Verso il nuovo delitto di tortura

Libro dell'anno del Diritto 2016

Verso il nuovo delitto di tortura

Angela Colella

La recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Cestaro c. Italia ha riportato alla ribalta delle cronache l’annoso problema dell’assenza, nell’ordinamento penale interno, di fattispecie idonee a reprimere e a prevenire gli atti di tortura e quelli ad essi assimilabili. Il legislatore italiano, chiamato ad introdurre norme incriminatrici ad hoc per ottemperare al dictum del giudice europeo, dovrà dunque confrontarsi con la difficoltà di configurare disposizioni dai contorni sufficientemente ampi per reprimere questo multiforme fenomeno senza perciò venir meno al rispetto dei principi costituzionali di precisione e di tassatività. Una sfida tutt’altro che semplice, alla quale tuttavia non è più possibile sottrarsi: nel caso in cui ciò non avvenisse in tempi rapidi, infatti, l’Italia incorrerebbe in nuovi, imbarazzanti, infortuni a Strasburgo, atteso che altri ricorsi avanzati in relazione alle violenze perpetrate dalle forze dell’ordine durante il G8 del 2001 sono tuttora pendenti dinanzi alla Corte.

La ricognizione

A quattordici anni di distanza dal G8 di Genova del 2001, la Corte di Strasburgo – chiamata a pronunciarsi sul ricorso di un cittadino italiano che lamentava di essere stato vittima di violenze e sevizie durante l’irruzione delle forze dell’ordine nella scuola DiazPertini – ha riconosciuto la violazione sostanziale e procedurale dell’art. 3 CEDU da parte dello Stato italiano, evidenziando in particolare la mancanza, nell’ordinamento penale, di una fattispecie incriminatrice adeguata a prevenire e a reprimere i fatti di tortura.

La pronuncia, resa dal giudice europeo lo scorso 7.4.2015 nella causa Cestaro c. Italia1, si segnala per importanza perché, nel ravvisare la suddetta lacuna normativa – del resto da tempo denunciata in dottrina2, anche in riferimento a queste specifiche vicende3 –, ha posto a carico dello Stato italiano l’obbligo di adottare «strumenti giuridici idonei a sanzionare in maniera adeguata i responsabili di atti di tortura o di altri trattamenti vietati dall’art. 3 e ad impedire che costoro possano beneficiare di benefici incompatibili con la giurisprudenza della Corte» (quali ad esempio la prescrizione e l’indulto), al fine di porre rimedio alle conseguenze dell’accertata violazione (cfr. il par. 246 della sentenza).

Una volta che la sentenza della IV sezione sarà divenuta definitiva, il nostro Paese dovrà dunque ottemperare al dictum della Corte europea dei diritti dell’uomo, dando così finalmente attuazione anche agli obblighi di incriminazione sanciti dall’art. 13 co. 4 della Costituzione4 e, sul piano sovranazionale, dall’art. 4 della Convenzione ONU contro la tortura del 1984 (ratificata dall’Italia nel lontano 1989).

La focalizzazione

Dopo aver analizzato più da vicino la recente pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo, si passerà ad esaminare le ragioni dell’inadeguatezza dell’attuale quadro normativo a prevenire e a reprimere fatti di tortura, per poi soffermarsi sulla proposta di legge attualmente in discussione al Senato, evidenziandone luci ed ombre.

2.1 La sentenza Cestaro c. Italia del 7.4.2015

Il ricorrente Arnaldo Cestaro, all’epoca dei fatti sessantaduenne, lamentava di essere stato ripetutamente colpito alle braccia e alle gambe dagli agenti di polizia mentre si trovava seduto contro un muro e nonostante avesse alzato le mani in aria in segno di sottomissione, e asseriva di aver riportato fratture all’ulna e al perone per le quali aveva dovuto sottoporsi, nel tempo, a diversi interventi chirurgici, ed era comunque rimasto parzialmente invalido.

