VETRO

Enciclopedia Italiana (1937)

VETRO (fr. verre; sp. vidrio; ted. Glas; ingl. glass)

Giorgio SANGIORGI
Filippo ROSSI
Arnaldo MAURI
Giovanni VACCA

Vetro, nel senso generico, è una materia anorganica, passata dalla fusione dei suoi componenti allo stato rigido amorfo (e, quindi, evitando la cristallizzazione). Nella pratica industriale si chiama vetro una miscela amorfa ottenuta per raffreddamento, attraverso progressive variazioni di viscosità fino a completa rigidezza, da fusioni ad altissima temperatura e costituita generalmente, in quanto ai componenti fondamentali e perciò nella sua più semplice composizione, dall'anidride silicica e da almeno due basi.

Secondo la sua composizione e il grado di fusione il vetro può essere opaco, translucido o trasparente; ialino o colorato. A freddo è durissimo e fragile, di forte caratteristica lucentezza; dilata solo leggermente al calore di cui è cattivo conduttore; rifrange in modo notevole i raggi luminosi; non si scioglie nelle liscive, nell'acqua e negli acidi anche se concentrati, eccettuato l'acido fluoridrico, pur cedendo loro in minima misura, e maggiormente a caldo, parti alcaline e acide della propria superficie: più all'acqua che agli acidi. Non brucia, non si lascia calcinare: sotto l'azione di forte calore passa attraverso varî stati di viscosità: all'incandescenza bianca è fluido, ma sempre coerente, sciropposo; alla rossa è molle, tenace, flessibile e pastoso: allora può essere formato o soffiato alla maniera delle bolle di sapone, colato e stampato, stirato in bacchette e fili sottilissimi; martellato, saldato. Durante la fusione si associa con ossidi e sali metallici che ne determinano le colorazioni. Un rapido raffreddamento a determinata viscosità e il conseguente accelerato irrigidire della pasta vitrea, frenano e arrestano le molecole nella loro tendenza alla disposizione cristallina, tendenza propria ai suoi componenti, di modo che il vetro risulta corpo amorfo ed è questa, come abbiamo visto, una sua qualità caratteristica, essenziale e necessaria: in caso contrario non si avrebbe vetro. E poiché amorfo, il vetro, in contrapposto ai corpi cristallizzati, non ha punto di solidificazione né punto di fusione netto, preciso a determinata temperatura: passa dallo stato solido a quello di fusione, e viceversa, in modo graduale, continuo, attraverso una serie di piccoli gradienti della viscosità al variare della temperatura, ma senza segnare un limite afferrabile tra l'uno e l'altro stato d'aggregazione. Tale fatto portò a considerare il vetro una soluzione solida o fluido sotto-raffreddato. Si comprende pertanto come "il passato calorico" del vetro (durata e intensità della fusione, durata e curva termica del raffreddamento, ricottura) abbia una notevole influenza sulle sue qualità fisiche e chimiche. Per effetto dell'impedita cristallizzazione il vetro è alla temperatura ordinaria sempre fuori d'equilibrio: nel suo interno permangono cioè tensioni molecolari che possono determinare la rottura spontanea dell'oggetto finito, ma che la tecnica, giudiziosamente proporzionando i componenti, nonché per adatto trattamento termico (lentissimo raffreddamento ed eventuale ricottura), può ridurre a limiti perfettamente accettabili nelle applicazioni della pratica.

Composizione del vetro. - Come si è detto, i componenti fondamentali del vetro sono l'anidride silicica e almeno due basi, delle quali l'una deve essere un alcali (ossido sodico o potassico) e l'altra un alcali terroso (ossido di calcio, di bario) oppure un ossido metallico pesante (di piombo, di zinco). Quando s'aggiunge che in alcuni vetri di determinate caratteristiche la silice può essere parzialmente sostituita dall'anidride borica, e che talvolta nelle composizioni intervengono l'allumina e l'ossido di magnesio, risultano citati i componenti principali delle qualità di vetri oggi usati nella scienza e nella tecnica, e precisamente: silice, anidride borica, allumina, gli ossidi di calcio, bario, piombo, zinco, magnesio, sodio e potassio. In relazione alle diverse combinazioni fra tali componenti il chimico forma - chiara e facilmente comprensibile - una classifica generale dei vetri e, sottacendo talvolta la silice, sempre presente, parla di vetro sodico-calcico (sistema SiO2, Na2O, CaO), potassico calcico (sistema SiO2, K2O, CaO), sodico-alluminoso-calcico (sistema SiO2, Al2O3, Na2O, CaO) e poi di borosilicati sodico-piombici (sistema SiO2, B2O3, Na2O, PbO), ecc. Della classifica sotto l'aspetto industriale si dirà in appresso. Componenti secondarî possono essere gli ossidi di quasi tutti gli elementi conosciuti e talvolta gli elementi come tali in formazioni colloidali: nel vetro generano effetti svariatissimi. Il gruppo più importante dei componenti secondarî è costituito dagli ossidi coloranti e opachizzanti.

Ossidi e anidridi vengono incorporati nel vetro facendoli derivare da materie prime che si dicono materie vetrificabili, generalmente usate sotto forma di carbonati, borati, nitrati, solfati, alluminati o minerali allo stato naturale, eventualmente depurato, per lo più a contenuto di più d'un ossido, e che formano la miscela vetrificabile, la cui composizione varia in rapporto alle percentuali per le quali ogni ossido figura nella composizione del vetro. Durante la fusione, dalle materie prime volatilizzano l'anidride carbonica (CO2) e l'anidride solforica (SO3), mentre residuano le parti vetrificabili. Così, per dare un esempio elementare, una miscela vetrificabile sia composta da: sabbia (silice), soda (carbonato sodico) e calce (carbonato calcico). Tutta la silice, che non possiede parti volatilizzabili, entra nel vetro; del carbonato sodico, usato per dare l'alcali, solo questo, in forma di ossido di sodio, è utilizzato, mentre l'anidride carbonica resta completamente eliminata. Un fatto analogo avviene per il carbonato di calcio: l'ossido di calcio entra nel vetro e l'anidride carbonica volatilizza. L'effettivo peso dei due ossidi acquisiti dal vetro in rapporto ai pesi dei rispettivi carbonati posti nella miscela fusibile si ricava per via di calcolo dalle formule chimiche dei carbonati e degli ossidi, e dei loro pesi molecolari. Per l'uso pratico si sono formati dei prontuarî indicanti fattori che permettono una rapida determinazione del peso d'ogni ossido in rapporto alla materia prima da cui deriva, e viceversa. Dagli stessi prontuarî si rileva la completa classifica delle materie prime usate nell'industria vetraria che distingue le materie prime di carattere acido e quelle di carattere basico, fondenti, ossidanti, riducenti, affinanti, coloranti, opachizzanti. Non di tutte le materie è possibile una rigida assegnazione a queste categorie perché ve n'ha che rispondono a più d'un ufficio. Nel contempo sono anche, in generale, indicati gli effetti di indole chimica o fisica che singole anidridi od ossidi determinano nei vetri.

Fusione del vetro e forni fusorî. - La preparazione delle materie grezze e della miscela, prima dell'infornata, esige particolari accorgimenti: essiccazione fino a un determinato, tollerato grado d'umidità; macinazione eventuale di alcune materie per ridurle a granulazione voluta; stacciatura per ottenere la maggiore possibile uniformità granulometrica; mescolatura intensa, generalmente a macchina, per giungere alla massima possibile omogeneità della miscela. La fusione di quest'ultima avviene o in crogioli, nel gergo vetrario detti padelle, formati di terra refrattaria, della capacità di 200-1000 litri, a fondo circolare od ovale, aperti in alto o coperti da calotta munita di bocca di prelievo; oppure in bacini, vasche a fondo rettangolare (al massimo m. 8 per 25), quando la bocca di prelievo è unica, o di altra forma adatta per maggior numero di bocche: per es., a croce per una porta di carico e tre bocche di prelievo. I bacini sono costruiti in blocchi di refrattario. Particolari esigenze sono poste ai refrattarî - si tratti di crogioli o di bacini - per ridurre al minimo l'attacco che sempre subiscono da parte di sostanze costituenti la massa vitrea, attacco che determina colorazione del vetro (specialmente per presenza di ossido ferrico) e cessione allo stesso di particelle insolubili, dette allora "sassi nel vetro".

I due tipi fondamentali di forni suddetti possono essere, poi, a ricupero o a rigenerazione. Un'ulteriore distinzione è data dalla direzione e conduzione delle fiamme e dalla disposizione dei bruciatori e infine dal combustibile, avendosi: forni a semi-gas (sempre meno usati), a gas, per lo più prodotto da gassogeni separati dal forno, a nafta, a polvere di carbone e a legna. In tempi recenti sono stati tentati per il vetro forni fusorî elettrici con promettente esito tecnico, non ancora economico.

I forni a crogioli (fig. 1) si adoperano per fusioni a orario intermittente. Tali forni sono a pianta generalmente circolare, ma anche quadrata, rettangolare, ellittica, con in giro, e in corrispondenza ai crogioli, le bocche per l'infornata e il prelievo; sono capaci di due a venti crogioli, limite oltre il quale sarebbe difficile ottenere un'uniforme distribuzione del calore nel laboratorio del forno. Essi permettono di seguire, meglio che nei forni a bacino, le fasi della fusione e si prestano perciò alla produzione di articoli eletti (vetri d'ottica, cristallerie, vetri soffiati artistici, ecc.) con possibilità di fondere contemporaneamente vetri diversi per qualità e colore nello stesso laboratorio. Per questi forni nelle 24 ore del giorno, un periodo di 16 ore comprende la fusione della miscela infornata, l'affinaggio della massa fluida e il riposo; segue un periodo di 8 ore detto della lavorazione, e cioè della foggiatura del vetro man mano estratto dal crogiolo.

I forni a bacino (fig. 2) sono logicamente destinati alla fusione e lavorazione di grandi masse in modo non interrotto: per esercizio intermittente sono usati raramente e solo per piccola produzione. Si adattano in modo speciale per alimentare di massa vitrea le moderne macchine da lastre per finestre e semicristalli, da bottiglie, ecc. In questi forni si realizzano tutte le fasi della fusione in maniera continua grazie al lento deflusso della massa vitrea incandescente dalla bocca di rifornimento a quella di prelievo: all'una estremità s'inforna la miscela, che vi inizia la fusione, giunge fusa alla parte media, dove il vetro s'affina, essendovi la temperatura più elevata che nel resto del laboratorio, mentre all'altra estremità viene prelevato per la lavorazione: è la regione di temperatura più bassa per ridurre il vetro al grado di viscosità adatto alla lavorazione.

I processi che subisce la miscela vetrificabile durante la fusione sono, come si è visto, i seguenti: la fusione propriamente detta, che si compie in 8-10 ore a 1200-1400°, a seconda della qualità di vetro da produrre, corrisponde al processo di riduzione allo stato fluido, cioè di minima viscosità della miscela, che, mista a rottami di vetro fino al rapporto di 1:1, perché ne sia facilitata e accelerata la fusione, si inforna o nei crogioli in una o più volte, o nei bacini a cariche opportunamente distanziate nel tempo, generalmente con mezzi meccanici; tale periodo corrisponde anche alla soluzione delle materie stesse e ad una conseguente vicendevole penetrazione dei varî silicati formatisi. Segue la fase dell'affinaggio che richiede 4-6 ore e temperature, rispetto alle già indicate, di 100-150° più elevate. È il processo di omogeneizzazione della massa e della spontanea eliminazione di bolle gassose le quali, permanendo, genererebbero vetro puligoso, bolloso. Tale omogeneizzazione può essere affrettata con mezzi chimici o meccanici. Fase ultima è quella del riposo. Raggiunto un bastevole affinaggio della massa, si abbandona il forno, e quindi la massa stessa, a una lenta discesa della temperatura fino a che, per cresciuta viscosità, il vetro ha assunto la pastosità adatta alla lavorazione, per foggiatura sia manuale, sia a macchina. È evidente che una massa troppo fluida non potrebbe essere foggiata: non manterrebbe la forma, sgocciolerebbe o filerebbe; d'altra parte non lo potrebbe essere nemmeno qualora 'assumesse eccessiva compattezza. Ora l'accrescimento della viscosità non si compie a differenze costanti per unità di temperatura in discesa, ma assume, in un determinato intervallo termico (intorno ai 1000°) d'un tratto valori in rapidissimo aumento. Questa circostanza lascia comprendere che la foggiatura del vetro deve essere iniziata quando la sua massa dispone ancora di sufficiente plasticità e che deve essere del tutto compiuta quando la temperatura, intanto scesa, ha determinato una notevole riduzione della pastosità e anzi un'incipiente rigidezza. In altre parole, la foggiatura deve avvenire entro un intervallo di viscosità che si dice intervallo di lavorabilità. Questo non è sempre lo stesso per vetri di composizione differente: gli uni raffreddano lentamente e si dicono vetri lunghi perché concedono lungo tempo all'operazione della plasmatura; essi sono preferiti nella lavorazione a macchina perché il contatto di successivi stampi accelera il raffreddamento della massa. Nel caso contrario si hanno i vetri brevi perché breve è il tempo utile alla loro lavorabilità, e sono preferiti nella foggiatura a mano (per es., vetri d'arte) perché giova per un più sollecito lavoro il relativamente rapido aumento di viscosità sotto l'azione degli utensili, mentre, se necessario, si ricorre a nuovi rammollimenti alla fiamma. Date tali differenze, la chimica ha dovuto largamente provvedere a modificare le composizioni d'alcune categorie di vetri, allorché, negli ultimi decennî, la lavorazione meccanica ha sostituito su vasta scala la plasmatura a mano o quella semi-automatica.

Il vetro formato (soffiato, stampato, ecc.) conserva ancora un'elevatissima temperatura (500-600°) e non potrebbe resistere a un rapido raffreddamento: esso non darebbe tempo sufficiente al necessario assestamento delle tensioni interne (equilibrio molecolare) e determinerebbe la rottura dell'oggetto fabbricato. Si procede perciò a un lento raffreddamento, impropriamente detto tempera, un degradare della temperatura fino a quella ambiente. All'uopo servono speciali forni, chiamati appunto forni di lento raffreddamento o di tempera. Si distinguono: a) Forni a muffola, ormai poco usati e solo per piccole produzioni; sono una specie di vani rettangolari in blocchi di terra refrattaria: il vetro appena formato s'introduce nei forni caldi ed entrambi si lasciano raffreddare lentissimamente, e cioè tanto più lentamente quanto più spessi sono i vetri: per es., bottiglie durante 4-5 giorni. b) Forni a galleria (fig. 3): gli oggetti da raffreddare sono disposti a una delle estremità, costantemente riscaldata (per lo più a gas) e attraversano lentamente, su congegno a carrello o nastro senza fine, uno stretto canale a temperatura degradante e regolabile. Le costruzioni variano a seconda della qualità e dimensione dei vetri da temperare; in quelle moderne il tempo di tempera degli oggetti comuni è di 4-5 ore, delle bottiglie a pareti sottili e fondo più spesso, 12 ore.

Caratteristiche dei vetri tecnici. - È intuitivo che le varie combinazioni per qualità e tenore dei componenti il vetro possono condurre in teoria a un numero infinito di fusioni diverse, ma una forte limitazione è imposta dalle possibilità pratiche di fusione e di lavorazione nonché dalle caratteristiche volute dall'uso cui il prodotto è destinato. I vetri fusi entro tale limitazione, secondo discipline dettate dall'esperienza e da indagini scientifiche si dicono tecnici, a differenza di quelli naturali dovuti a miscele di sostanze eruttive uscite incandescenti da quelle potenti fornaci che sono i vulcani: queste sostanze, coperte dalla lava, raffreddano lentamente evitando la cristallizzazione e raggiungono la temperatura ambiente in formica di materia amorfa, proprio come vuole la nostra definizione del vetro. Caratteristica comune per tutti i vetri deve essere anzitutto la resistenza alla devetrificazione, cioè la resistenza opposta alla tendenza di formazioni cristalline, e quindi al passaggio della massa, o di una parte della stessa, dallo stato amorfo a quello cristallizzato. Per ogni composizione di un vetro v'ha infatti durante il raffreddamento della massa nel forno o durante la lavorazione un intervallo di temperatura, e quindi di viscosità, in cui il potere di cristallizzazione spontanea può superare gli attriti interni, in particolar modo quelli dovuti al grado di viscosità della pasta. La resistenza d'un vetro alla devetrificazione è tanto maggiore quanto più la massa vitrea possiede componenti di basso potere e di bassa velocità di cristallizzazione. Per ciò, fra i molteplici compiti imposti alle formule vetrarie v'è anche questo: ogni volta e ovunque il vetro è chiamato a sostare per qualche tempo alle temperature favorevoli alla cristallizzazione, non deve facilmente verificarsi la temuta separazione cristallina. D'altra parte è compito del maestro vetrario di ridurre al minimo tali soste o graduando la temperatura in modo da superare rapidamente l'intervallo pericoloso o affrettando, durante lo stesso, le operazioni cui il vetro va sottoposto. Poiché detto intervallo critico sta fra lo stato fluido e quello di una certa pastosità della massa, dunque assai vicino o addirittura nell'ambito della viscosità di buona lavorazione, i vetri razionali devono resistere senza devetrificare: tutti, in generale, durante la normale loro foggiatura e durante il lento raffreddamento, i vetri ottici anche durante la ricottura, i vetri da laboratorio e da apparecchi in genere anche alla fiamma della soffieria, ecc. Per la produzione di tali vetri industriali, oltre all'esperienza acquisita per via empirica, esistono alcune regole d'orientamento: per ottenere, ad esempio, vetri calcico-sodici di minima tendenza alla devetrificazione, può servire di guida la formula: %Na2O = 26 − %OCaO. Piccole quantità di MgO (sotto o,5%) si calcolano con CaO; invece Al2O3 (sotto 1%) con SiO2. La formula dice: la somma di Na2O e CaO deve essere del 26%, ovvero deve SiO2 essere del 74%.

