APPIA, Via

Enciclopedia dell' Arte Antica (1958)

APPIA, Via

G. Lugli

Fu detta dagli antichi regina viarum per lo splendore dei monumenti sepolcrali che ne ornavano i bordi, lungo quasi tutto il percorso, come ancora oggi si vede dalle rovine, e per la cura che le autorità avevano del suo mantenimento, dal quale dipendeva tutta l'organizzazione del traffico con l'Oriente. Fu costruita (Liv., ix, 29) nel 312 a. C., dal censore Appio Claudio il quale certamente rettificò una via più antica che da Roma conduceva ai colli Albani, poiché lo stesso Livio (vii, 39), parlando della rivolta dei soldati della Campania avvenuta 30 anni prima, dice che essi, nel marciare contro Roma, seguirono la "via che ora si chiama Appia" e probabilmente allora si chiamava Albana. Appio Claudio nei cinque anni della sua censura ebbe soltanto il tempo di tracciare il percorso della via da Roma a Capua con un piano battuto a massicciata, mentre la selciatura fu fatta più tardi e a tratti successivi; nel 258 per opera dei fratelli Ogulnî, che destinarono a questo scopo i beni confiscati agli usurai, fu pavimentato saxo quadrato, cioè con blocchi parallelepipedi di tufo, il primo miglio, dalla porta Capena al tempio di Marte; tre anni dopo furono pavimentate con blocchi poligonali di lava basaltina altre 9 o 10 miglia fino a Boville, e nel 191 fu probabilmente selciata con questo sistema tutta la via fino a Capua, cioè per 132 miglia.

Dopo che i Romani spinsero la loro colonizzazione fino a Benevento, cioè dopo il 268 a. C., la via Appia fu prolungata fino a toccare questa città e poi, verso il 190 a. C., fino a Venosa.

Non sappiamo quando furono costruiti i tratti fra Venosa e Taranto e fra Taranto e Brindisi, nella quale ultima città due alte colonne di cipollino, l'una ancora in piedi, l'altra conservata in parte, stanno ad indicare il limite estremo della via. Quest'ultimo tratto fu restaurato da Traiano, quando, per facilitare il viaggio da Benevento a Brindisi, costruì una nuova via, che da lui prese il nome di Traiana; questa divergeva dall'Appia a Benevento, e passando per Aecae (Troia), Herdoniae (Ordona), Canusium (Canosa), Rubi (Ruvo), Bituntum (Bitonto), Barium (Bari), Gnathia (Torre di Egnazia presso Fasano), raggiungeva direttamente Brindisi.

La vecchia via percorsa da Orazio per recarsi in Grecia ad accompagnare Mecenate, viaggio che egli descrisse così argutamente nella 5a satira del libro I, si serviva di una serie di strade secondarie per quasi 200 miglia passando per Aeclanum, Aquilonia, Venusia e Tarentum. Questa via nell'Impero fu quasi abbandonata, sebbene fosse più breve, e ciò spiega perché di essa si trovino soltanto poche tracce, consistenti soprattutto in vecchi ponti di pietra, più o meno diruti.

Traiano rettificò anche il percorso della via presso Terracina, tagliando uno sperone di roccia (il Pesco Montano) che impediva il passaggio lungo il mare e costringeva alla difficile salita di una montagna (saltus ad Lautulas) che divideva il versante campano da quello laziale ed era perciò considerata nella Repubblica come un punto strategico di primaria importanza.

La via aveva stazioni, cioè alberghi, per alloggio e cambio dei cavalli ogni otto o nove miglia nei luoghi più frequentati, ogni dieci o dodici nei luoghi meno popolati. Il cammino che si poteva fare in un giorno con un carro variava da 20 a 30 miglia, a seconda della facilità del tracciato e della presenza di centri importanti.

Le principali di queste stazioni che conosciamo dalla Tabula Peutingeriana e dall'Itinerarium Antonini sono le seguenti: Aricia (M. xvi) sui colli Albani, Forum Appii (M. xliii) nelle Paludi Pontine, dove cominciava il decennovio, cioè le fastidiose diciannove miglia, lungo le quali correva un canale che permetteva di andare oltreché per terra, per via di acqua, come andò Orazio, Tarracina (M. lxii) alla quale l'A. faceva da decumano, come anche alla stazione seguente, Fundi (M. lxxiv); quindi essa oltrepassava con ardite opere manufatte, cioè tagli, viadotti e sostruzioni, le montagne di Formiae (M. lxxxviii) e la costa tra questa città e Minturnae (M. xcvii); a Sinuessa lasciava il bordo del mare per entrare nel territorio campano, dove toccava Casilinum (M. cxxviii), Capua (M. cxxxi), Calatia (M. cxxviii) e Caudium (M. cliii).

I più bei sepolcri si trovano nel tratto suburbano fino ad Albano; oltre quello celebre di Cecilia Metella, si sono potuti identificare anche quello di Cotta (Casale Rotondo), quello dei figli di Sesto Pompeo, quello di Gallieno ed altri minori. Ad Albano la via attraversava la grande villa di Domiziano, in una parte della quale, al tempo di Settimio Severo, fu stabilito un accampamento militare con la permanenza della legione II Parthica per la difesa di Roma da Sud. Poco dopo Aricia, la via passava su di una sostruzione artificiale che si deve attribuire all'età dei Gracchi o, tutt'al più, a quella di Silla. Presso la stazione di Mesa sorge il grande sepolcro del gobbo Clesippo e di sua moglie Gegania; a Terracina la via compie l'aspra salita del monte sul cui vertice sorgeva il tempio di Iupiter Anxur; nella pianura di Fondi un altro grande sepolcro in forma di torre viene senza ragione attribuito a Galba. A Formia la via Appia si riuniva con la via costiera Severiana che proveniva da Ostia e che toccava Anzio, Astura, Circei, Terracina e Gaeta.

A Sinuessa l'Appia lasciava la costa e in sua vece si partiva una via, detta dal fondatore Domitiana, che per Literno, Cuma e Pozzuoli raggiungeva Napoli.

A Capua (Casilinum) l'Appia raccoglieva le comunicazioni di tre diverticoli provenienti da Literno, da Cuma e da Napoli e nello stesso tempo si riuniva con la via Latina, che terminava qui il suo percorso. Presso S. Maria Capua Vetere due sepolcri, detti volgarmente la Libra e la Conocchia, si fanno osservare per la loro singolare architettura. Dopo Capua le tracce della via, attraverso un terreno basso e terroso, divengono molto rare (si notino i due bei ponti detti Tufaro e Apollosa) e ancor più da Benevento (M. clxiv) a Taranto (M. cxxii), dove non è facile segnare il tracciato con esattezza, mentre del ramo traianeo restano alcuni ponti in opera laterizia, tra cui vanno particolarmente segnalati: il ponte dei Ladroni presso Casa Abbazia, il ponte delle Chianche su di un confluente del fosso Miscano, e il lungo viadotto a diciassette archi che attraversa la bassa valle del Cervaro.

A Benevento, cioè nel punto di biforcazione della vecchia Appia con la nuova, Traiano eresse quel magnifico arco, che ancora oggi resta a celebrare con i suoi rilievi le opere compiute da quell'imperatore in pace e in guerra (v. Benevento).

Bibl: F. M. Pratilli, Della via A. ... da Roma a Brindisi, Napoli 1745; L. Canina, La prima parte della A. dalla Porta Capena a Boville, voll. 2, Roma 1853; id., Edifizî di Roma antica e contorni, V-VI, Roma 1848, tav. i ss.; G. Angelini e A. Fea, I monumenti più insigni del Lazio, Roma 1828, parte ia, tav. i ss.; A. Meomartini, Della via A. da Benevento al ponte Appiano sul Calore, Benevento 1896; U. Leoni e G. Staderini, Sull'A. antica da Roma ad Albano, Roma 1906; Th. Ashby e R. Gardner, The via A. Traiana, in Papers of the British School at Rome, VIII, 1916, p. 104, ss.; G. Tomassetti, La Campagna Romana, II, Roma 1910, p. 3 ss.; Th. Ashby, The Roman Campagna, Londra 1927, p. 274 ss.; E. Desjardins, La table de Peutinger, Parigi 1869-74, p. 296 ss.