Venezia

Enciclopedia machiavelliana (2014)

Venezia

Romain Descendre

A M. bastava un unico capitolo delle Istorie fiorentine (I xxix) per riassumere l’intera storia di Venezia. La «necessità» era stata all’origine della città – fondata nelle paludi di Rialto a protezione dalle invasioni barbare – e aveva in seguito determinato la sua specifica identità di città libera e mercantile impadronitasi di un vasto dominio marittimo. Oltrepassando questa missione marittima, per pura «cupidità del dominare», con la conquista di molte città di terraferma, aveva provocato negli Stati italiani e oltremontani una reazione congiunta:

Onde, congiurati quelli contro a di loro, in uno giorno fu tolto loro quello stato che si avevano in molti anni con infinito espendio guadagnato; e benché ne abbiano, in questi nostri ultimi tempi, riacquistato parte, non avendo riacquistata né la reputazione né le forze, a discrezione d’altri, come tutti gli altri principi italiani, vivono (I xxix 14).

Il giudizio è reso tanto più significativo proprio dalla sua concisione: studiatamente M. intendeva ridimensionare il posto che la storiografia aveva fino a quel momento attribuito a Venezia. Lo storico fiorentino era ben consapevole di effettuare una scelta inconsueta:

E’ parrà forse ad alcuno cosa non conveniente che, infra tanti accidenti seguiti in Italia, noi abbiamo differito tanto a ragionare de’ Viniziani, sendo la loro una repubblica che, per ordine e per potenzia, debbe essere sopra ogni altro principato di Italia celebrata [...] (I xxviii 10).

Ma le guerre d’Italia imponevano di rovesciare il giudizio tradizionale: non la potenza, ma la debolezza di V. si era allora manifestata in piena luce. Tranne l’antica fondazione, un solo evento catalizzava il sunto dell’intera storia della Serenissima: la perdita straordinariamente rapida, dopo la sconfitta di Agnadello (→ Agnadello, battaglia di), del dominio territoriale costruito lungo il Quattrocento. Nella stessa economia narrativa delle Istorie fiorentine, la cosa poteva sembrare alquanto sconcertante, giacché l’evento oltrepassava l’arco temporale previsto dall’opera: in essa, del resto, erano relativamente poco numerose le altre evocazioni di V., dedicate soprattutto a sconfitte di cui i governanti di San Marco erano interamente responsabili. Quella del 1448, per es., nella lotta con Francesco Sforza, era stata causata dal «Senato veneto, naturalmente timido e discosto da qualunque partito dubio e pericoloso» (VI xviii 8).

Sotto questo profilo, le Istorie confermavano una tendenza profonda dell’intera opera machiavelliana: politica e storia di V. vi furono sempre interpretate alla stregua delle sue sconfitte militari, soprattutto di quella più recente e spettacolare. Agnadello era il prisma che permetteva a M. di gettare sulla Serenissima una luce nuova. La sconfitta di V. in una delle maggiori battaglie delle guerre d’Italia, il 14 maggio 1509, consentiva infatti di leggere una quarantina di anni della storia di V. tra la guerra contro Ferrara (1482-84) e gli anni Venti del Cinquecento. La guerra contro Ferrara fu l’ultimo tentativo importante della Serenissima per allargare a sud il proprio dominio di terraferma: un tentativo non del tutto riuscito, nonostante la conquista di Rovigo e del Polesine, grazie all’unione di Napoli, Milano, Mantova (e poi anche di Firenze e del pontefice Sisto IV) a sostegno di Ferrara. Ma l’episodio aveva dimostrato ai potentati italiani che V. aspirava a una posizione egemone nella penisola (la ‘monarchia d’Italia’ si diceva allora). Fu questa in parte una delle lontane origini della lega di Cambrai che, nel 1508, attorno al re di Francia, mise insieme tutti i maggiori Stati italiani e l’imperatore Massimiliano contro V., isolata e priva di alleati. Una sconfitta – Agnadello appunto – bastò a mettere in forse la stessa sopravvivenza della Repubblica con i nemici che arrivarono a portata di cannone di V. in poche settimane. Fu un vero trauma per V., ma altrettanto impressionante e significativa fu la ripresa tutto sommato rapidissima della Repubblica che, pochi anni più tardi, aveva integralmente recuperato il suo Stato di terraferma (ma di ciò M. parla poco). E il vero sbocco epocale di questo scorcio di vita veneziana, uno sbocco non affatto machiavelliano, sarà la scelta definitiva da parte di V. di una prudente neutralità dopo il fallimento della lega di Cognac, nel 1527-28. Tale scelta di prudenza (mai disgiunta, comunque, dalla fiera proclamazione del mito di una repubblica le cui istituzioni permanevano al di là degli accidenti della storia) era consigliata anche dalle vicende del confronto con la potenza ottomana in Oriente: V. acquistò Cipro nel 1489, ma, in seguito a due guerre (1463-79 e 14991503), dovette cedere non poche delle sue conquiste nell’Egeo, mentre la pressione turca, pressoché continua, sulle frange nord-orientali del dominio veneziano (Dalmazia, Istria, Friuli) diveniva una componente ineliminabile del nuovo contesto politico in cui il governo di San Marco doveva muoversi.