Non meno importante della resistenza alla devetrificazione è la resistenza del vetro agli effetti di agenti chimici, vale a dire la sua durevolezza o durabilità. Tutti i vetri sono, più o meno, sensibili all'acqua o alle soluzioni alcaline o acide: ma soprattutto all'acqua, sostanza praticamente neutra. Ora l'acqua è sempre e dappertutto presente, se non allo stato liquido, a quello di vapore e in forma di umidità nell'aria. Si hanno così, già per opera degli atmosferili, nei vetri meno perfetti perdita di lucentezza, e velature che vanno fino all'appannatura e alla scomparsa della loro più caratteristica proprietà: la trasparenza. I prodotti della decomposizione coprono i vetri di una finissima patina che, tolta, si riproduce, dando man mano luogo a superficie di lieve ruvidezza, sulle quali la luce s'infrange in iridiscenze madreperlacee. È l'effetto che si osserva nei vetri antichi, spesso tolti dalla terra dopo secolare sepoltura, effetto di particolare bellezza, ma che grandemente preoccupa i conservatori di musei, poiché nel fenomeno vedono la lenta, continua distruzione del prezioso reliquato.

Più energico che per opera degli atmosferili è l'attacco al vetro da parte degli agenti chimici, con esso a duraturo contatto, specialmente alle temperature elevate o addirittura di ebollizione. È il caso dei recipienti di vetro. Il progresso della tecnologia vetraria è tale da escludere ormai la produzione di vetri deficienti e permette di non preoccuparci, sotto l'accennato aspetto, dei vetri destinati all'uso comune; vi sono tuttavia vetri speciali, adibiti a scopi più delicati, alla cui produzione presiedono particolari imposizioni; in ordine crescente di esigenza posta alla durevolezza si possono citare i vetri da bottiglie per vino, liquori e acque minerali, i recipienti per conserve, medicinali, sieri e soluzioni da iniezioni ipodermiche, le vetrerie da laboratorio di chimica. Le mutazioni che a seguito di scarsa resistenza chimica agli attacchi dei varî reagenti si manifestano nei vetri, sono dovute al fatto che singoli loro componenti passano in soluzione nell'acqua o negli altri agenti chimici. Per questo fatto i liquidi contenuti nei recipienti vitrei possono subire alterazioni notevoli; delicati saggi chimici essere falsati nelle loro risultanze: un recipiente di vetro imperfetto sotto l'aspetto in parola, in cui bolla dell'acqua, può liberare in 15 minuti tanti alcali da rendere impossibile una titolazione con una soluzione decimo normale.

Pertanto la tecnologia vetraria ha dovuto preoccuparsi di ridurre al minimo nei vetri la sensibilità all'acqua e agli altri agenti studiandone opportune composizioni le quali - ed è ciò che complica il problema - devono tenere in giusta considerazione anche altre qualità, pure volute, principale fra tutte la facile lavorabilità alla fiamma diretta della soffieria. D'altra parte si è imposta la necessità di metodi, o scientifici o pratici, per il controllo di vetri destinati a usi tanto delicati, controllo rigorosamente esercitato dalle fabbriche produttrici del vetro neutro, come viene chiamato il vetro di buona durevolezza, e dai laboratorî di chimica, dalle farmacie, dagl'istituti infialatori di sieri, ecc., generalmente secondo prescrizioni dettate in ogni paese dalle farmacopee ufficiali (v. fiala).

Proprietà meccaniche. - Per varie ragioni necessita di conoscere del vetro le caratteristiche meccaniche. Il vetro allo stato fluido esercita sulle pareti dei crogioli una pressione che è proporzionale alla sua densità; la densità va pertanto tenuta in considerazione nel calcolo delle pareti dei crogioli. Nella produzione di grandi masse, la densità del vetro diventa elemento di carattere economico. Essa varia da 2-2,3 per i borosilicati extra-leggieri a 5 per i flint extra-densi, e persino a 6 per vetri piombici molto pesanti; la densità media dei vetri calcico-sodici è di 2,50. Ma soprattutto nel vetro d'ottica la densità assume grande importanza a causa della sua influenza sull'indice di rifrazione. La densità dei vetri aumenta con la loro ricottura. La resistenza alla trazione ha importanza come elemento di stabilità degli oggetti vitrei. Varia da 4 a 10 kg./mmq. Fra tutte le caratteristiche meccaniche, a prescindere dalla fragilità, essa è quella che più di frequente, per la sua insufficienza, limita le applicazioni del vetro. Partecipa, come vedremo, con il modulo di elasticità e il coefficiente di dilatazione al calcolo della resistenza ai bruschi cambiamenti di temperatura. La resistenza alla pressione ha nell'industria vetraria minore importanza di quella alla trazione, poiché in tutte le applicazioni industriali le sollecitazioni per unità di misura sono sempre minime. È per il vetro dell'ordine di 100 kg./mmq. Maggiore considerazione richiede la resistenza alla flessione: basta ricordare le applicazioni del vetro alle lastre da finestre e portiere, da cattedrali, da specchi specialmente se fissate in ante da mobili, da sostegni nelle vetrine, da para-brises, ecc. Essa varia notevolmente con la larghezza delle lastre. I valori limiti di rottura vanno da 1 a 2,5 kg./mmq. L'influenza esercitata sul grado di resistenza alla flessione dagli ossidi presenti nel vetro segue la scala segnata da Gehlhoff e Thomas come appresso: dal massimo al minimo: CaO, BaO, ZnO, MgO, B2O3, Fe2O3, SiO3, Al2O3. Gli alcali sono difficili a classificare perché da quasi zero in bassi tenori percentuali salgono a notevole influenza con tenori elevati: non crescono cioè in rapporto lineare. È singolare la constatazione che la presenza di tensioni interne non modifica sensibilmente la resistenza alla flessione. La tempera (cristallo temperato) aumenta in modo sorprendente la resistenza alla flessione di lastre quando viene effettuata secondo speciali procedimenti. Il modulo di elasticità dei vetri, compreso fra 5000 e 10.000 kg./mmq., si cerca nella pratica di ridurre a un minimo per favorire la resistenza meccanica: per evitare cioè che negli oggetti malamente deformati si producano dannose sollecitazioni. La durezza è una caratteristica che interviene in tutti i lavori di taglio, incisione, molatura e lucidatura. È presa in considerazione nella scelta dei vetri ottici, da finestre, copertura di tetti, ecc., dovunque cioè all'atto della ripulitura si possono produrre col tempo graffiature e screzî con perdita di luce per riflessione e diffusione. Gli alcali diminuiscono notevolmente la durezza; l'ossido sodico più che l'ossido potassico: si ha un minimo di durezza, in quanto effetto di alcali, quando sono presenti entrambi. La diminuisce anche l'ossido piombico, ma meno di quanto si potrebbe ritenere. L'aumentano invece gli ossidi di magnesio, di zinco, di bario; l'anidride borica l'aumenta rapidamente fino a una data percentuale e poi la diminuisce. Nella scala di Mohs la durezza dei vetri è compresa fra 4,5 (flint extra-densi) e 7,5 (vetri duri). Per vetro da specchi si ha circa 6,5. La fragilità è notoriamente la più caratteristica proprietà meccanica del vetro. Si dice che un corpo è fragile quando, sorpassato leggermente il limite di elasticità, se ne produce la rottura. Nella pratica la fragilità porta soprattutto a considerare nei vetri la resistenza agli urti, che viene determinata mediante appositi congegni. La resistenza agli urti aumenta sensibilmente quando dalla superficie dei vetri si elimina la cosiddetta politura a fuoco. Gli alcali e gli ossidi di RO hanno poca influenza sulla resistenza agli urti; notevole invece l'hanno in senso favorevole l'anidride borica e l'allumina. La tempera bene eseguita, diminuisce assai la fragilità.

Proprietà termiche. - Emerge fra queste per particolare importanza la dilatazione. Per numerose applicazioni un coefficiente di dilatazione bene precisato s'impone. Citiamo: per resistere a repentini cambiamenti di temperatura la dilatazione deve essere tanto più debole quanto maggiori sono gli sbalzi di temperatura; la saldatura fra due vetri o fra vetro e metallo non si può realizzare senza inconvenienti se non vi ha tra le parti sufficiente concordanza delle dilatazioni non solo alla temperatura ambiente ma anche al variare delle temperature dentro certi limiti. Fra i metalli è il platino che possiede il coefficiente di dilatazione più vicino a quello del vetro comune; ma oggi si producono anche ottime leghe, per es., il ferro-nichelio, che dànno pratici risultati. Il coefficiente di dilatazione lineare varia nei vetri calcico-sodici fra 11 • 10-8 e 8 • 10-6; nel cristallo piombico è 9 • 10-6; nei vetri da laboratorio fra 55 • 10-6 e 75 • 10-6. La minima dilatazione segna il vetro americano Pyrex con 32 • 10-6 e il vetro italiano "Murano 1924" con 32,8 • 10-6 fra temperature di 19 e 350°. Per contro si possono produrre vetri col coefficiente di dilatazione del ferro (13 • 10-7) il che dimostra che le paste vitree, a seconda delle variate loro composizioni, possono avere coefficienti di dilatazione nel rapporto da 1 a 4. Il calore specifico sta per il vetro fra 0, o8 e o,25 e interviene talora, come vedremo, per calcolare altre caratteristiche del vetro. La conducibilità termica del vetro è debole ed è difficile a misurare. Va nei vetri ottici, per es., a seconda della loro composizione, da 0,00170 C.G.S. del flint denso a o,00282 del borosilicato. Nella pratica la conducibilità termica, per quanto debole, si rivela durante la foggiatura, perché da essa dipende la rapidità di raffreddamento dell'articolo formato: vetri a piuttosto elevata conduttività termica, come ad esempio quelli ad alto tenore di calcio, devono essere trasportati rapidamente al forno di lento raffreddamento dopo la plasmatura per evitarne l'immediata rottura. Solo dopo aver lasciato tempo in detti forni all'assestamento delle tensioni interne, si giunge in alcuni vetri di speciale composizione a conseguire la resistenza anche a forti sbalzi di temperatura, la cui necessità, per molte applicazioni, è intuitiva.

Proprietà elettriche. - Ha particolare importanza la conduttività elettrica la quale, molto debole alle basse temperature, giustifica l'applicazione del vetro come isolante negli apparecchi e come sostegno (isolatori) di condutture nei trasporti a distanza dell'energia elettrica anche ad alto potenziale; al salire della temperatura cresce la conduttività elettrica, il che ha condotto alla soluzione di forni fusorî nei quali il vetro stesso funge da resistenza. Gli alcali (l'ossido sodico meno che il potassico) aumentano nei vetri la conduttivià; l'ossido di zinco influisce poco; la diminuiscono la calce, il bario e l'ossido piombico; fra gli ossidi R2O3 la diminuiscono fortemente l'anidride borica e l'ossido ferrico, mentre l'allumina la aumenta.

Caratteristiche ottiche. - Vedi ottica e anche a pag. 270. L'indice di rifrazione e la dispersione variano con la composizione del vetro e con il suo stato fisico. L'indice di rifrazione nD è fra 1,40 e 1,80.

Calcolo delle caratteristiche fisiche dei vetri. - Notevoli lavori sperimentali hanno dato alcune direttive generali per determinare gli effetti dei varî ossidi nei vetri. Si è accertato che molte proprietà fisiche dei vetro sono di carattere additivo, o almeno tale in via di approssimazione e in certi limiti. Si dice additiva una qualità quando dipende dal numero degli ossidi presenti nel vetro e dalla loro relativa quantità.

Un vetro contenga un numero di ossidi la cui percentuale in peso sia rispettivamente a, b, c,...; allora il valore di alcune delle costanti fisiche può essere dato dall'equazione C = az1 + bz1 + cz3 + ... nella quale le z rappresentano le costanti dei singoli ossidi, e cioè l'effetto di 1% di ogni ossido sulla caratteristica in questione. È da avvertire che le prime di tali costanti, determinate da Winkelmann e Schott, subirono rettifiche per opera di altri studiosi grazie ai migliori mezzi sperimentali; il loro numero è stato notevolmente ampliato. Poiché il valore della costante d'un ossido non è più lo stesso quando l'ossido è entrato nel vetro, le determinazioni furono assai complesse per gli ossidi vetrificati e richiesero migliaia di fusioni sperimentali. Le formule di carattere additivo da usare per i diversi casi sono:

in cui C è il valore della caratteristica cercata del vetro, a, b, c,..., e z1, z2, z3, ..., sono le percentuali e i coefficienti già sopra indicati, v1, v2, v3, ..., le percentuali volumetriche calcolate con l'aiuto della (I) facendo ogni termine = (a: z) p in cui p è il peso specifico del vetro. I coefficienti da applicare nelle formule per ogni ossido in relazione alla caratteristica cercata del vetro sono dati dalla tabella qui sopra.

Il valore della resistenza R agli sbalzi di temperatura si desume, previa determinazione delle volute costanti del vetro, dalla relazione:

I valori che s'ottengono da questa formula non sono assoluti, ma servono per confronti fra vetri di varia composizione.

La tabella seguente dà i valori estremi per le diverse caratteristiche dei vetri:

Tipi di vetri e loro classifica. - La classifica dei vetri tecnici viene fatta secondo tre concetti fondamentali: a) secondo la loro composizione chimica; b) secondo il modo della loro lavorazione (foggiatura); c) secondo concetti industriali e corporativi.

La classifica secondo la composizione chimica è rappresentata in modo sintetico dallo schema seguente:

I. Sta a sé il quarzo fuso: è sostanza vitrea ideale per caratteristiche chimiche e fisiche, ma di produzione costosa per le difficoltà della sua fusione ad altissima temperatura.

II. Il vetro solubile è un prodotto trasparente, vetroso, che, di facile soluzione nell'acqua, trova larga applicazione in molte industrie; se ne producono con opportuni impasti pietre d'arte artificiali, e serve per indurimento di cementi, marmi, pietre arenarie, preparazione di intonaci e colori murali, colori da stamperie; trova impiego come mezzo imbiancante nelle lavanderie di lana, nella fabbricazione di saponi, in composti per conservazione di botti, di uova, fabbricazione di adesivi, di smalti, di fiammiferi, di mattonelle di lignite, di sostanze anti-ignee, di masse plastiche, ecc.

III. Al gruppo del vetro comune appartiene la più vasta produzione vetraria, la produzione in massa, come le lastre per specchi e finestre, il bicchierame comune, tutto il cosiddetto "vetro bianco". La composizione molecolare ne varia entro i seguenti limiti: per CaO = 1, Na2O da 0,6 a 1,00 e SiO2 da 4 a 6. Impurità coloranti, specialmente ferro, non sono tollerate che nell'ordine della seconda cifra decimale.

IV. Bottiglie (v.). Limiti di composizione centesimale sono: SiO2 da 64 a 73; Al2O3 + Fe2O3 da 9 a 0,9; CaO + MgO + MnO da 15,5-9; Na2O + K2O da 12 a 17. Il gruppo delle bottiglie colorate è quello che tollera le maggiori impurità, nelle materie prime; FeO e MnO sono anzi gradite, contribuendo esse alle colorazioni verdi e brune.

V. Vetri neutri. È il gruppo di elevata resistenza chimica (durabilità): vetri da laboratorio, da medicamenti, fiale da iniezioni, ecc. Sono vetri di composizione assai varia, contengono spesso anche BaO, ZnO e altri elementi secondarî.

VI. Cristallo (v.). È il gruppo dei vetri in cui l'ossido di piombo sta al posto dell'ossido calcico. Esige materie prime di grande purezza ed è di grande lucentezza.

VII. Vetro d'ottica. È fra tutti i vetri il più pregiato; è vetro di precisione di svariatissime composizioni per numero di ossidi e loro vicendevoli permutazioni. Dal lato della composizione si precisa che per conseguire i molteplici rapporti fra rifrazione e dispersione richiesti dagli ottici, si fabbricano: il flint, vetro piombico con anidride borica, bario; il crown, vetro calcico con boro, zinco, bario, fosfati (uno o più di tali ossidi a seconda delle caratteristiche volute); i boro-silicati con tenore elevato di boro.

VIII. Smalti da metalli: composizione resistente a temperature moderatamente elevate.

IX. Smalti da ceramiche: composizione resistente ad alte temperature, serve per verniciatura di porcellane, ecc.

X. Coloranti: sono gli ossidi e sali metallici che nella fusione delle masse vitree ne determinano la colorazione. Gli ossidi che dànno colori complementari del verde, si dicono anche decoloranti perché cancellano o attenuano la colorazione verdognola impartita al vetro da impurità ferriche delle materie prime.

XI. Opachizzanti: rendono il vetro translucido od opaco come porcellana; si usano all'uopo fosfati, fluoruri e l'ossido stannico.

La classifica dei vetri secondo il modo della loro foggiatura dà: vetri di libera foggiatura alla bocca del forno, vetri stampati, vetri soffiati, vetri laminati, vetri tirati direttamente dalla massa fluida. Essa servirà in questo articolo per descrivere le varie tecniche della produzione vetraria e segnalarne i più recenti sviluppi.

Infine la classifica secondo concetti industriali e corporativi distingue: vetro bianco; vetro d'arte, conterie (v.) e musaico; lastre da specchi e da finestre, isolatori di vetro; bottiglie nere, bottiglioni, fiaschi e damigiane. Di questa classifica ci serviremo parlando degli sviluppi dell'industria vetraria in generale.

Tecniche vetrarie di foggiatura e fabbricazione.

Libera foggiatura manuale. - È la più antica tecnica vetraria e in origine era, come in parte è tuttora, vera tecnica di "plasticazione" seguita da una modellatura.

