava chiamandolo "l'asino di Porta" perché - avverte il Compagni - "era uomo bellissimo, ma di poca malizia, né di bel parlare". Può darsi che egli si trattenesse anche perché sapeva che il Donati godeva dell'appoggio di papa Bonifacio VIII, cui tutti i grandi banchieri fiorentini erano più o meno legati e cui lo stesso banco dei Cerchi neri aveva prestato 100 fiorini d'oro per la guerra contro i Colonna tra maggio e agosto 1298.

Ma il corso delle cose trascinava oggettivamente allo scontro. Nel dicembre 1298 Carbone di Dore Cerchi fu assalito nel contado da alcuni Pazzi alleati dei Donati. L'incidente si chiuse con alcuni arresti, tra cui quello di certi membri della famiglia Cerchi i quali - non piegandosi ai prudenti consigli del C. - si erano rifiutati di pagare la multa loro inflitta per la parte di responsabilità loro spettante nei disordini. La loro morte avvenuta in carcere per l'ingestione di cibo avariato fece parlare di avvelenamento e naturalmente causò nuovo rancore.

Durante il primo semestre del 1299 la podesteria di Firenze fu tenuta da Monfiorito da Coderta, uomo estremamente ligio a Corso Donati, il quale approfittò di questo stato di cose per rendersi responsabile di abusi che finirono con il danneggiare la sua stessa posizione. Il corrotto podestà venne travolto dallo sdegno, costretto a dimettersi nel maggio e sottoposto a un durissimo sindacato; Corso venne processato e condannato a pagare una forte ammenda; rifiutandosi di farlo, venne bandito e riparò presso il suo potente protettore, il papa.

Nel periodo tra il maggio del 1299 e l'ottobre del 1301 il C. avrebbe quindi potuto con relativa facilità fondare le basi di un duraturo potere della sua fazione e della sua consorteria su Firenze: e se ciò non avvenne responsabile fu, almeno in gran parte, la sua indole insicura, timida, perennemente incerta. Il Compagni, durissimo con lui e con i suoi, rileva che "i Cerchi schifavano non volere il nome della signoria, più per viltà che per pietà, perché forte temevano i loro avversari", e riporta il parere che su di loro si dava da parte di certi "savi uomini": "E' sono mercatanti, e naturalmente sono vili; e i loro nemici sono maestri di guerra".

D'altra parte, nel C. la pusillanimità si univa a una forte carenza di senso politico e di prospettive: pronto a temporeggiare anche fuor di luogo, veniva talvolta preso al contrario da una caparbietà quanto mai miope. Così, dopo il sanguinoso Calendimaggio del 1300, durante il quale Ricoverino Cerchi, anziano, fu sconciamente ferito, il C. si limitò a patrocinare il risarcimento pecuniario, ignorando volutamente la perdita di prestigio che nell'opinione pubblica il suo comportamento determinava; né, una settimana più tardi, dette importanza a un altro fatto estremamente grave, il convegno sedizioso dei guelfi neri nel vallombrosano convento di Santa Trinita. Le numerose condanne al confino pronunziate dal Comune alla fine di maggio del 1300, con le quali si intendevano ammonire i più facinorosi di entrambe le fazioni, obbedivano alla poco brillante logica politica del C., che intendeva colpire i suoi avversari senza troppo irritarli e governare Firenze senza scoprire le sue responsabilità.

A questo punto Bonifacio VIII convocò a Roma il C., per tentare di rappacificarlo con il Donati; se vi fosse riuscito, avrebbe comunque guadagnato quel diritto all'arbitrato su Firenze al quale evidentemente ambiva. La riuscita di questa manovra avrebbe coinciso con la ricostituzione, sotto l'egida pontificia, di un fronte magnatizio antipopolare: e ciò non poteva certo piacere a molti sostenitori del Cerchi. Questi comunque reagì alla nuova difficile situazione con le consuete maldestre maniere: si recò a Roma, ma declinò ogni proposta di pacificazione asserendo - con fare tra l'ipocrita e l'arrogante - di non essere in guerra con nessuno. Tale contegno offese il pontefice assai più di un rifiuto netto, e procurò al C. la sua cordiale inimicizia. Da allora il papa non esitò più a credere alle voci interessate che sostenevano che i Cerchi e i guelfi bianchi erano in combutta con i ghibellini. La legazione del cardinale d'Acquasparta, che si rivelò tendenziosamente anticerchiesca e che tanto contribuì a deteriorare il già troppo compromesso prestigio della parte bianca, sarebbe forse stata evitata se in occasione della sua visita al papa il C. si fosse comportato con maggior prudenza: la sua pavidità lo aveva paradossalmente indotto ad esser "temerario a rovescio".

Ancora alla fine del settembre, quando l'Acquasparta lanciò su Firenze la scomunica, il C. - che intanto aveva contribuito a determinare la vittoria dei bianchi a Pistoia e aveva caldeggiato l'alleanza tra Firenze e Bologna trattenne i suoi partigiani e cercò anzi di dimostrarsi generoso verso gli avversari; nel contempo avallava però le voci che lo accusavano di essere in combutta con i ghibellini aretini e pisani, sperando che esse gli avrebbero procurato fama di protagonista di grandi disegni politici e dunque prestigio, ma non considerando che l'opinione pubblica fiorentina, anche popolana, era troppo rigidamente ostile al nome ghibellino perché tale fama non rischiasse di essere controproducente. La notizia dell'arrivo del "paciaro" Carlo di Valois, il cui significato non poteva venir frainteso, fu accolta dal C. e dalla parte bianca con disorientamento e costernazione, ma senza alcun segno di reazione, mentre invece i neri si riorganizzavano e si preparavano alla rivincita.

Con l'entrata di Carlo di Valois in Firenze (il 1º novembre 1301) e il ritorno degli sbanditi neri, l'eclisse del C. iniziò irrevocabilmente. Egli ebbe ancora la debolezza di confidare nella pacificazione negoziata dal Valois e poi dall'Acquasparta, senza comprenderne il valore formale e strumentale; assistette poi in silenzio alle violenze perpetrate dai suoi avversari, finché venne coinvolto nel preteso attentato a Carlo di Valois, del quale vennero accusati i maggiorenti bianchi. La trappola scattò nell'aprile 1302: il principe fece arrestare chi poté, confiscarne i beni, distruggerne le case; il podestà Cante de' Gabrielli formulò contro di loro la condanna capitale.

Il C. poté porsi in salvo ad Arezzo con gran parte delle sue ricchezze; da lì, faceva notificare di esser pronto a pagare i suoi creditori, e di lì a poco difatti sborsava 80.000 fiorini d'oro. Si disse che era riuscito a portare con sé in esilio un patrimonio di 600.000 fiorini, e nonostante la sua catastrofe politica pare riuscisse a tenere in piedi le sue fortune finanziarie. Ma l'esilio lo indusse a nuovi errori: confidò dapprima difatti in Uguccione della Faggiuola podestà di Arezzo, senza avvertire i contingenti interessi che avvicinavano questo al papa; si decise poi ad appoggiare l'"Università della Parte dei Bianchi della città e del contado di Firenze", cui fornì garanzie finanziarie. Nel convegno bianco-ghibellino di San Godenzo del giugno 1302 si impegnò a sostenere le spese di guerra degli Ubaldini, ma sappiamo che anche quel tentativo si risolse in un nulla di fatto. Dopo allora, pare si ritirasse malinconicamente a vita privata; si spense, con ogni probabilità, alla fine del 1313, forse ad Arezzo.

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