Venezia

Enciclopedia Dantesca (1970)

Venezia (Vinegia)

Eugenio Chiarini
Pier Vincenzo Mengaldo

Sorta sulla laguna dei Veneti nei secoli avanti il Mille, dietro all'incalzare delle invasioni barbariche, da un insieme d'isole, isolotti, secche, pantani, rassodati e abitati via via dai fuggiaschi delle antiche città vicine; stretta ormai, al tempo di D., in unità potente e accentrata, intorno alla basilica d'oro (con l'altissima torre) e al Palazzo dei Dogi, rispettivamente ‛ cuore ' e ‛ cervello ' dello stato; e intorno a Rialto, l'isola dei traffici, ‛ polmone ' di un impero mercantile che stendeva la sua mobilissima trama dalle Fiandre alle foci del Don (Tanaï là sotto 'l freddo cielo, If XXXII 27); V. (‛ Vinegia ' è la forma normale nel Trecento, sostituita spesso e poi a lungo da ‛ Rialto ', latinamente Venetiae, quasi ad abbracciare tutt'intera l'antica provincia) mostrava nei primi decenni del sec. XIV caratteri storico-politici - nonché, ovviamente, urbanistici - inconfondibili con quelli di ogni altra città italiana.

Del suo unicum urbanistico scriveva, verso il 1240, Boncompagno da Signa: " Pavimentum eius est mare, coelum est tectum, et paries decursus aquarum. Unde tollit facultatem sermonis materia singularis, ex eo quod in orbe terrarum simile regnum non potest nec poterit inveniri ": un riflesso, fra i tanti, del mito, già da tempo costruito, di V. ‛ incomparabile '.

Della sua particolare situazione geografica, che ne aveva guidato la vicenda storica lungo le vie del mare e dei commerci fino agl'insediamenti più lontani (a segno che, dopo la quarta crociata, il doge Enrico Dandolo ventilò il progetto di trasferire a Costantinopoli la capitale dell'intera compagine); e ne aveva, insieme, condizionato e promosso, all'interno, la compattezza, la continuità, il prestigio di un'aristocrazia dominante (indigena) in specialissimo accordo d'imprese e di spiriti con le classi popolari; è da rilevare peraltro che l'aveva pure (relativamente) estraniata dalla vita e dalle sorti della penisola, serbandola indipendente dai regni barbarici come poi, in effetti, da Bisanzio e dal Sacro Romano Impero; immune dalle lotte tra papi e imperatori come dall'urto tra guelfi e ghibellini; e coinvolta nelle cose del retroterra solo in quanto interferissero sugli scali marittimi e fluviali del suo commercio. Col tempo tuttavia, i molti punti di contatto con la terraferma - retrostante e adriatica - erano divenuti punti dolenti di attrito. Ché la repubblica esercitava il suo commercio, essenzialmente di transito, con una tale somma di monopoli e di privilegi e arrogandosi compiti di polizia così severi, da suscitare a ogni poco malumori, resistenze e fomiti e sussulti di guerra lungo tutto l'arco costiero, da Ancona (1276) ad Aquileia (1290), all'Istria (1289). (La sconfitta di Curzola, del 1298, in cui fu fatto prigioniero Marco Polo, si lega invece alla guerra con Genova riaccesa nel 1294).

La guerra per il dominio di Ferrara, che la repubblica ingaggiò nel 1308, dopo la morte del marchese Azzo VIII (quel da Esti, Pg V 77), contro le forze di Clemente V e dei suoi alleati (polentani e bolognesi), fu il primo cospicuo episodio di un indirizzo della politica veneziana vòlto a contenere con più salde e stabili barriere terrestri la crescente pressione di comuni e signorie dell'interno verso il mare. Episodio, ammette il Cessi, mosso " se non proprio da cupidigia di conquista, dallo stimolo a controllare, forse più del necessario e del tollerabile, le vie di transito dal mare al continente, con mano pesante, con eccessiva spregiudicatezza, facendo fidanza sulla superiorità delle proprie forze economiche e militari, senza tener conto della potenza delle armi spirituali, contro cui urtava, nell'offesa di interessi altrui, fossero o no legittimi " . Fu un tentativo incauto e infelice.

L'occupazione di Ferrara nel 1309 fruttò alla Serenissima una scomunica pontificia, che le incitava contro popoli e stati cristiani; di rincalzo, il cardinal Pellagrua predicò una crociata! E di ciò " trassero partito quanti, da Ravenna ad Aquileia, a Zara, alla Dalmazia, spiavano il momento propizio di rivincita " (Cessi). Ebbero infine la meglio le forze della Chiesa. Con la sconfitta sanguinosa di Caste] Tedaldo (" praeter illorum cadavera quae Pado submersa sunt, circiter mille octingenti ac quinquaginta ex Venetis interiere ", Rossi), anche il castello di Marcabò (cfr. If XXVIII 75), costruito dai Veneziani nel 1258 per sorvegliare il commercio transitante al Po da Ravenna, cadde e fu distrutto. Per di più, in seno alla città lagunare scoppiava, nel 1310, la congiura di Baiamonte Tiepolo e Marco Querini. Il pontefice dilazionò la revoca della scomunica sino al gennaio del 1313.

Prese così nuovo vigore, accanto al mito della mirabile ricchezza, potenza e giustizia e pace di V. (" alter mundus ", dirà tra breve il Petrarca), l'opposto mito, consistente esso pure fin dai primi secoli, di V. avara, perfida, corrotta, insaziabile, contro la quale già Salimbene aveva scagliato strali roventi, come poi avrebbero fatto il Boccaccio (maggiore e minore), il Villani, il Sacchetti e quel circolo fiorentino filomediceo che alimentò lungo il Cinquecento una sua dura polemica antiveneziana, linguistica e politica.

Non mutò sostanzialmente, in codesti anni burrascosi, il contegno politico della repubblica: aliena dal compromettersi nei casi interni della penisola (fossero la discesa di Enrico VII o l'impresa guelfa di Roberto di Napoli), ma ferma - lo si vide negli accordi finali con Clemente V - nella più strenua difesa dei suoi interessi e privilegi marittimi. Era doge (dal 1312) Giovanni Soranzo, quando, nell'estate del 1321, divampò per motivi che è lecito ritenere pretestuosi un conflitto di vecchia data col comune di Ravenna, che, nell'imminenza del pericolo, indusse il signore di questa città, Guido Novello, a inviare al senato veneziano un'ambasceria di pace, con l'ospite poeta in veste di oratore. L'accenno di Giovanni Villani alla morte di D. " nella città di Ravenna, essendo tornato d'ambasceria da Vinegia in servigio de' Signori da Polenta, con cui dimorava " (IX 136), rende plausibile che il poeta morisse di febbri malariche, contratte verosimilmente nel viaggio di ritorno: se pure il morbo non insorse, come narra Filippo Villani, in V. stessa, costringendo il poeta a restituirsi a Ravenna in anticipo.

Venezia nell'opera di Dante. - Poiché è opinione di molti che la città di San Marco sia la " grande assente " del poema e degli scritti danteschi (uno storico, G. Fasoli, scrive, alludendo ai noti versi dell'arzanà: " Dei Veneziani D. si ricorda soltanto quando vuol rappresentare con una similitudine una scena d'inferno "; e aggiunge: è " una conseguenza della sua incomprensione dei valori ideali delle attività produttive "), ci proponiamo qui, sulla traccia discreta del profilo storico sopra abbozzato come di tutti i riferimenti, espliciti e impliciti, alla presenza di questa città nella visuale storico-politica di D., e nell'ambito, contiguo ma distinto, del suo cosmo poetico, di smussare codesta opinione. Anzi: di risolverla in altra, assai curiosa e diversa.

È vero: D. non fa diretta menzione né di V. ‛ crociata ', né del risorto - ma nel 1261 già dissolto - Impero latino d'Oriente, né di battaglie navali, né in genere della grande avventura coloniale e della funzione di ‛ ponte ' non solo commerciale assolta da V., nel crepuscolo del Medioevo, tra la vecchia Europa e l'albeggiante mondo esplorato da Marco Polo. Il suo sguardo etico-politico ‛ sfiora ' appena cotesto mondo remoto che pur non ignora (cfr. If XXVII 85-90, Pg XIX 145-148): preso com'è dal e nel disordine che sconvolge da presso l'Italia e l'Europa, e a cui non scorge rimedio se non l'Impero del suo sogno, prosecuzione giustinianea e carolingia dell'antico augusteo, universale nello spazio ed eterno nel tempo.