Essa acquistò massimo sviluppo con l'invenzione della canna da soffio ed è fondata sull'energia di cui sono capaci i polmoni umani: l'aria introdotta attraverso la canna nell'interno d'una quantità di massa vitrea incandescente, tolta dal crogiolo in quantità commisurata all'oggetto da produrre, agisce per pressione sulle pareti interne, genera lo stiramento della massa che man mano assume la forma voluta dall'abilità del maestro soffiatore. La canna da soffio è un semplice tubo di ferro: a un'estremità esso si restringe e forma l'imboccatura per soffiare; all'altra estremità invece si allarga e serve per attingere e trattenere il vetro; talvolta esso è munito di un'impugnatura di legno per difendere le mani dal calore del metallo. Attinto il vetro all'estremità della canna si forma la pallina, e poi, per nuovo ripetuto attingere, la levata completa, detta, con francesismo entrato nel gergo vetrario, la paraison; segue la marmorizzazione che si ottiene rotolando la levata (asse di rotazione è la canna) sopra una lastra di ferro, per darle omogeneità di forma iniziale e di consistenza, operazione generalmente ripetuta più volte e alternata con soffiature leggiere nella canna; per soffiatura definitiva si forma un globo che nella foggia e nella finezza di pareti alle quali può giungere, ricorda le bolle di sapone: a questo globo s'imprimono allungamenti o insaccature, ora lasciandolo pendere verso il basso, ora sollevandolo sulla canna verticale; poi, di tratto in tratto, si riscalda il vetro per mantenerne la plasticità, o lo si agita con movimento pendolare della canna per un più rapido raffreddamento; secondo i movimenti l'oggetto può assumere forma lunga o schiacciata, spessori forti con prevalenza in alto o in basso. Occorrendo si stende la pasta vitrea per forza centrifuga facendo rotare la canna, appoggiata su forcelle d'un banco, intorno al suo asse. Queste manipolazioni e l'abile uso di semplicissimi utensili per ottenere oggetti d'ogni forma e disegno, sono degne di ammirazione soprattutto nei maestri vetrarî di Murano: essi lavorano di "soffiati" con tale destrezza, agilità e bravura, con tale precisione nel rapido proporzionare le misure, nel riprodurre disegni anche solo abbozzati a carboncino, che ogni oggetto uscito dalle loro mani è un lavoro d'arte: a ragione pertanto sono detti maestri, e non operai del vetro (fig. 4).

A questo genere di produzione si prestano ancora in modo conveniente i forni a legna, tramandatici dalle epoche più remote, perché, mentre non occorrono elevatissime temperature (1100-1200°), data la composizione abbondantemente alcalina della massa vitrea, l'atmosfera del laboratorio si mantiene neutra, non influendo perciò sugli ossidi coloranti né per ossidazione né per riduzione. I pezzi foggiati vengono da ultimo passati per il lento raffreddamento in successive camere intercomunicanti e riscaldate, a temperature degradanti, dallo stesso forno fusorio.

Stampaggio. - Lo stampaggio manuale, o, per meglio dire, semimanuale, è operazione semplicissima. Tutta l'apparecchiatura consiste in presse e stampi. La levata, portata da un garzone sopra lo stampo, è staccata mediante forbici dalla canna in misura adeguata al bisogno secondo il colpo d'occhio e la pratica del maestro. La pressione è esercitata mediante leva a mano o congegno azionato da motore. Dopo brevi momenti, variabili secondo il volume dell'oggetto, la temperatura d'irrigidimento è raggiunta, e la parte premente dello stampo viene sollevata, il vetro pressato tolto o per rovesciamento dello stampo o per apertura dello stesso quando è fatto a cerniera, come si usa per oggetti di qualche mole od oggetti che, in caso diverso, non potrebbero essere sfilati dalla forma. Oggetti cavi che devono avere il diametro interno ristretto verso l'alto, non possono venir stampati per intero, perché non si riescirebbe a levare il maschio. Essi per ciò vengono stampati senza l'accennato restringimento e subiscono poi una seconda lavorazione o per riscaldamento e plasmatura a mano, o per molatura. Esistono numerosi tipi di macchine che ripetono automaticamente il procedimento descritto dello stampaggio a mano. Appositi alimentatori (ingl. feeders) servono gli stampi, e questi, montati su basamento a revolver, vanno, girando, a prendere in rapida successione la propria razione di vetro, sulla quale subito si abbassa il maschio e il pezzo foggiato viene, sempre automaticamente, espulso. Si giunge così a produzioni orarie notevolissime. La tecnica dello stampaggio è usata per oggetti massicci d'ogni genere nonché per vetri cavi, quali, ad esempio, il bicchierame comune da tavola. Tali oggetti si producono anche ornamentati mediante stampi opportunamente incisi, generalmente a coste o fiorami rilevati o a imitazione di vetri molati. In questi ultimi le figurazioni stampate servono spesso - con notevole risparmio di tempo - come preparazione per l'intaglio alla mola o per l'incisione mediante rotella.

Soffiatura. - Ne abbiamo già detto nella libera foggiatura manuale. Essa acquista carattere industriale e viene asservita alla produzione "in serie" quando avviene entro adatte forme, dette impropriamente "stampi" (fig.5). Nel caso di forme per "soffiati", speciale considerazione è dovuta all'influenza che la loro superficie ha sulla superficie del vetro formato. La maggior lucentezza di questa si ottiene in oggetti soffiati facendoli girare nelle forme di legno: all'atto dglla soffiatura l'umidità (la forma viene infatti dopo ogni operazione raffreddata per immersione nell'acqua) passa in vapore e questo, unitamente ai gas di combustione, protegge il vetro dall'immediato contatto con la forma. Buona, ma minore lucentezza, si ha nelle forme di ghisa, sempre che la soffiatura sia accompagnata dal rotare della canna; in questo caso però la forma deve essere lubrificata, vale a dire deve essere coperta da una composizione a base di sostanze organiche di cui ogni fornace ha una sua ricetta, e che, carbonizzando, costituisce lo strato protettore. Del resto anche le forme di ghisa vengono umidificate dopo ogni operazione e la soffiatura si può fare più agevolmente, con minore resistenza opposta al girare della canna. Nel caso di oggetti non simmetrici, a spigoli, a decorazioni rilevate, ecc., che non possono girare nella forma, occorre evitare che il vetro s'attacchi alla forma, e che l'usura del metallo sia troppo rapida a causa del vetro caldo e dell'ossigeno dell'aria alle altissime temperature. Il primo inconveniente si può verificare quando, alla soffiatura a canna ferma, la forma si riscalda eccessivamente; consegue che la temperatura deve essere tenuta entro i limiti di 550 a 600° per immersione nell'acqua o sufficiente tempo di raffreddamento. Le forme troppo fredde si riscaldano sopra carbonella di legno. Nelle macchine a succhio (v. la macchina Owens), che non ammettono una lubrificazione delle forme, e nelle quali la temperatura deve essere tenuta al più basso limite possibile, atfinché il vetro assuma rapidamente la stabilità della plasmatura, il raffreddamento si ottiene mediante un sistema a tubi racchiuso nell'interno della forma stessa, attraversato o da acqua o da aria a bassa temperatura. Quando il maestro deve soffiare oggetti notevolmente grandi, la forza dei suoi polmoni può non bastare all'ultimo soffi0 necessario: allora prende in bocca un sorso di acqua, lo soffia nella canna che tappa subito con la mano: lo sviluppo di vapore porta a compimento l'operazione. Un altro artificio, in caso analogo, è offerto dal pistone generatore d'aria compressa, applicato alla canna. Infine, sempre per lavoro manuale, si può ottenere l'effetto voluto, o eseguire la completa soffiatura, applicando la canna a tubi di gomma convoglianti, in modo regolabile, l'aria da un compressore. Tale, ad es., è il congegno di L. Appert. La soffiatura a bocca è completamente eliminata con le macchine Boucher e Owens (fig. 6; v. bottiglia).

La soffiatura manuale è tuttavia ancora usata, oltre che per il vetro d'arte e per le bottiglie (per queste ormai solo in pochissime vetrerie), nelle nostre industrie dei fiaschi e delle damigiane e in quelle di cristallerie da tavola; in casi sempre più rari per lastre da finestre. Per queste ultime si procede nel modo seguente: soffiato un globo all'estremità della canna, e frequentemente riscaldato alla fiamma del forno, esso viene, per movimento pendolare, e quindi sotto l'influenza della forza centrifuga e della gravità, man mano allungato; di tratto in tratto vi si insuffla dell'aria, fino ad ottenere una forma cilindrica, di notevole lunghezza (figura 7). Il cilindro, tagliato per il lungo, aperto, dopo nuovo riscaldamento, e disteso sopra una lastra e raffreddato in forno a muffola, viene a costituire il vetro piatto voluto, in cui la lunghezza è data dalla lunghezza utile del cilindro e la larghezza dalla circonferenza della sua sezione. Tale metodo chiamato del cilindro fu l'esclusivo, fino a vent'anni fa, per la fabbricazione delle lastre, e Venezia ne fu maestra per secoli a tutto il mondo. Alcuni esempî di esso sopravvivono ancora in Italia.

Un altro metodo per produrre lastre, sempre fondato sulla soffiatura e sulla distensione della pasta vitrea è quello detto della corona (Mondglas dei Tedeschi, crown-glass degl'Inglesi; fig. 8). Fatta la levata e portata la stessa alla temperatura della lavorabilità, come già detto, le si dà la forma d'un fiasco, trasformato poi, a mano a mano, per successivi riscaldamenti e ripetute soffiature, in un grande globo (a); questo, avvicinato da una parte al calore della fiamma, e poi sollevato rapidamente a canna verticale, si ovalizza per effetto della gravità; allora sulla parte del vetro diametralmente opposta alla canna si salda una bacchetta di ferro (b) e si distacca la canna; dove questa si trovava rimane un foro; riscaldata ora la metà forata del vetro e impresso alla bacchetta e al vetro un movimento rotatorio, il foro man mano si allarga per effetto di forza centrifuga: viene ad assumere dapprima l'aspetto di una corona (donde il nome del procedimento (c), per poi finire in un disco completamente piatto il cui diametro arriva generalmente a m. 1,50 (d). Ad eccezione del centro, nel quale rimane il segno della bacchetta, tutto il disco riesce di spessore regolare e può essere tagliato a lastre da finestre. Va da sé che, prima del taglio, passa al lento raffreddamento che anticamente si faceva per copertura sotto uno strato di sabbia.

Colata e laminazione del vetro. - Questa tecnica è nata dalla ricerca di mezzi per fabbricare lastre da finestre e specchi di sempre maggior superficie, e ha avuto come punto di partenza il ritrovato di Lucas de Nehou. Esso consiste in sostanza nel versare direttamente il contenuto di un crogiolo sopra una lastra metallica e di stenderlo per laminazione mediante un rullo caldo, guidato a mano sopra due regoli di ferro laterali, le cui altezze determinano lo spessore della lastra (fig. 9). Le tappe degli sviluppi che il procedimento ebbe nel volgere del secolo scorso sonno illustrate dalle massime dimensioni delle lastre prodotte e generalmente apparse in esposizioni industriali:

Nella produzione odierna come vedremo, la grandezza di circa 32 mq. di lastre da specchi non ha più nulla di eccezionale.

Le variazioni apportate alla forma originaria del ritrovato consistono quasi esclusivamente in una maggiore robustezza dei congegni meccanici e nella possibilità della loro più comoda e razionale manipolazione. Il principio è rimasto intatto.

Un piano di ferro, detto tavola, posto su intelaiatura scorrevole sopra rotaie a scartamento rispondente alla sua lunghezza (e quindi spostantesi nel senso della sua larghezza) porta il cilindro laminatore che, azionato mediante corda metallica da motore solidale con la tavola, può rullare da un capo all'altro di quest'ultima, non appena vi sia versata dal crogiolo, recata da un ponte scorrevole, la massa fusa. Per una migliore distribuzione di questa, si fa la colata immediatamente davanti il cilindro, e, per ciò, spostando il ponte a mano a mano che quest'ultimo avanza.

Lungo le rotaie sono allineati i forni da lento raffreddamento a muffola, nei quali, a seguito di successivi spostamenti della tavola, si fanno scivolare le lastre appena compiuta la laminazione. L'americano Cruikshank sostituì per primo i forni a muffola con forni a galleria, nei quali le lastre colate vengono introdotte da un posto unico e quindi la tavola è fissa: precedono il forno a galleria propriamente detto cinque camere a zig-zag, riscaldate a temperatura degradante; la lastra giunge all'ultima di esse dopo aver superato la temperatura critica, quella della facile devetrificazione; poi prosegue entro il vero forno a galleria guidata da un trasportatore a nastro senza fine. La tavola mobile presentava alcuni inconvenienti, fra cui il più importante era che le deformazioni subite per le continue variazioni di temperatura si riproducevano sulla lastra di vetro rendendone più lunga e più difficile e quindi più costosa la molatura per lo spianamento. La tavola fissa oltre a essere più solida e più pesante elimina quegli inconvenienti perché la grande piastra viene costruita alla maniera lamellare, ogni lamella potendo dilatarsi e restringersi per proprio conto al variare della temperatura. Gli elementi lamellari possono anche essere raffreddati per interna circolazione d'acqua. ln tal modo si può, ad esempio, ridurre in una lastra dello spessore grezzo di 12 mm. la perdita per molatura dal precedente 50% al solo 35%. Il cilindro, munito di leggiere scanalature superficiali, per meglio afferrare la massa fusa, viene pure raffreddato a circolazione d'acqua, oppure viene cambiato, mediante apposito congegno di spostamento, dopo ogni quarta colata. La lastra laminata, non appena abbia raggiunto sufficiente consistenza, è sospinta da un propulsore meccanico entro il forno da lento raffreddamentti. Dal contenuto di un crogiolo, per es., da 650 litri di vetro, si ottengono, dedotti i ritagli marginali e un 10% di rotture nel forno a galleria circa 31 mq. di lastra grezza dello spessore di 11,5-12 mm. da cui, tolti per molatura circa 3,5-4 mm. si hanno lastre perfettamente spianate.

Questo procedimento classico ha due inconvenienti di natura economica: la necessità di fondere in crogioli e per ciò di colare a lunghe intermittenze, e l'ancor forte spessore di lastra che si deve asportare per molatura. Qualche anno fa hanno avuto successo i tentativi di Bicheroux di Herzogenrath per eliminare tali inconvenienti. Egli lavora la massa vitrea non fra cilindro e piastra, ma fra due cilindri disposti alla maniera delle calandre, ottenendo superficie più piane con minore spreco per successive molature. Mentre nelle macchine a tavola e cilindro il calore è male distribuito e non si possono laminare lastre e spessori grezzi sotto gli 11,5 mm., per il che, volendo lastre sottili, occorre aumentare l'asporto per molatura, rendendole notevolmente più care al confronto di quelle spesse, la laminazione a due cilindri dà agevolmente lastre grezze da 5 mm. di spessore. L'invenzione di Bicheroux fu geniale. uccorre però premettere che prima di lui il lavoro a due cilindri era stato tentato, ma non era possibile di versare più di un ramaiolo di vetro - 30-40 litri - fra i due cilindri; per di più il vetro riusciva difettoso, specialmente perché conteneva bolle d'aria, e poteva solo servire per lastre decorate a impressione dai rulli stessi; la decorazione mascherava i difetti. La massima superficie ottenibile era di 4 mq. Era infatti vano il tentativo di versare tutta la massa fusa d'un crogiolo - 600-700 litri - nel ristretto spazio compreso fra la coppia di cilindri e una necessaria piastra di guida antestante, molto inclinata. V'era il rischio del tracimare e di un eccessivo rimescolare della massa: per ciò di un'abbondante captazione d'aria che moltiplicava le bolle nel vetro. S'aggiunga che, a laminare, per es., lastre dello spessore grezzo di 6,5 mm. si sarebbe ottenuto una superficie di circa 80 mq., cioè il doppio di quanto per unità di tempo si era prodotto fino allora; questo quantitativo avrebbe dovuto trovare posto nei forni da lento raffreddamento, il che sarebbe stato impossibile. La buona soluzione di Bicheroux consiste nel versare il vetro fuso, anziché direttamente fra i due cilindri, sopra una piastra di adduzione, a bordi rialzati, capace di tutto il contenuto del crogiolo e disposta orizzontalmente: lastra ch'egli non solleva a giusta inclinazione che allorquando, tutta coperta, il flusso raggiunge i cilindri, fra i quali allora s'inizia la laminazione. Per ottenere un tranquillo e quantitativamente uniforme passaggio della massa fusa dal crogiolo alla piastra di adduzione (dunque senza formare bolle), Bicheroux spostò l'asse di rovesciamento del crogiolo verso l'orlo superiore, determinando un movimento che corrisponde a quello del bicchiere con cui noi beviamo facendo dell'orlo perno sulle labbra (fig. 10). I cilindri hanno una lunghezza di m. 4,20 (contro 1,15 dei laminatoi per vetro a ornamento impresso). A tale misura corrisponde la larghezza di un lastrone di ferro sottostante ai cilindri, che, spostandosi a velocità regolata, riceve in lento e regolare adagiarsi la lastra laminata. Poiché questa, a completo sviluppo, avrebbe una lunghezza di 20 m., punto maneggevole, un apposito congegno la taglia a distanza di 1/3 della lunghezza. Passano allora ai forni da lento raffreddamento lastre delle dimensioni di m. 4 × 6,5. Le irregolarità di spessore non superano 0,6 mm. Per politura si perdono dunque tutt'al più 2 mm. di spessore contro 3,5-4 nel metodo a tavola e cilindro. ll rapporto del vetro utile in lastre grezze rispetto alla quantità fusa nel crogiolo è, nel procedimento Bicheroux, del 50 contro il 44% con l'altro procedimento. Notevole economia di molatura rappresenta la possibilità di laminare lastre dello spessore grezzo di 5 mm. Circa 1/3 della produzione mondiale di lastre da specchi è oggi prodotta col metodo Bicheroux (fig. 11). Già si preconizzano nuovi perfezionamenti: sostituzione dei crogioli con bacini; alimentatori per servizio diretto della massa fusa dai bacini alla coppia di cilindri; passaggio della lastra laminata e continuativa per una galleria a lento raffreddamento; taglio della lastra in misure commerciali all'uscita dalla galleria.