Negli anni Venti del Cinquecento, affermare che «per ordine e per potenzia» questa Repubblica dovesse «essere sopra ogni altro principato di Italia celebrata», poteva sembrare un tributo d’obbligo, se non addirittura la citazione ironica di un luogo comune. Chi, tra i lettori delle Istorie, conosceva le posizioni di M. in merito non poteva nutrire dubbi a questo proposito. Fin dal 1513 egli rammentava all’amico Francesco Vettori che il suo apprezzamento negativo di V. risaliva a prima del 1509:

il Casa sa, e molti amici mia, con i quali soglio ragionare di queste cose, sanno, come io stimavo poco e viniziani, etiam nella maggior grandezza loro, perché a me pareva sempre molto maggior miracolo che eglino avessino acquistato quello imperio e che lo tenessino, che se lo perdessino (26 ag. 1513, Lettere, p. 288).

Il riferimento a Filippo Casavecchia («il Casa») non era forse del tutto casuale se proprio lui, un mese dopo la battaglia di Agnadello, aveva dichiarato all’amico di considerarlo «el maggiore profeta che avessino mai li ebrei o altra generatione» (F. Casavecchia a M., 17 giugno 1509, Lettere, p. 190). Nello stimare poco i veneziani «nella maggior grandezza loro», M. aveva espresso un parere isolato ma preveggente.

Per tutti V. era un modello di stabilità politica. Il suo sistema di governo costituiva la pietra di paragone dei dibattiti politico-costituzionali fiorentini, e sarebbe stato così per tanti anni ancora. Com’è stato notato, «dal 1494, e cioè dall’apertura della crisi politica in poi, non c’è, si può dire, discussione di qualche importanza relativa a provvedimenti costituzionali, che non rifletta l’imminenza del modello veneziano sulle menti degli uomini politici fiorentini» (Pecchioli 1962, p. 482). Sia i filopopolari sia i filoaristocratici identificavano in V. un esempio efficace, che d’altronde ispirò le due più importanti riforme fiorentine del periodo 1494-1512: l’istituzione del Consiglio maggiore e quella del gonfalonierato a vita. I «molti amici» con i quali M. soleva «ragionare di queste cose», sia negli anni della cancelleria sia in quelli post res perditas, e in particolar modo i suoi compagni degli Orti Oricellari, rimanevano fedeli al ‘mito’ di V.: cioè, fondamentalmente, al mito della bontà di una costituzione mista i cui equilibri le avevano permesso di durare più a lungo di ogni altra. Se in questo caso, come in tanti altri, M. poteva sembrare «ut plurimum estravagante di opinione dalle commune et inventore di cose nuove et insolite» – come gli avrebbe scritto l’amico Francesco Guicciardini il 18 maggio 1521 (Lettere, p. 378) –, ciò era dovuto alla sua scelta di pensare sempre insieme leggi e armi. Secondo un principio ben saldo del pensiero machiavelliano, se le armi non erano buone, neppure le leggi e gli ordini potevano esserlo. Ed era chiaro ai suoi occhi che le armi di V. erano pessime. Le ragioni della centralità della battaglia di Agnadello nell’intera riflessione machiavelliana su V. stanno tutte qui: nella riprova più schiacciante che la storia contemporanea aveva data dell’assoluta necessità che le repubbliche si provvedano di «armi proprie», a conferma dell’Ordinanza di cui era stato il propugnatore e l’artefice.

In una lettera dell’autunno 1509 dal Veneto, proprio quando i veneziani recuperavano una parte importante dei domini persi, M. notava:

Intendesi come e’ Viniziani in tutti questi luoghi, de’ quali si rinsignoriscono, fanno dipignere uno San Marco che in scambio di libro ha una spada in mano. Donde pare che si sieno avveduti a loro spese che a tenere li stati non bastono li studi ed e’ libri (M. ai Dieci, 7 dic. 1509, LCSG, 6° t., pp. 395-96).

Sono quasi certamente dello stesso periodo i versi del capitolo “Dell’Ambizione”, dedicato più precisamente a «l’Ambizione e l’Avarizia» (v. 12) degli Stati e dei loro dirigenti: «San Marco alle sue spese, e forse invano, / tardi conosce come li bisogna / tener la spada e non el libro in mano» (vv. 166-68). Gli interpreti associano questa opposizione tra il libro e la spada a quella tra le leggi e le armi. Preme però ricordare che il «libro» di san Marco è il Vangelo da lui scritto, e soprattutto che M. ne faceva una figura dell’insieme costituito da «studi» e «libri». Qui non erano solo né tanto gli aspetti giuridico-istituzionali del dominio veneziano a essere presi di mira, quanto piuttosto un certo ‘ozio’ cristiano e umanistico, quella religione e quelle lettere che rendevano gli animi «effeminati» e «vili». Ed era più ancora la congiunzione di «ambizione» e «viltà» a essere aspramente criticata, giacché V. cumulava i vizi denunciati da M.: «Fie per avverso quel loco servile, / ad ogni danno, ad ogni iniuria esposto, / dove sie gente ambiziosa e vile: / se Viltà e Tristo ordin siede accosto / a questa Ambizione, ogni sciaura, / ogni ruina, ogni altro mal vien tosto» (vv. 103-08). In linguaggio machiavelliano, «vile» sta per ‘debole’, perché disarmato, una condizione che rendeva disastrosa ogni mira di conquista.

Nel Principe si continua a rimproverare ai veneziani di essere nello stesso tempo disarmati e ambiziosi. Lo avevano dimostrato fin dal 1499, nel facilitare la campagna di Luigi XII, con conseguenze particolarmente dannose per tutta l’Italia. Proprio a questo evento si ricongiungeva una viva denuncia: «El re Luigi fu messo in Italia da la ambizione de’ viniziani, che vollono guadagnarsi mezzo lo stato di Lombardia per quella venuta» (iii 32). Ciò aveva portato gli Stati italiani ad allearsi con i francesi, «e allora poterno considerare e’ viniziani la temerità del partito preso da loro; e’ quali, per acquistare dua terre in Lombardia feciono signore el re de’ dua terzi di Italia» (iii 35). Ci si è interrogati sui motivi della profonda antipatia di M. per V. (Gilbert 1969); e nelle riflessioni appena ricordate si rinviene almeno un elemento utile per trovare una risposta: se gli Stati italiani erano responsabili, nel loro insieme, della loro nuova «schiavitù», la Repubblica di San Marco lo era stata forse più di tutti. Proprio perché «superbi e vili» allo stesso tempo, e cioè «nelle prosperità [...] insolenti e nelle avversità abietti e umili» (Istorie fiorentine VI xviii), i veneziani, che obbedivano solo a un egoistico e mal compreso interesse, avevano messo a repentaglio non soltanto la propria indipendenza ma quella di tutta l’Italia.

Ma, come si è accennato, la centralità di V. in M. dipende in primis dalla questione delle armi: in tutti i suoi scritti la città lagunare costituisce, in negativo, la miglior prova storica dell’assunto fondamentale della sua battaglia politica, cioè la necessità di provvedersi di armi proprie. Non a caso l’unico lungo passo su V. nel Principe fa parte del cap. xii, consacrato alla critica degli eserciti mercenari. Qui, saldezza e durata dell’impero marittimo erano forzatamente attribuite alla sua edificazione per merito congiunto dei «gentili uomini» e della «plebe armata» (xii 23). Al contrario, la lenta costituzione del dominio terrestre, opera di capitani mercenari, non aveva fatto altro che preparare «sùbite e miracolose perdite» (xii 26). Agnadello assumeva così un valore di banco di prova, diventava l’evento più significativo dell’intera storia veneziana e la conferma che le leggi non valevano niente se non sostenute da armi correttamente ordinate.

