Vicino Oriente antico. Cosmologia e cosmogonia

Storia della Scienza (2001)

Vicino Oriente antico. Cosmologia e cosmogonia

Hermann Hunger
Alfonso Archi
Paolo Xella
Antonio Panaino

Cosmologia e cosmogonia

Cosmologia e cosmogonia mesopotamica

di Hermann Hunger

La cosmologia dell'antica Mesopotamia può essere ricostruita attraverso i testi cuneiformi scritti in sumerico e in accadico. Anche se il sumerico è attestato prima dell'accadico, i testi letterari rimasti risalgono esclusivamente a un'epoca in cui i parlanti di entrambe le lingue avevano vissuto per secoli nella stessa regione. È quindi difficile, se non impossibile, separare le concezioni sumeriche da quelle accadiche; per motivi esclusivamente pratici, i miti in sumerico saranno esaminati separatamente da quelli in accadico, senza per questo dare adito a generalizzazioni sul pensiero 'sumerico' o 'accadico', in base alla lingua dei testi.

Non esiste alcuno scritto che abbia come unico tema l'origine e la costruzione dell'Universo: sia nei testi sumerici sia in quelli accadici questi argomenti sono trattati insieme a molti altri. Il famoso componimento Enūma eliš (in accadico letteralmente Quando in alto, dall'incipit della prima tavoletta), chiamato anche dagli studiosi moderni Poema della creazione, non dovrebbe avere questo secondo titolo, poiché si tratta di una combinazione di tradizioni diverse, subordinate all'argomento principale, ossia l'ascesa di Marduk al ruolo supremo nel pantheon babilonese, narrata attraverso il racconto della rivalità tra le diverse generazioni di divinità, dell'organizzazione dell'Universo e della creazione dell'umanità.

Le dottrine cosmologiche dovranno quindi essere ricostruite sulla base non solo di testi espliciti, ma anche di riferimenti occasionali in opere il cui argomento principale può essere diverso, facendo attenzione a non considerare concezioni estrapolate da contesti differenti, a volte in contraddizione tra loro, come un sistema unico che non esisteva nell'antichità. Inoltre, mentre è possibile verificare (con una certa approssimazione) la data di una specifica tavoletta d'argilla, non sempre è possibile datare i suoi contenuti, poiché spesso le tavolette erano copiate anche a distanza di centinaia di anni.

Va inoltre considerato che, sebbene in alcuni racconti si narri di esseri, specialmente l'uomo, che sono creati (letteralmente 'costruiti', 'fatti' o 'formati'), nelle fonti mesopotamiche non esiste il concetto di creatio ex nihilo: in origine alcuni esseri erano già presenti e il mondo si è sviluppato dapprima per differenziazione; soltanto in seguito gli dèi hanno 'creato' qualcosa.

I testi sumerici

Se non esiste un testo sumerico che si occupi soltanto dell'origine del mondo e della vita, tuttavia il prologo di molte opere letterarie parla delle epoche primordiali, menzionando, in tali occasioni, varie teorie sulle origini del mondo. Queste 'introduzioni cosmologiche' si trovano, per esempio, nelle 'tenzoni', poemi in forma di disputa in cui due persone, due animali, due piante o due strumenti esaltano ciascuno le proprie virtù e quando, dopo lunghe discussioni e vituperazioni, nessuno dei due riesce a prevalere sull'altro, un dio è chiamato come arbitro e sceglie in favore di uno dei contendenti.

Sono documentati tre testi frammentari relativamente antichi, che risalgono uno alla metà del III millennio e gli altri due alla fine. La loro traduzione non è completamente certa e più di un'interpretazione è possibile.

Nel primo testo (van Dijk 1964, pp. 39-44; Römer 1993, pp. 355-356) si parla di una divinità chiamata An (Anu in accadico, termine che in sumerico è lo stesso di 'cielo'), che esisteva in qualità di 'signore'. Il cielo e la Terra si chiamavano l'un l'altra (potrebbe trattarsi di un temporale?) e ancora non esistevano altre divinità. Il testo menziona specificamente Enki (che nel pantheon accadico prenderà il nome di Ea) con la sua città Eridu, e gli dèi Enlil e Ninlil come ancora non esistenti. I giorni erano spenti, non v'erano lune che salivano in cielo. A questo punto la tavoletta s'interrompe, lasciandoci all'oscuro della storia. Anche nel secondo testo (van Dijk 1976, pp. 128-129) il dio del cielo An esiste come 'signore', ma non esistono altri dèi. Il cielo e la Terra sono legati tra loro, ma non si sono ancora uniti in matrimonio (non è chiaro che cosa significhi questo contrasto, in quanto la riga è molto restaurata); non c'era la Luna, la notte inghiottiva tutto. Il seguito della tavoletta è incompleto e non si sa se a questo testo seguissero altri miti, come sembrerebbe probabile dal confronto con altri documenti della letteratura sumerica.

Entrambi i testi parlano dunque di un tempo in cui di tutti gli dèi esisteva soltanto An; l'unica entità presente oltre a lui era la Terra. La frammentarietà delle tavolette rende impossibile dire quale fosse il loro argomento principale.

Dal fatto che in questi testi si usi l'epiteto 'signore' in riferimento ad An, Jan van Dijk (van Dijk 1976, pp. 125-133) ha dedotto che essi precedono e in qualche modo s'oppongono a quei testi in cui tale epiteto è usato in riferimento a Enlil, come dire la maggior parte dei componimenti mitologici sumerici. Egli ha anche notato che in un caso Enlil è esplicitamente definito come ancora non esistente e ha ipotizzato l'esistenza di un mito (non attestato) in cui si narrerebbe dello spodestamento di An da parte di Enlil. Tracce di tale mito sarebbero rintracciabili in testi successivi, in cui An è occasionalmente elencato tra gli "dèi morti". Questa detronizzazione è presumibilmente ripresa nel mito hittita di Kumarbi (v. par. 2), in cui quest'ultimo, che nei testi hittiti è a volte identificato con Enlil, è colui che sconfigge Anu (nome accadico del sumerico An). Ma a parte questo dettaglio, non è possibile istituire un parallelo fra i due miti, visto che nel mito di Kumarbi Anu non è il primo dio, ma è a sua volta preceduto da Alalu, da lui deposto.

Una terza tavoletta (van Dijk 1964, pp. 36-39) inizia con la formula "in quel giorno, in quella notte, in quell'anno", solitamente usata per riferirsi alle origini: allora ci furono tuoni e lampi, il cielo e la Terra parlavano tra di loro; come si è ipotizzato già per altri testi, a questi eventi potrebbe seguire un'unione cosmica del cielo con la Terra. Il testo presenta però un'interruzione, dopo la quale si narra che qualcuno ha fecondato la dea Ninkhursag, definita come la sorella di Enlil. Tutto questo sembra implicare che nel frattempo siano nate almeno queste due divinità, presumibilmente dal matrimonio cosmico fra cielo e Terra; subito dopo ci si aspetterebbe che da Ninkhursag nasca un qualche altro dio, ma il seguito è di nuovo frammentario. Il mito contenuto in questo testo non è stato finora ritrovato in altre tavolette.

Un'altra sezione introduttiva che riguarda argomenti cosmologici compare nel testo mitologico chiamato Enki e Ninmakh (Bottéro 1992, pp. 191-202): le prime due righe parlano di "cielo e Terra", ma il verbo della frase è incompleto, e la ricostruzione corrente che lo interpreta come "furono separati" rimane incerta. In seguito, è descritta la situazione precedente all'esistenza dell'umanità, quando gli dèi dovevano lavorare per l'irrigazione dei campi e protestavano per questo. Enki, ritenuto in qualche modo responsabile, dormiva; svegliato da sua madre Nammu, che lo incita a trovare una soluzione, egli decide di creare l'uomo dall'argilla, affinché si faccia carico delle fatiche degli dèi e istruisce Nammu e la dea Ninmakh a questo compito (v. cap. XVI, par. 1). Molti dettagli di questo testo, che abbonda di parole rare, sono stati messi in discussione, ma il motivo della creazione dell'umanità per assolvere ai compiti affidati in precedenza agli dèi compare anche in altri testi sumerici e accadici.

Il racconto Gilgamesh, Enkidu e gli Inferi (Pettinato 1992a, pp. 329-340) si sofferma, nelle righe 1-13, sui vari aspetti delle origini (come forni e cottura del pane che sono posti in essere: ogni cosa ha bisogno di essere messa al mondo), tra i quali la separazione del cielo e della Terra. An prende il cielo ed Enlil la Terra, mentre Ereshkigal, che in altre circostanze è la regina degli Inferi, prende a sua volta qualcosa che è chiamato o kur o Terra, la quale ultima però è stata appena presa in carico da Enlil. Poiché manca un nesso tra questi eventi e il resto del poema, è difficile dire che cosa succeda a Ereshkigal; la sola cosa certa è la separazione fra cielo e Terra, non provocata da nessuno degli dèi nominati. An ed Enlil si appropriano rispettivamente del cielo e della Terra dopo un'interruzione di un rigo che si riferisce alla fama (o al seme) dell'umanità; il testo prosegue con il dio Enki che parte per un viaggio in barca diretto al kur (dove dovrebbe trovarsi Ereshkigal, la quale però non compare più nella storia), cosa che conduce a ulteriori sviluppi della narrazione. Va notato che in questo testo la sequenza degli eventi è stranamente invertita: la vita umana, comprese le invenzioni dell'uomo, esiste già quando il cielo e la Terra si separano.

