VIBO VALENTIA

Enciclopedia Italiana (1937)

VIBO VALENTIA (A. T., 27-28-29)

Giuseppe ISNARDI
Giulio GIANNELLI
Nicola NICOLINI

VALENTIA Città della Calabria in provincia di Catanzaro, centro principale della fertile e popolosa zona di altipiano del Poro Vibonese (v. poro). Il nome attuale fu sostituito il 4 gennaio 1928 a quello normanno-svevo di Monteleone (Calabro). È situata a 556 m. s. m. sul versante O. dell'orlo, rilevato verso la vallata del Mesima, dell'altipiano, e il suo abitato, ad ampia gradinata di vie che dal castello normanno scendono ai quartieri più bassi e pianeggianti, deve l'attuale aspetto alla ricostruzione avvenuta pressoché per intero dopo i terremoti del febbraio e del marzo 1783 e a quella parziale dopo il terremoto dell'8 settembre 1905. L'attraversa in direzione N.-S. l'ampio corso Vibonese, che a N. termina nella grande Chiesa Madre di San Leo Luca ed è fiancheggiato a NO. nel suo ultimo tratto, dal bel giardino pubblico già detto l'orto del Duca. Vibo Valentia è l'emporio principale della zona agricola del Poro, specialmente per grani, olî, vini, ortaggi, bozzoli, ecc., con mercati domenicali risalenti al sec. XVI e assai frequentati; vi persiste pure una notevole tradizione artigiana, assai antica (fabbriche di carri, di attrezzi agricoli, ferri battuti, terraglie, ecc., nei quartieri bassi). Vanta una lunga tradizione di studî, è ora sede di molti istituti medî. Ha tribunale, comando di distretto militare e di reggimento; data la sua importanza strategica vi è in costruzione un importante aeroporto. Vibo Valentia ha pure notevole importanza monumentale. Nelle vicinanze del castello, conservante tracce di architettura normanna e sveva, è parte della cinta delle mura della acropoli di Hipponium, messe in luce nel 1921 per circa 500 m. da Paolo Orsi, che ritrovò pure la base di un tempio dorico arcaico nella localita Telegrafo Vecchio, a NE. della città, e resti di un tempio ionico nella località Cofino; resti di terme e di un teatro romano sono stati pure rintracciati. Oltre la Chiesa Madre di S. Leo Luca, costruita fra i secoli XVII e il XVIII sulle rovine di una più antica chiesa dedicata a Santa Maria Maggiore o "ad Nives", cui era unito un convento basiliano, si notano la chiesa di San Michele, del sec. XVi, con la facciata e fianco sinistro su disegno attribuito a Baldassarre Peruzzi e campanile del secolo XVII, in parte demolito, la chiesa di S. Giuseppe (fine del sec. XVII) dell'architetto P. Grimaldi da Oppido Mamertina, la chiesa di Santa Ruba, a S. dell'abitato, diruta, del sec. XV, forse su costruzione più antica, e altre: tutte ricche di sculture marmoree (trittico di A. Gaggini in San Leo Luca, ecc.), intagli lignei del Rinascimento e barocchi, ecc. Notevole pure la ricchezza di tele, di scuola napoletana, dei secoli dal XVI al XVIII, e di scuola locale ispirata specialmente a Pietro da Cortona e a Luca Giordano. Varie raccolte private, fra le quali spicca il museo Capialbi, recentemente aperto agli studiosi, hanno insigni ricchezze di materiale archeologico e storico. Vibo Valentia superava nel sec. XVII, in numero di fuochi e in popolazione la stessa Catanzaro e contava, con i suoi numerosi casali, alla metà del sec. XVIII, circa 8000 ab., saliti a 10.262 nel 1861 (di cui circa 8000 nella città), a 11.840 nel 1881, a 12.997 nel 1901, a 13.066 nel 1911, a 13.842 nel 1921, a 15.651 nel 1931, di cui 10.650 nella città e il rimanente nelle 9 frazioni (piccoli centri, v. poro) fra le quali la più importante è Vibo Valentia Marina o Porto Santa Venere (ab. 650 nel 1931), dove è un porto artificiale iniziato dai Borboni e in massima parte costruito e successivamente ampliato dopo il 1860, il cui movimento è in incremento. Del resto il porto di Vibo fu base navale importante nelle guerre civili al tempo di Cesare e dei triumviri, come, più tardi, durante le invasioni barbariche. A Vibo Valentia Marina sono pure la stazione della ferrovia Napoli-Reggio e quella della complementare che in 15 km. raggiunge la città e di lì Mileto.

Storia. - Vibo Valentia (Vibo Valentia, gr. ‛Ιππώνιον) fu colonia greca della Magna Grecia, fondata sulla costa tirrena del Bruzio probabilmente verso la fine del sec. VII a. C., dai Locresi di Locri Epizefirî. Il luogo dove sorse l'antica città (a nord-est della città attuale), era già probabilmente sede di un abitato bruzio, come indica la forma antica del nome di Ipponio, Veiponion, testimoniata dalle monete e dal tardo ricomparire del nome indigeno Vibo, come anche dal nome del porto sottostante alla città (Bivona). È anche probabile che la colonia locrese sia stata preceduta, sul posto, da qualche stabilimento dei Calcidesi di Zancle e di Reggio.

