VEGA CARPIO, Lope de

Enciclopedia Italiana (1937)

VEGA CARPIO, Lope de

Salvatore Battaglia

Nacque il 25 novembre 1562 a Madrid, dove morì il 27 agosto 1635. I primi anni e i suoi primi contatti con la vita, che di solito per lo storìco rimangono avvolti nell'oblio, sono ricordati da Pérez de Montalbán (Fama póstuma..., del 1636), suo discepolo intelligente ma biografo fanaticamente apologetico, che vede la vita del maestro come un perpetuo miracolo e in essa è sempre pronto a scoprire motivi di geniale singolarità, a voler giustificare ed esaltare la fama della "Fenice degli ingegni". Tuttavia è certo che anche nelle sue prime esperienze, L. de V. si dovette rivelare assai precoce e non dovette tardare molto a manifestare i segni del suo temperamento irrequieto, passionale, sfrenato, incapace di legarsi a una qualsiasi disciplina interiore. A dodici anni s'era già impadronito dei primi strumenti letterarî, nei Collegio imperiale dei gesuiti; a sedici anni, rimasto senza padre, l'improvvisa libertà gli consentiva le prime fughe dalla casa e dalla città natale e favoriva nel suo spirito quell'impulsiva e precipitosa tensione verso le forme più estreme e incontrollate della passione. A questa precocità psicologica faceva riscontro un'acerba versatilità poetica: e, anzi, sempre nella vita di L. de V. si corrisponderanno con lo stesso ritmo l'esuberanza incontenibile della sua umana esperienza e la lussureggiante fertilità del suo ingegno lirico. Se ci è noto il suo primo tentativo poetico (una traduzione in versi del De raptu Proserpinae di Claudiano, il poema che faceva parte del bagaglio mitoiogico della scuola), composto a dieci anni, non è facile risalire ai suoi primissimi lavori, a quelli che gli fiorirono, come dice egli stesso, "nella primavera degli anni"; e probabilmente a dodici anni aveva composto la sua prima opera teatrale, El verdadero amante, rifusa in seguito dallo stesso autore, che portava gli atti da quattro, secondo lo schema della sua prima maniera, a tre, con una riforma della tecnica drammatica a tutto vantaggio della rapidità dell'azione e della semplicità scenica. Forse soltanto un dramma di questo primo tipo, cogtruito in quattro atti, ci è pervenuto nella sua forma. originaria, Los hechos de Garcilaso, composto probabilmente intorno al 1578.

È questa l'epoca dei suoi studî universitarî ad Alcalá (1577-1581), dove fu mandato a spese di Jerónimo Manrique de Lara, vescovo di Cartagena. Ritormato a Madrid, fu assunto come segretario dal marchese de Las Navas; ma si legava frattanto agli ambienti teatrali e s'ingolfava nella vita disordinata e amorale dei comici, che peraltro si rivelava quanto mai congeniale al suo temperamento. Ora scriveva commedie per Jerónimo Velázquez, famoso attore e impresario, mentre godeva i favori della figlia, la bella e volubile Elena Osorio, con la compiacente indulgenza del padre e del marito, l'attore Cristóbal Calderón: così la sua prima adulta esperienza di amante non coincideva con le idealità del drammaturgo, che nelle scene era solito portare il dramma dell'onore e del puntiglio, e dal loro sentimento profondamente radicato nell'anima spagnola come una legge tradizionale, sapeva trarre effetti di tragica fatalità. Ma non sempre le passioni della vita collimano con i sogni del poeta, e L. de V. è tipico rappresentante di questa antinomia: non c'era rapporto di moralità fra la sostanza etica ch'egli vagheggiava e proiettava nelle sue creature liriche e la ben diversa realtà a cui si abbandonava con la più tenace e inguaribile spregiudicatezza. E tuttavia anche in questa situazione per se stessa falsa e scabrosa, L. de V. ha sofferto con piena dedizione passionale, secondo l'imperiosa irruenza del suo spirito; e quando Elena Osorio lo tradisce "ufficialmente" con un ricco nipote del cardinale Granvela, il poeta ne è addolorato e sinceramente deluso: salvo che, invece di chiudersi in un dignitoso riserbo, dopo di aver tentato di condividere l'amore con il nuovo arrivato, scaglia due libelli volgari e infamanti contro la famiglia dell'amante, tanto che è condannato al bando da Madrid, dove gli è interdetto il ritorno prima di dieci anni, sotto pena di morte (1587-88).

Ed è, per lo meno, indiziario il fatto che L. de V., temperamento fondamentalmente lirico, in cui l'onda melodica del verso affluiva spontaneamente come per opera di magìa, si sia servito della prosa per rappresentare questa sua prima e mai obliata passione per Elena Osorio, nell'opera La Dorotea (scritta nella giovinezza), l'unico dramma di L. de V. dettato in forma prosastica e destinato alla sola lettura: anche, cioè, nella maturità degli anni, quando il disincanto non brucia più, la passione d'una volta si ripresentava allo spirito dell'artista nel suo fondamentale carattere, che non era suscettibile di idealizzamento lirico, bensì poteva tradursi mediante una sensibilità realistica, smaliziata, acuita dall'ironia.

È però verosimile che la sua disperazione si consolasse assai presto, se proprio in questi mesi egli intesseva un nuovo amore, con la stessa veemenza sebbene con maggiore fortuna e con una più verginale e appassionata corrispondenza; ma anche questa volta non sapeva evitare lo scandalo: ora fuggiva con donna Isabel de Urbina, di nobile famiglia madrilena, che sposava qualche mese più tardi (maggio 1588), sempre in esilio. Ma neanche adesso trovava pace, poiché il 29 maggio dello stesso anno abbandonava la giovane sposa e si arruolava nella "Invencible Armada".

Del resto, accanto ai suoi amori disfrenati egli poneva il sentimento per la patria, l'unica grande passione a cui rimase sempre fedele nella vita e nell'arte. Al suo ritorno, visse a Valenza (1589), dove conobbe scrittori e poeti e allargò i confini della sua fama, specie con opere teatrali, che gli valsero anche i mezzi di sussistenza. Risale al 1590 la sua assunzione a segretario del duca di Alba, Antonio Álvarez de Toledo, con cui dimorò anche ad Alba de Tormes, nella piccola corte principesca che gl'ispirò una delle sue più belle opere: La Arcadia (composta negli anni 1590-96, edita nel 1598). Ormai egli s'è imposto come mirabile artefice di versi e ha costellato la sua lirica dei nomi di Filis (Elena Osorio) e di Belisa (Isabel de Urbina). Forse questi furono gli anni più riposati; ma non appena gli moriva la moglie (1595), egli era ripreso dall'infaticabile e indisciplinata ansia di vivere, di rompere i legami che la vita suole subito stendere intorno: con una leggerezza morale e una labilità sentimentale che hanno del primitivo, del selvaggio. Nel 1596 subiva un processo per concubinaggio; nel 1598 si sposava per la seconda volta con Juana Guardo, figlia di un ricco macellaio, che gli portava una vistosa dote, più appetitosa della sua volgare bellezza; ma è proprio di questi anni la sua lunga relazione con Micaela de Luján (la Camila Lucinda della sua lirica autobiografica), commediante e già sposata, da cui ebbe sette figli. Con la seconda moglie si trasferì da Toledo a Madrid (1610), dove la sua esuberanza erotica ebbe qualche sosta; ma rimasto vedovo ancora una volta, ritornò al suo consueto libertinaggio: nei suoi versi rimangono echi di qualche amorazzo, come per Jerónima de Burgos (ch'egli chiamò Gerarda), per l'attrice Lucía de Salcedo, la "loca", e finalmente per Marta de Nevares Santoyo, moglie di un commerciante, da lui cantata con la sincerità malinconica dell'ultimo grande amore: è Amarilis di tante squisite e deliziose poesie. Assieme a lei egli conobbe il dolore, poiché quando il poeta poté finalmente viverle accanto nella stessa casa, dovette assistere al suo lento disfacimento, dapprima fisico, con lo spegnersi degli occhi che egli aveva cantato nella loro iridata luminosità, e poi mentale, con il graduale annebbiarsi dell'intelletto fino alla demenza. È l'epoca del tramonto, quando la vita non ha più il privilegio della giovinezza che sa rinnovarsi, e ristagna attorno allo spirito con la sua eredità di malinconia e di pentimenti: in questi anni L. de V. cerca un'evasione di natura morale, e tenta l'esperienza religiosa, che se non riuscì a placare l'estrosa agitazione del suo spirito, valse a ispirargli alcune delle più umane poesie sulla divinità. Ma non si allenta per ciò la sua operosità artistica: e non solo quella teatrale, che in lui era ormai una seconda natura, come un abito di vita, una specie di azione perenne, inesausta e sempre rigogliosa di giovinezza, quasi un mondo mitico dove il poeta trasferiva le discordie e gli urti ch'era abituato a soffrire e a ricercare nelle profondità delle sue stesse passioni, ma anche quella più propriamente lirica, autobiografica, che ora si ravvivava di reminiscenze e ricreava con mutata umanità le esperienze del passato, sicché a rigore non si ripete mai, talmente aderente e palpitante è l'attualità della nuova condizione spirituale: così alla soglia della morte poteva comporre una "silva", El siglo de oro, che è una nostalgica rievocazione dell'età mitica, dove la bellezza e la verità sono vagheggiate eterne, immobili, illese.

L. de V. è passato nella vita con l'istinto del padrone, del dominatore ignaro ma eletto e favorito dalla stessa natura, soprattutto con la pronta versatilità artistica, che nutriva in lui giorno per giorno un senso illimitato della conquista e del successo, tanto che, come non è sempre possibile discriminare nella sua attività letteraria ciò che è frutto di interna e incoercibile esigenza dalle opere puramente occasionali, così non sempre riesce agevole segnare i limiti fra quella sensibilità esuberante ed espansiva che non si appagava di nessuna forma poetica nell'ansia di tradurre la tumultuosa realtà che l'assediava e l'urgeva, e una sconfinata e ambiziosa vanità, che gli faceva ricercare l'emulazione di ogni piccolo e inutile successo altrui. Per uno scrittore di teatro, il consenso popolare è indispensabile: ma L. de V. lo ricercava dovunque, non solo rispetto alle molteplici forme della sua arte, ma anche riguardo alle manifestazioni più comuni della sua stessa vita. Egli amava apparire "prodigioso" sempre, in ogni sua azione, tanto che non senza malizia correva intorno al suo nome uno speciale "credo": "Io credo in Lope de Vega l'onnipotente, il poeta del cielo e della terra". Eppure in queste alternative e discrepanze è il tono della sua vita spirituale, in cui il problema etico non è condotto mai al primo piano, come invece in Tirso de Molina e in Calderón de la Barca, ma è dissimulato e come sopraffatto dall'urgenza della sua sensibilità: L. de V. non sa e non può intellettualizzare l'esperienza umana, che gli si prospetta nelle sue forme immediate, istintive, ancora grezze e in tumulto; egli non è l'artista dall'umanità riposata e controllata, che tramuta in immagini concettuali le sue esperienze, ma è il poeta della sensibilità istintiva, esuberante, cangiante e mobilissima, in apparenza incoerente, ma sostanzialmente pura, rettilinea, integra. Un altro poeta che lo amò senza riserve, il Grillparzer, ne seppe svelare questa inconfondibile qualità: "Shakespeare ci dà la natura ín sintesi, Lope la rende tutta intera, senza selezione, così come essa si manifesta e svolge... Lope non è precisamente il maggior poeta, ma certamente il temperamento più poetico dell'età moderna". Non per nulla i contemporanei, con Cervantes alla testa, lo chiamarono "el monstruo de Naturaleza", il prodigio di natura.

La produzione narrativa. - La stessa foga che l'urgeva nella vita, gli esultava nello spirito e nell'immaginazione; non c'era esperienza poetica che L. de V. non volesse tentare e risolvere dentro di sé, nel dominio della sua trasmutabile ispirazione, anche se era costretto a correre furiosamente lungo le strade della poesia senza goderne il dolce riposo delle soste. Non appena s'imbatteva in un poeta, o meglio, in un'opera di poesia che fosse suggellata da una vigorosa personalità, si rifaceva prepotente in lui il bisogno di adeguarvisi e di riviverla entro i confini della sua dispotica sensibilità: Petrarca, Sannazzaro, Ariosto, Tasso, Omero, Virgilio, Ovidio suscitavano nel suo spirito un mondo di reazioni ed egli li traeva a sé, e ne faceva materia viva e nuova per la sua arte con "barbarico modo" come egli stesso confessava. Di Ariosto si sovvenne durante la spedizione della Invincibile Armata (1588-1589) e nella Hermosura de Angélica (1602) cercò di emulare l'Orlando Furioso, abbassando il poema italiano al valore d'una estesa novella sentimentale e avventurosa; a Tasso si tenne più stretto con la Jerusalém conquistada (1608), il cui eroe è Alfonso VIII, durante la crociata disgraziata di Riccardo Cuordileone. Con maggiore attualità, ma con il grave peso di una struttura allegorica, intraprese a narrare le ultime avventure del corsaro inglese Francis Drake, il Dragón, nella Dragontea (1598): anche qui operavano ragioni di nazionalismo, sicché il poema dovrebbe risultare una celebrazione della storia spagnola e della fede cattolica di fronte alla pirateria inglese e protestante. E alla tesi cattolica del domenicano inglese G. Conn s'ispira per la Corona trágica (1627), che narra il triste destino di Maria di Scozia: in questi poemi non vibra il sentimento lirico se non in qualche fugace episodio, dove affiora la vita passionale, idillica, elegiaca. Altrove, invece, i modelli letterarî si rivelavano più congeniali al poeta lirico-drammatico: sono composizioni mitologiche, che nella loro astrattezza favorivano l'impeto poetico di L. de V.: La Filomena (1621, accompagnata da "otras diversas rimas, prosas y versos"), di derivazione ovidiana, e La Circe (1624, anch'essa corredata da altre rime e prose), amplificazione involuta dell'episodio omerico. . Ma neanche in esse si osserva quella misura e quella coerenza di tono che siamo soliti incontrare nei poemetti italiani o nella sottile arte di Góngora; sono qualità che L. de V. pare disdegnare, trascinato dalla bizzarra estrosità della sua ispirazione; anche il modo stesso con cui presentava al pubblico i suoi libri, fatti di prosa e poesia, infarciti di temi disparatissimi, senza nessun tentativo di selezione, sta a testimoniare il torbido disordine d'una sensibilità che, per quanto letterariamente consapevole e scaltrita, rimaneva sempre di tipo primitivo, incolto, "barbaramente" spontaneo. Per esempio: alla fine della Hermosura de Angélica legava duecento sonetti che nulla avevano a che fare con il poema; nella Filomena inseriva altri racconti, di fattura assai maldestra, come La Andrómeda e Las Fortunas de Diana, senza dire degli sfoghi personalissimi che al principio e alla fine scagliava contro un suo detrattore, Torres Rámila; nella Circe intercalava tre Novelas cortas (1621-1624), stilisticamente distratte, come La desdicha por la honra, La prudente venganza, Guzmán el Bravo; al seguito di un poema in terza rima, Triunfos divinos (1625, in cinque canti), di evidente imitazione petrarchesca, pesante excursus sul cattolicismo, elargiva una collana di sonetti di elegante stesura; nel Laurel de Apolo (1630), poema in 10 silvas, apologia dei poeti contemporanei a somiglianza del Viaje del Parnaso di Cervantes, figurano episodî lirici, come El baño de Diana e Narciso, e alcune poesie sciolte che hanno una grazia difforme al volume che le contiene. Perfino la Dorotea (1632), l'unica opera in prosa di indubbio valore artistico, possiede frammenti poetici che discordano con il resto per il tono e per la condizione psicologica. In fondo L. de V. non aveva capacità narrative, per le quali occorre anzitutto un dominio della tecnica stilistica e un senso equilibrato e lento della rappresentazione; cosicché, a parte le operette di edificazione religiosa (come il poema Isidro, 1599, in quintillas; Isagoge a los reales estudios de la Compañía de Jesús, 1629, ecc.), e qualche poema d'ispirazione parodistica (ed è assai deliziosa la Gatomaquia, 1634), il meglio di questa produzione svagata e inconsulta sopravvive in quelle opere che per la loro fondamentale concezione non dovevano ubbidire a nessuna traccia narrativa ed espositiva, ma potevano liberamente tradurre l'interno fantasticare del poeta. È il mondo della vera e propria lirica, anche se il mezzo stilistico è a volte la prosa: La Arcadia (1598), romanzo pastorale, El peregrino en su patria (1604; 2ª ediz., 1618), autobiografico, i Pastores de Belén (1612), che è un' "arcadia al divino", in cui s'intessono e si alternano momenti lirici di un'estrema semplicità e di un'ariosa trasparenza, fatti della stessa sostanza poetica delle "egloghe" (A Claudio, 1631; A Amarilis, 1632; A Filis 1635), delle Rimas sacras (1614), delle Rimas humanas y divinas (1634).

La lirica. - Nella prodigiosa produttività lirica. i temi dell'amore, dell'esilio, dell'attesa, del disincanto, dell'interna inquietudine sono i più frequenti: la poesia si rivelava sempre più consona al suo temperamento, ché in essa parevano vivere in forma conchiusa e autonoma i frammenti della sua vita personale, che invece nel teatro venivano assorbiti e trasferiti in un'oggettività distaccata. Si può dire che di fronte alla sua stessa arte egli sentiva predilezioni affettive, ché l'amore per le sue liriçhe assumeva in lui un tono umanissimo, come un attaccamento a persona viva: non è facile incontrarsi con un poeta di inesauribile e mutevolissima ispirazione come L. de V. che serbi anche un senso così delicato e tuttavia tenace della fragile e sommessa rievocazione lirica, della frammentaria rêverie sentimentale. La lirica è il mondo che L. de V. più sentiva appartenergli, dove la vita serba ancora il palpito della realtà contemporanea, la malinconia delle cose vissute e mai obliate. Questa trepida attualità che ha il potere di rendere nuove le forme della cultura poetica (italiana, petrarchesca, umanistica oppure tradizionalmente castigliana) costituisce il fascino della lirica di L. de V. Attraverso alle poesie incluse nelle opere in prosa (Arcadia, Pastores de Belén, El peregrino en su patria) e soprattutto in quelle autonome (Églogas, sonetos, canciones, romances, letrillas, Rimas sacras, ecc.), al lettore sembra di ritrovare toni e colori già noti, come risonanze di un mondo culturale di lunga vita; ma per poco, ché non appena si entra nel cerchio della sua sensibilità, ci si dimentica, al pari del poeta, delle reminiscenze letterarie, di fronte alla multiforme esuberanza del suo temperamento lirico. L. de V. ha il dono divino di intuire con assoluta trasparenza i suoi trasmutabili stati d'animo, che nell'atto di tradursi nella parola sembrano acquistare la materialità delle cose e si tramutano in colori, in suoni, in immagini. È il grande poeta dei piccoli palpiti, delle voci brevi, degli affetti improvvisi, delle più trepidanti e fuggevoli sensazioni; è perciò difficile sorprenderlo in momenti di trascendenza concettuale, di quella trascendenza implicita nella tradizione in forme concrete, quasi corporee, come manifestazioni della natura, con la stessa insopprimibile evidenza e la medesima precipitosa e incoerente irruenza con cui essa si suole rivelare alla nostra più semplice sensibilità. Anche nelle Rimas sacras o nei Pastores de Belén e perfino nelle più tarde Rimas humanas y divinas, il mistero della fede è attinto attraverso a un realismo sentimentale, che si libera d'ogni apparato teologico e simbolico per ascoltare e cogliere la palpitante umanità del divino. Certo non sempre la tensione-lirica è egualmente operosa: L. de V. risente di quella certa preziosità e oziosità implicita nella poesia contemporanea; ma anche laddove l'ispirazione è meno necessaria, si fa più squisita la fattura formale, sicché perfino nelle poesie della vecchiaia, quando s'erano corrosi i motivi del canto passionale, prevale un senso sottilissimo e quasi paenassiano dell'elaborazione stilistica: anch'esso di sensibilità moderna.

Il teatro. - E in forma lirica L. de V. concepì anche il teatro: non tanto per gli strumenti espressivi, ch'erano ritmici e tali rimasero per Tirso e per Calderón, e non solo per l'improvviso affiorare del canto nel dialogo e sulla scena, quanto per la stessa intuizione del nucleo drammatico, che esplodeva repentinamente da una passionalità quasi astratta, profondamente lirica nella sua più intima genesi. Non altrimenti si può spiegare e individuare la posizione di L. de V. nella storia del teatro spagnolo: rispetto ai suoi contemporanei e ai suoi discepoli, compresi Tirso e Calderón, egli appare più legato alle fonti scritte, più fedele alla grande cronistoria castigliana, meno scrupoloso a derivare dai libri spagnoli, latini, italiani, eppure la sua drammatica risulta più fresca e schietta, come tocca da un'etema giovinezza. Egli stesso ne aveva chiara coscienza critica, come fa fede il suo poemetto El arte nuevo de hacer comedias (1609), strana composizione, miscuglio di nuovo e di abusato, in cui si vengono a contraddire, e meglio, a scontrare le due tendenze dell'artista: l'abito dell'uomo colto, umanista, che ha sentito la lezione degli antichi e degl'Italiani, e il temperamento del poeta nativo, popolamente spagnolo, fedele a un'ingenita e inalterabile primitività, tanto da sentirsi e dichiararsi "barbaro" per amore del suo popolo. Questo vantarsi antiaccademico e antiumanista, nonostante la sua ricca cultura, non era in lui una posa né una civetteria letteraria, ma rispondeva alla più sostanziale qualità della sua arte. In questo modo e con questa consapevolezza egli è stato il creatore della tecnica drammatica e in definitiva della grande tradizione del teatro spagnolo; L. de V. ha aperto la scena al contenuto umano, storico, sociale della vita nazionale e tradizionale della Spagna; nel ricercare gli assunti leggendarî serbati dalle grandi cronache castigliane, tramandati dai cantares de gesta e rinnovati proprio nel Cinquecento dal Romancero, L. de V. intuiva e disvelava le forze più immanenti dell'anima spagnola; anche l'esistenza storica della sua terra, che, nonostante le grandi imprese imperiali, perpetuava un'indelebile esperienza medievale, feudale, cavalleresca, si dispiegava nei suoi drammi con una impressionante adesione, che non era certo il risultato di una ricostruzione archeologica ed erudita, bensì fmtto d'una felice intuizione, d'una congenialità dello spirito del poeta con la secolare civiltà del suo paese. Se è vero che nella sua enorme produzione (Pérez de Montalbán ricorda 2200 lavori drammatici; noi conosciamo i titoli di 700, e nonostante le perdite, ne possediamo più di quattrocento), L. de V. ha tratto spunti da ogni genere di fonti, sicuro com'era di affrancarsene in virtù del suo prepotente senso d'attualità (dalle Sacre Scritture, dalla storia e mitologia classiche, dalla novellistica italiana, come El halcón de Federico dal Boccaccio, El castigo sin venganza e La difunta pleiteada dal Bandello, El piadoso veneciano da Giraldi Cinzio, dalla letteratura avventurosa e cavalleresca), è soprattutto nella tradizione indigena, leggendaria e nazionale che ha attinto i suoi capolavori: dall'età dei Goti, ai re nazionali, ai re Cattolici, fino all'epoca contemporanea degl'imperatori, L. de V. ha creato i suoi drammi più potenti (come El último godo, Las famosas asturianas, El meior alcalde el Rey, La desdichada Estefania, La Estrella de Sevilla, Lo cierto por lo dudoso, El rey don Pedro en Madrid, Porfiar hasta morir, Peribáñez y el mendadores de Córdoba, La serrana de la Vera, El marqués de lasNavas, El alcalde de Zalamea, El meor mozo de España, ecc.) e dall'urto delle passioni più tipicamente spagnole - come il sentimento dell'onore, della dedizione cavalleresca, della sublime regalità, della superiore giustizia -, e dal contrasto degli ambienti - fra società aristocratica e mondo popolare, fra corte e provincia, fra cavalleria e borghesia, fra vita feudale e vita agreste -, egli ha determinato le ragioni del suo miglior teatro. Poiché in esso, quello che conta non è la psicologia individuale, come sarà sviluppata da Tirso, né l'idea simbolica che Calderón de la Barca amerà, ma il gioco delle pure passioni, l'attrito dell'arbitrio personale con la società, il contrasto di ambienti e di mentalità, le esplosioni subitanee e irrefrenabili dei più saldi e radicati istinti. Anche in ciò egli è un primitivo, poiché non ha pazienza del lento formarsi di un'azione né sa indugiare sulla costituzione di un carattere, ma ama rappresentare le più antitetiche antinomie spirituali e sociali nella loro fase culminante, nel punto della loro esplosione. Egli stesso confessa di aver sempre preferito i drammi dell'onore "perché è questo il sentimento che fa muovere gli uomini con più furore". Dimodoché anche la tecnica risente di questa specie di contrazione drammatica, che nei tre atti in cui si distende l'azione sembra strozzare ogni graduale sviluppo e comprimere i consueti procedimenti di lenta preparazione scenica e di progressiva giustificazione psicologica: in questo senso un dramma di L. de V. si può riconoscere fra tanti, poiché si presenta come un blocco unitario e inscindibile, in cui la poesia e la drammaticità non si incidono tanto nelle persone quanto si sprigionano dalle cose, dagli ambienti, dalla struttura stessa della società umana.

Il più delle volte il dramma si sviluppa inatteso e precipitoso, non solo perché improvvisa se ne rivela la determinazione psicologica e violento e arbitrario si manifesta il movente morale, ma anche e soprattutto per la difformità dell'ambiente sociale e "geografico", in cui esso scoppia. In parecchie commedie si aprono larghe zone di vita regionale, locale, "campesina", che il poeta sente negli aspetti più riposati, in conformità alla psicologia dei loro abìtanti, altrettanto semplice, serena, ordinata; e ci sono anche plaghe idilliche e georgiche, nelle quali la vita ha il ritmo lento e uniforme delle stagioni e delle fatiche campestri e l'esperienza umana si evolve ogni giomo insensibilmente come il seme in seno alla terra: ma proprio in questa atmosfera pacificata scoppia improvvisamente, come elemento estraneo e perturbatore, la passione del più forte, del prepotente, del signore: un essere di altro ambiente sociale e di altro clima morale che porta l'inconsulta violenza dei suoi più scaltriti istinti.

Qualche volta, come nel possente dramma El mejor alcalde el Rey, l'"estraneo" domina apparentemente incontrastato, forte della sua disfrenata potenza feudale e della sua atavica brutalità: e di fronte a lui il mondo familiare, paesano, agreste ne rimane sbigottito e indifeso, sebbene sempre tenacemente fermo alla propria originaria e schietta sentimentalità. Ma, più spesso, nella stessa elementarità della psicologia del popolano, dell'incolto", insorge la reazione come una forza della natura, anch'essa allo stato d'istinto: e allora trabocca selvaggia e barbarica, di una primitività che è più vicina a Dio e alla sua giustizia di quanto non sia la più evoluta e ipocrita società civile. In Fuente Ovejuna è celebrata questa psicologia ambientale, collettiva, che pare tutt'una cosa con la vita del luogo; è una potente ricostruzione di solidarietà popolare che esplode con la fatalità di un fenomeno naturale. Nel villaggio di Fuente Oveiuna, il "comendador mayor" Fernán González è l'"estraneo", venuto dal di fuori, senza rispetto umano e senza scrupoli, incarnazione della più abbietta "dismisura"; egli ha violato le giovanette, ha vilipeso l'onore dei padri e degli sposi, ha fatto scempio della più santa umanità: ed ecco che nelle profonde ombre di una notte, tutto il popolo di Fuente Ovejuna si arma, invade le vie, penetra nella casa dell'"estraneo", si abbevera del suo sangue, come spinto da un tacito comune impulso fatalistico. Quel senso dell'onore e della vendetta che negli altri drammi si matura nel chiuso dell'anima individuale, è qui proiettato nell'esperienza collettiva di un'intera popolazione. La sua vendetta sorge come una forza primitiva, incontenibile, quasi inconscia rivelazione delle più profonde ragioni dell'essere, e si abbatte sulla malvagità come un uragano sui campi.

Ma il più delle volte è l'intervento del re che pacifica con la sua suprema giustizia l'impetuosa e torbida tragicità del dramma; in molte commedie, tra le più fatalistiche e le più fosche (come in El testimonio vengado, El mejor alcalde el Rey, La desdichada Estefania, Peribáñez y el Comendador de Ocaña, e, in forma originalissima, La Estrella de Sevilla), il monarca della Spagna è chiamato a ristabilire nel cuore degli uomini la norma morale e a ricomporre i dissidî che l'arbitrio della passione aveva aperto nelle coscienze; e attraverso al suo giudizio inappellabile si fa luce il senso d'una disciplina superiore, qui si sovraterrena, da cui l'umanità si sente dominata, ma anche protetta. La presenza regale è mediazione tra l'umano e il divino, incarna la giustizia trascendente; ma L. de V. non poteva arrivare a questa concezione senza i presupposti politici e dottrinarî del suo tempo: soltanto rifacendoci alle dottrine teocratiche della Controriforma, possiamo intendere nel suo giusto valore il significato catartico che nel dramma riveste l'intervento monarchico, postulato non già per un acquiescente rispetto alla sua autorità, in nome d'un'illuminata coscienza politico-religiosa, ma come mezzo di redenzione morale alla fine della tragedia, con la funzione d'una giustizia immanente e riparatrice: e precisamente laddove la trasgressione degli uomini non può essere giudicata dalle comuni leggi e dai comuni tribunali, come nel caso di passioni tumultuose e travolgenti, vale a dire per il mondo più tipico di L. de V.

Ediz. e bibliografia: Il teatro. - Nel Peregrino en su patria (1604 e 1618), L. de V. dà una prima lista delle sue commedie; nel 1604 e 1609 uscivano le prime due parti del suo teatro, a cui seguivano: la terza (1611-12), la quarta (1614), la quinta e sesta (1615), la settima e l'ottava (1617); nel 1618 uscì la nona parte: Doze comedias de L. de V., sacadas de sus originales por él mismo, che curò personalmente le altre fino alla ventesima (1617-25); le tre parti successive apparvero postume (1635-36), ma erano già state riviste dal poeta. Le difficoltà di attribuzione sorgono per quelle raccolte che furono edite all'insaputa del poeta, specie dopo il 1625, quando L. parve disinteressarsi della pubblicazione, e per le molte altre commedie che furono pubblicate dopo la sua morte. Sono importanti il Catálogo de comedias y autos de L. de V., a cura di R. Chorley e La Barrera, nel vol. LII della Bibl. aut. esp., e la Bibliography of the Dramatic Works of L. de V., di H. A. Rennert, in Revue hispanique, XXXII (1915), pp. 1-284; W. Hennigs, Studien zu L. de V.: eine Klassification seinen comedias, Gottinga 1896; J. Gómez Ocerin, Para la bibliografia de L., in Revista de filologia esp., I (1914), p. 404 segg. E ancora: A. Hämel, Studien zu L. de V.s Juggenddramen (nebst chronologischen Verzeichnis der Comedias von L. de V.), Halle 1925 (cfr. J. F. Montesinos, in Revista de filología esp., XIV, 1927, pp. 78-82); S. G. Morley, Ortología de cinco comedias autógrafas de L. de V., in Estudios offerti ad A. Bonilla, I, Madrid 1927, pp. 525-44; L. Pfandl, Grundzüge des spanischen Dramas von L. de V., in Germ.-Rom. Monatschrift, XIV (1926), pp. 201-21.

Edizioni moderne: Obras, a cura della R. Academia espanola, voll. 15, Madrid 1890-1914 (con introduzioni di M. Menéndez y Pelayo): e cfr. i rendiconti di A. Restori, in Zeitschrift für rom. Philologie, XXII (1898); XXIII (1899); XXVI (1902); XXVIII (1904); XXIX (1905); XXX (1906); l'edizione, rimasta incompleta, s'è ripresa a cura di E. Cotarelo y Mori, tuttora in corso di pubblicazione (nel 1930 erano già apparsi i primi dieci volumi).

Inoltre: Comedias escogidas (più di un centinaio), a cura di J. E. Hartzenbusch, nella Bibl. aut. esp., XXIV, XLI e LII; cinque autos nella Bibl. aut. esp., LVIII; gli autos: Auto de la vuelta de Egipto, Auto de la Concepción e Comedia del Negro del Mejor Amo, a cura di A. Restori, Parma 1898. Si veda inoltre: A. Restori, Una collezione di Commedie di L. de V., Livorno 1896; Obras dramáticas escogidas (I: Teatro religioso; II: Teatro mitologico), a cura di E. Julián Martinez, Madrid 1933-34.

Edizioni e studî su commedie singole: El halcón de Federico, con uno studio sulla fonte boccaccesca, a cura di R. Anschütz, Erlangen 1892; Sin secreto no hay amor, ed. H. A. Rennert, Baltimora 1894; Los Guzmanes de Toral, ed. A. Restori, in Romanische Bibliothek, Halle 1899; Las burlas veras, ed. S. L. Millard Rosenberg, Filadelfia 1912; La moza de Cántaro, ed. Madison Stathers, New York 1913; Peribáñez y el Comendador de Ocaña, ed. A. Bonilla, Madrid 1916; Amar sin saber a quién, ed. H. A. Buchanan, New York 1920; El Cuerdo Loco, ed. J. F. Montesinos, Madrid 1922; El remedio en la desdicha e El mejor alcade el Rey, ed. di J. Gómez Ocerín e R. M. Tenreiro, nei Clásicos castellanos, Madrid 1922, nuova ediz. 1931 (con una buona introduzione); Il migliore giudice è il re, testo e trad. di A. Monteverdi (con un'interessante introd.), Firenze 1922; La Estrella de Sevilla, ediz. di R. Foulché Delbosc, in Revue hispanique, XLVIII (1920), pp. 497-678; La Stella di Siviglia, testo e traduz. di A. Giannini, Firenze 1924; id., traduz. di Gh. Morone, Torino 1925 (nuova ediz. assieme alle Bizzarrie di Belisa, Torino 1933, con una breve introd.); S. E. Leavitt, The "Estrella-de Sevilla" and Claramonte (con cui è divisa la paternità del dramma), Cambridge (Massachusetts) 1931 (e cfr. Revista de filología esp., XIX, 1932, pp. 308-10); C. E. Anibal, Observations on "la Estrella de Sevilla", in Hispanic Review, II (1934), pp. 1-38; A. Monteverdi, Sul testo de "Casamiento en la muerte" di L. de V., in Archivum Romanicum, IX (1925), pp. 453-455; El marqués de Las Navas, ediz. di J. F. Montesinos, Madrid 1925; J. F. Montesinos, Algunas observaciones sobre la figura del donaire en el teatro de L. de V., in Homenaje a Menéndez Pidal, I, Madrid 1925, pp. 469-504; W. L. Fichter, L. de V.'s "El castigo del discreto", together with a study of conjugal honor in his theatre, New York 1923; Amar sin saber a quién, ediz. di C. Pitollet, Parigi 1926; W. Ruser, Roma abrasada, Ein echtes Jugenddrama; eine Studie zu L. de V., in Revue hispanique, LXXII (1928), pp. 325-411; El castigo sin venganza, testo e introd. di C. F. A. Van Dam, Groninga 1928; El acero de Madrid, introd. e note di P. Mazzei, Firenze 1929; El Cordobés valoroso Pedro Carbonero, ediz. di J. F. Montesinos, Madrid 1929; El Brasil restituido, studio di G. de Solenni, New York 1929; El desdén vengado, ediz. e introd. di M. Harlan, New York 1930; A. Gasparetti, Comedia famosa de "Lo que hay que fiar del mundo", Palermo 1931; per la fonte di El gran duque de Moscovia (da una relazione di J. Mosquera, Valladolid 1606), cfr. Revista de filología esp., XIX (1932), pp. 47-63; W. Wurzbach illustra i temi della Corona merecida, in Miscelanea de estudios en honra di C. Michäelis de Vasconcellos, Coimbra 1933; Los melindres de Belisa, ediz. critica di H. C. Barrau, Amsterdam 1933; M. Heseler, Studien zur Figur des "gracioso" bei L. de V., Gottinga 1933; C. E. Anibal, The historical Elements of L. de V. "Fuente Ovejuna", in public. Modern Lang. of America, XLIX (1934), pp. 657-718; E. Levi, L. de V. e l'Italia, Firenze 1936 (con pref. di L. Pirandello).

Opera lirica e narrativa: Collección de las obras sueltas, así en prosa como en verso, Madrid 1776-79, voll. 21; Obras no dramáticas, ed. Rosell, nella Bibl. aut. esp., XXXVIII; Novelas, ed. Fitz-Gerald, Erlangen 1913; G. Cirot, Valeur littéraire des nouvelles de L. de V., in Bull. hispanique, XXVIII (1926), pp. 321-355; La Dorotea, ed. A. Castro, Madrid 1913 (edita anche nella Bibl. aut. esp., XXXIV); J. Lucie Lary, La "Jerusalém conquistada" de L. de V. et la "Gerusalemme liberata" du Tasso, in Revue des langues romanes, s. 5ª, Montpellier 1898; U. Bucchioni, T. Tasso e L. de V., Rocca S. Casciano 1910; J. A. Ray, Drake dans la poésie espagnole (1570-1732), Parigi 1906; La Gatomaquia, ed. A. Gasparetti, Palermo 1932; Arte nuevo de hacer comedias, ed. A. Morel-Fatio, in Bull. hispanique, III (1901), p. 364 e segg.; traduz. inglese di W. T. Bewster, con prologo di B. Mathews, New York 1914; a proposito della "poetica" di L. de V. si veda: J. de Entrambasaguas, Una guerra literaria del siglo de Oro. L. de V. y los preceptistas aristotélicos, Madrid 1933; M. Romera-Navarro, L. de V. y su autoridad frente a los antiguos, in Revue hispanique, LXXXI (1933), pp. 190-224. - Poesías, nella Bibl. aut.e sp., XVI, XXXV, XXXVI e LII; Rimas con el nuevo arte de hacer comedias, facsimile dell'ed. 1609, a cura di A. M. Huntington, New York 1903; Romancero espiritual, facsimile dell'ed. 1609, a cura di A. M. Hungtington, New York 1903; Poésies de L. de V. en partie inédites, ed. E. Mele, in Bull. hisp., VII (1901), pp. 349-364; Poesías lirícas, a cura di J. F. Montesinos, nei Clásicos Castellanos, voll. 2, Madrid 1926-27 (con due erudite introduzioni). Si veda ancora: J. Millé y Giménez, Apuntes para una bibliografía de las obras no dramáticas atribuidas a L. de V., in Revue hispanique, LXXIV (1928), pp. 245-572; O. Jörder, Die Formen des Sonetts bei L. de V., Halle 1936.

Biografia. - Molta parte delle opere di L. de V. hanno valore autobiografico: C. Fauriel fu il primo che a proposito della Dorotea rivelava frammenti ed echi biografici (Revue des Deux Mondes, 1° settembre 1839 e 15 settembre 1843). Questo metodo, con i suoi vantaggi (maggiore adesione al fatto umano e più congrua comprensione dell'esperienza lirica) e i suoi inconvenienti (trasposizione dei valori artistici in un piano realistico ed empirico), fu adottato da G. Ticknor nelle pagine della sua letteratura (trad. sp. di P. de Gayangos, Madrid 1851-56 dall'orig. del 1849), e da A. F. von Schack, Historia de la literatura y el arte dramático en España, Madrid 1885-87 (trad. di E. de Mier, dall'orig. del 1845-46), fino al volume di E. Lafond, Étude sur la vie et les oeuvres de L. de V., Parigi 1857. Con la conoscenza di altri documenti, specie i carteggi, G. A. de la Barrera estendeva la ricerca biografica ad altre opere (specie l'Amarilis) e poteva darne una più ampia sistemazione nella sua Nueva biografía, composta nel 1864, ma edita soltanto nel 1890, in fronte all'edizione della R. Academia española. Altri elementi furono presentati da Pérez Pastor, Proceso de L. de V. por libelos contra unos cómicos, Madrid 1901. Si giunge così alle biografie più ampie: H. A. Rennert, The Life of L. de V., Glasgow 1904, trad. di A. Castro, Vida de L. de V., Madrid 1919; Fr. A. de Icaza, L. de V., sus amores y sus odios, Segovia 1926.

Opere generali. - Sono fondamentali gli studî di M. Menéndez y Pelayo, premessi all'ediz. delle Obras ed editi anche a parte: Estudios sobre al teatro de L. de V., Madrid 1919-1923, voll. 3; nuova ediz. a cura di M. Artias, Madrid 1927; sono buone le pagine della letteratura di Fitzmaurice-Kelly, nuova ediz. della traduz. francese, Parigi 1913; farraginose le pagine di J. Cejador y Frauca, nella sua grande letteratura, IV, Madrid 1916. I migliori lavori d'insieme rimangono quelli di A. Farinelli, Grillparzer und L. de V., Berlino 1894 (trad. spagn., L. de V. en Alemania, Barcellona 1936); di K. Vossler, L. de V. und sein Zeitalter, Monaco 1932 (traduz. spagn. di R. de la Serna, Madrid 1933). Si consulti anche L. Pfandl, Historia de la liter. nacional espanola en la edad de Oro (trad. dal tedesco a cura di J. Rubió), Madrid 1933; A. Farinelli, Il mondo culturale e il mondo fantastico di L. de V., in Nuova Antologia, 1° giugno 1936, pp. 296-309.

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