La separazione di cielo e Terra appare anche all'inizio di un altro testo, che risale alla prima metà del II millennio (Heidel 1951, pp. 68-71), nel quale si narra che le grandi divinità hanno stabilito le regole per il cielo e la Terra, e creato i fiumi. Il testo prosegue col racconto della creazione dell'umanità, simile a quello contenuto in altre opere: era necessario assassinare alcune divinità affinché il genere umano potesse crescere dal loro sangue (v. cap. XVI, par. 1).

Nell'introduzione di un testo letterario intitolato Inno alla zappa (Bottéro 1992, pp. 541-542) si parla della separazione del cielo dalla Terra a opera di Enlil; in seguito Enlil crea la zappa per spaccare il suolo e depone nella cavità il seme dell'uomo che inizia a germogliare dalla terra: l'umanità così creata è organizzata e data agli dèi per il loro sostentamento (v. cap. XVI, par. 1).

Nel prologo della Tenzone tra l'albero e la canna (van Dijk 1964, pp. 44-57) si parla della nascita dei due contendenti: il cielo (An) e la Terra (Ki), che si adornano per celebrare il loro matrimonio. Il cielo feconda la Terra con i semi dell'albero e della canna; questi semi germogliano allora dalla Terra e si diffonde la vegetazione, al cui interno nasce la rivalità tra albero e canna.

La Tenzone tra la pecora e il grano (Alster 1987) racconta di An che genera gli dèi Anunna sulla "montagna del cielo e della Terra". Il grano e la pecora non esistono ancora, e nemmeno le due divinità loro preposte, Ashnan e Lakhar; pertanto gli uomini non conoscono ancora né il pane né i vestiti, si cibano di erba come le pecore e bevono l'acqua dei fossi (v. cap. XVI, par. 1). Gli dèi creano allora la pecora e il grano nella loro dimora, il "santo [o puro] colle" (du6-kù), e ne godono i frutti. Ma la loro fame non riesce a placarsi, Enki ed Enlil allora fanno scendere pecora e grano sulla Terra affinché anche gli uomini possano usufruirne: pecora e grano si moltiplicheranno e gli dèi saranno saziati dalle offerte abbondanti che gli uomini faranno loro.

Nelle introduzioni cosmologiche ai testi letterari non è mai affrontato il tema degli Inferi, ossia del regno della morte, definito come la 'terra del non ritorno'; le idee sugli Inferi non sono necessariamente concordanti fra di loro e per la maggior parte si trovano nel poema La discesa di Inanna agli Inferi (Bottéro 1992, pp. 287-308), mentre in accadico esiste il racconto Nergal ed Ereshkigal (Bottéro 1992, pp. 465-494). In entrambi questi miti l'accesso agli Inferi avviene attraverso una serie di porte e i visitatori al momento di entrare devono spogliarsi dei loro ornamenti e delle loro insegne, in modo tale che, una volta dentro, non abbiano più alcun segno di potere; soltanto i messaggeri possono entrare e uscire liberamente. Stranamente, in questi testi si presta poca attenzione alla struttura e alla creazione degli Inferi (questi sembrano essere concepiti come una città).

Gli studiosi moderni hanno scritto molto sul kur: alcuni di essi ritengono che rappresenti tutto l'Universo, all'interno del quale il mondo terrestre si sviluppa come l'ultimo stadio della cosmogonia. Kur è invisibile e contiene tutto ciò che non dipende dalla realtà sensibile: diverse generazioni di dèi, tutto ciò che esiste ma non è ancora apparso e tutto ciò che, dopo essere esistito sulla Terra, è stato portato via dalla morte o dalla distruzione. Nel corso della cosmogonia, il kur è suddiviso sempre più e a un certo punto appaiono gli dèi: all'inizio esiste solo il kur primordiale, personificato come kur-gal, chiamato anche Enlil. Il cielo e la Terra si separano ed Enlil si appropria della Terra e conquista la carica più alta, con o senza il consenso di An. An ed Enlil sono gli dèi che hanno concepito ogni cosa, mentre la creazione vera e propria avviene grazie ai loro discendenti, gli altri dèi; il ruolo preponderante di Enlil può dipendere dal fatto che è più vicino al mondo materiale di quanto lo sia An, che risiede in cielo; tuttavia, le due divinità collaborano sia nella creazione sia nella distruzione. Nello stadio successivo della cosmogonia, kur è diviso in due parti, una delle quali contiene tutte le cose morte, mentre l'altra è la fonte della vita; nello stesso tempo, appaiono molte divinità, che hanno poteri limitati in quanto non possono violare le leggi stabilite da An ed Enlil e non possono esercitare la loro influenza su quella parte di kur alla quale non appartengono. Un'ulteriore differenziazione conduce a dèi e demoni minori e infine all'apparizione della Terra come habitat del genere umano; tutti questi stadi dello sviluppo cosmico coesistono e ciascuna nuova creatura, sebbene sia stata concepita da An ed Enlil, apparirà nel mondo materiale soltanto grazie all'intervento di alcune specifiche divinità.

Nei testi mesopotamici si presta minore attenzione alla struttura del Cosmo rispetto alle genealogie degli dèi, pertanto, oltre ai testi 'letterari', anche le liste di divinità riflettono concezioni cosmologiche. Sono organizzate in base ad alcuni principî: nel caso delle prime sezioni il principio guida sembra essere quello cronologico. In particolare, da un punto di vista cosmologico, sono interessanti le genealogie di An ed Enlil (v. cap. III, par. 1). Quella di Enlil, il più potente degli dèi sumerici, risale a una coppia divina: Enki-Ninki, letteralmente "signore Terra" e "signora Terra" (questo Enki non è l'Enki più noto, il dio di Eridu). Questa genealogia è citata per la prima volta in testi della metà del III millennio e riappare in molte liste di divinità, dove, fra Enlil e i suoi antenati Enki-Ninki, è elencata una sequenza di coppie divine, il cui numero varia da due a venti, cosa che dimostra che neppure gli antichi studiosi avevano certezze a questo riguardo. Nelle genealogie più tarde di Enlil l'ultima coppia prima di Enlil e Ninlil è formata da Enmesharra e Ninmesharra; la precedenza di Enmesharra rispetto a Enlil è testimoniata anche da varie osservazioni contenute in formule magiche che descrivono Enmesharra come il padre degli dèi. An, il dio del cielo, è l'unico dio oltre a Enlil ad avere una serie di antenati. La sua genealogia è presentata in due modi diversi: una comprende tre coppie (Duri-Dari, Lakhmu-Lakhamu e Alala-Belili), l'altra è composta da una linea di nomi singoli (Nammu, Urash, Enuruulla e Anshargal). Ovviamente tali liste non concordano con i miti che descrivono An come il primo tra tutti gli dèi.

I testi accadici

Atram-ḫasīs (Bottéro 1992, pp. 560-600) è un poema in cui è descritta una storia della creazione dell'umanità simile a quella narrata in Enūma eliš, un poema di cui si parlerà poco oltre e del quale è chiaramente antecedente (prima metà del II millennio).

Le modalità della creazione dell'uomo saranno esaminate nei prossimi capitoli (v. cap. XVI, par. 1); qui interessa notare il contesto cosmologico del racconto: il mondo è tripartito tra la Terra, in cui vive il dio Enlil, il cielo, in cui vive il dio Anu, e la falda acquifera sotterranea, in cui vive il dio Enki/Ea. Le divinità sono divise in dèi maggiori, o Anunna, e dèi minori, o Igigi; questi ultimi originariamente 'fanno da uomini', lavorando duramente, e l'uomo è creato proprio per sollevare gli dèi minori dalla fatica quotidiana. Dopo la creazione dell'uomo, a seguito del continuo moltiplicarsi e rumoreggiare del genere umano, Enlil scatena una serie di flagelli, quali pestilenza, carestia, siccità, ma l'umanità è sempre salvata dal rischio di estinzione per intervento di Enki.

Alla fine, l'assemblea degli dèi decide di eliminare il genere umano con un'inondazione e costringe Enki a giurare di non avvisare gli uomini della catastrofe imminente, ma il dio la comunica rivolgendosi a una capanna di giunchi dove per puro caso si trova Atram-ḫasīs, al quale consiglia di costruire una nave. Dopo una lunga descrizione dell'inondazione e dei suoi terribili effetti (e dopo un'interruzione nel testo), si legge che Atram-ḫasīs sbarca non appena riappare la terraferma e offre subito sacrifici agli dèi. Dopo un lungo periodo senza provvigioni, essi si rallegrano delle offerte ed esprimono lamentele nei confronti di Enlil, considerato il principale responsabile dell'inondazione; riunitisi in assemblea gli dèi decidono che una catastrofe simile non dovrà più verificarsi, poiché l'inondazione li ha privati di quelli che lavorano per loro e fanno le offerte; tuttavia, per arginare la crescita dell'umanità sono adottati provvedimenti di contenimento, quali le malattie.