Delle vicende più antiche di Ipponio sappiamo pochissimo: soltanto nel sec. IV cominciano le sue monete. Nel 422 a. C. si guastarono i rapporti fra Ipponiati e Locresi. La città che, grazie alla protezione dei tiranni di Siracusa, si era assai sviluppata e ben fortificata, vinse Locri e se ne rese completamente indipendente. Più tardi, appunto in odio a Locri, che era ora alleata a Dionisio di Siracusa, partecipò, insieme con le altre città della lega italiota, alla battaglia dell'Elleporo contro il tiranno (389 a. C.). Dopo la vittoria di Dionisio, la città fu smantellata, il territorio ceduto ai Locresi, la maggior parte della popolazione trasportata a Siracusa. Dieci anni più tardi, i Cartaginesi, in guerra con Siracusa, ricondussero in patria gl'Ipponiati, aiutandoli a ricostruire la loro città; la quale poi fu tra le prime ad essere attaccata dai Bruzî, che se ne impadronirono verso il 356 a. C. Da allora essa rimase in dominio dei Bruzî, salvo i brevi periodi di indipendenza apportatile dalle spedizioni di Alessandro d'Epiro (336-331 a. C.) e di Agatocle (294 a. C.). Dopo la spedizione di Pirro, pare sia rientrata nell'orbita di Locri (v.). Nel 236, secondo Velleio, o più verosimilmente nel 192, secondo Livio, i Romani vi dedussero una colonia di diritto latino, col nome di Valentia, cui si aggiunse quello indigeno di Vibo. Da allora la città, che dopo la guerra sociale divenne municipio romano governato da quattuorviri e iscritto nella tribù Emilia, salì in grande floridezza, di cui furono causa specialmente le estese foreste della Sila, il cui legname veniva esportato in grande copia, oltre ad alimentare gli attivissimi cantieri di costruzioni navali dei Vibonensi.

I Bizantini la rifortificarono con un campo trincerato; ma, devastata e pressoché distrutta dai Saraceni (850 e 983), la città decadde notevolmente, fino a perdere (1073) la sede vescovile, trasportata a Mileto. Per altro, l'importanza strategica del posto, riconosciuta da Ruggiero d'Altavilla, che vi elevò (1056-57) un castello (ampliato poi da Carlo II d'Angiò), indusse Federico II a riedificare, col nome di Monteleone, la città nuova, fondata (1235 circa), poco lungi dall'antica, da Matteo Marcofaba. Durante l'epoca angioina, vi dimorarono parecchie famiglie nobili, che vi costituirono un "sedile". Infeudata, in seguito, ai Caracciolo (1420) e poi ai Brancaccio, nel sec. XVII se ne impossessarono, in base a taluni privilegi falsi, i Pignatelli, dando origine a una celebre lite, non ancora decisa all'atto dell'abolizione della feudalità. La parte cospicua avuta da Monteleone durante la rivoluzione del 1799 e ai tempi di G. Murat, che ne fece, col capoluogo della provincia di Calabria Ultra, il quartier generale dell'esercito napoletano di Calabria, indusse i restaurati Borboni a trascurarla. Durante l'impresa garibaldina, Vibo seppe bene ostacolare le ultime operazioni militari borboniche contro Garibaldi, accolto poi trionfalmente il 27 agosto 1860.

Bibl.: V. Capialbi, Cenno sulle mura d'Ipponio, in Mem. dell'Inst. di corrisp. arch., I (1832), p. 159 segg.; D. Marincola-Pistoia, D'Ipponio, Catanzaro 1868; G. Giannelli, Culti e miti della Magna Grecia, Firenze 1924, p. 329 segg.; id., La Magna Grecia da Pitagora a Pirro, I, Milano 1928, passim; E. Ciaceri, Storia della Magna Grecia, I, 2ª ed., Città di Castello, 1928, p. 242 segg.; K. J. Beloch, Römische Geschichte, Berlino e Lipsia 1926, pp. 471, 500; C. F. Crispo, Di Hipponio e della Brettia, nel sec. V a. C., in Atti e Memorie della Soc. Magna Grecia, 1928; G. Säflund, The dating of ancient fortifications in southern Italy and Greece with spec. ref. to Hipponium, in Opuscula archaelogica (Acta Inst. Rom. R. Sueciae), I, ii, Lund 1935, p. 87 segg.; L. V. Bertarelli, Guida d'Italia del Touring Club Ital., III: Italia merid., Milano 1928, p. 672 segg.; Corpus Inscr. Lat., X, p. 7.

Di V. si occupa inoltre quasi tutta la storiografia calabrese, per la quale cfr. M. Mandalari, Biblioteca storico-topografica delle Calabrie, Messina 1928, passim, il quale cita anche le storie particolari (pp. 113-14, 283, 291). Cfr., inoltre, L. Giustiniani, Dizionario geografico ragionato del regno di Napoli, VI, pp. 87-92.