La Corte – richiamandosi alle sentenze di primo e di secondo grado adottate dalle autorità giurisdizionali interne – ha evidenziato: a) il carattere del tutto gratuito delle violenze subite da Cestaro e dagli altri occupanti la scuola Diaz-Pertini (parr. 180 ss. della sentenza); b) la finalità «punitiva, vendicativa e diretta all’umiliazione ed alla sofferenza fisica e mentale delle vittime» con la quale le stesse sono state esercitate (par. 177 della sentenza); c) la gravità delle medesime, perpetrate con calci e colpi di manganello tipo “tonfa”, dall’elevata potenzialità lesiva (par. 178 della sentenza); e, infine, d) l’intenzionalità e la premeditazione con cui le stesse sono state poste in essere, che essa ha desunto, in particolare, dai «tentativi della polizia di nascondere i fatti in questione o di giustificarli sulla base di circostanze fittizie» e dalla circostanza che «gli scontri e i saccheggi» verificatisi durante il summit del G8 «si erano conclusi e nella stessa scuola o nei dintorni della stessa non era avvenuto nulla di simile», di modo tale che «le tensioni … che avrebbero caratterizzato l’irruzione della polizia nella scuola DiazPertini si possono spiegare non tanto con ragioni obiettive, quanto piuttosto con la decisione di procedere ad arresti mediatizzati e con l’adozione di modalità operative non conformi alle esigenze della tutela dei valori derivanti dall’art. 3 della Convenzione e dal diritto internazionale pertinente» (parr. 184 ss. della sentenza).

Proprio valorizzando i suddetti elementi, valutati nel loro complesso, i giudici europei sono giunti alla conclusione che i maltrattamenti subiti dal ricorrente debbano essere qualificati come “tortura” ai sensi dell’art. 3 CEDU, ravvisando pertanto la più grave tra le forme di violazione degli obblighi sostanziali discendenti da detta norma (e consistente appunto nella violazione del divieto, posto a carico di tutti gli agenti pubblici, di praticare atti integranti tortura o trattamenti inumani o degradanti).

Anche in relazione alle violazioni procedurali lamentate5, la Corte ha integralmente accolto la prospettazione di Cestaro.

Il nostro Paese – hanno sentenziato i giudici della quarta sezione – è infatti venuto meno all’obbligo di compiere indagini effettive, approfondite ed efficaci, tali da condurre alla rapida identificazione e punizione dei colpevoli di trattamenti contrari all’art. 3 CEDU; e ciò – si badi – non in ragione di negligenze o di indebite “indulgenze” imputabili alle autorità inquirenti o giudicanti – che, anzi, hanno dovuto, rispettivamente, fronteggiare gli imponenti ostacoli derivanti dalla mancata cooperazione della polizia italiana nell’identificazione dei diretti responsabili e le difficoltà insite nella celebrazione di un processo con numerosi imputati e centinaia di parti civili, molte delle quali residenti all’estero (par. 223 della sentenza), e che hanno, al contrario, dimostrato una «fermezza esemplare» (par. 224 della sentenza) – ma proprio a causa dell’inadeguatezza della legislazione penale vigente rispetto all’esigenza di sanzionare efficacemente gli atti di tortura ed esercitare, così, l’effetto dissuasivo necessario a prevenire, in futuro, violazioni analoghe.

La mancanza di una norma incriminatrice ad hoc ha, infatti, costretto la pubblica accusa a contestare disposizioni del tutto inidonee ad intercettare il disvalore delle condotte tenute dagli agenti di polizia, quali i comuni reati di percosse, lesioni, violenza privata, abuso d’ufficio, ecc.; e la circostanza che gli edittali di pena delle stesse fossero così contenuti ha fatto sì che le pene irrogate fossero in parte coperte dall’indulto o che, comunque, non potessero essere applicate in forza dello spirare, medio tempore, dei brevi termini di prescrizione per esse previsti (par. 225 della sentenza).

Poco importa, a questo proposito, che al ricorrente sia stato riconosciuto, nel giudizio interno, un risarcimento di carattere pecuniario: l’unico serio ristoro della violazione dell’art. 3 CEDU da questi subita avrebbe potuto essere fornito, infatti, solo attraverso la punizione dei responsabili; sicché egli conserva lo status di “vittima” che, ai sensi dell’art. 34 CEDU, rende ammissibile – prima ancora che fondato – il suo ricorso (par. 229 ss. della sentenza).