Varianti nei procedimenti di laminazione fra due cilindri, ma in forma notevolmente semplificata, date le minori esigenze, si hanno negli antichi, ma sempre usati sistemi per fabbricare lastre armate, cioè lastre con interposta rete metallica, fra i più noti sono quelli dell'Appert e del Shuman (fig. 12). Un analogo ingegnoso modo di laminare è usato da Ford per produzione di lastre da automobili.

Lo stirare manuale del vetro e il tirare meccanico direttamente dalla massa fusa. - Una delle caratteristiche più singolari del vetro allo stato della viscosità adatta per la lavorazione, è di lasciarsi stirare, per così dire, all'infinito, dando fili il cui diametro si misura in millesimi di millimetro. Tale proprietà venne utilizzata per alcune foggiature di carattere semplice, come la produzione di fili vitrei per lavori d'arte, lana di vetro a scopo di isolante termico, nonché di bacchette per usi diversi e tubi di vetro o smalto, importantissimi questi nelle industrie delle conterie, degli apparecchi da laboratorio di chimica, delle fiale per sotanze medicamentose o da iniezioni ipodermiche, delle lampadine elettriche, ecc. Questi tubi si producono facendo, nel modo consueto, una abbondante levata, cui si dà, per marmorizzazione e soffio, la forma di un cono cavo; in opposizione alla canna da soffio si salda a tale cono una bacchetta di ferro che all'una estremità, quella a contatto col vetro, porta un dischetto fisso, perché meglio vi regga la pesante massa. Due garzoni, l'uno tenendo la canna, l'altro la bacchetta, si allontanano rapidamente in senso opposto per un corridoio lungo all'incirca 100 m.; facendo questo, il garzone .iella canna (che in alcuni casi può anche star fermo), continua a soffiare, mentre l'altro gira lentamente la bacchetta affinché il vetro non si formi a sacco. Risulta così un tubo che s'adagia man mano su assicelle disposte per traverso al corridoio; un terzo garzone provvede a sollecitarne il raffreddamento mediante un ventaglio di piume. Già durante l'operazione si controlla per mezzo d'un calibro se il diametro del tubo corrisponde a quello voluto, affinché il maestro possa provvedere alla correzione ordinando variazioni nella velocità di spostamento dei garzoni. Diametro e spessore delle pareti del tubo dipendono dalla viscosità del vetro, dalla velocità del tiro e dalla quantità d'aria insufflata. È facile comprendere che dei tre elementi è la corsa di tiro che meglio si presta alle correzioni. Le bacchette di vetro si stirano in modo analogo, ma si parte da una forma massiccia della levata e non occorre la soffiatura.

Il procedimento, come qui sopra descritto, lento, faticoso, richiedente operai specializzati lautamente pagati, trova una perfetta rispondenza, ma di portata tecnica, produttiva ed economica sorprendente, nella macchina "tiratubi" di Edward Danner, americano di Newark N. J. Il Danner, costruttore edile, chiamato a erigere una fornace, poté ivi osservare quanto la fabbricazione del tubo di vetro a mano e per soffiatura fosse estenuante e insidiusa alla salute dell'operaio e riuscì a tradurla in un procedimento meccanico. Per ragioni di economia, qualità di prodotto e vantaggio igienico, il metodo di lavorazione a mano ha ceduto il campo al nuovo procedimento dovunque si fabbrichi in grandi masse il tubo di vetro. Il prodotto ottenuto per regolarità e costanza di forma e dimensioni, si presta anche meglio alla rilavorazione, come ad esempio la trasformazione del tubo in fiale; in questo e altri casi la seconda lavorazione viene ormai pure eseguita a macchina dal che la necessità della precisione nei calibri del tubo. Nella macchina Danner, sulla parte superiore di una canna metallica rivestita di refrattario, opportunamente inclinata e senza tregua girante intorno al proprio asse, affluisce ininterrottamente una vena di vetro fuso; il tutto si trova entro un breve vano, quasi forno, a temperatura regolabile. Il vetro, defluendo, si avvolge intorno alla canna girante e si sposta verso l'altra estremità di essa per effetto della sua posizione inclinata, anche questa regolabile. Così il vetro anche si omogeneizza: si compie ciò che manualmente si ottiene per marmorizzazione. Dalla parte inferiore della canna si adesca il vetro per saldatura a una bacchetta di ferro e, mentre dalla canna arriva l'aria a pressione regolata, si tira un primo tratto di tubo. Questo viene poi affidato ad apposito congegno di trazione, che provvede anche a ritagliare il tubo a lunghezze volute (fig. 13). La quantità di vetro colante per unità di tempo sulla canna, il grado di pressione dell'aria, la velocità di tiraggio in rapporto alla temperatura del vetro, sono elementi che determinano il diametro e lo spessore della parete nei tubi prodotti. Per ottenere bacchette in luogo di tubi basta sopprimere l'aria compressa dalla canna di soffio. Altra macchina per l'identico scopo è stata costruita dalla società belga Philips: in essa il flusso di vetro che arriva dal forno sussidiario, anziché su una canna, si distribuisce sull'interno di un cilindro rotante, dal quale viene adescato e tirato. Le macchine Philips e Danner erano state adibite in un primo periodo alla sola lavorazione di vetri dalla composizione cosiddetta "tenera" come quelli piombici per tubi da lampadine elettriche e quelli, piuttosto alcalini, per tubi da apparecchi di chimica. Fu presso la Cristalleria Murano di Murano che per la prima volta furono superate le difficoltà di tirare vetri più "duri", quali sono richiesti per tubo neutro da fiale a scopo sanitario.

Come appare all'evidenza, i due metodi, il manuale e il meccanico, differiscono fondamentalmente in questo: il primo è intermittente, ogni singola operazione è limitata dalla quantità della levata; il secondo è continuativo per il non interrotto affluire di vetro dalla canna. Questo vetro non affluisce generalmente in modo diretto dal forno fusorio, ma da un fornino sussidiario che viene caricato per prelevamento dal crogiolo mediante cazzuole, e quindi a mano, o mediante alimentatori automatici (feeders). Nelle macchine descritte il fenomeno dello stirare il vetro e il processo del tirare il vetro direttamente dal forno si confondono in operazioni simultanee.

Tirare il vetro direttamente dalla sua massa incandescente fu il miraggio di molti ricercatori. Soprattutto per produrre lastre. Erano tali tentativi volti ad adescare mediante spranghe di ferro il vetro per sollevarlo in forma di largo nastro da cui ricavare le lastre. Ma il nastro si restringeva, si appuntiva verso il basso a mano a mano che veniva sollevato. Si aveva dunque un effetto di "stiramento". Vedremo di poi come, per le lastre, la difficoltà sia stata risolta. Ma intanto lo stesso insuccesso per tale causa condusse a un procedimento che ebbe vaste applicazioni. L'americano Lubbers, rinunciando a ciò che suggeriva la logica, di non passare cioè attraverso la forma cilindrica per avere del vetro piatto, tentò il sollevamento della massa vitrea per adescamento mediante un cerchio di ferro riscaldato. Il cilindro tuttavia, come già le lastre, si restringeva al sollevamento e finiva in una punta, in un filo. A togliere l'inconveniente bastò di sostituire il cerchio di ferro con un imbuto rovesciato attraverso il quale venne soffiata dell'aria opportunamente regolata. Bastò cioè la pressione interna per evitare il restringersi del cilindro. Tale il principio fondamentale. Le prove vennero iniziate nel 1894; la soluzione pratica definitiva fu conseguita nel 1905 (fig. 14). Vi fu un periodo in cui sembrò che questo procedimento dovesse cedere il posto ai sopravvenuti metodi di tirare direttamente "lastre" dalla massa fluida nei forni a bacino: ma poiché tali metodi come vedremo, impegnano l'industria in produzioni formidabili, e rappresentano l'impiego di forti capitali per spese d'impianto, il congegno Lubbers trova ancor oggi numerosissime applicazioni nella fabbricazione di medie quantità orarie. La Window Glass Machine Co. negli Stati Uniti, che ne sfrutta i brevetti, produce lastre i cui spessori vanno da 0,8 a 4,7 mm.

La soluzione industriale della fabbricazione di lastre tirate direttamente in forma piatta dalla massa fluida è dovuta a due sistemi diversi che prendono il nome dai rispettivi inventori, il belga Fourcault e l'americano Colburn.

Il concetto fondamentale del procedimento Fourcault rappresenta una risposta originale e inattesa circa il modo di evitare il restringimento del nastro in corso di sollevamento dopo l'adescamento per mezzo dell'asta di presa. La risposta è questa: si eviti di tirare. E infatti Fourcault "preme", spinge il nastro fuori dalla massa fluida. La pressione, la spinta, viene ottenuta per effetto di un dislivello creato nel bagno di vetro fuso: è il noto effetto dei vasi comunicanti. S'immagini, infatti, una trave di chamotte lunga m. 2 e larga 0,50 a margini rialzati in giro, in modo che assuma la formna di una scatola a fondo molto spesso, nel quale, in senso longitudinale, sia riservata una fessura. Messa la trave sullo specchio del vetro fuso, essa galleggerà; ma se l'obblighiamo ad affondare fino a che il piano interno della scatola si trovi di qualche centimetro al di sotto di detto specchio, il vetro, per legge idrostatica comparirà attraverso la fessura con tendenza a portarsi al livello del bagno (fig. 15); la lama di vetro, che sorge dalla fessura, se abbandonata a sé stessa, si rovescia e riempie la scatola; ma se invece ne la impediamo, adescandola con una spranga di ferro e sollevandola lentamente fra due serie laterali di rulli, otteniamo la lastra di vetro. Essa inizia subito il suo passaggio allo stato di rigidezza, tanto più che già all'uscita dalla fessura si provvede a un suo raffreddamento artificiale. Il sollevamento avviene effettivamente entro una camera a doppie pareti; essa funge da forno di lento raffreddamento; il calore che fra le dette pareti sale direttamente dal forno fusorio è regolato mediante apposite valvole lungo la camera, in cima alla quale si opera il taglio delle lastre in lunghezze volute (fig. 16). Esistono forni a bacino disposti per il lavoro contemporaneo di più d'uno di detti congegni Fourcault. La larghezza della lastra è determinata dalla lunghezza della fessura nel galleggiante; è generalmente di m. 1,80 da cui si ritagliano 2 × 10 cm. ai margini; lo spessore è dato dal rapporto fra la velocità di salita e la temperatura e viscosità del vetro entro la fessura del galleggiante (la "débiteuse" e secondo Fourcault). Per lastre da 2,2 mm. di spessore la velocità varia da 70 a 80 cm. per minuto primo. La produzione è di 800-1200 mq. nelle 24 ore, ammessi spessori semplici delle lastre. L'economia del procedimento deriva dalla limitata maestranza necessaria; a pari produzione 1/4 o 1/5 di quella indispensabile nel procedimento per soffiatura manuale. Vi si aggiunge il basso consumo di combustibile, poiché tutto il processo si svolge nell'ambiente chiuso del forno e non si richiede un separato riscaldamento per il forno di lento raffreddamento.

I pregi del prodotto sono: superficie completamente piane, buona politura a fuoco, così chiamandosi la lucentezza naturale conseguita per effetto del solo calore della tempera senza molatura e levigature supplementari; assenza di appannamenti e di graffiature, non venendo la lastra a contatto di gas e di polveri della combustione o della fiamma. Infine assenza di tensioni interne, per il che le lastre si lasciano tagliare facilmente. A eliminare un difetto iniziale, che consisteva in scarsa resistenza chimica delle lastre, si è provveduto a incorporare nella miscela del carbonato di magnesio e a diminuire il tenore degli alcali.

In contrapposto al procedimento Fourcault, nel quale il vetro è "premuto", nel metodo del Colburn, meglio noto sotto il nome della Società proprietaria dei brevetti Libbey-Owens, il vetro è nel vero senso della parola "tirato" dalla sua fusione. Si rese necessario di trovare il modo d'impedire l'inconveniente della perdita di larghezza nella lastra non appena iniziato il tiraggio; in altre parole, trovare il modo di esercitare una costante trazione laterale sui margini della lastra nascente. Colburn vi riuscì afferrando i margini fra piccoli rulli giranti, disposti orizzontalmente ad altezza di 3-5 cm. sopra il livello del bagno. I rulli hanno una velocità periferica corrispondente a 1/4 di quella con cui si solleva il nastro: in tal modo essi non agiscono trainando, ma frenando e formano un gradino di massa disponibile ai margini: questi margini, una volta formati, non si ritirano più perché la naturale contrazione è a mano a mano compensata da una riserva di massa fluida. Il nastro vitreo, ripiegandosi a 90° sopra un cilindro opportunamente riscaldato, passa nel forno a lento raffreddamento di notevole lunghezza trasportatovi da rulli (fig. 17).

I diversi rami dell'industria vetraria.

Secondo una classifica adottata dalla Confederazione nazionale fascista del vetro e della ceramica, l'industria del vetro comprende i seguenti rami: vetro d'arte, conterie, musaici; vetro bianco; lastre da specchi e da finestre; bottiglie nere, bottiglioni, fiaschi e damigiane; isolatori di vetro; vetri per ottica; vetri da edilizia.

Vetro d'arte. - Comprende la produzione di oggetti per libera foggiatura al forno, già descritta; poi la produzione di oggetti che, pur essendo piacevolmente formati, non assumono le vere caratteristiche dell'arte se non a seguito di ulteriore lavorazioni, quali la molatura, l'incisione, la decorazione a colori e smalti; comprende le conterie e il musaico al quale si associano le produzioni di paste e smalti vitrei speciali. (Per le conterie, v. alla voce).

Forse la produzione del vetro d'arte, più che industria, andrebbe considerata artigianato, sia perché modesti ne sono gl'impianti e i mezzi d'opera, sia in considerazione della maestranza limitata a poche persone; infine anche, e soprattutto, perché quelle creazioni conservano, come ogni opera d'arte, le particolari caratteristiche di gusto, di fattura, di abilità del loro diretta artefice.

Due tipi fondamentali di vetro d'arte si contendono oggi i mercati: i vetri di Murano e i cristalli. Nei primi l'effetto è prevalentemente ottenuto dalla sorprendente maestria nella libera foggiatura al forno, dalla colorazione nella massa, da metalli infusi in paste colorate, di cui classico esempio è l'avventurina bruno-rossa a pagliuzze di rame, dalla lucentezza giallo oro, o verde a punteggiatura di cromo vivamente lucente, e, infine, da policromie ottenute per accoppiamento di blocchi, bacchette, fili di vario colore, saldati per rifusione; nei secondi le caratteristiche d'arte sono acquisite mediante trattamento alla mola, alla rotella, per incisione all'acido o decorazione mediante colori e smalti fusibili. In Boemia e Germania si producono a preferenza articoli d'arte molati e dipinti, in Inghilterra quelli molati; in Francia incisi all'acido, in Svezia incisi alla rotella. Solo in tempi recenti si iniziò in Italia la produzione di cristalli boemi e piombici, ma con scarsa applicazione ai vetri d'arte.

Vetro bianco. - Comprende una serie numerosa di prodotti diversi, quali: l'articolo da tavola; l'articolo per flaconerie e profumerie; vetri speciali che comprendono: articoli per gabinetti sperimentali, laboratori di chimica, ecc., e vetri sanitarî, specialmente fiale per inezioni ipodermiche; gli apparecchi per illuminazione (compresi i bulbi da lampadine elettriche).

Della categoria fanno parte anche alcuni articoli di vetro semi-bianco, come, ad esempio, le bottiglie verdognole da gassose e acque minerali e le bufferie, cioè le albarelle, i fiaschi. Si aggiunga ancora che l'industria del vetro bianco comprende anche molti vetri colorati. Sono incongruenze di terminologia derivate da promiscuità di lavorazione venute a turbare iniziali nette divisioni a seguito di perfezionamenti e di nuovi gusti della moda. Nel caso concreto fu soprattutto determinante il fatto che la pasta incolore, prodotta quindi da materie prime purissime, assume colorazioni di particolare bellezza mercé l'uso dei consueti ossidi. Si presta anche alla cosiddetta raffineria, cioè alla decorazione mediante colori e smalti vetrificabili. Trascureremo qui questa lavorazione che è di indole artigiana, e sovente viene fatta a domicilio.

Ancora prima della guerra mondiale l'industria del vetro bianco era esercitata da piccole fabbriche, le quali, con limitati mezzi tecnici, riuscivano a produrre grande varietà di articoli. Oggi, accanto a vetrerie d'importanza media, si sono sviluppate grandi fabbriche con notevole ricorso ai mezzi meccanici perfezionatissimi per lavori di stampaggio, soffieria, tirare di tubi, molatura di bicchieri, ecc.

La produzione del vetro bianco impone speciali cure per evitare qualunque causa di colorazione, come si è già accennato. È per ciò che si usano materie prime purissime e si pone la massima attenzione a che, durante il corso della produzione, particolarmente durante la macinazione, per cessione di schegge di ferro dalle macine, entrino il meno possibile fortuite sostanze coloranti nella massa. Per tutte le categorie di vetri bianchi, e in grado vario a seconda del loro uso specifico, si chiedono le già note caratteristiche di durabilità e resistenza alla devetrificazione. Gli accorgimenti necessarî, fondati principalmente sulle regole della composizione dei vetri, sono oggi facilitati dalla precisa conoscenza della funzione, o delle funzioni, che ogni sostanza vetrificabile ha nella sua qualità di componente del vetro.

L'industria del vetro bianco si vale, fra le tecniche accennate, della soffieria nelle forme, talora accoppiata a libera foggiatura, dello stampaggio, del tirare di bacchette e tubi, della soffieria alla fiamma del cannello, e poi dei lavori di raffineria già citati.