L'argomento principale del poema Enūma eliš (Bottéro 1992, pp. 640-722) è l'innalzamento di Marduk alla suprema posizione all'interno del pantheon babilonese (v. cap. III, par. 1). La narrazione parte dalle origini. All'inizio c'erano solo Apsû (l'acqua che si ritiene giacere sotto la Terra) e Tiamat (il Mare); gli dèi nacquero dal confondersi di queste acque e, a partire dalla loro nascita, si successero diverse generazioni di divinità, ciascuna più potente della precedente. La prima coppia generata da Apsû e Tiamat è Lakhmu e Lakhamu, seguita poi da Anshar e Kishar, ai quali segue Anu, l'unico della sua generazione a essere nominato; in Enūma eliš, il discendente di Anu è Ea, più potente del padre e del nonno. Il rumore causato dagli dèi più giovani disturba la coppia primordiale e Apsû decide di distruggere la sua progenie, contro il parere di Tiamat che preferirebbe pazientare; Ea, membro della generazione più giovane, capisce l'intenzione di Apsû e lo uccide. Dopo questa vittoria, Ea fa di Apsû, l'acqua sotto la Terra, la propria dimora e lì nasce Marduk, il figlio di Ea. Ma la morte di Apsû non risolve il problema del rumore degli dèi più giovani, poiché ora anche Tiamat è infastidita; altri dèi, che non sono nominati, le ricordano il destino di Apsû e la incitano a vendicarsi. Tiamat crea allora un esercito di terribili mostri al cui comando pone il dio Qingu e si prepara ad attaccare gli dèi più giovani; Anshar manda diversi dèi all'attacco, ma essi indietreggiano terrorizzati ancora prima che la battaglia abbia inizio. In questa situazione disperata, Marduk si offre di combattere contro Tiamat, a patto che gli dèi gli concedano il potere supremo; la proposta è accettata durante un banchetto e, nella battaglia che segue, Marduk sconfigge Tiamat, la uccide e imprigiona i suoi seguaci.

Il dio riorganizza allora l'Universo; divide in due Tiamat (che a questo punto nel testo è immaginata non soltanto come acqua, ma anche come un mostro simile a un drago a quattro zampe) e con una delle due metà costruisce il cielo; una sentinella è messa a sorvegliare che le acque di Tiamat non fluiscano via. Il cielo è fatto corrispondere ad Apsû, le acque sotterranee. Allora Marduk crea una replica di Apsû, che chiama Esharra e che pone sotto il cielo; questi tre regni sono affidati rispettivamente agli dèi Anu (cielo), Enlil (Esharra) ed Ea (Apsû).

Mentre l'associazione di Anu con il cielo e di Ea con Apsû è più che nota, nell'antica cosmologia il regno di Enlil era la Terra. Tuttavia in Enūma eliš la Terra doveva diventare il regno di Marduk; perciò ci voleva un nuovo domicilio per Enlil; a questo punto si configurano due livelli in cielo, con un terzo presente sotto gli altri due. È in quest'ultimo, anche se non è detto esplicitamente, che si verificano i fenomeni celesti ordinati in seguito da Marduk: per prima cosa, le stelle sono messe al loro posto e a ciascuno dei 12 mesi dell'anno sono assegnate tre costellazioni; la stella di Marduk, Nēberu (Giove), deve comandare tutte le stelle e alle due estremità del cielo sono poste due porte da cui le stelle entrano ed escono quando sorgono e tramontano. È poi stabilito che il mese sia regolato dal crescere e calare della Luna. Dopo aver ordinato il cielo, Marduk si occupa della Terra, la quale è creata sopra l'Apsû utilizzando le restanti membra di Tiamat: i fiumi Tigri ed Eufrate scorrono attraverso i suoi occhi, mentre la coda è utilizzata come una corda per tenere il cielo e la Terra saldi al loro posto. Al centro dell'Universo, sulla Terra, Marduk stabilisce la sua residenza, che chiama Babilonia, dove tutte le divinità, sia quelle celesti sia quelle delle profondità dell'Apsû, si riuniscono in assemblea.

Un altro testo con narrazioni mitologiche (Livingstone 1989, p. 100) descrive un modello di Universo composto da tre livelli di cielo e tre livelli di Terra. Variando leggermente rispetto a Enūma eliš, questo testo pone Anu nel cielo superiore e Bel (cioè Marduk) nel cielo di mezzo, mentre in entrambe le regioni risiedono anche gli dèi Igigi; nel cielo inferiore si trovano invece le stelle disegnate da Marduk: ciascuno dei tre cieli è fatto di tre diverse pietre preziose. Marduk fa vivere gli uomini sulla parte più alta della Terra; nella Terra di mezzo pone il padre Ea e in quella più bassa gli dèi Anunnaki, considerati gli dèi degli Inferi. Lo stesso modello dei tre cieli, quello superiore che appartiene ad Anu, quello di mezzo agli dèi Igigi e quello più in basso alle stelle, compare anche in una raccolta di nozioni astrologiche del VII sec. a.C., il momento di massima espansione dell'Impero assiro.

Esistono diverse introduzioni cosmologiche, tra le quali il prologo del poema Marduk, creatore del mondo (Bottéro 1992, pp. 528-532). Sebbene questo testo sia bilingue (sumerico e accadico), non vi può essere dubbio sul fatto che la sua compilazione non risalga ai tempi dei Sumeri, poiché un ruolo così importante di Marduk può essere presente soltanto in testi successivi alla seconda metà del II millennio. L'origine del mondo è qui descritta come risalente al tempo in cui non c'erano case, né città, né templi, né alberi o canne: "L'intero territorio non era che mare! Quando il contenuto di questo mare non formava ancora che un fossato [?]" (Bottéro 1992, p. 529). A quel tempo furono create le città di Eridu e Babilonia con i loro templi e furono creati gli dèi Anunna, probabilmente da Marduk; questi, inoltre, insieme alla dea Aruru creò il genere umano e, in seguito, i fiumi Tigri ed Eufrate, nonché piante e animali, molti dei quali sono elencati nel testo.

Nell'introduzione alla grande raccolta dei presagi celesti (Enūma Anu Enlil; v. cap. IV, par. 2) si attribuisce l'istituzione del ciclo lunare che denota il mese agli dèi Anu, Enlil ed Ea, i quali lo concepirono assieme al piano generale dell'Universo; in proposito si afferma che la Luna emerge dalla "profondità del cielo", come il Sole al mattino.

Un rito che si celebrava prima di avviare una costruzione inizia con un breve riferimento ai tempi antichi: "quando Anu ebbe creato il cielo, quando Nudimmud [=Ea] ebbe creato Apsû, la sua dimora, Ea trasse dall'Apsû una zolla d'argilla" (Bottéro 1992, p. 519); subito dopo si fa riferimento alla creazione degli dèi minori, che sovrintendevano ai mestieri e ai materiali da costruzione. Nel rito sono chiaramente evocati soltanto quegli aspetti della creazione pertinenti allo scopo del testo.

In una raccolta di incantesimi contro i demoni malvagi Utukku (v. cap. IV, par. 4) è presentato quello che si potrebbe chiamare 'il mito dell'eclissi'; in esso si narra di sette demoni che circondano la Luna, probabilmente mandati da Anu (Labat 1970, pp. 138-140); Enlil si consiglia con Ea sul pericolo e insieme decidono di garantire l'ordine del cielo mettendovi a guardia Sin, Shamash e Ishtar. Enlil ordina che i tre dèi, insieme ad Anu, si dividano il comando del cielo e siano presenti giorno e notte; in un'azione offensiva, i demoni spingono Shamash e Adad da una parte e circondano la Luna. È detto esplicitamente che Ishtar abita con Anu e si occupa del comando del cielo, ma non si capisce se ciò significa che Anu abbia deliberatamente inviato i demoni e che Ishtar stia dalla sua parte per acquisire un potere maggiore. Enlil vede l'eclissi lunare ma non interviene personalmente; manda, invece, un messaggero da Ea, il quale solitamente conosce la soluzione di ogni problema. Ea chiama immediatamente suo figlio Marduk e gli spiega la situazione della Luna. Purtroppo il testo s'interrompe a questo punto: l'unico dato sicuro è che Marduk va in aiuto della Luna. Il rituale che segue aveva lo scopo di proteggere il re, in chiara analogia con l'intervento di Marduk in soccorso della Luna. Secondo un rituale del periodo seleucide, questo testo era recitato per allontanare gli influssi negativi delle eclissi lunari.

Riferimenti cosmologici in altre tipologie di testi

Le formule magiche raccontano spesso l'origine della creatura che sta nuocendo all'uomo, risalendo nel tempo fino all'origine del Cosmo. Questo ci fornisce una serie di allusioni al passato; in un testo, per esempio, si legge: "Anu fecondò il cielo, il cielo diede alla luce la Terra, la Terra diede alla luce il fetore"; da quest'ultimo si sviluppa poi un verme considerato responsabile della cecità, la cui origine è così fatta risalire all'inizio della vita. Questa genealogia è poi seguita da una formula magica per far allontanare il verme. Nelle formule magiche si trovano spesso simili catene di discendenza: "Quando Anu ebbe creato il cielo, quando il cielo ebbe creato la Terra, quando la Terra ebbe creato i fiumi"; un'altra formula magica inizia con "quando il cielo e la Terra si unirono in matrimonio", ma questo è tutto.

C'è un passaggio di grande interesse in una formula magica usata per preparare una statua divina: "[cielo] nacque di propria iniziativa, Terra nacque di propria iniziativa; cielo era abisso, Terra era abisso" (Lambert 1980-83, p. 219). La parola tradotta con 'abisso' è nagbu, che può significare la 'sorgente' o l''acqua sotterranea' considerata l'origine delle sorgenti.