Furono però i Discorsi a dare a V. un posto di incomparabile importanza. Pur rimanendo sostanzialmente immutato, il giudizio si faceva più complesso, fondato su un’analisi articolata del nesso tra leggi e armi, tra ordine interno e politica estera. In un libro dedicato alle repubbliche, era comprensibile che la più duratura ed elogiata delle repubbliche moderne dovesse assumere un ruolo notevole. Andavano qui esplicitate più precisamente le ragioni per cui dovesse essere rovesciato il giudizio positivo espresso da una tradizione umanistica pressoché unanime. Laddove si collegava abitualmente la straordinaria durata della Repubblica veneziana all’assenza di conflitti interni, M. identificava in tale quiete uno specifico limite della Repubblica di San Marco. Fin dal primo capitolo con il racconto della sua fondazione, V. veniva caratterizzata dal «lungo ozio» (I i 7) favorito dal sito lagunare. Alla stregua di diversi autori del Quattrocento, M. la equiparava alle repubbliche antiche sotto il profilo costituzionale, in quanto repubblica mista. La novità risiedeva nel modo di distinguere le diverse repubbliche miste – principalmente Roma, Sparta e V. – e soprattutto nell’affermazione della netta superiorità del modello romano rispetto agli altri due.

Fare di Roma la miglior forma di repubblica significava attribuire al popolo un potere determinante e insieme scegliere un modello militare, cioè affidare la difesa della repubblica alle armi proprie. Ma significava anche correre il rischio dei tumulti, della conflittualità interna, di uno scontro permanente tra gruppi sociali e «umori» politici. Accettare cioè questi stessi tumulti che avevano spinto sia gli umanisti veneziani o filoveneziani a denigrare Roma e a opporle la quiete della Repubblica di San Marco, sia i repubblicani fiorentini filoaristocratici a far di questa una permanente fonte d’ispirazione. Così, nei Discorsi, anche quando V. non veniva menzionata e M. si concentrava su Roma, il riscontro con l’ordinamento veneziano rimaneva sottinteso. L’esplicita menzione della

opinione di molti che dicono Roma essere stata una republica tumultuaria, e piena di tanta confusione che se la buona fortuna e la virtù militare non avesse sopperito a’ loro difetti, sarebbe stata inferiore a ogni altra republica (Discorsi I iv 2)

va senza dubbio ricondotta a «una concezione filo-aristocratica antiromana e filo-veneziana della politica e della storia» (G. Sasso, Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 1° vol., 1987, p. 530): la scelta di Roma contro V. andava dunque di pari passo con l’ispirazione filopopolare che pervadeva l’intera opera machiavelliana, e si opponeva direttamente alle posizioni umanistiche diventate luogo comune nel discorso dei ‘grandi’ a Firenze. Al «fine», cioè agli effetti storici che sembravano consigliare di affidare ai nobili «la guardia della libertà» – come a V. – e non al popolo – come a Roma con i tribuni della plebe –, M. opponeva dapprima le sue «ragioni». Era preferibile scegliere il popolo giacché, «essendo i popolari preposti a guardia d’una libertà, è ragionevole ne abbiano più cura, e non la potendo occupare loro, non permettino che altri la occupi» (I v 8). Ma questo era un ragionamento che presupponeva qualcosa di astratto: per essere valido doveva appoggiarsi al «fine», cioè alla storia. Certo, V. si era mostrata più stabile e capace di durare di Roma: ma stabilità e durata potevano dirsi della città e dell’ordine costituzionale, non già dell’«imperio». Il modello veneziano era esemplare solo a patto di non «fare uno imperio», e qui stava il nodo del problema:

E in fine chi sottilmente esaminerà tutto ne farà questa conclusione: o tu ragioni d’una republica che voglia fare uno imperio, come Roma, o d’una che le basti mantenersi. Nel primo caso gli è necessario fare ogni cosa come Roma; nel secondo, può imitare Vinegia e Sparta [...] (I v 13-14).