Poiché il vetro bianco deve essere incolore (sarebbe anzi più esatto di chiamarlo con tale aggettivo) assume notevole importanza la decolorazione della massa vitrea durante la fusione. Ben è vero che il primo accorgimento sta nell'usare, per quanto possibile, le materie prime esenti da ferro, che colora in verdognolo, nonché, povere di ferro anche le argille che servono alla confezione dei crogioli o dei blocchi da bacino; ma senza l'uso di decoloranti non è in generale possibile ottenere vetro esente da una tinta più o meno rilevabile; durante la fusione gli effetti di inapprezzabili quantità di ferro sempre contenuto in quasi tutte le singole materie prime (in parte, come accennato, anche cedute dai meccanismi) si sommano e si fanno apprezzabili nell'oggetto finito, specialmente se spesse ne sono le pareti o alcune parti.

Il tecnico vetrario distingue la decolorazione fisica, decolorazione per aggiunta di ossidi che producono una colorazione complementare a quella assunta dalla massa, in modo da ottenere per risultato vetro incoloro; e decolorazione chimica, basata sul fatto che le sostanze determinanti il non desiderato colore della massa, vengono, mediante adatti agenti chimici, portate a un diverso grado di ossidazione o a combinazioni diverse, per ottenere un cambiamento di colore in tinte meno sgradevoli e, soprattutto, assai meno intense. Un esempio si ha nel far passare il fortemente colorante ossido ferroso nel meno colorante ossido ferrico. Le più importanti sostanze decoloranti sono l'arsenico, i nitrati sodico e potassico, il manganese e gli ossidi di cerio, di nichelio e di selenio.

Articoli da tavola e per flaconerie. - I vetri bianchi cavi, ai quali appartengono gli articoli da tavola e le flaconerie, si distinguono, a seconda del grado d'assenza di colorazione, in vetri bianchi, semibianchi e ordinarî, questi ultimi di tonalità più accentuatamente verdognola. Il più puro fra i vetri bianchi cavi si dice vetro cristallo. Sotto tale denominazione si intese in origine solo un vetro chiaro, incoloro, prodotto a mano e per soffio, e che per molatura riceveva spigoli, angoli e superficie alla maniera dei cristalli, dei quali assumeva l'aspetto. Ora si applica la stessa denominazione di vetro cristallo anche a vetri di qualità eletta senza decorazione. Un vetro cristallo deve distinguersi per le seguenti qualità: elevata lucentezza, elevato grado di rifrazione, praticamente completa assenza di colorazione (dunque uniforme epperò debole assorbimento di tutti i raggi luminosi, affinché anche in strati spessi del vetro non compaiano accenni a tinte scure). Il più nobile vetro cristallo è sempre quello piombico. Ma, come abbiamo visto, si qualificano per cristallo anche i vetri non piombici, molati, e corrispondenti all'ultima delle suddette condizioni. Ora è noto che a differenza dei soliti vetri calcico-sodici si possono ottenere vetri di speciale composizione, nei quali la calce è largamente sostituita dal bario (vetro sonante) e le caratteristiche di lucentezza e rifrazione sono esaltate in alto grado, per quanto non fino a quello dei vetri piombici. Una categoria particolare si ha nel "cristallo boemo" che assai si avvicina a quello piombico (v. cristallo) e nel quale l'ossido sodico è sostituito dall'ossido potassico. Nei riguardi della colorazione e della lucentezza i cristalli non piombici si distinguono in semi-cristallo e in cristallo pieno.

Articoli da laboratorio. - Vi si distingue il vetro finito per semplice lavorazione alla fornace, e il vetro che oltre a questa subisce le lavorazioni alle soffierie, assumendo in tale caso generalmente l'appellativo di "apparecchio" da chimica. Per lo più tali apparecchi sono in tutto o in parte foggiati da tubi. Le vetrerie da laboratorio, destinate a precise operazioni d'analisi o ad altri scopi di chimica, devono possedere le seguenti tre qualità, senza che tuttavia sia sempre necessaria la loro coesistenza nello stesso vetro: I. resistenza chimica; 2. resistenza termica; 3. determinate condizioni di viscosità, e cioè, oltre a buona lavorabilità alla soffieria, nessuna tendenza alla devetrificazione e all'appannamento.

Vetri per scopi sanitarî. - I vetri per scopi medico-farmaceutici sono numerosi e si distinguono in tre gruppi: a) vetri da medicinali (bottiglie a collo stretto, o largo, le une e le altre con o senza tappo smerigliato). Essi vengono soffiati nelle forme, sono dunque prevalentemente lavorati alla fornace, sia che vengano prodotti a mano sia a macchina. Solo i vetri muniti di tappo subiscono un complemento di lavorazione in reparto separato; b) fiale da iniezioni e per conservazione di sieri iniettabili. Vengono prodotti alle soffierie da canna di vetro neutro (fig. 18); c) tubetti per pastiglie compresse.

A questi vetri si chiedono ottime qualità di durevolezza e pertanto la loro composizione chimica è di somma importanza. Per impedire la decomposizione di certi medicamenti per effetto della luce, si producono anche vetri neutri colorati in giallo o bruno.

Lampadine elettriche. - Fino a circa un decennio fa i bulbi per lampade elettriche venivano prodotti dappertutto a mano e per soffio. Ora le grandi fabbriche dell'estero dispongono di macchine tra le quali la più usata è la "Westlake" che per mole e modo di lavorare ricorda la macchina Owens. Le parti in tubo e bacchetta che si trovano nell'interno dei bulbi sono prodotte nel modo già descritto mediante la macchina Danner o Philips. Queste lavorazioni si fanno ora anche in Italia.

Lastre da finestre e lastre cristallo o da specchi. - La differenza fondamentale fra lastre da finestre e lastre da specchi, queste ultime impropriamente dette anche "lastre cristallo" o semplicemente "cristalli", benché non contengano piombo e solo maggiori ne siano, rispetto ai vetri da finestre, le esigenze di purezza delle materie prime usate e, per conseguenza, di assenza d'ogni traccia di colorazione, sta in questo: le lastre da finestre non subiscono lavorazioni complementari alle superficie di prima formazione, sulle quali restano pertanto più o meno le tracce della tecnica della loro fabbricazione: quelle superficie sono imperfettamente piane, leggermente ondulate e per trasparenza deformano otticamente le immagini. Le lastre cristallo vengono invece dopo la loro prima formazione, molate a scopo di spianamento e levigate a scopo di lucidatura; le loro superficie sono pertanto perfettamente piane e lisce. È condizione specialmente indispensabile quando vengono prodotte per la fabbricazione di specchi.

Lastre da finestre. - Prodotte un tempo per soffiatura a bocca coi procedimenti dei cilindri e della corona, dal secondo decennio di questo secolo vengono di preferenza fabbricate con i procedimenti meccanici Lubbers, Fourcault, Libbey-Owens (v. sopra).

Lastre da specchi (lastre colate e laminate). - Sono stati illustrati i progressi conseguiti nella produzione di lastre da specchi: ma ci siamo fermati al prodotto grezzo. Il secondo passo nella tecnica di produzione delle lastre da specchi sta nella loro molatura o spianatura e susseguente politura o lucidatura, operazioni che si effettuano mediante procedimenti o intermittenti o continuativi: i primi su mole circolari, i secondi, non ancora esenti da inconvenienti tecnici, su mole a nastro. Le lastre da specchi servono oltre che per specchi, anche come lastroni (cristalli) da vetrine, per portiere e finestre da automobili e ferrovie, ecc. In particolare quelle per specchi vengono scelte esigendosi per esse qualità superiori di trasparenza, omogeneità nella massa, assenza di bolle d'aria, di strie, di colorazioni, e, condizione indispensabile, una perfetta spianatura. Lo specchio riflette i raggi; questi attraversano due volte lo spessore del vetro; qualunque difetto vi assume doppio valore: tracce di colorazioni verdognole impallidiscono l'immagine, insufficienti spianature la deformano. Deviazioni dal piano ideale eccedenti mezzo millesimo di millimetro non sono tollerate nelle buone lastre da specchi. Le spianatura e la lucidatura si compiono per tre gradi: molatura grossa, molatura fine e politura. Per la prima si adopera sabbia quarzosa lavata e stacciata (0, 1-i mm.). L'asporto totale varia da 0,7-2 mm. a seconda del metodo con il quale fu prodotta la lastra grezza. La molatura fine avviene per graduale diminuzione della grossezza di grana della sabbia (fino ad usarne da 0,03 mm.); per le ultime passate si aggiunge talvolta dello smeriglio. Per la politura s'adopera il cosiddetto "rossetto" (ossido ferrico), più raramente l'ossido di cromo in grana microscopica. Per le operazioni di molatura l'utensile operante della mola è di ghisa, per quelle di politura invece di feltro.

Dalle lastre da specchi si ottengono le lastre Securit e VitRex, notevoli per resistenza meccanica ed elasticità, a seguito di speciale tempera: un brusco raffreddamento, per soffio d'aria in apposito congegno, dalla temperatura vicina al rammollimento a quella ambiente. La presenza in esse di forti tensioni interne, mentre obbliga di fornirle in misura, ritagliatura e foratura rispondenti all'impiego, ogni loro lavorazione dovendo precedere la tempera, ne determina in caso di rottura uno sgranellamento, punto pericoloso; per ciò sono usate nell'industria automobilistica ed aereonautica in luogo dei vetri di sicurezza.

Abbiamo distinto le lastre in quelle poco spesse, con tolleranza di leggiera colorazione, non spianate per seconda lavorazione, ed in quelle da specchi, dette anche "cristalli", a forti spessori, praticamente del tutto incolori e per seconda lavorazione rese perfettamente piane, lisce e lucide. Abbiamo anche rilevato che i procedimenti Fourcault e Colburn sono particolarmente adatti alla produzione di lastre da finestre, quello per laminazione invece alla produzione di vetri cristallo. Questa distinzione è dovuta a tre ragioni fondamentali: maggior facilità di tirare lastre sottili; minor tempo bastevole per compiere, in lastre sottili, il processo di lento raffreddamento; difficoltà di ottenere in forni a bacino del vetro sufficientemente incoloro, soprattutto a causa di cessioni ferrose da parte dei blocchi refrattarî di rivestimento; con il metodo di colata e laminazione invece, lo spessore massimo non è limitato che dall'uso cui le lastre devono servire; il lento raffreddamento non e legato al tempo di produzione, poiché avviene in forni distinti da quelli fusorî; il vetro fuso in crogioli riesce più facilmente incoloro. Sennonché i sistemi per diretto tiraggio dalla massa fusa incandescente, da una parte, e quelli per laminazione dall'altra, hanno conseguito recentemente notevoli progressi: si sono vicendevolmente avvicinati per caratteristiche del rispettivo loro prodotto, di modo che la distinzione per tecnica di produzione, sopra accennata, sta per scomparire. Specialmente con il metodo Colburn si ottengono già lastre di notevole spessore; esse vengono in seguito assoggettate alla politura e poi passate al commercio come lastre "mezzo cristalli" e "cristalli".

Bottiglie, bottiglioni, fiaschi e damigiane. - Delle bottiglie è detto all'apposita voce. Benché esistano tipi di macchine anche per bottiglie della capacità da 6 a 25 litri e oltre (bottiglioni), la fabbricazione si compie ancora in gran parte per soffio alla bocca o di compressore d'aria con relativo serbatoio di compressione a 3 atmosfere, utilizzando i forni a bacino e la stessa qualità di vetro impiegata per le bottiglie normali a tinte scure, verdi e brune.

La fabbricazione dei fiaschi si effettua per fusione in bacino e soffiatura alla bocca nel modo consueto entro forme dopo avere, per soffio preliminare, moto pendolare della canna e allungamento del collo mediante molle, dato al vetro l'aspetto di una vescica gonfiata. L'imboccatura, se non è lasciata grezza, si aggiusta secondo il tipo del fiasco con tenaglie previo riscaldamento fino a nuova pastosità.

Le damigiane sono anch'esse a forma di vescica gonfiata, a collo relativamente breve, di capacità varia, comunemente di nominali litri 10,15, 25, 50. La produzione, frazionata tra molte vetrerie, non ha favorito l'applicazione delle macchine soffiatrici, pur usandosi in alcune di esse la soffiatura per compressori e cassoni di compressione come citati anche più sopra. Il vetro fuso in forni a bacino si preleva con canna da soffio del diametro di 4 cm. in quantità, p. es., di circa 8 kg. per damigiana da 50 litri e, compiute le note operazioni preliminari, si soffia entro forme aperte di refrattario; oppure, ed è il caso della soffiatura alla bocca, avendo come aiuto e guida una semplice sagoma di refrattario. Al primo soffio si raggiungono diametri da 20 a 30 cm., all'ultimo si ricorre a un artificio che consiste nel riempirsi la bocca di acqua che, abilmente spruzzata nella canna, genera nel vuoto del vetro una pressione di vapore in aiuto a quella del fiato. Ultimata la soffiatura e saldato, a pasta ancora molle, un anello al collo, destinato a trattenere la legatura del turacciolo, la damigiana, che non richiede alcuna finitura perché la bocca è lasciata grezza, passa al lento raffreddamento in camera preriscaldata o in forno a galleria. Il raffreddamento (non meno di 24 ore) deve essere molto curato per assicurare buona resistenza meccanica al recipiente destinato a trasporti di merce costosa; per uguale motivo la massa non deve contenere sassi o bolle, in considerazione anche delle notevoli differenze negli spessori delle pareti: da 8-10 mm. alla bocca, e metà, ed anche meno, alla parte sferica. Per tale ragione, e per l'impiego degli stampi aperti, non si ha nemmeno costanza di capacità; damigiane di nominali litri 50 possono in realtà contenere da 46 a 54 litri; è pertanto d'uso di vendere il contenuto a peso sotto detrazione della tara. Le damigiane sono rivestite mediante una solida cesta di vimini col fondo rinforzato da un disco di legno; alla cesta si raccorda un solido intreccio di sala o di vimini sottili, che ricopre la parte superiore della damigiana.

Isolatori di vetro. - L'industria degl'isolatori di vetro è di data recente; ha tuttavia già avuto notevoli sviluppi in America e altrove e va di continuo consolidandosi in Italia. È un prodotto di stampaggio e si fabbrica tanto in tipi da montare su perni quanto in tipi da sospendere. Il vetro comune fu impiegato come isolante fino dalle prime ricerche sull'elettricità, ma poiché lo stesso è fragile e igroscopico non poté soddisfare le esigenze di linee aeree nemmeno a bassa tensione; per tale uso si è pertanto dovuto studiare una composizione della massa vitrea e un relativo trattamento termico che dessero isolatori rispondenti alle seguenti condizioni: alta tenacità e compattezza, minima igroscopicità, alta resistenza elettrica nella massa e alla superficie, robustezza meccanica, buona resistenza agli sbalzi di temperatura.

Vetro per l'ottica. - È il vetro speciale, cura e preoccupazione di vetrarî muranesi fino dai tempi di Galileo, destinato alla costruzione di strumenti ottici; si differenzia da tutte le altre varietà per l'accentuazione di alcune caratteristiche e per il modo di produzione che tende a conseguire una massa di necessaria purezza e limpidezza, di limitato potere assorbente, di ottimo equilibrio molecolare, libero da bolle e strie e rispondente, per composizione, a buona resistenza chimica e a precisi e svariatissimi valori dell'indice di rifrazione e del potere dispersivo, nonché dei voluti rapporti fra di essi. La diversa lavorazione, economicamente non compatibile per altri prodotti vetrarî, è in principal modo imposta dal fatto che il vetro per uso ottico viene richiesto in pezzi relativamente grandi e spessi. Le antiche lenti erano ricavate da scelti pezzi di vetro da finestre o da specchi (crown a rifrazione e a dispersione entrambe deboli) e da cristallo piombico inglese (flint a rifrazione e dispersione entrambe forti); la loro composizione chimica non usciva dai limiti dei sette ossidi vetrificabili fondamentali allora conosciuti; nella serie di ottiche esistenti la dispersione media era funzione lineare del medio indice di rifrazione che, alla sua volta, cresceva regolarmente con la densità. Quando, alla metà del sec. XVIII da Dollond fu scoperto l'acromatismo e inventato l'obiettivo acromatico, sorse il vero problema del vetro per l'ottica: si chiesero alla massa vitrea speciali e svariati rapporti fra rifrazione media e medio potere dispersivo della luce e la possibilità di costruire strumenti, in specie per l'astronomia e per la microscopia, atti a dare immagini luminose, nitide, senza marginali iridescenze. L'industria del vetro non era in grado di corrispondere a tali richieste. La ricerca di nuovi componenti e di nuovi contemperamenti delle miscele ai voluti effetti ottici occupò per decennî uomini di scienza e sperimentatori (Guinand, Harcourt, Schott) e portò, a integrazione degli antichi crown e flint, alla produzione di numerosi vetri a deboole rifrazione e relativamente forte dispersione e viceversa, dai quali gli ottici riescono oggi a ottenere una sempre più perfetta acromatizzazione. Si complicarono pertanto la classifica e la nomenclatura di tali vetri: in relazione ai componenti caratteristici, influenti sulle qualità ottiche, si distinguono: borosilicati crown, crowns al bario, allo zinco, al fluoro, al fosfato e poi: flints ordinarî e flints al bario; ogni categoria è poi suddivisa, con lamentata discordanza tra le varie case fabbricanti, a seconda della densità e del coefficiente medio di rifrazione, in: molto leggiero, leggiero, medio, denso e molto denso.