Ma V. non s'incontra frontalmente neppure in questo più ridotto e assillante quadro politico, anche se il suo scarso entusiasmo per Enrico VII e gli episodi di guerra adriatica, maggiori e minori, di cui si è fatto cenno, non passarono inosservati - si può ben presumere - all'humilis ytalus che nel 1310, indirizzando un'epistola Universis et singulis Ytaliae Regibus et Senatoribus almae urbis nec non Ducibus Marchionibus Comitibus atque Populis, ammoniva: Qui bibitis fluenta eius [del nuovo Cesare] eiusque maria navigatis; qui calcatis arenas littorum et Alpium summitates, quae suae sunt... nolite, velut ignari, decipere vosmetipsos, tanquam sompniantes, in cordibus et dicentes: ‛ Dominum non habemus ' (Ep V 20). Né presumeremo che l'apostrofe all'Italia, nel VI del Purgatorio (Cerca, misera, intorno da le prode / le tue marine, e poi ti guarda in seno, / s'alcuna parte in te di pace gode, vv. 85-87), esentasse i Veneziani da ogni responsabilità in quel generale turbamento; così come non pensiamo li escluda, in implicito, l'accusa di If XXVII 90 contro i mercatanti in terra di Soldano. Al traguardo diretto dell'elogio o dell'invettiva (del genere di quelle che colpirono Genova, Pisa, Firenze, Roma) V. non giunge mai; nei suoi riguardi D. non si scopre né Salimbene, né Petrarca: se un disegno politico di passionato rigore lo trattiene dal conferire a V. un peso più che marginale, quali che fossero la compattezza del suo assetto interno e la vitalità e l'ampiezza delle sue propaggini orientali, queste stesse cose, e altro ancora, sembrano averlo guidato, nei confronti di lei, non solo a una misura di singolarissima discrezione, ma all'attestazione indiretta, ‛ provocata ', si direbbe, accidentalmente lungo le fasi del viaggio ultraterreno, di una serie di attributi di tutto rispetto. Ond'è che, al di là delle implicanze e dei silenzi, nel difficile mappamondo dantesco, il volto di V. emerge, in funzione subordinata di similarità o di antitesi o comunque di sfondo, da un insieme di tocchi sparsi ma coerenti, con un suo spicco terso estremamente suggestivo. Seguiamone in rapida rassegna le occasioni e i modi.

Nel De vulg. Eloq. s'incontra V. tra le regioni orientali della penisola, distinta sì ma aggregata alla Marca Trevigiana: Marca Trivisiana cum Venetiis (I X 7). Poco più oltre (§ 8), stessa distinzione e aggregazione (v. oltre: LINGUA). Basti qui rilevare - col Marigo - che, se non manca, infine, una punta derisoria nel vernacolo di V. posto a confronto col volgare illustre, nondimeno esso risulta menzionato, " a ben guardare... con qualche deferenza " .

Nel poema, V. è richiamata nella similitudine dell'arzanà (If XXI 7-18); la voce stessa - mutuata dall'arabo (dār sinā 'a), ma veneta nella fonetica: " omaggio linguistico alla maggior repubblica marinara italiana " (Mattalia) - è il pezzo forte, meritamente illustre, della ‛ memoria ' dantesca di Venezia. Per questo conviene definirne esattamente il valore e il modo appropriato di lettura, sia per evitare alcuni storici e opposti fraintendimenti, sia per cogliere nel nesso (convergenza e divergenza) dei due termini di paragone uno degli approdi più venezianamente squisiti della fantasia di Dante.

Sulla scorta del Croce (e del Cesareo) si leggono per lo più codesti versi come una lirica a sé stante, pausa obliosa della fantasia del poeta, che, dopo il sinistro spettacolo della quarta bolgia (indovini), si è appena affacciato alla pegola spessa (v. 17) della quinta (barattieri): e vidila mirabilmente oscura (v. 6). Una lirica avulsa dal contesto infernale, né d'altro sentimento piena se non di quello " del lavoro che ferve, della preparazione dei l'opera che si svolgerà " . Ma l'intelletto di D. è ben altrimenti ‛ sinfonico ' ! Sicché il Pirandello si spingeva, sulle orme di Benvenuto e dietro lo schermo di un ' forse ', a proporre una lettura di strenuo gusto medievale, antitetica alla crociana: " forse non la pece soltanto è da vedere nel paragone, ma anche tutto il daffare che in vita si diedero i barattieri, che qui non possono stare a galla (ché navicar non ponno, v. 10) e in vita con ogni sorta di maneggi e d'intrighi rifecer nuova la loro fortuna, o guasta la racconciarono, la rimpalmarono, e turarono i buchi e la lor barca che faceva acqua, ribattendola da prora a poppa, e cercarono tutti i mezzi per arrivare al loro scopo (i remi), tessendo insidie (volgendo sarte, v. 14), or con grandi or con piccole imprese rappezzate (l'artimon e il terzeruolo, v. 15) " . Che era un troppo puntuale, asfittico e infine fuorviante contrapasso etico-psicologico, ma indicativo di una direzione esegetica più sicura, poi variamente seguita, e il cui esito migliore può ravvisarsi nell'Interpretazione di Malebolge del Sanguineti. Il quale, opportunamente restituito al ‛ comico ' dantesco il senso di " degradazione eticamente partecipata del ' comico ' tradizionale " e così offrendo la giusta misura del ‛ comico ' caratteristico dei canti XXI e XXII dell'Inferno, ne esplora lungo l'intero percorso il vincolo indissolubile con l'arzanà del primo termine, catturato per similitudine sulla base realistica della pece, ma subito distanziato (per lo meno) dal ma del v. 16 (non per foto ma per divin'arte), che trasforma la pegola estuante dei vasconi di stato veneziani in metafisica pegola tenace, e consente poi, al quadretto dell'arsenale, al suo ricco, concertato e infine gioioso dinamismo, di spiegarsi in netta antitesi con la ‛ comica ' pantomima della bolgia: che ne è come lo specchio deformante. E basti citare, a esempio di contrappunto chiaroscurale, fra i tanti, ritmici fonici visivi, che legano i due termini presi in esame, l'accenno dichiarativo del v. 10 (ché navicar non ponno), limite stagionale ovvio, e indolore dopo l'ariosa scansione dei versi precedenti (Quale ne l'arzanà de' Viniziani) e incalzato com'è dalla fervida e punto mortificata operosità degli arsenalotti (in quella vece / chi fa suo legno novo e chi ristoppa...). Come e dove si rifrange, nel narrato della bolgia, codesto appena suggerito indice di spazio conchiuso, subito risolto in spazio riecheggiante e armonico? Il Sanguineti ha visto bene: esso riemerge, non più indolore, come ineluttabile divieto di condanna perenne, nel tardo epilogo dell'episodio dei barattieri (XXIII 54-57), là dove i diavoli, mossi all'inseguimento dei due poeti in fuga, giungono sul ciglio della bolgia, che, per divino decreto, non ponno oltrepassare: ma non lì era sospetto: / ché l'alta provedenza che lor volle / porre ministri de la fossa quinta, / poder di partirs' indi a tutti tolle. Un esempio estremo di specularità perentoria, non meno che arcana, tra i due momenti della similitudine: provocato il primo, si è visto, dall'immagine similare della pece ed elaborato poi senza scarti - se non apparenti - di tensione, per un verso, nell'amplificazione descrittiva del quadretto proemiale dell'arzanà, di piena soddisfazione armonica, per l'altro, lungo l'intero episodio, nell'ineccepibile processo ‛ degradante ' che caratterizza l'esplorazione dantesca del negativo. A sigillo di così chiara lettura il Sanguineti fa ricorso al " principium artificiale " dell'exemplum proprio della rettorica medievale e dantesca: per cui, in capo e a servizio di tutto il racconto (cioè dei canti XXI, XXII e XXIII vv. 1-57), l'arzanà si dispone, in funzione appunto di exemplum, come certe preziose alluminature tematiche sulla fronte di antichi codici: a sottile contrasto col contenuto, per sé privo di luce.

A chi lamenta le inescusabili omissioni dantesche di V. già rispondeva il Bassermann: " Il... poema non è là per imitare e raffigurare l'intero universo, ma l'universo si fa tributario per foggiare il poema secondo la fantasia del suo autore, e solo perché questo poema è tanto immensurabile il mondo intero vi ha suo luogo "; e si affrettava a soggiungere: " Del resto... egli [il poeta] scopre ed esprime con la sua comparazione appunto ciò che costituisce l'arteria vitale, il cuore della regina dell'Adriatico " . La nota che precede ci sembra confermi e transvaluti tale convincimento.

Ai vv. 74-75 di If XXVIII ci viene incontro, nostalgicamente evocato dal fondo de la nona bolgia sozzo (v. 21), un nome, un segno della presenza di San Marco al limite orientale della pianura padana: lo dolce piano / che da Vercelli a Marcabò dichina. Non sappiamo se il castello di Marcabò fosse ancora in piedi quando questi versi furon composti: ma il fortilizio vi si staglia, pur in cadenza elegiaca, con assolutezza quasi mitica.

In Pg V 73-85, un senso di allucinante ‛ cosa vista ' spira dal racconto di Iacopo del Cassero: che comporta una memoria topografica di paesi e acquitrini, in terra allora padovana, ma nelle immediate vicinanze di V., da Iacopo prudentemente raggiunta via mare. Sullo sfondo, in implicita antitesi col malfido seno degli Antenori, il sicuro itinerario marittimo scortato dalla Dominante.

Nel canto XVI del Purgatorio (vv. 25-145) si accampa un personaggio, Marco Lombardo (v.), che alcuni chiosatori antichi dicono di origine veneziana (Lana: " da Ca' Lombardo da Venesia "), leggendo Lombardo, al v. 46 (Lombardo fui, e fu' chiamato Marco), come sostantivo-cognome; mentre altri spiegano lombardo nel consueto senso attributivo regionale. Il v. 46 sembra escludere la lettura dei primi; e, con l'omaggio ai tre vecchi (vv. 121-126), il riferimento del v. 115 al paese ch'Adice e Po riga e il lamento della sua decadenza, a rincalzo della geremiade romagnola di Guido del Duca, evoca uno sfondo regionale etico-politico, che s'identifica con la Lombardia in senso lato - se non pure con la Lombardia inferior, cioè con la Marca Trevigiana -, ma non si vede come possa includere plausibilmente Venezia.

L'arguto abate V. Zanetti scorgeva inoltre un indizio della conoscenza dantesca di Murano in Pg XXVII 49-50 (Sì com' fui dentro, in un bogliente vetro / gittato mi sarei per rinfrescarmi), argomentando dalle - per quel tempo - eccezionali dimensioni dei vasi fusori propri delle vetrerie muranesi (a Murano un decreto del Maggior Consiglio, del 1291, aveva favorito la concentrazione di tutte le fornaci, allo scopo di evitare il propagarsi d'incendi).

Nel XXXI della stessa cantica, dopo il giuoco del termine barba (v. 68) usato ironicamente da Beatrice in duplice senso: toscano, di " onor del mento " quale indice di maturità acquisita, e settentrionale, di " mento " per " viso "; un altro imprestito, non più da un generico settentrione linguistico ma da una più ristretta area veneto-ravennate, si ravvisa (F. Mazzoni) al v. 96 nel termine scola (Tratto m'avea nel fiume infin la gola, / e tirandosi me dietro sen giva [Matelda, attraverso il Lete] / sovresso l'acqua lieve come scola): forma, già in Guittone toscaneggiata, di scaula, vocabolo di etimo forse bizantino, che significa " barchetta a fondo piatto " come la gondola, se non è da identificare con la gondola stessa. Chi preferisce leggere scola come spola o navetta dei tessitori, non tien conto che la navetta passa propriamente tra e non sopra i fili dell'ordito (qui sovresso l'acqua) e suggerisce per lo più un'idea di moto alterno, avanti e indietro, qui impensabile; e che inoltre scola - definita dal Lana, bolognese ma abitante a V., " navillio, il quale è poco ighiottito dall'acqua " (a somiglianza della gondola) - richiama per analogia di moto lieve e veloce il vasaio snelletto e leggero, tanto che l'acqua nulla ne 'nghiottiva di Pg II 41-42 (sen giva del nostro passo, in rima con riva, riecheggia dal canto II anche il sintagma sen venne).

Riappare V. in Pd IX 26, col nome del suo nucleo più antico, Rialto, a designare fuggevolmente il confine meridionale dell'attigua Marca, presentata da Cunizza come parte de la terra prava / italica, funestata dai più neri delitti.

Ritorna, infine, Vinegia in Pd XIX, là dove l'aquila sferza - tra i regnanti cristiani del tempo - quel di Rascia, Stefano Uros II, re di Croazia e di parte della Serbia e della Dalmazia dal 1276 e genero dell'imperatore bizantino Michele VIII Paleologo, che male ha visto il conio di Vinegia (v. 141): che in mal punto, vale a dire per sua infamia e dannazione, conobbe il ducato d'argento veneziano, di cui contraffece nei suoi ‛ grossi ' la lega (o forse, con più mordente sarcasmo: che non bene adocchiò, e quindi imitò e riprodusse, la lega genuina di quella pregiata moneta: v. CONIO). Allo scandalo del re falsario eran seguiti, a V., decreti di diffida nel 1302 e nel 1306; a Bologna, alcuni processi contro spacciatori di falsi ‛ grossi '. Nel canto dantesco, sopra l'onta del re balcanico e sul tristo fondale degli altri reggitori d'Europa, non sembra arbitrario scorgere proprio in cotesto rapido accenno al conio di Vinegia un implicito riconoscimento di civica probità, d'intatta eccellenza, che parve a taluni lettori squallidamente modesto.

Tocchi sparsi, si diceva, quasi tutti marginali, in sordina; ma coeriscono, se non prendiamo abbaglio, in modo sorprendente. Affiorano, quasi tutti, non richiesti che dall'esterna occasionalità del racconto; ma il fatto è che denunciano un assenso, e forse qualcosa più di un assenso. Così da legittimare altre ipotesi di ‛ memoria ' veneziana, diversamente - cioè in profondo, germinalmente e imponderabilmente - attiva nell'animus poetico di Dante. Chi potrebbe escludere, ad esempio, che certe sfumature tonali della terza cantica, tanto meno ‛ geometrica ', tanto più ‛ atmosferica ' ed effusamente colorata delle due prime, abbiano un qualche rapporto di lontana genesi poetica, come nel luminismo pseudoareopagitico delle basiliche ravennati, o di San Marco, così nello straordinario colorismo di questa città ‛ aperta '? (Si pensi, a titolo di spunto estemporaneo niente più che suggestivo, al rosso affocato di Marte - riso de la stella - in Pd XIV 86, alle gradazioni cromatiche e alle filigrane di riflessi, fonetici ritmici metrici, che è dato sorprendere nella trama delicatissima del canto III). Certo è che riporti siffatti e altri consimili, ci aiutano a sporgerci con occhi meno miopi sull'inesausto miracolo di questa poesia.