Verificata l’inadeguatezza del quadro normativo attuale, i giudici di Strasburgo non si sono limitati a riconoscere al ricorrente un indennizzo di carattere pecuniario, ma – come si è già evidenziato in incipit – hanno posto a carico dello Stato italiano l’obbligo di eliminare il suddetto problema strutturale, adottando norme penali adeguate a reprimere e a prevenire non solo gli atti di “tortura”, ma anche le altre condotte vietate dall’art. 3 CEDU, ovverosia gli atti inumani o degradanti (par. 242 della sentenza).

2.2 Il quadro normativo attuale

Prima di esaminare in maniera sintetica il testo al momento in discussione al Senato, non pare un fuor d’opera riepilogare le ragioni per cui non è possibile sostenere – come pure il Governo italiano ha fatto, negli anni passati, nell’ambito delle proprie repliche alle osservazioni al Comitato per la prevenzione della tortura6 – che, a dispetto dell’assenza di una fattispecie ad hoc, le norme penali vigenti siano in grado di reprimere adeguatamente i comportamenti riconducibili al concetto di tortura e alle altre condotte ad esso assimilabili.

Per rilevarlo, basti considerare che il delitto di «abuso di autorità contro arrestati o detenuti» di cui all’art. 608 c.p., comunemente ritenuto attuativo dell’obbligo di incriminazione previsto dall’art. 13, co. 4, Cost., non tutela l’integrità psicofisica, ma solo la libertà personale del detenuto: i fatti lesivi di beni giuridici diversi – e in particolare, per quel che qui più interessa, dell’integrità psicofisica dell’individuo – potranno pertanto essere puniti solo in quanto sussistano tutti i requisiti di altre fattispecie poste a tutela dei medesimi, e soprattutto nei limiti di queste ultime.

La repressione delle forme di tortura fisica è, dunque, in buona sostanza affidata ai delitti di “percosse” e “lesioni” (puniti il primo, alternativamente, con la reclusione da quindici giorni a sei mesi o con la multa da 5 a 309 euro; e il secondo con la reclusione da tre mesi a tre anni, salvo che non ricorrano le aggravanti dell’art. 583 c.p.); mentre le fattispecie chiamate a “intercettare” le forme di tortura psicologica sono quelle di minaccia e violenza privata (il cui minimo edittale, individuato a norma dell’art. 23 c.p., è di soli quindici giorni di reclusione).

Se si eccettua, dunque, l’ipotesi delle lesioni aggravate, il quadro sanzionatorio appare lontano anni luce dal rigore preteso in sede internazionale. Tanto più che la gran parte dei delitti che potrebbero essere invocati ricade nell’ambito di applicazione della sospensione condizionale della pena, dell’affidamento in prova al servizio sociale e della messa alla prova, e soprattutto si prescrive in tempi brevissimi (così che, in inchieste delicate e complesse come quelle sui fatti del G8 genovese, sarà pressoché impossibile arrivare in tempo utile a una condanna definitiva).

Neppure l’eventuale applicazione di talune aggravanti comuni – quali quelle previste ai nn. 1, 4, 5, 9 e 11 dell’art. 61 c.p. – può, del resto, contribuire significativamente all’inflizione di una pena più congrua rispetto al disvalore del fatto, soprattutto nel caso di concorso con circostanze attenuanti.

A ciò si aggiunga, infine, che anche il regime di procedibilità a querela previsto dall’art. 582, co. 2, c.p. per le lesioni cd. lievissime pone problemi non trascurabili, posto che – in ragione delle difficoltà pratiche e/o del timore di ritorsioni che spesso impediscono alla vittima di tortura di proporre tempestivamente querela (specie quando la stessa si trovi in vinculis) – finisce per relegare al di fuori dell’area del penalmente rilevante forme di tortura fisica e psicologica tutt’altro che marginali: sempre più spesso, infatti, gli autori di atti di tortura fanno ricorso a strumenti in grado di cagionare sofferenze fisiche e psichiche estremamente intense, senza tuttavia lasciare alcuna traccia sul corpo della vittima (uno per tutti, il cd. waterboarding).

2.3 La proposta di legge attualmente in discussione al Senato

Anche in ragione del rilevante impatto mediatico della condanna, dall’evidente carica politica e simbolica, il legislatore italiano ha – quantomeno in prima battuta – mostrato di voler accelerare l’iter di approvazione di un d.d.l. volto all’introduzione del delitto di tortura, da tempo e con alterne vicende oggetto del dibattito parlamentare.

La proposta di legge n. 2168 approvata dalla Camera il 9.4.2015 – che modifica il d.d.l. approvato in Senato il 5.3.2014 e che è ora tornata in Senato per l’approvazione definitiva – prevede l’introduzione di un delitto comune, a forma vincolata, aggravato dall’evento, fortemente caratterizzato sotto il profilo soggettivo. Così recita la norma: «Chiunque, con violenza o minaccia ovvero con violazione dei propri obblighi di protezione, di cura o di assistenza, intenzionalmente cagiona ad una persona a lui affidata, o comunque sottoposta alla sua autorità, vigilanza o custodia, acute sofferenze fisiche o psichiche al fine di ottenere, da essa o da un terzo, informazioni o dichiarazioni o di infliggere una punizione o di vincere una resistenza, ovvero in ragione dell’appartenenza etnica, dell’orientamento sessuale o delle opinioni politiche o religiose, è punito con la reclusione da quattro a dieci anni.

Se i fatti di cui al primo comma sono commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, si applica la pena della reclusione da cinque a quindici anni.

Ai fini dell’applicazione del primo e del secondo comma, la sofferenza deve essere ulteriore rispetto a quella che deriva dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti.

Se dal fatto deriva una lesione personale le pene di cui ai commi precedenti sono aumentate. Se dal fatto deriva una lesione personale grave le pene sono aumentate di un terzo e della metà in caso di lesione personale gravissima.

Se dal fatto deriva la morte quale conseguenza non voluta, le pene sono aumentate di due terzi. Se il colpevole cagiona volontariamente la morte, la pena è dell’ergastolo».

Apprezzabile si mostra, in primo luogo, la costruzione della fattispecie come reato comune, in chiave innovativa rispetto a quanto previsto dalla Convenzione ONU contro la tortura del 1984 (che circoscrive l’obbligo espresso di incriminazione agli atti commessi da un pubblico ufficiale o da un altro soggetto agente in veste ufficiale o su istigazione o con il consenso o l’acquiescenza di quest’ultimo).

Da un lato, infatti, la prassi giurisprudenziale nazionale e sovranazionale spesso registra episodi che si lasciano pacificamente inquadrare nel tipo legale “tortura” a dispetto del fatto che l’autore dei maltrattamenti fosse un privato7; dall’altro, la giurisprudenza di Strasburgo ha da tempo realizzato una piena equiparazione tra gli atti di tortura e i trattamenti inumani e degradanti posti in essere da State agents e quelli perpetrati da comuni cittadini, mentre altri strumenti di diritto internazionale pattizio – come la Convenzione ONU sull’eliminazione della discriminazione razziale del 1965 e la Dichiarazione sull’eliminazione della violenza nei confronti della donna del 1993 – richiedono espressamente che la proibizione della tortura sia garantita anche nei rapporti orizzontali.

D’altra parte, la Convenzione ONU contro la tortura – come chiarisce il suo art. 1 § 2 – si preoccupa di dettare esclusivamente uno standard minimo di tutela, che ben può essere innalzato dal legislatore nazionale ampliando l’ambito di applicazione della norma introdotta in ottemperanza all’input di penalizzazione; e in ogni caso – come è stato acutamente rilevato in dottrina8 – la necessità di reprimere le condotte realizzate da un privato su istigazione o con l’acquiescenza o il consenso di un pubblico ufficiale, derivante dall’obbligo di incriminazione sancito dalla stessa Convenzione ONU, imporrebbe comunque di inserire nella norma incriminatrice della tortura una clausola di estensione della punibilità alle condotte poste in essere dal privato, di difficile formulazione e applicazione pratica.

È certamente da condividere, poi, l’impostazione adottata dalla proposta di legge quanto alla necessità di richiedere, ai fini dell’integrazione della fattispecie di tortura, che la sofferenza fisica o morale cagionata al soggetto passivo sia “acuta”: l’intensità delle sofferenze è infatti connaturata al tipo legale “tortura”, e appare conforme alle definizioni contenute negli strumenti di diritto internazionale pattizio e alle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza sovranazionale.

Il testo in discussione al Senato stabilisce espressamente, inoltre, che le sofferenze non possano esaurirsi in quelle derivanti dall’applicazione di una pena o di una misura detentiva o interdittiva. Si tratta di una precisazione di fondamentale importanza, poiché consente, ad esempio, di escludere con sicurezza dall’ambito di applicazione della norma sulla tortura il fenomeno del sovraffollamento carcerario9: un problema gravissimo, che tuttavia non può e non dev’essere all’evidenza affrontato attraverso lo strumento della repressione penale.

Parimenti condivisibile, a parere di chi scrive, è infine la previsione del dolo intenzionale, che si mostra, al tempo stesso, più aderente al fenomeno nelle sue concrete manifestazioni e maggiormente idonea a tracciare una netta linea di demarcazione tra i fatti sussumibili sotto la norma incriminatrice de qua e quelli inquadrabili, invece, nelle fattispecie ordinarie di lesioni, percosse, ingiuria, minaccia o violenza privata, solo per citare le più rilevanti. È pacifico, infatti, che la tortura consista nell’inflizione “deliberata” di sofferenze fisiche e morali: l’agente può rappresentarsi tale evento come certo, probabile al limite della certezza o soltanto possibile, ma in ciascuna di queste tre evenienze agisce proprio allo scopo di realizzarlo; ciò che, invece, non necessariamente accade per i reati che abbiamo ora menzionato, che possono essere tutti commessi con qualsiasi forma di dolo.

Importanti indicazioni in tal senso giungono anche dalla sentenza Cestaro, nella quale la Corte ha sviluppato una definizione articolata e per certi versi inedita del concetto di tortura, imperniandola su quattro elementi: il carattere gratuito e la gravità delle violenze, la finalità «punitiva, vendicativa e diretta all’umiliazione ed alla sofferenza fisica e mentale delle vittime» con la quale le stesse sono state esercitate e, appunto, l’intenzionalità con cui le stesse sono state poste in essere.

Un discorso più articolato merita l’inserimento del requisito del dolo specifico.

Conviene forse partire dalla considerazione che il significato corrente del termine tortura oscilla tra due accezioni, una restrittiva e l’altra estensiva: la prima è quella che inquadra il fenomeno come «tormento temporale di varia specie che si infliggeva un tempo legalmente, e che talvolta illegalmente s’infligge ancor oggi, a un imputato o a un testimone, per ottenere la confessione di un delitto o qualche dichiarazione importante»10; la seconda – certamente meno legata al dato storico e più coerente con i più recenti dati di cronaca, dentro e fuori dal nostro Paese – è quella che lo intende invece come «atto brutale, crudele o qualsiasi forma di grave costrizione praticata su qualcuno per ottenere qualcosa o solo per sevizia»11, con ciò ammettendo che possa esservi tortura anche in assenza di un qualsivoglia fine specifico.

La ricca casistica giurisprudenziale nazionale e sovranazionale fornisce, invero, molti spunti per ritenere che l’introduzione del requisito del dolo specifico verrebbe ad espungere dall’ambito di applicazione della norma le ipotesi – tutt’altro che rare – di inflizione intenzionale di sofferenze fisiche o morali senza alcuna apparente ragione, per vendetta, per spirito di rivalsa o per puro sadismo12: un effetto, questo, tutt’altro che desiderabile, anche in ragione dell’efficacia generalpreventiva che l’introducenda norma dovrebbe, auspicabilmente, dispiegare.

Il suddetto timore va, nondimeno, ridimensionato alla luce della contigua previsione nel testo in discussione al Senato, in alternativa al dolo specifico, di alcune delle ragioni di discriminazione che potrebbero sorreggere la causazione di sofferenze fisiche o morali senza alcun apparente scopo (attraverso l’espressione «ovvero in ragione dell’appartenenza etnica, dell’orientamento sessuale o delle opinioni politiche o religiose»).