Il componimento tardo Il poema di Erra (forse del IX o dell'VIII sec.) contiene i seguenti versi: "Anum, re degli dèi, fecondò la Terra: essa partorì sette dèi ed egli li chiamò Sibitti" (Cagni 1969, p. 61). Il testo prosegue illustrando le imprese di questi sette dèi. Le righe prese in esame potrebbero essere una citazione tratta da un mito sconosciuto, visto che in questo testo il titolo 're degli dèi' è normalmente riferito solo a Marduk.

Nella storia di Etana (Saporetti 1990) questo antico re è portato verso il cielo da un'aquila; insieme raggiungono il "cielo di Anu" e passano attraverso le "porte di Anu, Enlil ed Ea", cioè le principali porte del cielo, dove mostrano il loro rispetto agli dèi. Purtroppo qui il testo è illeggibile, per cui non si sa che cosa sia capitato a Etana in cielo. In un altro frammento è descritta una seconda ascesa, o la continuazione della prima, nella quale però Etana si spaventa per l'altezza (non riesce più a vedere la terra e il mare) e chiede all'aquila di riportarlo sulla Terra.

Del periodo neobabilonese abbiamo una mappa del mondo (Horowitz 1988, pp. 147-165; v. cap. XVI), accompagnata da un testo che in parte è una descrizione di alcune aree presenti nella mappa. Un continente centrale di forma circolare include i regni di Babilonia, Assiria e Urartu; sono citati diversi nomi di città e di luoghi, tra i quali spicca quello di Babilonia. Le distanze tra le varie zone di questo continente e le dimensioni delle città sono molto fuori scala; il continente è circondato da un fiume, che scorre in tondo, chiamato marratu, parola usata per indicare il mare. Fuori da questo oceano, ci sono diverse zone triangolari chiamate nagû, 'distretto'; il testo annesso descrive otto di questi distretti, ma è molto lacunoso.

Altre informazioni sulle concezioni del Cosmo possono essere desunte dal lessico: per esempio, l'espressione ṣerret šamê 'il guinzaglio dei cieli' sembra far intendere che i cieli fossero tenuti al loro posto da corde. In genere l'Universo è caratterizzato da parole che significano 'legame': alla città di Babilonia è attribuito l'epiteto markas šamê u erṣeti 'centro/legame del cielo e della Terra'; nella lingua comune la parola markasu significa 'corda', 'legame', ma è in seguito utilizzata anche con il significato di 'centro' perché l'idea originale è quella di un 'nodo' che tiene insieme varie parti.

Le espressioni che si riferiscono alle parti di un sistema di chiusura mettono in evidenza l'idea che la 'costruzione' del cielo dovesse includere elementi simili a porte e serrature, forse per evitare le inondazioni (come in Enūma eliš, quando si parla di una sentinella a guardia delle acque del cielo) o per impedire l'accesso agli spiriti degli Inferi. Esiste anche un frammento che fa riferimento agli dèi riuniti in assemblea mentre elaborano la geometria dei cieli e "fanno quadrare" qualcosa, ma il contesto è illeggibile (Lambert 1980-83, p. 222).

Il concetto di 'sfere celesti', a noi così familiare, non sembra trovare antecedenti nel pensiero mesopotamico. Un testo che si sarebbe potuto riferire alle 'sfere celesti' è risultato essere un esercizio aritmetico che non illustrava alcun principio cosmologico. Nel mito Nergal ed Ereshkigal si parla di una 'scala' che porta al cielo usata dagli dèi e dai loro messaggeri.

In diversi testi babilonesi è descritto il Sole mentre ogni sera apre una porta a ovest per entrare "all'interno del cielo" e ogni mattina esce da un'altra porta a est. Questa parte interna del cielo sembra concepita al disotto della Terra, dove il dio Sole rimaneva durante la notte. Secondo alcune fonti, sembra che il dio Sole dopo il tramonto si spenga come si spegne un fuoco, per riaccendersi di nuovo quando sorge al mattino, proprio come la brace ritorna fiamma quando si soffia su di essa (Heimpel 1986, pp. 131-151).

Cosmologia e cosmogonia hittita

di Alfonso Archi

Nella cultura hittita s'intrecciano e coesistono concezioni diverse, alcune delle quali si formarono quando gli Hittiti, nei primi secoli del II millennio, si sovrapposero alla popolazione hattica che occupava l'altopiano anatolico, mentre altre derivarono più tardi dagli Hurriti stanziati nell'Anatolia sudorientale.

La divinità principale è la dea Sole, che prende il predicato di Arinna dal centro dove era situato il suo maggiore santuario, in hattico Eshtan, mentre Wurunzimu, 'madre [?] della Terra', ne era l'epiteto. Questo culto di una grande dea Madre affonda le sue origini almeno nell'età calcolitica. La dea Sole di Arinna è "la signora di tutti i paesi, la regina del cielo e della Terra", che "attribuisce la regalità al re e alla regina" (Götze 1957, pp. 136-138). In una visione della regalità che trae il suo fondamento da una concezione teocratica, il re ha per padre il dio della Tempesta, la maggiore divinità maschile, e per madre la dea Sole, la quale gli consegna il paese su cui eserciterà il proprio dominio; per questo il re è definito 'Labarna', titolo che esprime l'esercizio della regalità nel paese hittita.

Una società patriarcale come quella hittita portò poi ad attribuire al dio della Tempesta, signore dei fenomeni atmosferici e sposo della dea Sole nell'elaborazione teologica, competenze che secondo le concezioni hattiche erano di quest'ultima. Ecco dunque come è formulata un'invocazione antico-hittita a quel dio: "Il paese [appartiene] al dio della Tempesta; il cielo e la Terra, le genti [appartengono] al dio della Tempesta, ed egli fece il Labarna, il re, governatore; e a lui diede tutto il paese di Khattusha [=la capitale hittita]" (Archi 1979, pp. 31-32).

Se dunque la regalità è al centro dell'Universo perché trasmessa direttamente dalla maggiore divinità, gli Hittiti non formularono però mai una loro narrazione che desse conto del Cosmo e della natura del genere umano, ma recepirono invece quella hurrita, formalizzata in poemi che gli Hittiti tradussero tali e quali nella loro lingua. L'originaria concezione hittita è così espressa in un rituale in cui il mandante dell'azione magica colloca la propria situazione esistenziale in un contesto cosmico:

Quando gli dèi presero possesso del cielo e della Terra, essi si separarono, e gli dèi Superiori presero il cielo, gli dèi Inferiori presero la Terra e gli Inferi. Ognuno si prese quanto era di sua spettanza. Tu dunque, o Fiume, hai preso l'azione purificante, insieme alla capacità di far vivere la prole e di procreare. Chi dunque [...] allora viene da te, o Fiume, dalle Parche e dalle dee Madri che formarono l'uomo. (Otten 1970, pp. 32-33)

L'essere umano è stato dunque modellato (il termine è quello usato per indicare l'opera di un artigiano) con la rena del fiume dalle dee Madri, che infatti ricevono l'epiteto di 'divinità della riva del fiume', e le Parche, chiamate Gulshesh, fissavano (gulš- 'incidere') il destino di ciascun individuo. Secondo la concezione hattica (recepita dagli Hittiti), le dee del fato, Ishtushtaya e Papaya, filavano invece gli anni nascoste nella foresta sulle rive del mare, cioè ai margini dell'Universo.

La topografia degli Inferi resta oscura. Cavità naturali ne costituivano l'entrata; nelle sue profondità si trovavano fiumi e nove mari. Il dio della Tempesta di Nerik, che vi si era rifugiato abbandonando gli uomini, è invocato "dal mare e dai flutti del profondo, dalle nove rive del profondo" (Haas 1976, pp. 198-199). Calderoni di bronzo racchiudevano quanto di sfavorevole era prodotto sulla Terra, e coperchi di piombo ne impedivano l'uscita. Il regno dei morti, che l'anima del defunto raggiungeva percorrendo "una strada invisibile", era un luogo di afflizione, dove "i fratelli e le sorelle non si riconoscevano, i figli non riconoscevano la loro madre" (Hoffner 1988, p. 192). È incerto se questa concezione sia autoctona o abbia origini mesopotamiche. Il re, per sé, invoca: "Lasciami [andare] al mio destino divino, agli dèi del cielo, e liberami dagli spiriti dei morti"; egli aveva accesso a una sorta di Campi Elisi ("quando tu andrai nei prati"), dove avrebbe condotto una vita di sapore primigenio, coltivando la propria terra (Haas 1976, pp. 210-211). A una visone escatologica si allude in un rituale: "quando gli antichi re [forse gli dèi primigeni] ritorneranno e ispezioneranno il paese e le sue leggi" (Rost 1953, p. 367).