Dante a Venezia. - Si è parlato fin qui di ‛ memoria ' veneziana di D., prescindendo dal problema, che pur si pone, se e quando il poeta si recasse a V. prima dell'ambasceria del 1321 attestata da G. Villani. Sulla cui plausibilità non sembrano leciti dubbi: ché trova riscontro nel conflitto minacciosissimo apertosi di quei mesi tra V. e l'ospite polentano di D., indiretta conferma, nel racconto, pur romanzescamente infronzolito, del nipote Filippo; e convalida nella fama, non ignota alla patria di Giovanni Quirini, dell'oratore-poeta già insigne (v. la Quaestio, letta un anno prima a Verona sotto l'ala di Cangrande; o il tenore dei versi indirizzati al poeta da Giovanni del Virgilio). Si può discutere la data di tale ambasceria, che C. Ricci fa risalire alla fine di luglio o ai primi di agosto (una seconda ambasceria ravennate, allusa in un documento del 20 ottobre, sarebbe seguita alla prima un mese appena dopo la morte di D.); laddove G. Biscaro preferisce pensare che un'unica ambasceria, partita da Ravenna verso la metà di agosto, nell'imminenza del conflitto, fosse poi a lungo trattenuta presso il senato, a eccezione del poeta infermatosi: mentre A. Torre sposta la missione dantesca a fine agosto o ai primi di settembre, ma, opportunamente richiamando un asserto (non confermato) di G. Rossi, che degli ultimi anni del poeta scrive: " Ravennam se ad Guidonem Polentanum contulit... legatusque saepe ad Venetos missus " (Historiarum Ravennatum L. VI, Venezia 1589, 536), non esclude che fosse stata preceduta da altre. E rileva un fatto non trascurabile nella valutazione di codesta ambasceria: che " essa permise la continuazione del negoziato "; tant'è vero che il 20 settembre dello stesso anno (pochi giorni appena dopo la morte del poeta) si elaborò a Ravenna un progetto di pace le cui clausole furono poi integralmente riprodotte nell'atto definitivo di pace, siglato a V. nel 1322 (P. D. Pasolini, Documenti riguardanti antiche relazioni fra V. e Ravenna, Imola 1881, doc. IX) e che un documento del successivo 20 ottobre (1321) sembra già indicare una migliore disposizione dei Veneti alla trattativa. Ma, comunque s'innesti in quel seguito drammatico di giorni, l'episodio è in sé cattivante, perché assegna al poeta, nel suo tempo estremo, un compito e tentativo di pace a favore della piccola corte amica e di una non meno ospitale umanissima città.

Senonché, a quella data, la Commedia era ormai in porto. E prima?

Si può dar qualche credito alla famosa epistola, edita dal Doni nel 1547, che l'" humil servo Dante Alighieri Fiorentino " avrebbe spedito " di Vinegia alli XXX di Marzo MCCCXIV ", al " Magnifico Messer Guido da Polenta Signor di Ravenna "? Non si può. È ormai pacifico, dopo l'esauriente edizione e illustrazione che ne ha fornito R. Migliorini Fissi (" Studi d. " XLVI [1969] 101-272), che la lettera pubblicata dal Doni fra le Prose antiche di D., Petrarca et Boccaccio in Firenze, oggetto di così lunga disputa tra negatori e assertori della sua autenticità, è un falso e malaccorto " j'accuse " antiveneziano, elaborato nella cerchia filomedicea fiorentina da un letterato in pieno dissenso coi bembisti e i sostenitori a Firenze della forma costituzionale veneziana. Un pamphlet, dunque, di vario interesse, che non autorizza alcuna illazione sotto l'aspetto biografico.

Per carenza di testimonianze documentarie ci volgeremo quindi alle testimonianze poetiche, da cui già fummo indotti a credere che gli occhi del poeta, vaghi sempre, com'egli confessa, di veder novitadi, videro V. assai prima dell'ultima stagione ravennate; essendo, per di più, poco presumibile che chi era stato, già al tempo del Convivio, per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende e fu a lungo presso gli Scaligeri e altrove nel Veneto non trovasse occasione d'incarichi diplomatici né profittasse di qualsivoglia altra opportunità gli si offrisse, per visitare un luogo dei più ‛ diversi ' e celebrati della terra (un unicum, come, per più aspetti, Ravenna).

Similitudine dell'arzanà: " memoria " scaturita da conoscenza diretta, come crede la quasi totalità dei lettori antichi e moderni (sino al Bassermann, allo Zingarelli, al Baldacci, al Petrocchi), o frutto di pura immaginazione, come taluno pensa, facendo assegnamento sulla potenza creatrice del poeta? Rispondiamo col Petrocchi: " Il ricordo dell'arsenale è troppo minuzioso nei particolari, in un palese compiacimento di ‛ cosa vista ', per collocarsi tra quelle determinazioni o comparazioni geografiche guidate dal dono della fantasia, Bruggia... ecc., e non tra le aperte denunce di esperienza personale (Io vidi già) " . E se, aggiungeremmo, il viscido bollore della pece nelle enormi caldaie di V. restò il dato primario di codesta intuizione, riproposto con intento definitorio anche in If XXXIII 142-143 (Nel fosso sù... / là dove bolle la tenace pece), è disponibile una serie di dati cronistici relativi alla specifica struttura dell'arsenale ai tempi di D., che confortano, perfettamente collimando, ogni particolare del quadro d'insieme (ne elenchiamo alcuni: negli anni 1303-1305 si provvide alla prima costruzione dell'officina remi, nonché del magazzino della canapa che ebbe nome di " Tana " o " Corderia della Tana " [del Tanai?]; e a un notevole ampliamento della cinta muraria; ma si continuò a costruir galee intorno al bacino acqueo centrale " a cielo scoperto " fino a quando, verso la metà del '400, si decise ripararle dalle intemperie invernali e dai cocenti raggi del sole estivo: il chiuso dell'arzanà, sia reale sia poetico, poco ha dunque da spartire col fosco sacco della bolgia).

Puntuale ‛ cosa vista ', si è detto, risulta altresì lo scorcio paesistico paraveneziano, in cui si compie l'allucinante agonia di Iacopo del Cassero: la posizione di Oriaco rispetto alla Mira, le cannucce, il braco rispondono a esattissimi dati reali e documentari (Barozzi, Bassermann). E la leggera (molto meno d'oggi) scola-gondola, attestata dal Lana come " navillio poco inghiottito dall'acqua ", si accorda così con l'elogio antico di Cassiodoro: " Carinae vestrae... terram cum summa felicitate contingunt... Putantur eminus quasi per prata ferri ", come con la descrizione odierna delle sagome lagunari che " non trovano riscontro con altre al di fuori ": " hanno tutte un fondo piatto e sono prive di chiglia, il che permette loro l'agevole transito sopra i bassi fondali e, all'occorrenza, di correre opportunamente in terra lungo i litorali sabbiosi in tempi di burrasche (Rubin de Cervin Albrizzi).

Non sembra pertanto irragionevole accreditare la tradizione, che assegna un soggiorno, o almeno una visita veneziana di D. al biennio 1304-1305 (v. in Appendice la voce sulla vita e l'opera dantesca: I PRIMI ANNI DELL'ESILIO). Sarebbe, codesto biennio, periodo plausibile anche in rapporto alla data più probabile della composizione dell'Inferno: l'altra ipotesi pur sostenibile, che il soggiorno del poeta nei luoghi del Veneto sia da posticipare all'ospitalità di Moroello e di Gentucca, da assegnare, cioè, a " quel lungo oscuro periodo che va sino al 1310 o poco oltre ", a giudizio del Petrocchi è più fragile.

Fortuna di Dante a Venezia. - Sulla soglia di questo, che è il capitolo più vistoso di quanti concernono i rapporti di V. con D., si pone, ancor vivente il poeta, un colto patrizio, Giovanni Quirini detto Zanin (da non confondere, avverte il Folena, col Nicolò della congiura tiepolesca: la sua attività, " finora per lo più collocata in terraferma per errate induzioni su un presunto esilio " dopo la congiura, va situata a Venezia). Se non corrispondente e amico, come vuole una tradizione malfida (Corti), fu cultore fedele e garbato imitatore del grande fiorentino. È suo un sonetto di compianto in morte del poeta; e un altro, diretto a Cangrande per " sollecitazione editoriale " (la prima!) del Paradiso; sua la " prima cedola di prestito " del gran libro (sonetto Io mi voglio iscusar); suoi gli acerbi sonetti scagliati, a difesa di D., contro il denigratore Cecco d'Ascoli prima e dopo il supplizio; suo infine un copioso manipolo di rime che, sulle orme di D., " fonte e rio della lingua nostrana ", non hanno più nulla, o ben poco, di dialettale, e segnano, a V., la vittoria decisiva del toscano.

Ma Zanin non restò un caso isolato. La diffusione del poema nella città di San Marco fu rapidissima: presso il patriziato (non pochi patrizi copiarono " per passione " la Commedia nei loro lontani negozi) e presso un pubblico insolito, vasto e popolare, come testimoniano i versi trascritti, insieme con altri popolareschi, negli spazi bianchi di codici delle Deliberazioni del Maggior Consiglio (Branca). E si veda più oltre quanti codici danteschi fiorissero sulla laguna, e con quale specialissimo timbro figurativo-ornamentale. Fin dal Trecento, " raccogliendo e conservando, o trascrivendo e commentando e traducendo, come, più tardi, stampando, Venezia si mostrò sempre affezionatissima a Dante " (Fulin). E in tale assidua memoria sembra aver sentito e realizzato - con la restante regione veneta - " forse prima e più di ogni altra terra il suo vincolo di unità con la lingua e la cultura nazionale " (Folena).

Per altri precoci imitatori veneziani di D., v. Rimatori del sec. XIV di V. Lazzarini; e la Leandreide (IV VII), poema della fine del Trecento (oggi attribuito al veneziano Giovanni Girolamo Nadal, v.). Da segnalare, nel '300, anche la pubblica esposizione del poema tenuta intorno all'80 dal protoumanista veronese Gasparo Squaro de' Broaspini (v.), convertito - ma per poco - al volgare e, ovviamente, al suo rappresentante più insigne.

Una traduzione della Commedia in esametri latini, del monaco veneziano Matteo Ronto, risale ai primi del Quattrocento: l'autore intendeva sciogliere il poema, in sé ammirevole, dalla pesante riserva umanistica contro il volgare; incorse nell'ira dei superiori che sospettavano il libro di eresia. Quattrocentesca (18 luglio 1472) è l'edizione a stampa del poema (già creduta di Jesi), di poco posteriore alla princeps di Foligno (11 aprile): prezioso manufatto di un'arte nuova e sconvolgente, introdotta a V. appena nel secondo semestre del 1469. Ben sette delle 15 edizioni del poema impresse in Italia nel corso del '400 uscirono a V.; l'edizione di Vindelino da Spira col commento del Lana (attribuito all'Imolese) è del 1477; il commento del Landino ebbe cinque stampe. Bernardo Bembo, più del figlio Pietro legato al culto di D. (possedette e postillò il codice dantesco del Petrarca, l'attuale Vaticano lat. 3199), essendo pretore della repubblica a Ravenna, provvide di suo (aere suo) a un celebre restauro della tomba (1483), opera del veneziano Pietro Lombardi scultore e architetto.

Il Cinquecento si apre, a V., con la prima edizione aldina del poema (Le terze rime di D., 1502) che Pietro Bembo derivò dal codice paterno con interventi congetturali e regolarizzazioni ortografiche onde si fissò, fino all'Ottocento, il tipo della vulgata, di gusto classicistico e formalistico (Folena). Più tardi, le Prose della volgar lingua sostanzialmente escludevano D. dalla Rinascita in forza di cotesto gusto, ma formulavano sulla sua posizione storica un giudizio che, a differenza di quello sulla poesia, può considerarsi anche oggi pienamente valido (Dionisotti); e confermando in certo modo la svolta ‛ toscana ' del Quirini, avviavano un recupero di forme toscane del Due e del Trecento utili all'interpretazione stessa del poema.

Nel 1508 esce pure a V., a c. di padre G.B. Moncetti, la princeps della Quaestio, trasmessa unicamente da questa stampa; nel 1521 l'edizione Savio del Convivio (seconda del trattato); nel '30 la prima ristampa dell'edizione giuntina delle Rime; nel '52 l'Epistola all'Imperatore Arrigo VII volgarizzata dal Doni; nel '55, a c. di Ludovico Dolce, l'edizione Giolito della Commedia, che introdusse nel titolo l'attributo di divina già usato dal Boccaccio (Vita XIV) e passato poi nella consuetudine editoriale. Rispettivamente nel 1544 e nel 1568 si stampano a V. i due unici commenti completi del secolo, dei lucchesi Vellutello e Daniello. Ma inedite restano tuttora le Annotazioni a D. elaborate nella prima metà del secolo da Trifon Gabriele (1470-1549): commento di matrice ficiniana, dei più ricchi e sensibili del Cinquecento.

Trascurando ora il Seicento, non già pigro o povero di cose dantesche ma per la presente rassegna poco redditizio, e venendo al Settecento impegnatissimo nella stampa, nell'esegesi, nella critica di D., ci limiteremo a segnalare alcuni dati più significativi.

Esce nel 1740 presso lo Zatta, dopo quasi due secoli dall'edizione di Basilea (1559), la prima italiana (pseudoginevrina) della Monarchia: l'unico codice posseduto dalla Marciana (4534 [XIV 204] del secondo Trecento) le pervenne appena nel 1787 dal Consiglio dei Dieci, che lo aveva fin lì gelosamente custodito come poco confacente a regime di repubblica (si veda, a questo riguardo, nel Barozzi, Codici di D. in Venezia, p. 108, una bella lettera di Apostolo Zeno, indirizzata da Vienna il 18 ottobre 1727 al fratello che aveva suggerito la ristampa delle opere minori). Si susseguono per tutta la seconda metà del secolo tentativi di organica pubblicazione delle opere: che rivelano nel loro stesso assunto l'esigenza d'intendere il poeta nella totalità dei suoi scritti e nell'interezza della sua vicenda biografico-spirituale: la silloge del 1757-58 pubblicata dallo Zatta a c. di G. Gozzi (con le Memorie da servire alla vita di D. ed alla storia della sua famiglia del Pelli e le dissertazioni sulla teologia di D. del monaco agostiniano G.L. Berti); quella del 1772, presso il Pasquali; una terza del 1793 presso il Gatti.

Cade in questi anni l'aggressiva polemica antidantesca del Bettinelli (le Lettere virgiliane escono a V. nel 1757), cui il Gozzi vivacemente rispose (1758) con una Difesa di D., che ebbe il merito di rivendicare l'unità, disconosciuta dal Bettinelli, della " Danteide " e di proporre come indispensabile lo studio dell'humus storico-culturale in cui l'opera era cresciuta: un richiamo a criteri di valutazione storicistica, che, affermati con altro sbalzo e vigore dal Vico, attecchivano senza sforzo anche in ambienti conservatori come l'Accademia dei Granelleschi, dove si alternavano ai due Gozzi, per una serie regolata di letture e disquisizioni dantesche, non pochi cultori del poeta. Notevole un Elogio di D. scritto nel 1783 da un oscuro veneziano, Giuseppe Fossati, più tardi autore di una Lettera sopra D. a Ippolito Pindemonte (1801), che è " quanto di meglio a quella data potesse aspettarsi in argomento così aperto a discussione " (Dionisotti): vi si ammettono rozzezze e difetti della Commedia, ma si elogia " il bello, il sublime, il patetico, il pittoresco, l'armonico " che, chi cerchi, trova " anche in mezzo al deforme, al basso, al rozzo ed al dissonante "; vi si raffronta con intelligenza e pertinenza un passo di If X e uno - citato nell'originale - del Macbeth shakespeariano: " saggio, forse non abbastanza conosciuto dai più, di un genio ugualmente grande che irregolare "; ma si ribadisce che i raccoglitori di memorie e aneddoti come gli autori di interpretazioni e di commenti, se sono utili a eruditi e antiquari, sono affatto " superflui... per gli uomini di gusto " .

Nel corso degli eventi rivoluzionari, che, tra Sette e Ottocento, travolsero riserve e pregiudizi d'ogni sorta a carico del poeta e tanto risalto conferirono alla sua eccezionale statura umana, a V. il Foscolo diciassettenne (1795) dedica A Dante un'ode che è " senza dubbio il più appassionato omaggio poetico tributato in quel secolo a Dante " (Dionisotti). Ma al di là dell'Ortis dei Sepolcri delle stesse Grazie, i frutti più cospicui del suo accanito studio di D. (studio che " costò a Ugo la vita ", secondo la testimonianza del Mazzini e del Pecchio) maturarono negli anni dell'esilio; e diedero inizio, nel solco di luminose intuizioni vichiane, alla critica dantesca dell'età romantica, se non pure, per taluni aspetti, della moderna e modernissima lettura di D.: di largo respiro europeo.

Della prima metà dell'Ottocento veneziano basti segnalare il Commento del Tommaseo (1837) dato in luce pei tipi del " Gondoliere ", un periodico compilato dal Carrer, che in D. scorgeva una pietra angolare della letteratura europea. Erano per allora note schematiche, che costituirono il fondamento dei discorsi e delle note in calce ai singoli canti nelle successive edizioni milanesi del 1854 e del 1865. Frutto di altissimo esercizio filologico, di non comune perspicacia psicologica ed artistica e di rara quanto intensa e problematica sensibilità religiosa, esso rappresenta tra Foscolo e De Sanctis un vivo approdo, di cui bene il Vallone ha dichiarato la pienezza " globale " e la ricchezza di fermenti e di avvii.

La seconda metà del secolo mette anche a V. in chiara evidenza il Drang romantico-risorgimentale a D. in occasione del sesto centenario della nascita: al 1865, vi si contano 17 edizioni ottocentesche del poema e numerose pubblicazioni a stampa intese a celebrare il profeta dell'unità civile e politica degl'Italiani nonché il " fustigatore del temporalismo ecclesiastico " . E l'imperial regio governo si sforzò invano di stornare i pericoli della " dantofila esaltazione ", istituendo " un annuo stipendio di 500 fiorini per contribuire ", s'intende entro limiti ben precisi, " al maggior lustro e decoro della festa " (Briguglio).

Della nuova scuola storico-positivista, ricorderemo che un iniziatore, A. Bartoli, fondò, nel 1871, con R. Fulin l'" Archivio Veneto " e fu per alcuni anni maestro in V. alla Scuola Superiore di Commercio. Un'esigenza sentita di studi specialistici denuncia anche " L'Alighieri (Rivista di cose dantesche) " che il nobile Pasqualigo fondò nel 1889: merito particolare della rivista, divenuta poi " Giornale Dantesco " (nello stesso anno 1893 in cui vide la luce il " Bullettino " del Barbi), fu la pubblicazione del commento all'Inferno (a partire dal c. XV) di re Giovanni di Sassonia (Filalete).

Altro titolo di estrosa fedeltà veneziana al nostro poeta, le traduzioni del poema in dialetto: verso la metà del secolo, quella, rimasta manoscritta, di A. Gallo violinista, direttore d'orchestra, proprietario e impresario brillante del " Malibran " e del " Rossini ", composta, vi si legge, " con lavorio indefesso " ad alleviamento " d'una esistenza infelice "; un'altra, integrale e annotata, che il pure veneziano G. Cappelli diede alle stampe in Padova nel 1875; e un'ultima, di L. de Giorgi, uscita a Parma nel 1929.

La città, che ebbe maestri e cultori di D. come il Pompeati e il Marcazzan, ricercatori di rara finezza come il Dazzi, è tuttora centro vivo di studi danteschi, variamente promossi da maestri dell'università di Ca' Foscari (E. Caccia, G. Padoan) e della Fondazione " G. Cini " (V. Branca, G. Folena, A. Pertusi e altri). Dante nel mondo è un'importante silloge, curata (Firenze 1965) da V. Branca ed E. Caccia, di contributi internazionali di studio sulla ‛ fortuna ' di D. in àmbito mondiale; né meno importante il volume D. e la cultura veneta (ibid. 1966) contenente gli " Atti del Convegno di Studi di Venezia, Padova e Verona 1966 ", a c. dello stesso Branca e di G. Padoan. Sono altrettanti indici (cui si può aggiungere il ricco fascicolo pubblicato dall'Ateneo Veneto per l'occasione centenaria) di una cerchia generalmente allargata d'interessi e di problemi, tesi all'unico fine di una congrua revisione dell'esegesi storico-filologica, senza esclusivismi, per così dire, settoriali e con aggiornata reciprocità di aperture e d'influssi.

Codici. - " Alcuna città d'Italia dopo Firenze ", scriveva N. Barozzi nel 1865 " non può vantare tanta ricchezza di Codici della Divina Commedia... Non toccherò dei due che appartennero al cardinal Bembo in uno dei quali si veggono le postille ritenute di mano del Petrarca, non di quello fatto trascrivere da Francesco, figliuolo di Giovanni Soranzo [pronipote, s'intenda, del Soranzo doge al tempo di D.]; non di quelli già di Gianfrancesco Loredan, dei Grimani, dei Duodo, dei Recanati, dei Zantani, dei Grasolarii; e dei molti raccolti dal Contarini, dai Nani, da Daniele Farsetti " . Nello stesso anno R. Fulin lamentava le troppe migrazioni di così ricco patrimonio in altre città italiane (i due citati del Bembo, alla Vaticana) o germaniche, o francesi (la rapina del 1797 !), o inglesi (per vendite, nel '600, della biblioteca Barozzi; della Pinelli, nel '700; della Canonici, nell '800). L'unico esemplare sicuramente veneziano dei codici illustrati del sec. XIV, si trova alla biblioteca Universitaria di Budapest (Ital. 1). Resta alla Marciana una parte minima, e nondimeno preziosa, di manoscritti della Commedia del Tre e del Quattrocento.

Dando qui di seguito un elenco dei più notevoli, facciamo largo all'Italiano IX 276 del XIV sec. (donato nel '600 da Francesco Loredan ai benedettini di San Giorgio Maggiore, trasferito nel 1797 alla Nazionale di Parigi e restituito a Venezia nel 1814), che ben rappresenta la prima interpretazione dell'oltretomba dantesco nella miniatura veneta. Ornato di stupende miniature alle iniziali e di 175 illustrazioni, " il gioco dei colori [vi] è fondamentale, e largamente indipendente dal soggetto e dal contenuto dell'illustrazione. Il maestro gli ha permesso di prevalere anche sull'iconografia dei principali attori... I cieli dell'Inferno, di color rosa pallido, giallo, celeste o, talvolta, in nuda pergamena di colore chiaro " non si differenziano, cromaticamente, da quelli del Paradiso. Come nel Riccardiano 1035, pure veneto e influenzato dalla cultura artistica veneziana, trama e fregi hanno un valore coloristico, ‛ atmosferico ', che inevitabilmente attenua la violenza e tempera il significato delle scene infernali (Millard-Meiss).

Sono da citare inoltre l'Italiano IX 30, del sec. XIV (Commedia con i capp. di Iacopo Alighieri e di Bosone da Gubbio e gli epitafi: " Theologus Dantes ", " Jura Monarchiae " e " Inclita fama "); l'Italiano 31 b, del sec. XV (Commedia col commento del Lana, in scrittura corsiva dell'uomo d'armi veneziano Andrea Zantani; appartenuto ad Apostolo Zeno); l'Italiano 33, che consta di una prima parte (If I-XII), di copista veneto del sec. XIV e di una seconda, di copista toscano, datata 1446; l'Italiano 34, del sec. XV, splendidamente ornato e miniato (termina a Pd XI); ornato e miniato pure l'Italiano 181, della seconda metà del sec. XIV (appartenuto anch'esso ad Apostolo Zeno); l'Italiano Zanetti 50, del sec. XIV, del gruppo " del Cento ", in splendido gotico con decorazioni e miniature (" Explicit liber Comediæ Dantis... Qui decessit in civitate Ravennæ in anno dominicæ incarnationis MCCCXXI die sanctæ Crucis de mense septembri "); gl'Italiani Zanetti 53 e 54, del sec. XIV, rabescati e miniati; l'Italiano Zanetti 55, della fine del sec. XIV, col commento laneo (che correva sotto il nome di Benvenuto da Imola) in tutto rispondente a quello dell'edizione vindeliniana del 1477: fece parte della libreria di Iacopo Contarini; al Contarini appartennero pure l'Italiano Zanetti 56, formato piccolo, del sec. XV, col solo commento dell'Ottimo, in parte, e in parte del Lana; e il 58, del sec. XV, col solo commento al Paradiso di Benvenuto; il 57, del 1421, adespoto, anepigrafo, contiene il commento di Benvenuto all'Inferno. Di mano del sec. XIV, nel secondo foglio di guardia del Liber Communis Primus, si leggono gruppi di versi di If III e Pg VI e XI. Tra i codici delle opere minori vanno ricordati: il Marciano it. X 26 (due codici in uno, ambedue del sec. XV) con Vita Nuova (CC. 1-34) e Convivio (CC. 35-84); il Marciano it. IX 191, degl'inizi del sec. XVI, detto del Mezzabarba, contenente Vita Nuova con altri scritti di D. e di altri: per le Rime (scelte) è il più ricco rappresentante della famiglia ‛ veneziana ' dipendente dall'importante e III 23 della biblioteca dell'Escorial. Il censimento completo dei codici Marciani delle Rime è contenuto in " Studi d. " XL (1963) 472-498, al quale si rinvia.

Per il Convivio si veda anche il regesto compilato da P. G. Ricci, in " Studi d. " XXXVIII (1961) 345-348. Per la Monarchia, si è già detto dell'unico Marciano 4534 (XIV 204), della seconda metà del '300. Unica Epistola, la VII nel Marciano lat. XIV 115.

Bibl. - Per la storia di V., oltre alle più importanti opere storiche sulla città (particolarmente quelle del Molmenti, dell'Ottokar, del Cessi, della Fasoli), si vedano anche i numerosi contributi raccolti nei volumi miscellanei La civiltà veneziana del secolo di Marco Polo, Firenze 1955, e La civiltà veneziana del Treconto, ibid. 1956.

Fondamentale per i rapporti culturali, bio-bibliografici, linguistici tra V. e l'opera dantesca il volume D. e la cultura veneta, a c. di V. Branca e G. Padoan, Firenze 1966.

Per argomenti più circoscritti, si vedano inoltre:

G. Billanovich, Tra D. e Petrarca, in Atti del Congresso internazionale di studi danteschi, II, Firenze 1966, 349-376 (rist. da " Italia Medioevale e Umanistica " VIII [1965] 1-44); G. Folena, La presenza di D. nel Veneto, in " Atti e Mem. Accad. Patavina Scienze Lettere e Arti " LXXVIII (1965-1966) III 483-509 (per la presenza del Veneto nel poema e per la radicale diversità della cultura dei Veneti da quella del poeta, v. spec. le pp. 492-502); A. Pertusi, Cultura greco-bizantina nel tardo Medioevo nelle Venezie e suoi echi in D., in D. e la cultura veneta, cit., 157-195 (176-177, e specialmente pp. 182 ss.).

Sui giudizi storici danteschi e in particolare su V. e cose attinenti: G. Fasoli, La D.C. come fonte storica, in " Convivium " n.s., XXIV (1956) 661-676; ID., Momenti di storia nella D.C., ibid. VI (1959) 641-657; ID., Veneti e Veneziani fra D. e i primi commentatori, in D. e la cultura veneta, cit., 71-85 (in partic. pp. 80-81); P. Molmenti, D. e Venezia, in " Rassegna Ital. Politica Letteraria e Artistica " 42-43 (1921) 717-722; N. Di Lenna, Personaggi e luoghi del Veneto nella D.C, Padova 1921, 13, 30, 53-54.

Sulla similitudine dell'arzanà, oltre ai giudizi del Croce, del Cesareo (D. e i diavoli, in " Nuova Antol. " III [1918] 127) e quelli, via via, del Momigliano, dell'Olschki, del Chiari, del Sapegno, del Salinari (Il comico nella D.C., in " Belfagor " X [1955] 626 ss.), cfr.: E. Sanguineti, Interpretazione di Malebolge, Firenze 1961, 97 ss. (in partic. pp. 161-162); G. Petrocchi, La vicenda biografica di D. nel Veneto, in D. e la cultura veneta, cit., 20-21. E ancora: A. Bassermann, Orme di D. in Italia, Bologna 1902, 455-456, 657; C. Manfroni, D. e la marina, in D., la poesia, il pensiero e la storia, Padova 1923, 149-154; Zingarelli, Dante 970; R. Orengo, Le arti del mare in D., Roma 1962, 12, 206 ss.; A. Scolari, Verona e gli Scaligeri nella vita di D., in D. e Verona, Verona 1965, pp. XIV-XV; O. Baldacci, I recenti contributi di studio sulla geografia dantesca, in " Cultura e Scuola " 13-14 (1965) 221.

Sul termine scola: Cassiodoro, Variarum liber XII, Parigi 1588, 203; B. Cecchetti, Le " scaule " veneziane e D., in " Arch. Veneto " XV (1885) 149-152; E.G. Parodi, in " Bull. " IX (1902) 292; Contini, Poeti I 198; G.B. Rubin De Cervin Albrizzi, Imbarcazioni lagunari, in Mostra storica della laguna veneta, Venezia 1970, 150; F. Mazzoni, Il canto XXXI del Purgatorio, in Lect. Scaligera II 1167.

Sul conio di Vinegia, V. Padovan, Le monete della Repubblica di V. nei secoli IX-XVIII, Venezia 1879.

Sul particolare " colorismo " di V. " città aperta ": S. Bettini, Introduzione al già cit. V. e la sua laguna.

Sull'ambasceria del 1321, oltre la voce Ravenna della presente Enciclopedia, G. Villani Cronica IX 136; G. Rosse, Historiarum Ravennatum libri X, Venezia 1589, 535; C. Ricci, L'ultimo rifugio di D., Ravenna 1965²,129-135; G. Biscaro, D. a Ravenna (Indagini storiche), in " Bull. Istit. Storico Ital. " XLI (1921) cap. VII; A. Torre, L'ambasceria di D. a V., in Almanacco ravennate, 1959, 385-480 (rist. in D. e Ravenna, Ravenna 1971).

Sulla lettera pseudodantesca edita dal Doni: R. Migliorini Fissi, La lettera pseudodantesca a Guido da Polenta (Ediz. critica e ricerche attributive), in " Studi d. " XLVI (1969) 101-272.

Notizie di vario interesse in F. Mutinelli, Lessico veneto, Venezia 1851 (la " Tana "); M. Nani Mocenigo, Storia dell'Arsenale di V., Roma 1938 (passim, e v. p. 25); L. Casotto, L'Arsenale di V., in " Rivista Marittima " XCIX (1966) 7-8.

Sui luoghi del V canto del Purgatorio (Venezia-Mira), v. Zingarelli, Dante 451; Bassermann, Orme 454; N. Di Lenna, op. cit., p. 30 e nota. Sul passo di Pg XXVII 49-50, V. Zanetti, Sopra un manoscritto dell'ab. Angelo Dalmistro, riguardante la D.C., oggi esistente nel Museo civico di Murano, in I codici di D.A. in V., Venezia 1865, 223 ss.

Sulla fortuna di D. a V., cfr. G. Folena, La tradizione delle opere di D.A., in Atti Congresso internaz. di studi danteschi, I, Firenze 1965, 1-78; N. Barozzi, Dello amore dei Veneziani per lo studio di D., in I Codici di D.A. in V., cit., pp. XVI-XVII; per i saggi di R. Fulin e F. Gregoretti compresi nello stesso volume, e per l'intera bibliografia sulla tradizione manoscritta veneziana, v. oltre; per le edizioni a stampa, naturalmente Mambelli, Annali, ad indicem.

Oltre, ovviamente, ai noti saggi concernenti la ‛ fortuna ' di D. in Italia; a quelli, dedicati ad àmbiti cronologici più ristretti, di V. Rossi, C. Dionisotti, M. Barbi, R. Montano, U. Cosmo, U. Limentani, U. Micocci, G. Mazzoni, A. Vallone; si vedano quelli di specifica pertinenza alla fortuna di D. in V. (e nel Veneto): G. Folena, La presenza di D. nel Veneto, cit.; ID., Il primo imitatore veneto di D., Giovanni Quirini, in D. e la cultura veneta, cit., 395-421; A. Viscardi, Lingua e letteratura, in La civiltà veneziana del Trecento, cit., 181-205; M. Pecoraro, Le imitazioni dantesche nel " Vago Filogeo " di Sabello Michiel, in D. e la cultura veneta, cit., 465-478; V. Branca, L'" Esopo " nel Veneto dantesco, ibid. 248-249; ID., Un biadaiuolo lettore di D., in " Rivista di Cultura Classica e Medioevale " VII (1965) 1 (Studi in onore di A. Schiafini) 200; Leandreide, in C. Del Balzo, Poesie di mille autori intorno a D., II, Roma 1889-1893, 257-456; M. Salem, Tardo stilnovismo veneto (Nicolò de' Rossi), in D. e la cultura veneta, cit., 423-446; J. Scudieri Ruggieri, Presenza dantesca nella lingua di Nicolò de' Rossi, ibid. 446-464; L. Lazzarini, Paolo di Bernardo e i primordi dell'umanesimo in Venezia, Ginevra 1930 (spec. pp. 82-83, 122-125); M. Puppo, Studiosi veneti di D. nel periodo illuministico, in D. e la cultura veneta, cit., 493-499; G. Gambarin, La fortuna di D. nel Veneto nella prima metà dell'Ottocento, in " Nuovo Archivio Veneto " s. 3, XLII (1921) 106-156; L. Russo, La nuova critica dantesca del Foscolo e del Mazzini, in " Belfagor " IV (1949) 621-637 (rist. in Problemi di metodo critico, Bari 1950, 154-183); AA.VV., D. nel Risorgimento, Milano 1941 (saggi sul Foscolo, sul Tommaseo); L. Briguglio, Governo austriaco e sesto centenario della nascita di D., in D. e la cultura veneta, cit., 501-510; N. Vianello, Di tre traduzioni della " Commedia " in dialetto veneziano, in " Ateneo Veneto ", fasc. speciale per il VII centenario della nascita, 361-371.

Sui codici danteschi a V., oltre a Batines, Bibliografia, v. i citati N. Barozzi, R. Fulin, F. Gregoretti, in I codici di D. Alighieri in V., Venezia 1865 (dopo le pagine introduttive del Barozzi il Fulin descrive, nella parte prima, i codici della Commedia; nella seconda, a un ‛ riscontro di varianti ' del Gregoretti fa seguito un saggio del Barozzi " intorno ai codici delle Opere minori "); A. Fiammazzo-G. Vandelli, I codici veneziani della D.C., in " Bull. " I (1899) 5-123; C. Frati-A. Segarizzi, Catalogo dei codici Marciani, II, Modena 1909-1911; V. Lazzarini, I più antichi codici di D. in V., in " Nuovo Arch. Veneto ", numero speciale dantesco per il centenario del 1921; R. Morozzo Della Rocca, Codici danteschi veneziani del Trecento, in Studi in onore di R. Filangeri, I, Napoli 1958, 149 ss.; Petrocchi, Introduzione 553-555; J. Berkovits, A Budapesti egyetemi könyvtár Dante-kódexe sa XIII és XIV századi belencei miniaturafestészet története, Budapest 1928 (Il codice dantesco della bibl. Univ. di Budapest e la storia della miniatura veneziana nei secoli XIII e XIV); M. Salmi, Problemi figurativi dei codici danteschi del Tre e del Quattrocento, in Atti I Congresso nazionale di Studi danteschi, Firenze 1962; M. Meiss, La prima interpretazione dell'" Inferno " nella miniatura veneta, in Dante e la cultura veneta, cit., 299-302.

Lingua. - Accostato dapprima da D. al trevigiano in VE I X 7 e 9 (in questi passi Venetiae e Veneti vanno certo intesi come ‛ Venezia ' e ‛ Veneziani ', e non ‛ Veneto ' e ‛ Veneti ') fra i dialetti della parte ‛ sinistra ' dell'Italia - e non sappiamo se egli pensi solo alla vicinanza territoriale o anche a un'affinità dialettale particolarmente stretta - il veneziano è poi, più precisamente, esaminato in XIV 6 dopo le parlate lombardo-venete ‛ irsute ' e ‛ ispide ' (bresciano-veronesevicentino e padovano): alle quali si coordina assieme al trevigiano (ma il fatto che al § 7 D. citi per tutti questi dialetti solo un padovano, Aldobrandino, come poeta che si è sforzato di allontanarsi dal volgare materno, fa ritenere probabile che egli continui a considerare tutte queste parlate della Marca Trevigiana come varianti di quell'unità complessiva di cui accenna ai §§ 2 e 4). Neppure i Veneziani, spiega D., sono degni dell'onore del volgare illustre: Veneti quoque nec sese investigati vulgaris onore dignantur; et si quis eorum, errore confossus [cioè " trafitto dall'errore ", Contini] vanitaret in hoc, recordetur si unquam dixit: ‛ Per le plaghe de Dio tu no verras '.

Questo verso (perché certo si tratta di un endecasillabo) è sorprendentemente vicino all'incipit di un sonetto oggi stampato fra le rime dubbie dell'Angiolieri, ma nei manoscritti anonimo o attribuito a Lapo Gianni: Pelle chiabelle di Dio no ci arvai (Contini, Poeti II 400), e ha press'a poco lo stesso significato, cioè: " Per le piaghe di Dio, non ci verrai " . Sicché o entrambi sono varianti di uno stesso modello di parodia dialettale, o quello dantesco, come più probabile, è adattamento dell'altro (l'inverso è naturalmente impossibile). Il riscontro è importante per due motivi. Perché dà la conferma di fatto più stringente all'ipotesi generale che gli exempla del De vulg. Eloq. vadano soprattutto inseriti nel filone, vivace nel periodo delle origini, della caricatura poetica dei dialetti (nel sonetto pseudo-angiolieresco è colpito il romanesco); ne risulta smontata in particolare l'opinione, già del D'Ovidio e poi anche del Marigo, che il verso sia, come in altri casi, citazione di un noto ‛ canto ' veneziano. E in secondo luogo perché decide a favore dell'interpretazione di verras come " verrai " e non " vedrai ", preferibile del resto per il fatto che così si ha (come già osservato dal Rajna) una frase di senso compiuto.

Dal punto di vista della caratterizzazione socio-linguistica, lo specimen si distingue, al solito, insieme per generica trivialità tonale e presenza di tratti dialettali specifici. Per il primo aspetto, vale soprattutto l'espressione blasfema Per le plaghe de Dio, accostabile internamente al Fo voto a Dio lucchese (VE I XIII 2) e più in genere a esclamazioni correnti nei testi antichi del tipo di " per lo volto di Dio " nella canzone del Castra o più precisamente " per le chiabellate di Dio " in Sacchetti Trecentonovelle XLIX 111, ediz. Pernicone (v. in particolare C. Th. Gossen, in " Revue de Linguistique Romane " XX [1956] 197 ss.; P. Rüsch, Invokations- und Fluchformeln im Italienischen, Winterthur 1963, passim): letteralmente la riprende, certo per ricordo dantesco, il Boccaccio in una novella di argomento veneziano come elemento di caratterizzazione ambientale (Dec. IV 2 43) e poi a fini analoghi il Vannozzo (ediz. Medin, LXXVIII 71). Quanto alla caratterizzazione dialettale, a parte de (B infatti ha di, ma no per non degli altri due codici), è indicativo il nesso pl- di plaghe (parallelo all'oclo romagnolo, VE I XIV 3), conservato generalmente anche nei testi veneziani dell'epoca, e con valore ben probabilmente fonetico e non meramente grafico; e soprattutto il morfema -as della II pers. singol. dei verbi, oggi rimasto in veneziano solo come residuo cristallizzato nelle formule interrogative " vastu? ", " gastu? " ecc., ma anticamente generale: se i testi pubblicati dallo Stussi, data la loro natura, lo attestano parcamente (e v. anche G.I. Ascoli, in " Arch. Glott. Ital. " III [1878] 245-246, 266), è indicativo che ne sia costellato, proprio con valore di blasone dialettale, il sonetto di parodia del veneziano di Giovanni Quirini (o di Nicolò de' Rossi?) pubblicato da M. Corti (in " Lettere Ital. " XVIII [1966] 144-145, 148): sis, fas-tu, stas-tu, pos, averas, seras, montis, afrontis, contis, vadagnis, apontis.

Bibl. - Il dialetto veneziano fino alla morte dell'Alighieri, a c. di E. Bertanza e V. Lazzarini, Venezia 1891; F. D'Ovidio, Versificazione romanza. Poetica e poesia medioevale, II (= Opere di F. D'O., IX II), Napoli 1932, 284-286, 313; D.A., De vulg. Eloq., a c. di P. Rajna, Firenze 1896 (Milano 1965²), 80-81; Marigo, 85, 87, 121-122 (recens. di G. Contini, in " Giorn. stor. " CXIII [1939] 287); G. Vidossi, L'Italia dialettale fino a D., in Le Origini, Milano-Napoli 1956, p. L; A. Schiaffini, Interpretazione del De vulg. Eloq. di D., Roma 1963, 96; G. Folena, La presenza di D. nel V., in " Mem. Accad. Patavina Scienze Lettere Arti " LXXVIII (1965-66) 493; A. Stussi, Il dialetto veneziano al tempo di D., in D. e la cultura veneta, Firenze 1966, 109-115. Per le caratteristiche del veneziano antico v. soprattutto A. Stussi, Testi veneziani del Duecento e dei primi del Trecento, Pisa 1965; M. Corti, Una tenzone poetica del sec. XIV in veneziano, padovano e trevisano, in D. e la cultura veneta, cit., 129-143.

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