Nelle sue operazioni preliminari il processo di fabbricazione non si scosta molto da quello in uso per altri vetri eletti, solo che ogni cautela nel selezionare le materie prime deve essere spinta al massimo possibile: mentre in generale sono da temere solo le impurità non fusibili e quelle coloranti, per gli scopi dell'ottica si debbono evitare anche solo tracce di sostanze che, pur essendo vetrificabili, non appaiono comprese nella formula precisa secondo la quale s'effettua la fusione: tali sostanze avrebbero per effetto di modificare le costanti ottiche volute. Per tale ragione non si possono nemmeno usare durante la fusione i consueti decoloranti. La sabbia già scelta a bassissimo tenore di ferro viene a maggior garanzia lavata in soluzione di acido cloridrico. I crogioli sono coperti per evitare le influenze dei gas di combustione. Generalmente il forno non contiene che un solo crogiolo per poter meglio regolarvi la temperatura secondo le particolari esigenze della composizione in fusione e, soprattutto, durante il raffreddamento successivo. Per conseguire la necessaria omogeneità del vetro, il che presenta la massima difficoltà nei vetri piombici, tendendo il pesante ossido di piombo sempre verso il basso del crogiolo, sì applica il procedimento Guinand che consiste nell'agitare la fusione mediante un cilindro d'argilla refrattaria a mano o mediante congegno meccanico. A un dato momento dell'operazione, lasciata abbassare la temperatura della massa fino alla viscosità che garantisca la conservazione della raggiunta omogeneità, si leva l'agitatore, si chiude il forno e lo si abbandona al graduale raffreddamento che può durare alcune settimane. A temperatura ambiente conseguita, si leva il crogiolo e si mandano in frantumi crogiolo e vetro; selezionati i vetri ottenuti, essi subiscono una seconda operazione termica in apposito forno a muffoli con regolazione esatta della temperatura: portati a quella di rammollimento si raffreddano secondo una precisa curva che è funzione di tempo e di temperatura, conosciuta come confacente alla specifica composizione del vetro, allo scopo di ottenere il miglior possibile assestamento molecolare del prodotto. I pezzi, che durante la ricottura si possono anche adagiare entro refrattarî a scatola perché ne assumano all'incirca la forma quadrata o tonda, vengono poi ripuliti sommariamente e passati all'industria ottica per la formazione di lenti, prismi, ecc. Particolarmente difficile e spesso dovuta al caso, è la produzione di pezzi da cui si possano ricavare lenti di notevoli dimensioni: quando s'intuisce di poter trovare nel crogiolo tratti piuttosto vasti di buona omogeneità, anziché rompere crogiolo e vetro, si procede alla loro segatura secondo il suggerimento dell'apparenza esterna. Tutte le dette difficoltà non tolgono che mediante il concorso di mezzi speciali e costosissimi si sia riusciti a fondere pezzi di vetro per la fabbricazione di grandissime lenti da telescopî per osservatorî astronomici.

Il vetro nell'edilizia. - Nel novero dei materiali da costruzione edili il vetro va allineandosi fra i più importanti. I progressi realizzati nelle condizioni di resistenza dei ferri e dei cementi armati, nonché nei metodi del fabbricare, hanno reso possibili leggiere e parche ossature portanti e leganti, e gli spaziosi vuoti lasciati liberi possono accogliere rivestimenti di vetro, con particolare e notevole vantaggio su altri materiali. Così, tra ferro, cemento armato e vetro si delineano nettamente compiti della statica e delle isolazioni ambientali. Quella meravigliosa realtà tecnica e artistica che era il Palazzo di cristallo in Londra, eretto nel 1881 e incendiatosi nel 1936 non ebbe ancora potenza rivelatrice per più generali e pratiche possibilità. L'ebbero invece alcune costruzioni di più modesta mole ma ricche di elementi dimostrativi in rapporto a formazioni costruttive e stilistiche, apparse per iniziativa di architetti razionalisti, dapprima, temporanee, in alcune esposizioni, poi, in pratico e definitivo uso, nelle maggiori città dell'estero, prima e immediatamente dopo la guerra mondiale. Oggi, le cosiddette "case di vetro", case, cioè, in cui predomina l'elemento vetro, non si contano più in America, Germania, Francia, Austria, e altrove ancora. I postulati dei fautori di tali case sono: chiarezza, precisione, semplicità, igiene. In Italia, dove clima e cielo, ricchi di sole, in contrasto con i paesi nordici consigliano piuttosto mezzi moderatori della luce, non si volle esagerare; tuttavia si constata anche in Italia una crescente tendenza verso aria e luce, quella tendenza che ha già tolto dalle finestre drappi e tendaggi, che spinge a moltiplicare e ampliare le aperture e che porta ad esaltare le recenti elevatissime costruzioni a serie di terrazze degradanti verso l'alto. In Italia oltre ad alcune costruzioni nelle quali il vetro ha parte notevole, va annoverata la Casa del Fascio di Como, con impiego quasi totalitario del vetro nelle formazioni interne.

Per l'uso dell'edilizia tutta una nuova categoria di materiali vitrei da costruzione è apparsa, varia per caratteristiche fisiche, grazie alle quali va in parte sostituendo la pietra da taglio, il ferro, il cemento armato, il marmo, la terracotta, i legnami nobili da rivestimento.

È la lastra che, a prescindere anche da quella normale per finestre, si è affermata con prevalenza: diversa per spessori, qualità e colore per vetrate; spessa e breve - meglio definita come "piastra" - per pavimentazioni, pareti, soffitti, lucernarî, chiusa fra telai di ferro o dentro reticoli di cemento armato; a superficie prismatiche come diffusori di luce; incolore o colorata; di caratteristiche fisiche, o normali o speciali, in quanto permeabile ai raggi ultravioletti o impermeabile a quelli calorifici infrarossi, formando perciò vetri adiatermici; o, infine, semplicemente dotata di notevole resistenza meccanica. Larga è ormai anche l'applicazione dei varî prismi diffusori di vetro per formazione delle strutture "vetrocemento", i cui sistemi passano all'estero sotto diversi nomi e trovano in Italia riscontro nei diffusori "Iperfan" tondi e quadri della fabbrica di Fidenza e "Novalux", pure tondi e quadri, della fabbrica di Pisa. Ecco l'elenco, con qualche notizia sul modo di produzione, dei più usati materiali da costruzione ottenuti dalle paste vitree; si omettono le lastre da finestra e i cristalli già citati.

Mattoni di vetro, stampati pieni, o, se vuoti, chiusi dalla parte aperta mediante lastrina; oppure soffiati nello stampo saldando l'apertura lasciata dalla canna.

Lastre a decorazioni impresse (rigate, a fiorame, ecc.), ottenute per colaggio e laminazione mediante cilindri sui quali è incisa la negativa dell'ornato. Impressione da una sola o da entrambe le facce.

Lastre da finestre o lastre cristallo che subiscono seconde lavorazioni, a scopo decorativo o per diffusione della luce, mediante smerigliatura con sabbiatrici (getto di sabbia) o satinatura all'acido.

Lastre armate, cioè con rete metallica interposta fra due strati di massa vitrea incandescente, appiattiti per colata fra cilindri e formanti un'unica lastra per intima saldatura. Si fanno a superficie lisce o ornamentate secondo i metodi suddetti.

Lastre speciali, che si producono sia a facce lisce sia rigate: a) impermeabili ai raggi ultravioletti: che possono assorbire non meno dell'80% dei raggi ultravioletti presenti nella luce bianca; b) permeabili, per contro, in misura notevole ai raggi ultravioletti; c) impermeabili ai raggi infrarossi (lastre adiatermiche) che assorbono non meno del 50% dei raggi infrarossi presenti nella luce bianca: non trasmettono dunque detti raggi, che sono i calorifici, se non in parte, difendendo per ciò gli ambienti da eccessivo calore.

Lastre di sicurezza, monostrati temperate come le già citate lastre Securit e VitRex, o polistrati incollate (per es., due lastre di vetro esterne e una interna di resina sintetica trasparente), che dall'applicazione alle automobili passano ora anche a qualche impiego nell'edilizia; per es., si sono recentemente fatte delle scale sostituendo questo materiale al marmo. Per interni di case moderne entrano sempre più in uso mobili di vetro Securit.

Lastre a prismi, laminate cioè a superficie multi-prismatiche, adatte a essere legate in telai di ferro e agenti da diffusori di luce, per pareti, invetriate, lucernarî, ecc.; eventualmente colorate per conseguire effetti decorativi. Queste lastre si producono anche nelle notevoli misure di cm. 100 per cm. 300 e spessori da 6-6,5 mm.

Prismi diffusori. - Tanto il cemento quanto il vetro si lavorano allo stato pastoso con agevoli ed economiche possibilità di plasmature compatte e vicendevolmente compenetranti in modo da formare un solo tutto. Ciò portò ad associarli nel compito di corpi da costruzione per pareti e coperture, secondo un sistema detto "vetro-cemento", con il vantaggio, rispetto ad altri materiali, di non privare gli ambienti della luce esterna, dando anzi a questa una razionale e riposante distribuzione. Trent'anni di studî e di pratica permisero di eliminare iniziali inconvenienti, di modo che oggi il sistema corrisponde perfettamente alle seguenti condizioni: resistenza all'appannamento, resistenza meccanica, ricambiabilità degli elementi, buona distribuzione della luce, difesa contro eccessivi calori ed eccessivi freddi, difesa dai rumori, facilità di ripulimento. I prismi si ottengono per stampaggio; essi vengono fermati nel cemento armato (beton armato) formante reticolato piano, ad arco o a cupola.

Vetri opali od opaline. - Sono vetri in notevoli quantità impiegati per piastrelle, rivestimenti murali ed altre applicazioni nell'edilizia; ma largo uso ne viene fatto anche per oggetti sanitarî, da toletta, da laboratorio e, soprattutto, per diffondere secondo le moderne tendenze la luce artificiale negli ambienti. L'opalina appartiene alla categoria dei vetri in estesa gamma translucidi nella massa, a differenza di quelli che lo sono per lavorazione delle superficie: vetri rigati, smerigliati e simili. In generale si può ammettere che lo stato opalino nei vetri sia dovuto a forme di sistemi dispersi ottenute per fusione di componenti opachizzanti, ad es., fluoruri, fosfati, ossidi speciali, in particolare quello di stagno, oppure per formazione di bollicine gassose di estrema piccolezza, o ancora per devetrificazione. In tutti questi casi il fattore determinante l'opalescenza è la diversità degl'indici di rifrazione fra vetro e particelle eterogenee, piccolissime e individualmente invisibili, costituenti la fase dispersa.

L'industria vetraria in Italia.

Quando dall'America giunsero le irrefutabili prove della creazione di macchine dalle sorprendenti produzioni di parecchie decine di chilometri di tubo, di 3500 mq. di lastre, di 45.000 bulbi da lampade elettriche, di 60.000 bottiglie nelle 24 ore, con irrisoria assistenza di maestranze, anche l'Europa venne colta dalla febbre della meccanizzazione delle industrie vetrarie e nel volgere di 2-3 anni dappertutto si ebbe il danno della sopra-produzione e della disoccupazione.

La costituzione di sindacati fra grandi produttori di vetro a macchina poté temperare il primo guaio dopo notevoli deprezzamenti degl'impianti nuovissimi e riduzioni dei capitali sociali; il secondo non trovò che parzialmente quell'assestamento che deve restare affidato solamente al tempo.

L'Italia, dopo un primo slancio, ha potuto non solo conciliare in ogni settore della produzione vetraria gl'interessi dei datori e prestatori d'opera, ma anche affrontare alcuni problemi di somma importanza, come quelli delle materie prime nazionali, per l'industria del vetro, i limiti di produzione per le esportazioni, l'istituzione di un centro per ricerche vetrarie, di una scuola professionale e altra di avviamento al lavoro, unificazione negli articoli di vetro, ecc.

Con le sue 430 aziende, alcune esercenti più di uno stabilimento, che occupano complessivamente circa 28.000 operai, l'industria vetraria italiana si trova, sebbene importi ancora largamente dall'estero, al quarto posto fra le nazioni produttrici di vetro in Europa. Ogni sforzo è attualmente teso verso una completa emancipazione.

Il vetro d'arte quasi esclusivamente prodotto in Italia è quello di Murano.

L'industria di Murano, che durante l'occupazione napoleonica era in completa decadenza, ebbe una ripresa per opera di Antonio Salviati (v.) nella seconda metà del sec. XIX. Ma non fu duratura e Murano stessa, come già Altare, subì l'evoluzione verso l'industrializzazione e per ciò verso la produzione a macchina di articoli di maggior richiesta sui mercati del vetro. Permane tuttavia sempre un nucleo di vetrerie artistiche di libera foggiatura al forno che conserva nettamente un posto a sé tra le industrie del vetro e che si mantiene fermamente estraneo all'evoluzione moderna delle tecniche. Le vetrerie di questo nucleo, oggi 17 in Murano e 2 o 3 nel resto d'Italia, si differenziano tra loro per importanza, tradizione, possibilità creatrici, organizzazione di vendita all'interno e all'estero. Esse occupano complessivamente 600 operai e non solo resistono alla generale crisi successiva alla guerra mondiale, ma hanno saputo intonare la produzione ai gusti del tempo.

I loro vetri, come da uso antico, passano ai più lontani mercati sotto la denominazione delle "fornaci"; i proprietarî di queste, sono spesso anche gli artefici, sempre gl'ispiratori; i nomi di Barovier, Venini, Pauly, Toso e altri, rimarranno nella storia di Murano a testimoniare una fermezza d'intenti e di sviluppi artistici nell'epoca presente, per l'arte vetraria particolarmente difficile.

Tra le industrie di quest'arte si presenta attualmente in quasi completo abbandono quella del musaico ormai ridotta ai laboratorî di Roma, Venezia e Ravenna, conservati a solo scopo di manutenzione continua d'antiche opere d'arte.

Per un'altra lavorazione caratteristica veneziana, v. conterie.

L'industria del vetro bianco primeggia in Toscana, dove conta numerose fabbriche di media grandezza a Firenze, Pisa, Siena, Livorno, Arezzo; in Lombardia, a Milano e Como; nel Veneto, a Murano, esiste la più grande fabbrica di articoli da tavola e da illuminazione; in Liguria, a Savona; in Piemonte, a Torino; nell'Emilia, a Parma; a Roma, a Napoli. Nel vetro bianco è compresa anche la produzione delle vetrerie scientifiche che rappresentano un ramo modernissimo dell'industria vetraria. Oltre ai vetri da laboratorio, ecc., è importantissima quella del vetro neutro per fiale da iniezioni ipodermiche. Oggi la produzione del tubo di vetro neutro è accentrata a Murano e a Napoli, mentre quella delle fiale è distribuita a Treviglio, Sesto S. Giovanni, Milano, Genova, Vicenza, Roma, ecc. La maestranza dí tutte le categorie addette all'industria del vetro bianco, comprese quelle di vetro neutro e fiale, ammonta a circa diecimila operai, suddivisi in 95 aziende italiane. La produzione si valuta a circa 100 milioni di lire.

La produzione dei fiaschi, che si può ritenere localizzata nella regione toscana, dà lavoro a 15 stabilimenti, ai quali si aggiungono 30 ditte che si occupano del rivestimento; essi restano fedeli, per motivi di convenienza, all'antica tecnica del soffio, benché sia stata agitata la proposta della meccanizzazione per ottenere fiaschi di dimensioni e capacità precise. Mentre, anche senza il concorso di macchine, la possibilità produttiva degli stabilimenti suddetti potrebbe essere di 60 milioni di fiaschi all'anno, il consumo, strettamente legato al mercato del vino, principalmente toscano, non ne è che di poco superiore alla metà. Si contano circa 2000 operai impiegati nelle vetrerie e circa 10.000 donne, per il rivestimiento di paglia, in gran parte occupate a domicilio.

Le più antiche fabbriche per la produzione di lastre da finestre sorsero a Porlezza, a Garessio, a Porto Valtravaglia e a Poggio Mirteto, località tutte in cui abbonda la legna. Altre ne sono sorte di poi un po' in tutte le regioni. Fino al 1928 la produzione avveniva esclusivamente per soffiatura di cilindri. A seguito di un accordo dei lastrai, organizzati con gli industriali tale produzione era contenuta nei limiti del mercato nazionale. Ma per tener fronte all'invasione del prodotto estero fabbricato con i procedimenti meccanici Fourcault e Colburn (Libbey-Owens), prodotto qualitativamente superiore a quello ottenuto a canna, le vetrerie dovettero attrezzarsi per la produzione meccanica delle lastre. Si contano ora quattro vetrerie che lavorano con macchine Fourcault, e un grande stabilimento, espressamente sorto a Porto Marghera (Venezia), che produce con macchine Libbey-Owens. Questi stabilimenti sono attrezzati per prod urre circa 11 milioni di mq. di lastre all'anno, mentre il consumo nazionale si limita a mq. 6.800.000. È pertanto stata costituita l'Unione Vetraria Italiana per regolare la produzione e il mercato, ed è ora esclusivamente essa che provvede alla vendita delle lastre ottenute a macchina. La produzione è regolata per limitazione delle annuali campagne vetrarie. Sussistono tuttora poche fabbriche (3) le quali persistono nel lavoro a soffiatura in concorrenza dell'Unione.

Per la fabbricazione di lastre cristallo colate laminate e polite è stato impiantato a Pisa un importante stabilimento nel 1889. L'iniziale produzione annua di 6700 q. è salita ora alla media di circa 210.000 q.

Le vendite di lastre a macchina effettuate per mezzo dell'Unione Vetraria Italiana nel 1933 sono state le seguenti: lastre da finestra metri quadrati 3.908.000; mezzi cristalli mq. 341.000; cristalli mq. 294.000; prodotti grezzi (cioè lastre di forte spessore non lavorate), mq.1.100.000. La produzione nazionale va poi aumentata di circa 600.000 mq. di lastre da finestra prodotte dalle 3 fabbriche che lavorano ancora a soffio.

La prima fabbrica di isolatori di vetro si è impiantata ad Acqui nel 1920 per la produzione di isolatori di vetro verde per basse tensioni, fino allora importati dalla Francia; ma nel 1924 iniziò anche la produzione di tipi di vetro speciale, detto "Pyrex", per alte e altissime tensioni. Nel 1921 sorse una seconda fabbrica italiana a Fidenza per isolatori verdi. La produzione di entrambe le vetrerie, in continuo aumento, va sostituendo sempre più gl'isolatori di porcellana: i verdi per il mite prezzo, i Pyrex per la qualità. Non solo è cessata in Italia l'importazione di isolatori di vetro ma si è sempre più accentuata l'esportazione. Nelle due aziende sono impiegati circa 500 operai.