L’assenza dei tumulti era fonte di debolezza perché si conseguiva impedendo al popolo di acquisire importanza politica, e quindi di accedere alle armi. In tali condizioni, ogni volontà di «ampliare» sarebbe stata vana, anzi «l’ampliare è il veleno di simili republiche», perché «tali acquisti fondati sopra una republica debole sono al tutto la rovina sua» (I vi 26). Come anticamente Sparta, «Vinegia» ne aveva recentemente portato la prova storica: «avendo occupato gran parte d’Italia, e la maggior parte non con guerra ma con danari e con astuzia, come la ebbe a fare pruova delle forze sue, perdette in una giornata ogni cosa» (I vi 28). Di nuovo, la sconfitta di Agnadello assumeva uno statuto di evento paradigmatico: non era neanche necessario nominarla, alludervi bastava a dare una conferma storica più che convincente dell’intero ragionamento. Ora proprio le guerre d’Italia dimostravano quotidianamente agli italiani la necessità non solo di costituirsi un «imperio» ma di armarlo saldamente. In ciò, V. finiva con il mostrarsi come un antimodello. E pertanto M. trasformava in anti-mito il cosiddetto mito di Venezia.

Sarebbe però insufficiente soffermarsi solo su queste analisi, la cui radicalità critica era soprattutto dovuta all’erezione di V. a contro-esempio. Al di là sia delle insofferenze personali sia delle scelte politiche fondamentali che lo conducevano a formulare questi severi giudizi, M. sapeva riconoscere e analizzare con finezza alcuni tratti specifici dell’ordinamento veneziano. Era il modello politico-militare scelto dalla maggior parte dei suoi concittadini a essere respinto, non l’insieme degli «ordini» veneziani. Ciò è tanto vero che nelle varie allusioni negative che si incontrano nel secondo libro dei Discorsi, le medesime critiche indirizzate a V. sono mosse a Firenze. Per es., V. aveva saputo attualizzare certe istituzioni romane tra le più utili, come l’autorità dittatoria rinata nel Consiglio dei Dieci: «la Republica viniziana, la quale intra le moderne republiche è eccellente, ha riservato autorità a pochi cittadini che ne’ bisogni urgenti, sanza maggiore consulta, tutti d’accordo possino deliberare» (I xxxiv 13; e cfr. anche I xlix 15). Al di là del riconoscimento generale dell’«eccellenza» moderna di questa repubblica (che non contraddice l’affermazione di un modello antico migliore), M. vede in V. un esempio di buona gestione istituzionale della «necessità» e dello stato d’urgenza, la cui presa in conto fa l’originalità del suo pensiero. Si nota però che V. è qui «eccellente» nella misura in cui segue un esempio romano.

Più generalmente, se M. criticava la mancata implicazione del popolo nell’assetto politico-militare veneziano, distingueva nettamente V. dalle aristocrazie fondiarie e non la condannava come società aristocratica. Distingueva infatti precisamente i «gentiluomini» veneziani, che «non hanno grandi entrate di possessioni, sendo le loro ricchezze grandi fondate in sulla mercanzia e cose mobili», né «alcuna iurisdizione sopra gli uomini» (I lv 32), dai veri e propri «gentiluomini», signori di «castelli», la cui presenza impediva la «grande equalità» indispensabile all’istituzione di una repubblica. Erroneamente, M. riteneva che nei primi secoli della sua storia V. fosse una repubblica popolare e ugualitaria, e cioè che «qualunque allora abitava in Vinegia fu fatto del governo» (I vi 9): solo la Serrata del Maggior Consiglio (1297) avrebbe impedito ai nuovi abitanti di partecipare al governo. Per di più, questi veneziani nuovi e quindi esclusi non sarebbero stati numerosi, sicché non vi era «disproporzione di chi gli governa a loro che sono governati», anzi «il numero de’ gentiluomini o egli è equale al loro, o egli è superiore» (I vi 11). Un’affermazione così lontana dalla realtà sociopolitica di V. non solo dimostra che M. la conosceva male: permette anche di ribadire che non era tanto il suo ordine istituzionale a essere criticato quanto i suoi «ordini non buoni nelle cose della guerra» (III xxxi 18). In ogni modo, la natura repubblicana e libera del suo «vivere» non fu mai rimessa in questione. Era stata invece la servitù alla quale erano abituati i popoli vicini ad averli condotti ad accettare il nuovo dominio veneziano. Stava qui la ragione dei successi militari di V. e della costituzione del suo vasto dominio di terraferma:

Pertanto chi considera bene i vicini della città di Firenze e i vicini della città di Vinegia, non si maraviglierà, come molti fanno, che Firenze abbia più speso, nelle guerre, e acquistato meno di Vinegia. Perché tutto nasce da non avere avuto i Viniziani le terre vicine sì ostinate alla difesa quanto ha avuto Firenze, per essere state tutte le cittadi finitime a Vinegia use a vivere sotto uno principe e non libere; e quegli che sono consueti a servire, stimono molte volte poco il mutare padrone, anzi molte volte lo desiderano. Talché Vinegia, benché abbia avuto i vicini più potenti che Firenze, per avere trovato le terre meno ostinate le ha potuto più tosto vincere che non ha fatto quella, sendo circundata da tutte città libere (III xii 9-11).

Qui M. rilevava il desiderio, nei vicini di V. «consueti a servire», di «mutare padrone». Ma avrebbe potuto dire di più: egli stesso aveva osservato in prima persona quanto alcuni di questi «vicini», dopo che la lega di Cambrai aveva messo termine a un secolo di dominio veneto, desiderassero ardentemente tornare a essere «marcheschi», e cioè sudditi di Venezia. Non si trattava però delle città, ma degli abitanti del contado. Così, infatti, aveva scritto ai Dieci, da Verona, il 26 novembre 1509:

nelli animi di questi contadini è entrato uno desiderio di morire e vendicarsi, che sono diventati più ostinati ed arrabbiati contra a’ nimici de’ Viniziani che non erano e’ Giudei contro a’ Romani. E tutto dì occorre che uno di loro, preso, si lascia ammazzare per non negare el nome viniziano; e pure iarsera ne fu uno innanzi a questo Vescovo che disse che era marchesco e marchesco voleva morire, e non voleva vivere altrimenti; in modo che ’l Vescovo lo fece appiccare; né promessa di camparlo né d’altro bene lo possé trarre di questa opinione; di modo che, considerato tutto, è impossibile che questi Re tenghino questi paesi con questi paesani vivi (LCSG, 6° t., pp. 386-87).

Certo, il comportamento del «paesano» risoluto a morire per la Dominante avrebbe dovuto colpire non poco l’ideatore dell’Ordinanza fiorentina, la quale tendeva precisamente al ‘blocco’ (in senso gramsciano) città-contadini. Nondimeno, non richiamò mai questi eventi nelle opere maggiori, non ne tenne mai conto nelle sue analisi di V. e non ne trasse alcuna conclusione teorica. Convinto della debolezza militare dei veneziani, non rifletté mai adeguatamente sulla rapidità con la quale essi recuperarono i territori persi. Similmente, non diede mai il dovuto peso alla decisiva vittoria veneziana seguita all’assedio di Padova (settembre 1509). Affermare che, nonostante la loro resistenza e le loro riconquiste, i veneziani rimanevano «a discrezione d’altri, come tutti gli altri principi italiani» (Istorie fiorentine I xxix 14) era per lo meno esagerato: certo, V. si faceva da parte, dava avvio alla scelta di una neutralità che avrebbe caratterizzato la sua politica estera durante tutto il Cinquecento (teorizzata poi da Paolo Paruta in opposizione al Fiorentino), ma – contrariamente a «tutti gli altri principi italiani» – non era «a discrezione» né della Francia né della Spagna. Insomma, fu in lui talmente forte la convinzione che solo le «armi proprie» fortificavano uno Stato, che non seppe trarre tutti gli insegnamenti del consenso di cui beneficiava la Repubblica veneziana fra i suoi «contadini» – un’adesione popolare che Firenze era ben lungi dall’avere.

Bibliografia: R. Pecchioli, Il ‘mito’ di Venezia e la crisi fiorentina intorno al 1500, «Studi storici», 1962, 3, pp. 451-92; F. Gilbert, Machiavelli e Venezia, «Lettere italiane», 1969, 21, pp. 389-98 (poi in Id., Machiavelli e il suo tempo, Bologna 1977, pp. 319-34); N. Matteucci, Machiavelli, Harrington, Montesquieu e gli “ordini” di Venezia, «Il pensiero politico», 1970, 3, pp. 337-69; I. Cervelli, Machiavelli e la crisi dello Stato veneziano, Napoli 1974; G. Sasso, Machiavelli e Venezia. Considerazioni e appunti, in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 3° vol., Milano-Napoli 1988, pp. 3-46.

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