Un ciclo di cinque 'canti' che gli Hurriti composero in ambiente siriano, e la cui traduzione hittita dovrebbe risalire al XV sec., offre una spiegazione del Cosmo derivata per alcuni aspetti da concezioni sumero-accadiche recepite quando gli Hurriti vennero in contatto con quella cultura, a partire dal XXI secolo. La teogonia è contenuta nel Canto di Kumarbi (Pecchioli Daddi 1990, pp. 115-131), che si apre con un'invocazione agli dèi primigeni (i cui nomi sumerici sono talvolta storpiati), come per invitarli a essere testimoni della vicenda. Alalu, il più antico re degli dèi, è spodestato dopo nove anni di regno dal suo coppiere Anu (il dio del cielo sumero-accadico), e si rifugia "giù nella nera terra", cioè nel Tartaro. Anu, a sua volta, dopo nove anni è spodestato dal suo coppiere Kumarbi e fugge in cielo (cielo e Terra, le due parti del Cosmo, trovano così una loro definizione). Kumarbi ('il padre degli dèi' hurrita), nell'inseguirlo, gli addenta i testicoli; allora "la virilità di Anu si unì alle viscere di Kumarbi" ingravidandolo di 'dèi terribili', il primo dei quali, Teshup, il dio della Tempesta, era destinato a spodestarlo. Nello sputare lo sperma di Anu, Kumarbi crea una montagna. Il difficile parto è pilotato da Marduk (il grande dio babilonese) e da Ea (in sumerico Enki), il dio della saggezza sumero-accadico. Il primogenito, KA.ZAL, è fatto uscire dal cranio di Kumarbi, spezzato con una pietra. Teshup è addestrato dal padre, che gli impone diverse imprese; quando pensa di essere diventato sufficientemente forte, si rivolta contro il padre detronizzandolo (quest'ultima sezione è mancante). Alcuni nomi divini, l'idea di generazioni di dèi che si susseguono e la forma letteraria sono mesopotamici; hurriti sono invece i due dèi che si contendono a lungo la regalità.

La teomachia si sviluppa nei canti seguenti, dove Teshup deve far fronte ai terribili rivali scatenatigli contro da Kumarbi. Nel Canto di LAMMA, assai frammentario (Hoffner 1990, pp. 46-47), questo dio riesce a far precipitare Teshup dal cielo, sottraendogli le redini e la frusta con il quale egli guidava il suo carro di battaglia. LAMMA diviene così re in cielo, ma si mette contro gli dèi primigeni non permettendo agli uomini di fare offerte alle divinità. Ea, in un colloquio con Kumarbi, decide di abbandonare il dio che essi avevano fatto re e Teshup riesce infine a sopraffare LAMMA.

Dal Canto di Argento, in cattive condizioni (Hoffner 1990, pp. 48-50), si evince solo che quest'altro figlio di Kumarbi sopravanzava per molti aspetti tutti gli altri dèi. Teshup deve battersi contro il nuovo rivale, riuscendo a vincerlo dopo avere subito, anche questa volta, un primo scacco.

Nel Canto di Khedammu (Pecchioli Daddi 1990, pp. 131-142), il protagonista è un drago, Khedammu appunto, che abita nell'acqua ed è il frutto dell'unione di Kumarbi con la figlia del Mare; dotato di tale voracità da portare alla rovina i paesi consumandone tutti i prodotti, costringe gli uomini ad abbandonare le loro città, privando così gli dèi delle loro offerte. È la dea Ishtar/Shaushka che si assume il compito di neutralizzare il mostro cercando di sedurlo con l'esibizione delle sue grazie. Nella parte finale (mancante), Khedammu, così soggiogato (ma sarebbe bastato un sorso di bevanda alcolica per ammansirlo), deve essere stato sconfitto da Teshup.

Nel Canto di Ullikummi, il più completo (Pecchioli Daddi 1990, pp. 142-162), Kumarbi, per distruggere Teshup, crea un mostro che sembra non avere debolezze. Lo fa nascere da una roccia da lui resa gravida e gli dà il nome programmatico di Ullikummi, cioè 'distruttore di Kumme' (la città sacra a Teshup). Kumarbi lo nasconde nella 'nera terra', cioè negli Inferi, perché il Sole e la Luna non lo vedano e Teshup non lo uccida. Là egli è deposto sulla spalla destra di Upelluri, il gigante che sorregge il cielo e la Terra (similmente, sulle spalle di Atlante si ergeva una colonna che sosteneva il cielo). Il rilievo n. 28-29 del santuario di Yazilikaya raffigura invece due tori androcefali che, poggiati sul simbolo della Terra, reggono il cielo, mentre nel rilievo E 2 di Ain Dara tra i due tori compare anche un dio della montagna. Ullikummi si sviluppa con una velocità prodigiosa e prende la forma di un pilastro di diorite che, sorgendo dal mare, raggiunge con la testa il cielo. Ancora una volta Ishtar ricorre alle sue arti di seduzione, ma il mostro è cieco e sordo. Teshup si decide infine a dargli battaglia con l'aiuto di 70 dèi, ma è sconfitto. La via d'uscita è escogitata da Ea, che si fa portare dagli dèi primigeni il coltello di selce col quale in illo tempore il cielo fu separato dalla Terra (un motivo di origine sumerica) e taglia la roccia alla base. Nella parte finale (mancante) Teshup deve infine riuscire ad annientare il mostro, restituendo al Cosmo il suo ordine definitivo.

Agli inizi del I millennio diversi elementi della teogonia hurrita furono trasmessi ai Greci, verosimilmente attraverso contatti con gli Stati neohittiti della Cilicia e della Siria settentrionale.

Cosmologia e cosmogonia cananaica e biblica

di Paolo Xella

Le più antiche tradizioni religiose dell'area cananaica, cioè siro-palestinese, sono rappresentate dai testi mitologici e rituali scoperti a Ugarit (Ras Shamra), sulla costa siriana, databili come redazione all'età del Tardo Bronzo (XIV-XII sec.), ma di fatto risalenti, quanto a contenuti, a molti secoli prima.

Questa ricca documentazione non ci ha trasmesso direttamente narrazioni sull'origine e sulla struttura del mondo, che pure dovettero esistere in forma orale, probabilmente con lievi varianti locali attribuibili alle specifiche tradizioni dei vari centri. Quel poco che abbiamo consiste in brevi allusioni nei testi mitologici o in indizi indiretti: anche se non è possibile ricostruire su queste basi un'organica e coerente cosmogonia, siamo nondimeno in grado di farci un'idea delle concezioni cosmologiche di quella cultura, all'elaborazione delle quali concorsero le speculazioni dei sacerdoti dei vari templi esistenti, depositari delle più antiche tradizioni religiose.

Molteplici indizi suggeriscono, innanzitutto, che le funzioni di creatore della Terra e del genere umano fossero concordemente attribuite, a Ugarit come in tutta l'area siro-palestinese, a una stessa figura divina: si tratta del dio El, l'anziano e autorevole capo del pantheon locale, progenitore di tutte le altre divinità, concepite insieme alla sua sposa, la dea Athirat (in ugaritico ῾aṯrt). El riceve nei testi epiteti inequivocabili quali "padre dell'uomo" e "creatore delle creature", e un episodio mitico in cui il dio dà vita, modellando dell'argilla, a una creatura demoniaca dai poteri guaritori potrebbe indicarci come sarebbe avvenuta la creazione dell'uomo.

Secondo quanto è possibile dedurre in via indiretta, El sembra avere creato anche l'Universo nella sua struttura fondamentale, senza tuttavia conferirgli un assetto definitivo: un compito che, nella mitologia di Ugarit, è svolto da Baal (b῾l), dio giovane e combattente, vero instauratore dell'ordine cosmico. I testi conservano, infatti, l'eco di teomachie primordiali combattute da Baal e da sua sorella, la dea Anat (῾nt), contro creature caotiche vinte e domate. È proprio Anat ad alludere, in un passo del cosiddetto Ciclo di Baal, alle precedenti lotte vittoriose nei seguenti termini:

Quale nemico si è levato contro Baal?/ Ho già abbattuto l'amato di El, Yam,/ ho già annientato Nahar, dio delle grandi acque!/ Ho già messo la mordacchia a Tannin, ho serrato la sua bocca!/ Ho già abbattuto il serpente tortuoso,/ Shaliyat dalle sette teste!/ Ho abbattuto l'amato di El, Arish!/ Ho distrutto il vitello divino, Atik!/ Ho abbattuto la cagna divina, Ishat!/ Ho annientato la figlia di El, Dhabib!/ Mi battei per l'argento, mi impossessai dell'oro! (Keilalphabetischen Texte aus Ugarit, 1.3, III, 37-47)

In seguito a queste lotte primordiali il Cosmo dovette assumere una conformazione tripartita, essere cioè suddiviso in tre domini, ciascuno posto sotto la sovranità di un dio: Baal è appunto il signore di quanto esiste tra cielo e Terra, Yam (ym 'Mare') regna sulle acque sotterranee e su quelle che scorrono sulla superficie terrestre, mare e fiumi, e Mot (mt 'Morte') è il signore delle profondità terrestri, dove è situato anche il regno dei morti. Come esito di tali grandiose teomachie, narrate nei miti giunti fino a noi, Baal assurge a effettivo sovrano del mondo, ruolo sancito ufficialmente dalla proclamazione di El, anche se gli altri due avversari, per quanto a lui subordinati, conservano poteri e prerogative sui rispettivi domini.

Il "dio creatore"

La tradizione di un dio di nome El recante l'epiteto fisso di "creatore [del cielo e] della Terra" non è limitata a Ugarit, ma risulta diffusa anche in epoche posteriori nelle documentazioni fenicia e aramaica, con echi persino nell'Antico Testamento, dove il dio El-Elyon (᾽Ēl-῾elyôn) venerato da Melchisedek (Genesi, 14, 19-22) è detto appunto 'creatore di cielo e Terra'. Nell'Anatolia hittita, gli archivi di Khattusha hanno infatti conservato il mito di un dio detto Elkunersha (il teonimo è un calco dal semitico ῾l qn ῾rṣ e significa 'El creatore della Terra'), che va senz'altro identificato con l'El dei testi ugaritici. Ritroviamo poi questa figura alla fine dell'VIII sec. a Karatepe (Cilicia) in un'iscrizione fenicia, in una formula di maledizione che menziona, tra gli dèi, Baal Shamem (b῾l šmm), "signore del cielo" e Shamash-Olam (šmš ῾lm), cioè il "Sole nel suo eterno moto intorno alla Terra" (Kanaanäische und aramäische Inschriften, 26 A, II, 18-19). Molto più tardi, nel II sec. a.C., un'iscrizione punica di Leptis Magna ricorda la dedica di un'esedra e di un portico a "El creatore della Terra" (Kanaanäische und aramäische Inschriften, 129).

Le tracce dell'antico dio creatore si seguono anche in ambito tardoaramaico: a Palmira è menzionato in alcune tessere; un'iscrizione bilingue reca una dedica in cui egli è detto "il dio buono", cui corrisponde in greco Poseidon; ad Hatra il dio principale, Baal Shamen (b῾l šmyn), è chiamato "creatore della Terra" (Kanaanäische und aramäische Inschriften, 244); infine, a Baalbek-Eliopoli un'iscrizione greca e una latina menzionano un Konnaros, trasparente adattamento del teonimo semitico (Inscriptions grecques et latines de la Syrie, VI, 2743 e 2841).

Siamo evidentemente di fronte a varie manifestazioni locali di El, antico dio creatore, venerato concordemente con tali prerogative nel mondo semitico-occidentale, la cui figura contribuì a influenzare notevolmente la personalità e le funzioni di Yahweh quali ci sono presentate dal testo biblico.

Le fonti greche del I millennio

Se la documentazione diretta finora presa in considerazione pone limiti precisi al tentativo di ricostruire una cosmologia siro-palestinese, un contributo importante ci viene, almeno per il I millennio, da alcuni testi in greco che, in misura diversa, riflettono concezioni attribuite ai Fenici e che, al contempo, si avvicinano notevolmente alla speculazione dei filosofi presocratici sui medesimi temi. Tali documenti dovevano in parte riallacciarsi alle tradizioni cananaiche anteriori, ma appaiono al tempo stesso impregnati di concezioni filosofiche varie (quali l'evemerismo); essi sono giunti fino a noi attraverso una complicata tradizione manoscritta e filtrati da varie ideologie, sicché resta un problema aperto stabilire in qual misura siano da considerarsi attendibili come fonti sulla cultura fenicia.

L'autore che più di altri contribuisce a informarci sulla cosmogonia dei Fenici è Erennio Filone di Biblo (64-141 ca.), erudito e grammatico citato da Eusebio di Cesarea (265 ca.-340 o 341), che avrebbe scritto una Storia fenicia ispirandosi a un sacerdote di Biblo, tale Sanchuniaton, vissuto ai tempi di Mosè; questo sacerdote, a sua volta, avrebbe attinto le sue informazioni dall'egiziano Thautos, mitico inventore della scrittura, restituendo alle antiche tradizioni la loro 'purezza' originaria, prossima all'evemerismo di Filone. Ecco il passo più rilevante ai nostri fini:

Come principio di tutte le cose egli [Filone] suppone aria oscura e ventosa o un soffio di aria oscura e un Caos tenebroso e torbido: tutto ciò sarebbe stato indefinito e per lungo tempo non avrebbe avuto limite. Ma quando ‒ così egli dice ‒ il vento si affezionò ai suoi propri elementi, allora si verificò una mescolanza e questa combinazione fu chiamata Desiderio [Póthos]; essa fu il principio della creazione di tutte le cose. Esso stesso in sé [il vento] non conosceva la sua creazione e dalla combinazione di esso, del vento, sorse Mot: questo alcuni chiamano fango, altri invece la putrefazione della mescolanza dell'acqua; e da essa prese origine ogni seme della creazione e la formazione di tutte le cose. V'erano alcuni esseri che non avevano coscienza, da essi nacquero esseri intelligenti e furono chiamati Zofesamim, cioè contemplatori o guardiani del cielo. E [Mot] fu foggiato a forma d'uovo e risplendeva come il Sole, la Luna, gli astri e le grandi costellazioni […]. Quando l'aria divenne luminosa si formarono, a causa del calore ardente del mare e della terra, venti e nuvole e grandissimi rovesci e precipitazioni di acque dal cielo. E quando esse [le acque celesti], a causa della vampa del Sole, si separarono dal loro proprio luogo, allora tutto di nuovo tornò nell'aria ed esse [le nuvole] si trovarono insieme. Allora si formarono lampi e tuoni e al fragore dei tuoni si destarono gli esseri intelligenti prima menzionati e si spaventarono per il frastuono e si mosse sulla terra e sul mare il maschio e la femmina. Queste cose sono state trovate scritte nella cosmogonia di Thautos e nei suoi scritti, raccolte dalle deduzioni e dalle testimonianze che egli vide e su cui esercitò la sua riflessione; e le trovò e le comunicò a noi. (Eusebio, Preparatio Evangelica, I, 10, 1-5)

L'origine dell'Universo non è dovuta a un atto divino, ma è descritta nei termini di un processo fisico-chimico in cui, prima ancora delle lotte cosmogoniche, agiscono vari elementi, la cui unione è indotta da Póthos, il Desiderio, che è il vero principio generatore. Nasce quindi Mot, il limo o la putrefazione, in cui risiede il principio creativo di tutte le cose, concepito in forma di uovo.

Lo stesso Desiderio-Póthos appare in un'altra cosmogonia fenicia tramandata da Damascio (V-VI sec. d.C.) e attribuita a Mocho, scrittore fenicio vissuto prima della guerra di Troia. Qui entra in scena un demiurgo-creatore, Oulomos (il tempo infinito), nato dalla coppia primordiale Etere-Aria, che genera poi l'uovo cosmico e il dio artigiano Chusoros (Kothar), che apre l'uovo ciascuna metà del quale forma il cielo e la Terra:

Nella mitologia dei Fenici di Mocho troviamo che Etere (Aithḗr) e Aria (Aḗr) erano i primi principî e generarono Oulomos, il dio intellegibile, a quanto reputo, il massimo stesso dell'intellegibile. Essi ritengono poi che tale dio, da solo, abbia generato anzitutto Chusoros, il primo 'apritore', e poi l'uovo, al quale io penso che essi estendano la ragione intellegibile. Quanto all''apritore' Chusoros, egli è la potenza intellegibile per il fatto che questa potenza per prima distingue la Natura indistinta; a meno che, dopo i due principî, essi non pongano in cima Anemos, l'uno, e al centro i due venti Lips e Notos, poiché mi sembra che essi ritengano questi tre antecedenti a Oulomos. Oulomos sarebbe allora la ragione intellegibile, mentre l''apritore' Chusoros sarebbe il primo ordine dopo l'intellegibile; l'uovo invece sarebbe il cielo. Dicono infatti che dall'uovo aperto in due sono sorti Uranos e Ge, entrambi parte delle dicotomie. (Damascio, De principiis, 125 C)

Il filosofo peripatetico Eudemo di Rodi, discepolo di Aristotele, riferisce da parte sua una cosmologia di Sidone, secondo cui all'origine di tutte le cose vi sarebbero Tempo (Krónos), Desiderio (Póthos) e Oscurità (Homíchlē). Dall'unione di questi ultimi due nascono Aria (Aḗr) e Brezza (Aúra), anch'essi generatori del principio della razionalità (Damascio, De principiis, 125 C; versi 257, 265-266, 270). Aria rappresenterebbe la purezza senza mescolanza dell'intellegibile, Brezza la prima forma vitale dell'intellegibile, il cui movimento è impresso da Aria. Da queste ultime due nasce Otos, che secondo Damascio sarebbe la ragione intellegibile.

Macrobio, vissuto nel IV-V sec., riferisce, infine, che i Fenici ritengono l'immagine del serpente che si morde la coda un simbolo del mondo che si nutre della sua stessa sostanza e si avvolge su sé stesso (Saturnalia, I, 9, 12); del resto anche il già citato Filone di Biblo parla di serpenti in chiave cosmogonica (Eusebio, Preparatio Evangelica, I, 10, 45; 53).

Resta da aggiungere che Damascio, a cui dobbiamo la trasmissione di molte informazioni e teorie, sottolinea come il Kronos fenicio (in cui va riconosciuto certamente l'antico El creatore) non abbia propriamente creato il mondo, ma sia garante dell'ordine cosmico e vada ritenuto pertanto un vero e proprio demiurgo (Damascio, De principiis, 270).

Se è indubbio che questo complesso di informazioni rifletta in buona misura la tradizione cosmogonica semitica dell'area cananaica del I millennio, non priva di continuità con quanto ci è noto delle epoche precedenti, si deve anche ammetterne il carattere composito di sintesi semitico-greca con aggiunta di elementi desunti dalla religione egizia, come l'idea dell'uovo primordiale caratteristica della cosmogonia ermopolitana.

Le narrazioni cosmologiche nell'Antico Testamento

L'Antico Testamento non contiene descrizioni cosmologiche esplicite, tuttavia vi sono allusioni a varie concezioni sulle origini e la conformazione dell'Universo; esse si basano sull'elaborazione di dati visuali e forniscono una sintesi 'prescientifica' volta a descrivere la struttura del mondo in termini congeniali alla cultura ebraica. Si accennerà, di seguito, alle origini dell'Universo quali risultano nella Genesi e alle concezioni intorno alla sua struttura desumibili da accenni sparsi in varie parti del testo biblico.

L'Universo e l'uomo sono comunque il prodotto dell'opera creatrice di Yahweh, la cui azione è descritta nella Bibbia con termini che s'ispirano spesso all'attività produttiva umana nella vita quotidiana ("fabbricare", "modellare", "generare", "conferire fondamento", ecc.).

Esistono, come è noto, due racconti biblici della Creazione: il primo è ascritto alla redazione detta sacerdotale (P) ed è narrato in Genesi, 1-2, 4; il secondo, in Genesi, 2, 4-25, è attribuito alla redazione yahvista (J), che elabora a sua volta altre fonti minori. La visione, i propositi e lo stile stesso delle due narrazioni sono profondamente diversi.

Il primo racconto (P) pone l'uomo al centro della Creazione, ma adotta uno schema articolato in fasi successive e dominato dall'esigenza liturgica di dare un fondamento mitico al riposo del sabato, nel settimo giorno. Si tratta di una progressione che parte con la creazione della luce; quindi il cielo s'interpone tra acque superiori e inferiori; queste ultime si riuniscono a formare i mari e appare così la terraferma, con la nascita dei vegetali; è poi la volta degli astri nel firmamento; seguono le specie animali, dapprima pesci e volatili, poi gli animali terrestri, per giungere infine alla coppia umana primordiale. È un processo in crescendo dalle forme inferiori di vita fino a quella più elevata, l'uomo, creato a immagine e somiglianza della divinità. L'uomo è sì la più alta creatura di Dio, ma in mezzo alle altre creature, e Dio, che preesiste alla sua opera e continuerà a esistere dopo di essa, manifesta una trascendenza assoluta.

Del tutto diversa l'ottica e i propositi del secondo racconto (J), che ha molti punti di contatto con le tradizioni cosmogoniche di area mesopotamica. La narrazione, in cui Dio prevalentemente agisce e non parla, possiede uno stile più semplice, immediato e popolare ed è caratterizzata da una prospettiva antropocentrica dominante. Dio crea la Terra e il cielo, quindi l'uomo; seguono poi la produzione delle piante (che sono assegnate come cibo all'uomo), la creazione degli animali e degli uccelli (i pesci sono omessi), l'imposizione del nome all'uomo e la creazione della donna.

Il narratore non è interessato tanto alla precisa successione delle varie fasi, al punto che non vi è alcuna allusione alle modalità di apparizione del cielo e della Terra: tutti gli eventi e il quadro che ne risulta costituiscono lo scenario in cui si colloca la vicenda umana, col proposito evidente di ribadire che Dio e lui soltanto ha concepito e organizzato il tutto.

Se con questi due racconti (ma si veda anche il Salmo 104, probabile adattamento di antiche tradizioni cananaiche, in cui con linguaggio simbolico si esprime il rapporto tra il creatore e la sua opera, e ancora Proverbi, 8, 22-31, in cui parla la Sapienza che allude alla Creazione) abbiamo a che fare con narrazioni descrittive, altri passi biblici ci consentono di dedurre in parte come era concepita la struttura del Cosmo creato da Dio.

Dal punto di vista terminologico, è da ricordare come il termine greco kósmos sia usato dalla Settanta per rendere un concetto molto diverso, cioè quello di 'esercito celeste', in riferimento agli astri, ovvero di 'splendore', 'ornamento' (salvo che nei testi deuterocanonici, dove è utilizzato col significato di 'Universo'). Il termine ebraico tebel significa in qualche caso 'Universo', ma il suo significato fondamentale è quello di 'terraferma', prevalentemente in opposizione alla distesa delle acque. Il termine ῾ōlām indica infine un tempo indefinitamente lungo, e solo nell'ebraico postbiblico indicherà l'Universo. Il mondo è designato altrimenti dall'espressione "cielo e Terra", che del resto costituiscono i poli di una dialettica ideologica fondamentale.

Molti indizi testuali suggeriscono che la Terra era concepita talora come un grande disco (per es., Isaia, 40, 22), talora invece come un quadrato piatto (con quattro punti cardinali: Ezechiele, 7, 2) che giace sulle acque dell'abisso primordiale ed è coperto dalla volta celeste, al di sopra della quale vi sono le acque superiori. Qui è anche la riserva della pioggia e dei venti, della neve e della grandine (Geremia, 10, 13; Giobbe, 38, 16-33, ecc.). Fissati nella volta celeste si trovano i due grandi luminari, Sole e Luna, e un insieme numerosissimo di astri più piccoli, le stelle; il cielo è anche la dimora di Yahweh. Agli estremi limiti della Terra, cielo e superficie solida sono in contatto attraverso i rispettivi pilastri che fungono da impalcatura per il tutto.

Nelle profondità della Terra si trova il dominio dei morti, lo Sheol (šĕ ᾽ôl), e la Bibbia menziona spesso le porte attraverso cui vi si accede (Giobbe, 38, 17; Salmi 9, 18; 107, 18; ecc.); in generale, questo dominio è presentato come inerte e privo di vita e di attività; esso ospita anche le acque dolci e amare, queste ultime provenienti dall'abisso primordiale (Genesi, 6, 11).

Visto in un'altra prospettiva, l'Universo ha tuttavia, al tempo stesso, anche una struttura concentrica in senso orizzontale, al cui centro si trova il giardino dell'Eden con, nel mezzo, l'albero della vita, e da cui sgorgano i quattro fiumi che provvedono a irrigare la terra: Pishon, Gihon, Tigri ed Eufrate (Genesi, 2, 10-14). Il centro della Terra può essere anche, di volta in volta, Israele, o Gerusalemme, o la rocca di Sion, secondo la ben nota ideologia dell'axis mundi.

Tralasciando qui altri spunti e allusioni, si può concludere che l'Universo è, nella concezione biblica, un sistema coerente creato da Dio, che tuttavia ha dovuto ordinare alcune forze caotiche, personalizzate come divinità in altre cosmogonie politeistiche, ma qui demitizzate in entità anonime. Per esempio, l'abisso primordiale, tĕhôm, menzionato nella Genesi, non è che un elemento inerte, e non un caos attivo e personalizzato come Tiamat in Mesopotamia o Yam a Ugarit. Secondo le varie tradizioni confluite nella Genesi, il processo della creazione è descritto sin dall'inizio come una costruzione e non come un combattimento, anche se dietro la menzione delle lotte sostenute da Dio contro Tehom, Rahab, Leviathan e altri innominati demoni (Giobbe, 3, 8; Isaia 27, 1 ecc.) si intravede una tradizione di teomachie primordiali.

Cosmografia e uranografia iranica

di Antonio Panaino

Del ricchissimo patrimonio letterario dell'Iran antico ci sono giunte solo due differenti tradizioni: una per via epigrafica, rappresentata dalle monumentali iscrizioni dei sovrani achemenidi; l'altra attraverso una travagliata tradizione manoscritta costituita dall'Avesta, il libro sacro degli zoroastriani. In particolare, le nostre conoscenze sulla cultura astrale provengono soprattutto dalla letteratura avestica, che, dato il carattere strettamente religioso, non ha tramandato concetti e informazioni astronomiche. Inoltre, più di due terzi dell'Avesta sasanide sono andati perduti nei secoli successivi all'invasione arabo-islamica dell'Iran, e tra i libri (Nask) dispersi vi è anche il Naxtar, forse di argomento astronomico-astrologico. Sulla base del materiale disponibile e grazie alle fonti posteriori è comunque possibile offrire una sintesi abbastanza articolata della cultura astrale antico-iranica, anche se con maggior enfasi per i tratti uranografici e mitologici, piuttosto che per l'esposizione di vere e proprie nozioni tecnico-scientifiche. D'altro canto, sembra opportuno precisare che i testi avestici non rivelano alcuna dottrina propriamente astrologica, quanto piuttosto l'esistenza di culti astrali dedicati ai luminari e alle stelle. Tale venerazione quindi non assume mai la rilevanza propria di una religione astrale, ma resta incardinata nell'assetto teologico della tradizione zoroastriana, ovvero pienamente subordinata al culto della divinità suprema, Ahura Mazdā.