La lavorazione del vetro d'ottica si è iniziata in Italia nel 1916 alla Sezione staccata d'artiglieria del laboratorio di precisione R. Esercito a Pisa e poi a Roma, presso la sede principale di quel laboratorio, che continua la fusione di vetri per strumenti militari. Tentativi industriali furono fatti a Murano e Firenze.

Bibl.: Dralle-Keppeler, Die Glasfabrikation, Monaco 1926; F. W. Hodkin e A. Cousen, A Textbook of Glass Technology, New York 1925; B. Long, Les propriétés physiques et la fusion du verre, Parigi 1933; C. A. Maffei, Industria del vetro, Milano 1930; C. Rovini, Il vetro, trattato storico-tecnico-scientifico, Pisa 1935.

Storia e arte.

Antichità. - Il vetro occupa un posto preminente nell'antichità, sia per la sua diffusione nella vita domestica, sia per la perfezione delle tecniche nel campo dell'arte.

Una tradizione riferita da Plinio il Vecchio (Nat. Hist., XXXVI, 65) attribuisce a un caso fortuito la scoperta del vetro, che sarebbe avvenuta sulle coste della Fenicia, dove alcuni mercanti, servendosi di pani di nitro per allestire un fuoco, si accorsero che insieme col nitro si fondeva anche la sabbia in un fluido trasparente. Quantunque tale racconto non presenti un serio fondamento, esso è sufficiente a confermare l'origine marittima del vetro, la cui industria ha sempre trovato la necessaria materia prima, il silicato, nelle sabbie fluviali presso le foci, mentre il nitro, quale fondente alcalino, sembra si ricavasse dalle ceneri di una pianta litoranea, chiamata poi dagli Arabi al-qalī.

D'altra parte, la fama cui assursero alcuni centri della Fenicia stessa, come Tiro e specialmente Sidone, che Plinio chiama l'artifex vitri, giustifica la leggenda, mentre numerosi ritrovamenti concorrono a confermare la maggiore trasparenza del vetro locale a cui accenna anche Luciano (Amores, 26). Il più antico monumento di vetro trasparente è un balsamario con inciso il nome di Sargon (sec. VIII a. C.).

In Italia, secondo Plinio, le sabbie del Volturno erano particolarmente adatte alla vetrificazione, ma da Pompei i prodotti di probabile manifattura campana mostrano una qualità di vetro verdognolo, meno puro di quello fenicio. Così pure i ritrovamenti delle Gallie e della Spagna (le quali regioni, secondo lo stesso autore, avrebbero avuto un'industria propria) non provano una migliore produzione.

In accordo con la penuria di oggetti di sicura origine locale, specie anteriori al periodo ellenistico, le fonti scritte relative al vetro, nella Grecia propriamente detta, sono assai scarse e incerte. In Omero abbiamo il termine κύανος, che Teofrasto usa egualmente sia per indicare una materia naturale, che potrebbe essere il lapislazzuli, sia per definire un prodotto artificiale, identificabile nella pasta vitrea stessa usata nell'epoca micenea in lavori d'incrostazione e in ornamenti di vesti. Con maggiore precisione ὕαλος indica, in tempi posteriori a Pindaro, il vetro incolore, equivalente a vitrum dei Latini, che dopo Cicerone si afferma termine comune usato anche in senso metonimico.

La più remota industria del vetro colorato con ossidi metallici si manifesta in Egitto dal Nuovo Impero al periodo tolemaico, in virtù delle possibilità minerarie del luogo, che furono poste in rilievo anche da Strabone. Secondo gli accertamenti recenti di W.M. Flinders Petrie gl'incunabuli dell'arte vetraria egizia sono: un occhio di pasta vitrea con il nome di Amenhótpe I (1550 a. C.) e un frammento di vaso di Thutmośe III. Sotto Amenhótpe III e IV (intorno al 1400 a. C.), la gamma dei colori raggiunse la massima varietà; e le varie tecniche di questo periodo si sono potute perfettamente individuare con la scoperta delle rovine di un'officina vetraria a Tell el-‛Amārnah. Esse sono rappresentate da minuscoli balsamarî delle più svariate forme (di alabastro, di ariballo, di cratere, stilitiche, lenticolari, ecc.) arricchite con tipici ornati sovrapposti; i quali erano ottenuti colando intorno alle pareti roteanti dei vasetti filamenti di vetro fuso, che, sfiorati poi con uno stilo in direzione parallela o contrastante, assumevano l'aspetto di squame o di penne.

Tale procedimento, che trae partito dalla viscosità del vetro in via di raffreddamento, determina un tipo tecnico costante che anche in tempi posteriori alla XVIII dinastia, risulta assai diffuso nel bacino mediterraneo, prima per il tramite commerciale dei Fenici e poi dei Greci. Uno dei più cospicui centri d'importazione era l'Etruria, dalle cui tombe, databili fra il VII e il V secolo, derivano spesso balsamari strettamente affini a quelli egizî, salvo qualche eccezione dovuta a tentativi di un'industria tirrenia, come p. es. una coppa blu dalla tomba Bernardini di Preneste, che appartiene alla fase orientalizzante. Così pure sono da ritenere di manifattura certamente regionale certe fibule a sanguisuga color ambra con filamenti gialli, della prima età del ferro, le quali spesso sono insieme con orecchini, armille e acini di collana, anche di vetro colorato. Fra gli altri piccoli oggetti pertinenti a corredi funebri l'influsso dell'arte achemenide, per il tramite dell'Egitto sotto la supremazia persiana, è spesso manifesta in mascherette pensili di divinità barbate, fatte a impasto estemporaneo. L'influenza greca s'intravvede invece in quei balsamarî in forma di anforette e di oinochoai che spesso provengono da tombe caratterizzate da vasi attici con figure rosse, e che hanno riscontro in altri vetri simili dall'isola di Cipro e di Rodi.

Dall'esame tecnico della vasta congerie di codesti balsamarî risulta in modo certo che l'insumazione del vetro era ignota fino al declino della civiltà etrusca. Ciò è dimostrato dallo spessore irregolare delle loro pareti, che recano aderenti nella parte interna residui di sabbia, quale indubbia prova di un nucleo provvisorio; il quale, intriso prima nel vetro fuso, veniva poi disgregato liberando l'involucro esterno consolidato. Cade perciò l'interpretazione dell'affresco di Benī Hasan, che per lungo tempo si credette raffigurante due artefici intenti al soffio (Froehner).

La scoperta del vetro soffiato, che, secondo suggeriscono i ritrovamenti, appare relativamente tarda (forse non anteriore al periodo romano in Egitto [Edgard]), porta un nuovo contributo all'economia industriale e segna un'importante tappa nella storia del progresso tecnico.

Vetri soffiati inadorni, di cospicua mole, erano già molto diffusi a Pompei, sia in forma di orci, di anfore e di bottiglie, sia anche in forma di piatti, di bicchieri e di coppe, in sostituzione di stoviglie metalliche e ceramiche. Anche dal territorio di Roma, dove esisteva un vicus vitrarius, spesseggiano vetri d'uso corrente, fra i quali si distinguono urne cinerarie e balsamarî con marche di fabbrica impresse sul fondo.

In parallelo con la divulgazione di codesti vetri soffiati disadorni, le tecniche più elaborate e artistiche presero speciale incremento nel periodo augusteo. Nel raggrupparle secondo i varî tipi e le provenienze dei singoli oggetti, emergono i caratteri particolari dei maggiori centri di produzione. Per esempio, tra i vetri della Siria prevalgono forme di frutti, di animali, di teste umane e di figure soffiate dentro stampi, come una Tyche di Antiochia dal simulacro di Eutichide.

Nello stesso genere possediamo anche alcune coppe cilindroidi con scene gladiatorie, corse di bighe, simboli e iscrizioni agonistiche, dedotte forse da originali d'argento. Senza figurazioni, ma altresì notevoli per lo stile, sono anche da annoverare alcuni vetri recanti il nome di Ennione (v.); e altri artefici sicuramente sidonî, come Aristo, Artas, Eirenaios, Neikon si firmavano in caratteri greci e latini, sulle anse di coppe disadorne.

La facile tecnica dei vetri stampati rendeva simili prodotti particolarmente diffusi fin nelle più lontane provincie romane, anche in esemplari replicati, che risultano in maggior copia dal territorio del Reno, dove forse venivano imitati usufruendo delle sabbie fluviali. Di accertata manifattura locale sono certi vetri con sovrapposti filamenti serpeggianti, talvolta intrisi di pulviscolo d'oro, dovuti a un procedimento perfettamente affine a quello dei caratteristici vasi fittili detti à la barbotine.

A tanta varietà di fragili forme restituite integre dai recessi tombali, il tempo, in relazione alle condizioni igrometriche del suolo, aggiunge talvolta mirabili iridescenze dovute al noto fenomeno di interferenza luminosa.

Alle varie tecniche del vetro soffiato seguono quelle dovute alla ruota, rappresentate da coppe e vasi torniti sulle stesse centine di fittili aretini oppure recanti faccettature, come i modemi cristalli di Boemia. Con analogo procedimento, dagli elementari disegni geometrici si passa alla copiosa serie di motivi figurati a tratti lineari e a solchi, incisi con la rotella e il globulo. Tali vetri documentano, in virtù della materia più arrendevole, un' ulteriore fase della declinante glittica romana, e offrono particolare interesse per i soggetti mitologici e cristiani che in maggior copia si riscontrano fra il secolo III e il IV.

Ma le più mirabili opere dell'arte vetraria si devono alle officine di Alessandria sotto le corti dei Lagidi. Miriadi di frammentì e qualche saggio integro di stile greco-egizio documentano quanto diffuso fosse il gusto locale e quanto copiose le importazioni in Roma dal periodo di Augusto ad Adriano. Traendo partito da alcune proprietà fisiche del vetro, che si presta egualmente a esser plasmato, tornito e filato come nessun'altra materia singola, si giunse alla perfezione delle tecniche più complesse nella manifattura di coppe, piatti, vasi e balsamarî policromi a striature parallele, serpeggianti e intersecate (talvolta con interposti ritagli di foglia d'oro), oppure a spire lattescenti simili alla filigrana, a rosette, stelle, di struttura intrinseca, conglomerate a fmco e quindi, nel complesso, levigate con la ruota.

Con un procedimento analogo, basato sulla duttilità del vetro in via di fusione, il quale si può stendere in verghe composite a modo di musaico, si giunse a ottenere tasselli settili con maschere, animali, fiori e ogni sorta di ornati di sorprendente finezza, destinati ad essere inseriti in mobili e cofanetti eburnei o pure da incastonare in opere di oreficeria.

Altri elementi simili, di provenienza sporadica, appositamente sagomati (crustae), suggeriscono intere tarsie figurate a effetto pittorico, delle quali abbiamo un documento indiretto in un opus sectile della basilica di Giunio Basso, ricomposto nel sec. IV con frammenti anteriori (v. figura sotto settile, opera). Del resto, anche le fonti attestano l'applicazione del vetro nell'architettura interna: Plinio accenna a un ordine del teatro di Scauro che sembra fosse di vetro; così pure Vopisco parla di decorazioni vitree infisse per mezzo del bitume nelle pareti della casa di Firmo, e ciò in accordo con certi frammenti di abaci venuti in luce dal sottosuolo di Roma.

L'affinità estrinseca e fisica del vetro con le pietre dure, laddove la grandezza naturale dell'onice non arrivava, indusse artefici anche insigni a valersi del vetro, simulando cammei veri in bianchi rilievi su fondo blu o viola in forma di vasi o di pannelli anaglittici. In tali opere sono da riconoscere i toreumata vitri, che, secondo Marziale, provenivano dall'Egitto; e infatti lo stile delle figurazioni relative, che spesso esprimono scene e misteri del tiaso bacchico, si connette con la glittica aulica alessandrina di cui abbiamo ricordo nella coppa Farnese. Ciò non esclude che anche in Roma, seguendo ora il gusto per l'arte alessandrina e ora la maniera neoattica, si praticasse la toreutica del vetro: capolavori in questo genere sono il vaso dei duchi di Portland nel British Museum, e l'anfora del Museo di Napoli. Anche imitazioni di pietre incise e di cammei, calcati sugli originali, erano nell'uso corrente, e per esse abbiamo testimonianza di molte opere di artisti famosi andate perdute.

La definizione di vasa diatreta si riferisce verosimilmente a un genere di coppe pregevolissime a doppia parete, di cui l'esterna è costituita da un reticolo a maglie circolari ricavato dalla massa vitrea per mezzo della ruota.

Ritrovamenti in Cipro, nella Russia meridionale, nella Renania e in Svizzera provano anche la conoscenza della inconsueta tecnica del vetro dipinto sia a freddo sia a fuoco, più particolarmente diffusa nel Rinascimento. Così pure quella dei vetri dorati si praticava in epoca anteriore all'era cristiana, com'è provato da una coppa, forse non posteriore al sec. II a. C., proveniene da Varapodio (Reggio di Calabria), la quale mostra una scena venatoria in ritagli di foglia d'oro chiusi fra doppia parete concava. L'identità della tecnica e dello stile di questa coppa con altre di origine meridionale, riproducenti motivi tipici dell'oreficeria tarentina, farebbe pensare a una propria produzione vetraria della Magna Grecia nel tardo periodo ellenistico.

Ma specialmente due dischi dorati con motivi di Eroti, da Pompei, e teche di specchio da Cipro preludono, con affinità più prossima, alla tecnica particolare di quell'esteso gruppo di vetri di provenienza cimiteriale romana, resi illustri per il contributo che recano all'iconografia paleocristiana fra il sec. III e il IV. Detti vetri sono in massima parte fondi di coppe con soggetti, immagini sacre e mistiche iscrizioni, tratteggiati con lo stilo in campo preparato in foglia d'oro. Per la loro labile natura, siffatte figurazioni sono quasi sempre protette da uno strato vitreo sovrapposto mediante adesione spontanea di una bolla soffiata; la quale veniva poi sezionata a guisa di calotta, formando nel medesimo tempo le sponde della coppa, che quasi sempre però risultano infrante, forse per conservarne il solo fondo figurato da inserire presso il loculo quale contrassegno visibile.

In questa stessa tecnica si riscontrano anche soggetti pagani, e talvolta simboli e iscrizioni dovuti a comunità ebraiche. Di singolare finezza sono alcuni medaglioni graffiti in oro su fondo blu cupo, con ritratti di notevole valore fisionomico, che documentano lo sviluppo della pittura al sec. III d. C.

Altre tecniche complementari risultanti dall'applicazione del vetro sui metalli, o viceversa, segnano il trapasso fra l'arte vetraria antica e le varie forme dell'arte dello smalto nel Medioevo.

Medioevo ed età moderna. - Oltre ai vetri dorati, i cristiani usarono il vetro per i calici (fino al sec. IX) e per altri oggetti di culto, o d'uso funerario; forma e tecnica rimasero quelle dell'antichità, distinguendosi i vetri cristiani solo per il soggetto della decorazione, che fu a rilievo o incisa piuttosto rozzamente alla ruota (coppa di Podgoritza, del sec. V, a Leningrado, Ermitage).

L'uso di chiudere con vetri le finestre, già noto ai Romani, si conservò a Costantinopoli dove, nel sec. V, quelle di Santa Sofia vennero coperte di piccoli dischi di vetro piatto, semiopaco, colato.

Il vetro fu poi adoperato sempre più nelle tessere dei musaici e come elemento di decorazione delle pareti (Parenzo, rivestimento dell'abside). La lavorazione del vetro, rimasta certo più attiva in Oriente che in Occidente, ebbe a Bisanzio all'epoca dei Macedoni e dei Comneni un notevole sviluppo anche nel senso tecnico, attestato dal cosiddetto monaco Teofilo nella sua Diversarum artium schedula, che parla di coppe di vetro azzurro, con decorazioni dorate sotto coperta, e di smalti di diversi colori, di coppe o fiale di vetro rosso o blu ornate di filetti e anse di vetro bianco o d'altro colore. Paste vitree furono spesso adoperate anche nell'oreficeria a Roma e a Bisanzio, come poi dai popoli barbarici, talvolta improntandole su cammei o intagli antichi; fu nota la tecnica della decorazione a faccettatura (oggetti nel tesoro di S. Marco a Venezia), e quella della pittura a fuoco (frammenti nel museo di Cagliari) esercitata anche in altre regioni dell'Oriente bizantino.

La Siria, che aveva conservato la sua posizione dominante nell'industria vetraria, dopo la conquista maomettana la diffuse nel mondo arabo, dove raggiunse notevoli altezze, sia dal punto di vista artistico sia da quello tecnico.

Ma anche nell'Occidente l'arte del vetro non era morta, sebbene nei primi secoli del Medioevo, si fosse ridotta a pochi e modesti focolari, in Italia, in Germania e in Francia. Quest'ultimo paese divenne il centro della produzione dei vetri colorati da finestre. Nel secolo VII, maestri francesi, chiamati in Inghilterra per ornare di vetri alcune chiese, vi fecero per qualche tempo rinascere anche altri rami dell'industria vetraria; ma presto essa sparì, come era sparita dopo la fine del dominio romano.

Dopo il Mille l'industria del vetro rifiorì in tutto l'Occidente e si realizzarono notevoli progressi tecnici. Nel sec. XII il già ricordato Teofilo descrive il procedimento di fabbricazione delle lastre soffiate a cilindri, procedimento mantenutosi fino ai nostri giorni.