I profili problematici

Un primo profilo problematico, ben evidenziato in dottrina, attiene alla delimitazione del novero dei possibili soggetti passivi alle persone affidate all’agente, o comunque sottoposte alla sua autorità, vigilanza o custodia: un’interpretazione restrittiva, realmente ossequiosa del principio costituzionale di precisione, imporrebbe forse di escludere la sussistenza del reato nei casi in cui le violenze siano poste in essere dalle forze dell’ordine “prima” dell’effettuazione di un formale atto di arresto. Meglio eliminare, allora, tale requisito, onde evitare forzature interpretative nell’applicazione pratica della norma13.

Ulteriori problemi applicativi potrebbero derivare dall’elenco “chiuso” dei motivi di discriminazione che, anche in assenza del dolo specifico, verrebbero a connotare dal punto di vista soggettivo la nuova fattispecie. Il rischio è, infatti, quello di sottrarre all’area del penalmente rilevante le condotte che non vengano poste in essere al fine di ottenere informazioni o dichiarazioni o di infliggere una punizione o di vincere una resistenza, e neppure in virtù dell’appartenenza etnica, dell’orientamento sessuale o delle opinioni politiche o religiose della vittima. Meglio inserire, allora, una formula di chiusura del tipo «o per altre ragioni di discriminazione» (che parrebbe rispettosa del principio di tassatività, essendo preceduta da un elenco omogeneo).

La perplessità forse più grave riguarda però, ad avviso di chi scrive, la configurazione delle lesioni o della morte quali “eventi aggravatori”, che – alla luce dell’orientamento consolidato nella giurisprudenza della Cassazione – andrebbero inquadrati come altrettante circostanze aggravanti, come tali suscettibili di venire neutralizzate all’esito del giudizio di bilanciamento con eventuali circostanze attenuanti. Meglio inserire, allora, un espresso divieto di bilanciamento

– per evitare un annacquamento della risposta sanzionatoria proprio nei casi maggiormente meritevoli di repressione – o rinunciare, tout court, alla configurazione dei suddetti eventi aggravatori, così da rendere operativa la fattispecie residuale di morte o lesioni come conseguenza di altro delitto di cui all’art. 586 c.p.

Ancora, il legislatore non pare essersi al momento confrontato con tre ulteriori ordini di problemi: a) quello di assicurare un’efficace repressione anche delle altre e meno gravi forme di trattamenti contrari all’art. 3 CEDU, come espressamente richiesto dalla Corte EDU nella sentenza Cestaro c. Italia; b) quello di adottare norme che esplicitamente escludano la rilevanza di esimenti quali l’adempimento dell’ordine del superiore o di un’autorità lo stato di necessità (conformemente all’art. 2, parr. 2 e 3 della Convenzione ONU contro la tortura e alla giurisprudenza di Strasburgo); e infine c) quello di prevedere una qualche forma di superior responsibility14, sul modello dell’art. 28 dello Statuto della Corte penale internazionale, non limitandosi all’ipotesi dell’istigazione ma venendo a reprimere anche il più diffuso fenomeno dell’acquiescenza (che si ha quando i diretti superiori dell’autore dei mistreatments, pur essendo a conoscenza dei fatti e/o avendo i poteri necessari a impedirne la verificazione, si sottraggono a qualsiasi azione di contrasto e/o non denunciano all’autorità giudiziaria l’accaduto, spesso in ossequio a un “malinteso spirito di corpo”).

In relazione al primo punto, in particolare, il nodo cruciale da sciogliere è quello di scegliere se limitare la repressione penale alle sole condotte dolose o (in maniera assai rischiosa, ad avviso di chi scrive) estenderla anche a quelle colpose, che pure, secondo la giurisprudenza di Strasburgo in tema di art. 3 CEDU, possono costituire trattamenti inumani o degradanti (un esempio fra tutti, il sovraffollamento carcerario).

In riferimento al tema della responsabilità del superiore, invece, può in questa sede esclusivamente sottolinearsi l’opportunità dell’introduzione di una disposizione analoga, per struttura e regola di imputazione dell’evento, a quella dell’art. 57 c.p., caratterizzantesi altresì – esattamente come avviene in tema di reati commessi col mezzo della stampa – per una congrua riduzione di pena rispetto all’ipotesi “base”.

1 Cfr. in proposito Viganò, F., La difficile battaglia contro l’impunità dei responsabili di tortura: la sentenza della Corte di Strasburgo sui fatti della scuola Diaz e i tormenti del legislatore italiano, e Cassibba, F., Violato il divieto di tortura: condannata l’Italia per i fatti della scuola “Diaz-Pertini”, pubblicati sulla rivista on line www.dirittopenalecontemporaneo.it rispettivamente in data 9.4.2015 e 27.4.2015.

2 Cfr. sul punto Trione, F., Divieto e crimine di tortura nella giurisprudenza internazionale, Napoli, 2006; Fioravanti, C., Divieto di tortura e ordinamento italiano, in Quad. cost., 2004, 555 ss.; Marchesi, A., L’attuazione in Italia dell’obbligo internazionale di repressione della tortura, in Riv. dir. int., 1999, 463 ss. Con riferimento agli obblighi di fonte CEDU, cfr. altresì Chenal, R., Obblighi di criminalizzazione tra sistema penale italiano e Corte europea dei diritti dell’uomo, in Legisl. pen., 2006, fasc. 1, 171189; Nicosia, E., Convenzione europea dei diritti dell’uomo e diritto penale, Torino, 2006, 275-276; Viganò, F., Diritto penale sostanziale e Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, segnatamente 6070.

3 Si permetta di rinviare in proposito a Colella, A., C’è un giudice a Strasburgo. In margine alle sentenze sui fatti della Diaz e di Bolzaneto: l’inadeguatezza del quadro normativo italiano in tema di repressione penale della tortura, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, 1801-1843.

4 Cfr. sul punto Pugiotto, R., Repressione penale della tortura e Costituzione: anatomia di un reato che non c’è, pubblicato sulla rivista on line www.dirittopenalecontemporaneo.it in data 17.2.2014.

5 Oltre a quella relativa alla mancata individuazione e punizione dei responsabili, che qui più interessa, la Corte ha individuato due ulteriori violazioni degli obblighi procedurali discendenti dall’art. 3 CEDU, consistenti rispettivamente nella mancata cooperazione nell’identificazione degli autori dell’atto di tortura da parte delle forze dell’ordine di appartenenza e nella mancata sospensione dei medesimi dal servizio, con l’effetto pratico che gli stessi si sono così sottratti a qualunque tipo di sanzione, penale e disciplinare (par. 227 ss. della sentenza).

6 Tanto le Osservazioni del CPT quanto la Replica del Governo italiano sono reperibili in lingua inglese all’indirizzo www.cpt.coe.int.

7 A titolo meramente esemplificativo si richiama la terribile vicenda consumatasi all’interno dell’istituto penitenziario minorile di Nisida, sulla quale si è pronunciata la recente Trib. Napoli – G.U.P. Miranda, sent. 4.8.2010, imp. B., in Corr. mer. La vittima era un giovane detenuto, che è stato colpito dai tre compagni di cella con schiaffi, pugni e gomitate dietro la schiena e segregato dentro l’armadio, si è visto praticare sul corpo bruciature con la fiamma dell’accendino ed è stato costretto a cantare una canzone in cui offendeva la memoria della nonna, da poco defunta, nonché a spogliarsi e a sdraiarsi nudo a terra, dove i medesimi gli hanno defecato e urinato addosso.

8 Viganò, F., Sui progetti di introduzione del delitto di tortura in discussione presso la Camera dei Deputati, pubblicato sulla rivista on line www.penalecontemporaneo.it in data 25.9.2014.

9 Che pure può costituire di per sé una violazione dell’art. 3 CEDU, secondo quanto di recente affermato dalla Corte di Strasburgo. Mi permetto di rinviare sul punto, a Colella, A., La giurisprudenza di Strasburgo 2008-2010: il divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti, in Dir. pen. cont., 2011, fasc. 1, 237-239.

10 Così Zingarelli, N., Vocabolario della lingua italiana, 1915.

11 Ancora Zingarelli, N., Vocabolario della lingua italiana, 1915.

12 Si pensi, ancora, alle tristi vicende avvenute nel carcere minorile di Nisida alle quali già si è accennato in nota.

13 Cfr. in proposito ancora Viganò, F., La difficile battaglia contro l’impunità, cit.

14 Sul tema della superior responsibility cfr. Meloni, C., Command Responsibility in International Criminal Law, L’Aja, 2010.

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