Non si dispone di una precisa descrizione del modello cosmografico iranico, ma è assai improbabile che questo fosse sferico. I testi fanno riferimento per la Terra a una suddivisione in sette continenti (Karšvar, Kišvar in pahlavico), uno dei quali, Xvaniraθa, al centro e gli altri intorno. Nel continente centrale si trova il mitico mare Vourukaṣ̌a, nel mezzo del quale si levano, come axis mundi, il monte Harā o Haraitī bǝrǝz/bǝrǝzaitī, e la sua vetta, Taēra, intorno alla quale ruotano tutti gli astri. Tale modello cosmografico è simile a quello indiano dei sette dvīpa (grandi porzioni circolari in cui è divisa la Terra). Il cielo a sua volta è ripartito in sezioni o strati, che però possono variare a secondadei testi (e quindi delle epoche). Antica e per certi aspetti paragonabile ad alcune tradizioni di origine mesopotamica, risulta la suddivisione della volta celeste in tre cieli sovrapposti: nell'ordine, partendo dal basso verso l'alto, quello delle stelle, della Luna e del Sole. In cima si trovano le "luci senza fine" e il paradiso di Ahura Mazdā. Tale ordine è riproposto nell'inno avestico a Rašnu, con una moltiplicazione del cielo delle stelle, che risulta suddiviso in sette ulteriori sezioni. Nello Hādōxt Nask è aggiunto anche il livello delle nubi, ovvero dell'atmosfera; questo è presente anche nei testi della tradizione medioiranica, quali il Bundahišn, ove il cielo è ormai ripartito in sfere, secondo un modello di derivazione greca. L'ordine stelle-Luna-Sole della tradizione iranica è assurdo sul piano astronomico, ma non è affatto sconosciuto in altre tradizioni: per esempio, nei testi babilonesi che espongono la dottrina dei tre cieli, ciascuno fatto di una pietra differente, il cielo inferiore è quello delle stelle. Il modello iranico, probabilmente debitore sotto questo aspetto nei confronti di concezioni mesopotamiche, potrebbe a sua volta aver influenzato la descrizione del Cosmo che troviamo nei frammenti del presocratico Anassimandro di Mileto, ma anche di Metrodoro di Chio (IV sec.) e di Cratete (IV-III sec.), ove rispettivamente Sole-Luna-stelle sono posti in ordine di distanza dalla Terra. L'insistenza delle fonti avestiche sulla suddivisione triadica del cielo merita di essere confrontata con quella vedica, ove l'Universo può essere distinto sia in due mondi (cielo e Terra), sia in tre (cielo, atmosfera e Terra); quest'ultima suddivisione è però soggetta a un'ulteriore ripartizione triadica, in cui appaiono tre cieli (trí rocană), tre atmosfere e tre Terre.

Tav. I

Secondo la tradizione religiosa zoroastriana, il Sole (huuar/ xvar-), la Luna (māh-) e le stelle (star-) sono esseri divini, oggetti di venerazione ai quali è dedicata anche una letteratura di tipo liturgico-sacrale. A parte vari riferimenti sparsi in tutta la letteratura zoroastriana, alcuni inni avestici sono dedicati specificamente al Sole, alla Luna e alla stella Sirio, il dio Tištrya (Tištar in pahlavico) (Tav. I). I due testi relativi al Sole e alla Luna sono molto brevi e non contengono particolari informazioni, fatta eccezione, nel caso della Luna, per il riferimento al fatto che essa per 15 giorni cresce e per 15 giorni decresce, nonché per l'indicazione delle sue fasi: aṇtarǝmāha- (luna nuova, lett. 'che è tra le lune'; cfr. il latino interlunium), pǝrǝnō.māha (luna piena) e vīšaptaθα- (lett. 'il 7° intervenente', da collegare al 'quarto di luna' con riferimento all'8° e al 23° giorno del calendario).

Molto più importante è l'inno alla stella Sirio, che appartiene ai cosiddetti Grandi Yašt, una serie di inni facenti parte dell'Avesta (Panaino 1990, 1995). Insieme a Sirio, ossia Tištrya, sono menzionate e venerate altre stelle e costellazioni: Tištryaēinī (Cane Minore), Paoiryaēinī (Pleiadi), Upapaoirya (Aldebaran), Haptōiriṇga (Orsa Maggiore), Vanaṇt (Vega), Satavaēsa (Fomalhaut). L'identificazione di queste stelle è abbastanza sicura, grazie sia alle informazioni evinte dalla letteratura astrale in pahlavico, sia alle versioni in arabo di testi astronomico-astrologici mediopersiani, alcune delle quali preservate addirittura in traduzioni latine posteriori. Il Liber Aristotilis, compendio astrologico composto da Hugo Sanctallensis nel XII secolo, che ingloba una versione araba di Māšā᾽ Allāh di un'opera in pahlavico, non solo preserva la terminologia iranica nei nomi di alcune stelle, ma ne precisa l'identità astronomica. Dal libro III di tale traduzione medievale risulterebbe infatti che la stella Sanduol (resa latina di un'imprecisa trascrizione araba del pahlavi sadwēs, a sua volta derivato dall'avestico satauuaēsa-) non sarebbe altri che Fomalhaut, α Piscis Austrini. Il nome di questa stella risulta peraltro attestato nell'onomastica persepolitana (v. elamico šá-da-mi-šá, cioè *satavaisa-, probabilmente forma meda). Anche alla stella Vega, Vanaṇt, è dedicato un breve inno, che però non appare particolarmente significativo se paragonato con il Tištar Yašt.

Sirio è considerata il capo dell'armata stellare e impersona il ruolo del liberatore delle acque, tema mitologico ben noto in ambito indoiranico. Tištrya, infatti, dopo aver modificato per tre volte il suo aspetto assumendo per 10 giorni il corpo di un fanciullo quindicenne (età della maturità virile e sociale), per altri 10 quello di un toro dalle corna d'oro e per gli ultimi 10 giorni del mese la foggia di un cavallo bianco dalla criniera e dai finimenti d'oro, si lancia contro il demone Apaoša che, nell'aspetto di un orripilante cavallo nero, impedisce alle acque del mare Vourukaṣ̌a di fluire verso le terre degli Ari. Dopo una prima battaglia durata tre giorni e tre notti, Tištrya, sconfitto, si deve allontanare dal mare Vourukaṣ̌a. Sirio invoca quindi l'aiuto del dio supremo, Ahura Mazdā, il quale celebra un sacrificio che rafforza il suo campione. A questo punto Tištrya può aggredire nuovamente il demone Apaoša e, dopo una battaglia dalla durata imprecisata, allontanarlo dal mare Vourukaṣ̌a; successivamente, aiutato da Satavaēsa, distribuisce tra le regioni degli Ari i nembi che si sono finalmente levati dal mare.

Per comprendere le concezioni astronomiche che fanno da sfondo a tale mito è però necessario prendere in considerazione un'ulteriore narrazione contenuta nel Tištar Yašt. In questo inno, ma altresì in tutta la letteratura avestica, non sembra attestato alcun riferimento ai pianeti, fatta eccezione, forse, per Tīriya (dio del pianeta Mercurio e protettore degli scribi, adorato nell'Iran achemenide). Si hanno però numerosi indizi dai quali si evince che l'esistenza dei pianeti doveva essere già nota perlomeno nell'Iran occidentale, attraverso la mediazione babilonese. Le stelle cadenti e le comete svolgono invece un ruolo di primo piano nella tradizione mitologica. A capo dell'armata delle stelle cadenti ‒ chiamate pairikā ('streghe') o stārō kǝrǝmå ('stelle verme') ‒ si trova, secondo il Tištar Yašt, la Pairikā Dužyāiryā (la 'Strega dalla cattiva annata'), diretta antagonista di Tištrya; anche in questo caso, però, il dio della stella Sirio riuscirà a sconfiggere tali forze al servizio dello spirito maligno Ahriman, e a ristabilire l'ordine celeste. Le stelle cadenti sono scagliate nel cielo da Angra Mainyu, nome avestico di Ahriman, con l'esplicito fine di sconvolgere l'ordine delle stelle fisse e recare la siccità; il duello tra forze del bene e del male, assiale nell'ambito del dualismo zoroastriano, è così riproposto sul piano astrale, secondo una concezione teologica che ‒ individuata nell'armonioso movimento (apparente) delle stelle fisse una manifestazione dell'ordine cosmico (aṣ̌a) ‒ attribuisce una valenza demoniaca al moto disordinato delle stelle cadenti e di tutti i corpi astrali dall'orbita imprevedibile. Una spiegazione astronomica del mito risulta a questo punto possibile: le tre mutazioni di Tištrya prima di affrontare Apaoša corrispondono al mese del levare eliaco di Sirio (che avveniva precisamente il 17 giugno dall'800 a.C. ca. fino all'inizio dell'era volgare), periodo in cui i territori iranici sono arsi dalla canicola; mentre i due duelli, l'ultimo dei quali di una durata imprecisata, servono a rappresentare lo spazio temporale necessario per il ritorno delle piogge settembrine. A questo primo aspetto, solo parzialmente astralizzato nel mito, giacché Apaoša non è apparentemente identificabile con alcun corpo celeste, se ne aggiunge un altro che connette la siccità con l'alta frequenza estiva di stelle cadenti. Il duplice trionfo di Tištrya su Apaoša e sulla Pairikā Dužyāiryā simbolizza dunque la vittoria delle forze di Ahura Mazdā sulla siccità portata dal maligno Angra Mainyu. In epoca sasanide, grazie soprattutto alle concezioni astronomiche più avanzate e all'apporto delle dottrine astrologiche di origine ellenistica, il duello tra stelle fisse e stelle cadenti sarà riproposto nell'antagonismo tra stelle fisse e pianeti. Questi ultimi, talvolta chiamati parīgān (ovvero Pairikā), saranno considerati responsabili degli influssi malefici e collocati dalla parte delle forze del male, anche a causa del loro moto retrogrado e quindi irregolare rispetto alla presunta armonia delle stelle fisse. Nei testi avestici si menziona un'altra Pairikā, detta Mūš (topo) che compare anche nei testi pahlavi come Mūš Parīg, ove è indicata come dumbōmand, ovvero 'caudata': da un confronto con altre tradizioni antiche, per esempio quella araba, ove le comete sono indicate come 'stelle caudate', dobbiamo supporre che si trattasse di una cometa.

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