Risale a quell'epoca l'introduzione dell'arte del vetro a Venezia che facilmente si spiega con l'attività dei traffici commerciali con la Siria, e ad Altare in provincia di Savona, dove sarebbe stata introdotta nel sec. XI, secondo alcuni da maestri vetrai della Normandia. Ma lo sviluppo dell'industria di Altare fu modesto rispetto a quello delle fabbriche veneziane, trasferite verso la fine del secolo XIII a Murano. Grazie ad esse, l'Italia tenne per secoli una posizione dominante nell'industria. Era riservato infatti a Venezia di portare l'arte del vetro a nuova e massima espressione d'eleganza e di delicatezza nelle forme. I Veneziani produssero vetri colorati e dorati per musaici e particolare abilità acquistarono nella tecnica della pittura a fuoco, sino dalla fine del Duecento; ma solo scarsi esempi ne restano anteriori al Rinascimento, come di tutta la produzione tardo-gotica degli altri paesi europei, compresa la Spagna, tributaria per le forme più dell'Oriente musulmano che di Venezia. Anche anteriormente era quivi la produzione e l'esportazione delle conterie ornamentali, e delle paste vitree usate in Italia nelle incrostazioni murarie fin dall'età romanica; ma la più compiuta affermazione artistica delle officine veneziane si ha nel sec. XV, con i vetri decorati a smalto, di forme semplici e piane, imitanti assai spesso quelle della maiolica e dell'argenteria (piatti, scodelle, coppe, calici, bicchieri, boccali, ecc.). La decorazione, in smalto dipinto policromo, è foggiata su modelli orientali; il vetro stesso dei vasi è di frequente colorato in blu, verde, o rosso bruno: pregiati sopra gli altri erano quelli con decorazione figurata, di soggetti quasi sempre profani e spesso allusivi al loro uso come coppe nuziali: sappiamo dai documenti che i prodotti più fini uscirono allora dalla bottega dei Barovier (v.). La pittura a smalto viene sostituita alla metà del sec. XVI da quella a freddo: e i vetri ritornano ad aver pregio più che per la decorazione pittorica per le loro forme, per la qualità della materia e la prodigiosa abilità raggiunta nella soffiatura: caratteristici specialmente i calici con piede arricchito di ornamenti ad ansa di vetro di diverso colore; e particolare virtuosità raggiungono le tecniche dei vetri a reticella o a filigrana (con fili di vetro latteo fusi nella massa incolore), dei vetri a millefiori (che riproducono un tipo già dell'antichità), e dei vetri all'avventurina (seminati di pezzettini di rame lucente); ancora ai suoi inizî invece la produzione dei vetri da specchio.

Accanto al vetro d'arte, Murano produsse largamente anche vetro d'uso corrente, vetro da finestre, ecc., e sviluppò la fabbricazione, per secoli lucrosissima, degli specchi. I primi specchi di vetro che vennero industrialmente a sostituire quelli a lastrine metalliche levigate lucidissime si lavoravano a Murano nel sec. XVII: erano di vetro soffiato.

Tutti gli altri centri di fabbricazione, italiani e spagnoli, sono soverchiati dalla produzione veneziana. Tutte le forme inventate a Murano emigrarono dapprima ad Altare e poi all'estero, senza però mai raggiungere la perfezione artistica e di spontanea virtuosità che spira dai vetri prodotti nel loro luogo d'origine.

Ebbero fortuna, e nocquero al prodotto veneziano, le vetrerie della Germania e della Boemia che cominciarono a sorgere nel sec. XV. L'impiego di carbonato di potassio in luogo di quello sodico e la grande purezza delle materie grezze, diedero origine a un vetro di particolare lucentezza, facile alla lavorazione per molatura che ne accresce i bellissimi effetti di riflessione, sì che un nuovo tipo di vetreria d'arte poté sorgere e trovare sviluppi: il cristallo boemo, così chiamato a differenza del cristallo piombico creato in Inghilterra (v. oltre).

Il predominio veneziano perdura nella produzione italiana anche nell'età barocca; le forme, prima più sottili e snelle, tendono verso la fine del secolo a una maggior pesantezza che deriva forse dall'imitazione dei vetri di Boemia (lavori di Giuseppe Briati, morto nel 1772); lampadarî e specchi, anche incisi, sono fra i prodotti più tipici o più noti.

Frattanto l'industria si era sviluppata anche in Francia, realizzando importanti progressi tecnici. Nel 1330 Filippo Cacquerai aveva ideato il metodo di produzione delle lastre detto della corona, col quale si fabbricavano lastre di modesta superficie, molto spesse, multicolori, incastonate in strisce di piombo, che ornavano le chiese. I re di Francia incoraggiarono l'industria, concedendo privilegi ai maestri vetrai e perfino stabilendo - concessione stranissima per i tempi - che l'esercizio dell'arte di vetraio non costituisse deroga alla nobiltà; sicché gli artigiani finirono con l'essere in gran parte nobili. Sotto Luigi XIV e per l'impulso dato alle arti dal Colbert, alcuni sudditi francesi, che avevano imparato a Murano la fabbricazione del vetro in lastre secondo il procedimento dei cilindri, furono adibiti a una vetreria di Cherbourg; ma nel 1688 Lucas de Nehou, di Parigi, trasferitosi a Saint-Gobain, vi ideò la produzione delle lastre per colata e laminazione, che fu la prima applicazione della meccanica all'industria del vetro. Col procedimento, come originariamente ideato, si potevano già ottenere lastre di cm. 200 × 125, mentre per soffiatura dei cilindri la lunghezza non poteva eccedere cm. 125. Le due compagnie, rispettivamente formatesi per l'esercizio della vetreria di Cherbourg e di quella di Saint-Gobain, si fusero dopo lunga e rovinosa lotta in un'impresa unica che fiorì poi sotto la direzione di A. d'Agincourt.

Nei secoli XVI e XVII l'industria del vetro si sviluppò anche in Inghilterra, per opera di maestri vetrai lorenesi e veneziani. Fra questi ultimi, il Verzellini ottenne dal re un brevetto di monopolio per la fabbricazione di bicchieri di vetro, che nel 1615 passò a sir R. Mansell. Quest'ultimo rafforzò il monopolio impegnandosi a pagare 1000 sterline all'anno alla corona e a impiegare carbon fossile anziché carbone di legno come gli altri fabbricanti e impiantò a Newcastle una fabbrica che continuò a funzionare per oltre due secoli. Il monopolio però fu abolito nel 1642; subito si sviluppò la concorrenza e in pochi decennî il numero delle fabbriche si moltiplicò. In Inghilterra venne creato il cristallo piombico, noto anche sotto il nome di flint: come primo produttore viene citato Ravenscroft, che ne avrebbe imparato la fabbricazione dall'italiano Da Costa e che fra il 1676 e il 1684 lavorava a Londra.

Nel Settecento comincia una produzione vetraria artistica anche nel Belgio, ad Anversa, esercitata da Italiani e poi da artisti del luogo come Henri e Léonard Bonhomme; ma preminente per importanza rimane quella tedesca che rivela l'influsso dei cristalli di rocca e che si rende padrona a poco a poco delle tecniche veneziane, pur prevalendo le lavorazioni alla ruota e a punta di diamante: di carattere più popolare la produzione dei vetri dipinti, se si eccettuano quelli a chiaroscuro cui è legato soprattutto il nome di Johann Schaper, mentre in quelli lavorati alla ruota (con figure in rilievo nel fondo scavato, o con figure incise) si distinsero Caspar Lehmann e Georg Schwanhardt. Centri principali di fabbricazione: Norimberga, Augusta e la Boemia. Molto meno importante la produzione francese uscita dalle manifatture di Rouen e di Orléans, e nel tardo barocco e nel rococò da quelle della Normandia e della Piccardia; pregiate invece quella olandese che predilige l'incisione a punta di diamante e, dal punto di vista tecnico, quella inglese che giunge alla produzione del cristallo. I vetri del tardo barocco tedesco sono begli esempî di stile decorativo, dai tipici svolazzi calligrafici e viticci di foglie minute: si fanno anche vetri doppî in cui uno serve a coprire la pittura di quello sottostante; minore originalità e importanza ha invece il vetro italiano del Settecento. Alla fine di questo secolo, nella fabbricazione del vetro prevalgono la Boemia, la Germania e l'Inghilterra: quest'ultima preferisce la decorazione ottenuta col diamante; la Boemia domina il mercato mondiale, pur rivelando sempre minore finezza nelle tecniche e nei tipi decorativi.

A partire dal sec. XVIII l'industria del vetro ebbe un grandissimo sviluppo, in dipendenza sia dell'aumento di ricchezza dei consumatori sia dell'abbassamento del costo di produzione per effetto dei progressi tecnici e in particolare della sostituzione del carbon fossile a quello di legna. Per millennî la produzione vetraria aveva avuto prevalentemente carattere artistico. Dagl'inizî della rivoluzione industriale invece, la maggior parte delle fabbriche di vetro hanno lavorato a prodotti di carattere utilitario. Nella seconda metà del sec. XVIII l'impiego dei vetri da finestre nelle abitazioni era ancora considerato lusso, tanto che continuavano ad esistere le corporazioni dei finestrai, la cui professione consisteva nell'impannare le finestre di carte oleate; nel sec. XIX questo mezzo di protezione venne sostituito dal vetro, di qualità sempre migliore. Si diffuse l'uso della vetreria da tavola, delle bottiglie e di un gran numero di nuovi prodotti: isolatori, lampade elettriche, fiale e tubetti per specialità farmaceutiche, ecc., mentre prendeva un grande sviluppo l'industria dei vetri ottici.

Negli ultimi decennî ha fatto enormi progressi la sostituzione della lavorazione meccanica a quella manuale, ormai di scarsa importanza fuori della vetreria d'arte. I vantaggi economici di tale sostituzione, per quanto grandi, sono inferiori ai vantaggi sociali: perché l'abolizione della soffiatura a bocca redime gli operai da fatiche e da cause di infezioni che, in 15-20 anni, li riducevano alla inabilità, costretti come erano ad aspirare l'aria alla temperatura ambiente di 45-50° e lavorare con la canna masse vitree a 900-1000°.

Léon Appert, preposto alla vetreria di Clichy-la-Garonne, fino dal 1880 riuscì a soffiare oggetti cavi in serie per mezzo dell'aria compressa. Ma la completa sostituzione delle operazioni manuali e di soffiatura a bocca appassionò, prima e dopo di lui, dirigenti di aziende vetrarie e inventori. Poiché fra tutte le industrie del vetro fondate sulla soffiatura quella delle bottiglie era la più importante, si tentò di risolvere i problemi di questa tecnica attraverso macchine da bottiglie. L'inglese H.M. Ashley (1840-1914) costruì la prima macchina da soffio semi-automatica, dalla quale e da varianti preconizzate dallo stesso inventore trassero ispirazione costruttori di ogni paese dando corpo a macchine in tutto corrispondenti alle esigenze della specifica lavorazione. Seguirono nel 1894 la macchina del francese Cl. Boucher e nel 1899-1905 la macchina di M. J. Owens. L'americano Ed. Danner nel 1915-18 creò la macchina per la fabbricazione dei tubi che porta il suo nome. Per tirare il vetro direttamente dalla massa vitrea in fusione, l'americano Lubbers fra il 1894 e il 1905 e il belga E. Fourcault nel 1904-08 crearono i procedimenti omonimi e l'americano I.W. Colburn fra il 1905 e il 1916, quello noto sotto il nome di Libbey-Owens.

Nel vetro d'arte, durante l'Ottocento, l'Inghilterra ancora prevalse nel vetro lavorato alla ruota; e le officine boeme e slesiane tornarono ai vetri dipinti, con decorazione naturalistica: la Francia tra il 1860 e il 1870 riebbe una produzione volta prevalentemente a tipi di lusso, mentre la Boemia continuò a dominare con l'Inghilterra il mercato, e Venezia vide non trascurabili tentativi di risurrezione delle sue industrie vetrarie. La produzione nel rimanente del sec. XIX è volta a ricerche di originalità nella tecnica e nella decorazione pittorica (Emil Gallé), oltre che a sforzi per ottenere nuovi tipi e nuovi effetti dalla composizione fisico-chimica e dalla cottura del vetro (L. C. Tiffany).

A parte le vetrate dipinte (v. vetrata), il vetro fu adoperato anche per supporto di disegni e di pitture. Già nel sec. XIII si nota l'uso di vetri dorati e decorati con disegni a graffito, in cornici e in marmi (Siena, pergamo di Nicola Pisano); poi fu ripresa largamente la tecnica antica della foglia d'oro graffita sotto vetro, per ornare anconette, cornici e oggetti varî, insegne, che dura ancora. Del vetro usato come supporto di pitture eseguite a rovescio i saggi più antichi finora noti risalgono alla fine del sec. XV. Esso ebbe grande voga nei secoli XVII e XVIII specie nella decorazione di mobili.

Oriente. - Gli storici cinesi del sec. I d. C. dicono che il liu-li, ovvero pi-liu-li (trascrizione cinese del sanscrito vaidūrya, ovvero del pali velūriya, parola che sembra aver relazione col latino beryllos e l'arabopersiano billūr) era un prodotto di Kabul. Con tale nome si indicava dapprima una pietra preziosa, e poi anche il vetro colorato. Nell'opera Wei-liu si dice che nel sec. III d. C. giungevano dall'impero romano vetri di dieci colori, molto apprezzati in Cina. Verso la fine del sec. IV, nella capitale dello stato di Wei, l'attuale Ta-t'ung nello Shan-si, alcuni Indosciti insegnarono a fondere vetri colorati assai brillanti. Nel sec. V appare il nome po-li, ovvero pi-po-li, per indicare il vetro comune trasparente. Uno scrittore cinese del sec. VII dice che si facevano di vetro specchi di 50 cm. di diametro e lenti ustorie. Il viaggiatore cinese Chao Ju-kua scriveva nel 1225 che il vetro trasparente si importava da Ceylon e dalla costa del Coromandel. Bottiglie e vasetti di vetro colorato erano oggetto di scambio tra Cinesi e Arabi. Il geografo Edrisi (1154) parla delle fabbriche di vetro cinesi in Djankou (forse Hangchow nel Che-kiang).

Una vetreria imperiale, organizzata a Pechino nel 1680, produsse notevoli oggetti di vetro trasparente verdastro e bianco opaco. Gli oggetti più comuni erano piccole tabacchiere, vasetti da profumo, coppe da vino, piccoli vasi per un solo fiore. Attualmente le maggiori fabbriche di vetro in Cina sono a Po-shan nello Shantung.

Il vetro decorato di smalti a colori è stato introdotto in Cina dagli arabi durante la dinastia mongola. In varî musei d'Europa e d'America si trovano lampade e vasi con motivi e iscrizioni arabe. Tutti i processi usati in Europa per il lavoro del vetro sono stati adoperati in Cina. La maggior perfezione dei vetri cinesi è stata raggiunta nei vetri a più strati colorati, intagliati e incisi con straordinaria finezza ed eleganza, coppe in forma di fiori, decorate con figure simboliche, ecc.

Nell'Oriente musulmano l'industria del vetro ha avuto originalità di forme e di decorazione. Esercitata in Egitto fin dai primi tempi della dominazione araba, essa ha prodotto vetri intagliati come il cristallo, con decorazioni a rilievo e soprattutto vetri smaltati usciti dalle officine della Siria, dell'Egitto e della Mesopotamia fino al sec. XV (lampade da moschea); fiorì in Spagna durante la dominazione musulmana; e poi in Persia nei secoli XVII e XVIII.

V. tavv. LXIII-LXX e tav. a colori.

Bibl.: Per l'antichità: A. Deville, Histoire de l'art de la verrerie dans l'antiquité, Parigi 1871; A. Nesbitt, Catalogue of the collection of glass forms by F. Slade with notes on the History of glass making, 1871; W. Froehner, La Verrerie antique, Parigi 1879; id., Collection Julien Gréau (Verrerie antique), ivi 1903; E. Dillon, Glass, Londra 1907; A. Kisa, Das Glas im Altertum, Lipsia 1908; Flinders Petrie, The Arts and Crafts of Ancient Egypt, Londra 1909; G. Sangiorgi, Collezione di vetri antichi dalle origini al sec. V d. C., Milano 1920; G. Eisen, Glass (its origin, history, chronology, technic and classification), New York 1927; M. L. Trowbridge, Philological studies in ancient Glass, Illinois 1930; G. Bendinelli, Il vasellame potorio di vetro nell'età classica, in A. Marescalchi e G. Dalmasso, Storia della vite e del vino in Italia, I, Milano 1931; E. Crivelli, La tecnica vetraria nell'antichità, in La chimica, 1935.

Per il Medioevo e l'età moderna: A. Salviati, Mosaïques verres soufflés de Murano, verres colorés pour vitraux, Parigi 1867; E. Poligot, Le verre, son histoire, sa fabrication, ivi 1877; J. Labarte, Histoire des arts industriels au moyen âge et à l'époque de la Renaissance, 2ª ed., III, ivi 1875, p. 363 segg.; L. Lobmeyr, Die Glasindustrie, ihre Geschichte, gegenwärtige Entwicklung und Statistik, Stoccarda 1874; Gerspach, l'art de la verrerie, Parigi 1885; Monografia della vetraria veneziana e muranese, Venezia 1874; E. Garnier, Histoire de la verrerie et de l'émaillerie, Tours 1886; R. Borrmann, Geschichte Gläser des 17. u. 18. Jahrhunderts, Berlino 1901; G. E. Pazaurek, Die Gläsersammlung des nordböhmischen Gewerbemuseums in Reichenberg, Lipsia 1902; id., Moderne Gläser, Lipsia 1900; L. De Fourcaud, Émile Gallé, Parigi 1903; G. Migeon, Manuel des arts musulmans, 2ª ed., II, ivi 1927, p. 116 segg. Tra le opere generali: P. Toesca, Storia dell'arte italiana, I, Torino 1927, passim; Th. Bossert, Geschichte des Kunstgewerbes, Berlino 1932-35, V e VI, passim; P. Toesca, Vetri italiani a oro con graffiti, in L'Arte, XI (1908), pp. 247-61; W. A. Thorpe, English Glass, Londra 1935; M. Paléologue, L'art chinois, Parigi 1887, p. 220; F. Hirth, Zur Geschichte des Glases in China, in Chin. Studien, Lipsia 1890; Chao Ju-kua, Pietroburgo 1912; S. Bushell, Chinese Art, Londra 1910; O. Münsterberg, Chinesische Kunstgeschichte, II, Esslingen 1912, p. 446.

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata