UNIVERSO

Enciclopedia Italiana (1937)

UNIVERSO

Rodolfo MONDOLFO
Emilio BIANCHI
Gino CECCHINI
Livio GRATTON

. Con questo nome s'intende l'insieme, la totalità delle cose esistenti, ossia tutto ciò che viene o verrà comunque rivelato alla nostra esperienza; per conseguenza, con l'aumentare delle nostre conoscenze, la parola "universo", dal significato ristretto che aveva nei tempi remoti, di indicare l'insieme di tutte le cose visibili, con particolare riferimento alla Terra, acquistò un significato sempre più vasto, in modo da comprendere anche tutti gli oggetti celesti, la cui esistenza viene accertata con qualunque mezzo. Lo studio dell'universo, in armonia con la precedente definizione, dovrebbe quindi comprendere tutto ciò che esiste; però, quando nel linguaggio corrente si parla di struttura dell'universo, si intende più propriamente riferirsi all'aspetto macroscopico di tale struttura, quale ci viene rivelato dalle osservazioni e dalle teorie astronomiche. Anche così precisato, v'è ancora una certa ambiguità nel significato di universo; tanto che avviene spesso di sentire parlare di universi al plurale, come nell'espressione ormai diffusa di universi-isola. Non è da molto tempo che è stato riconosciuto con certezza che esistono degli oggetti celesti indipendenti dal grandioso agglomerato di stelle e di materia nebulare di cui fa parte il Sole, sicché questo agglomerato, che prima veniva considerato l'universo, cioè il tutto, è divenuto uno dei tanti universi parziali, universi-isola, simili fra loro, che popolano lo spazio e formano il più grande Universo. Si continua, tuttavia, a chiamare universo anche il sistema di stelle di cui fa parte il Sole, aggiungendo, per evitare confusioni, l'aggettivo stellare o galattico (perché la Via Lattea, in greco γαλαξίας, ne forma l'ossatura), mentre l'insieme dei varî universi stellari si suol chiamare universo o Sistema metagalattico.

Spesso la parola universo viene anche usata per indicare quello che nella teoria della relatività viene chiamato più propriamente cronotopo, o spazio-tempo, cioè l'ambiente in cui noi pensiamo si svolgano i fenomeni naturali.

Questo significato non è però sostanzialmente diverso da quello comune, in quanto il principio fondamentale della teoria della relatività consiste appunto nel considerare i fenomeni naturali come il modo con cui sono rivelate alla nostra esperienza le proprietà geometriche del cronotopo-universo (v. relatività, teoria della).

1. Sguardo storico alle concezioni dell'universo fino al 1900. - In tutta l'antichità si trova diffusa quasi universalmente l'opinione che le stelle fossero tutte fissate sul cielo, concepito come una cavità di forma sferica. Questa è infatti la prima e più naturale impressione che sorge in chi rivolga il proprio sguardo al cielo in una notte serena e senza luna. Solo in rarissimi casi si trova espressa, più o meno esplicitamente, l'opinione che le stelle si trovino situate a distanze diverse e grandissime (Aristarco, Gemino Rodio). Manilio, in particolare, precedendo Keplero di ben 16 secoli, afferma esplicitamente che le stelle della testa di Orione appaiono meno luminose non quod clara minus, sed quod magis alta recedunt (Astron., L, 1). Ma la convinzione geocentrica di una vòlta stellata che ruota su sé stessa in un giorno, con la Terra immobile nel centro del tutto, rimane incontrastata sino alla fine del Medioevo, appoggiandosi all'autorità dei grandi nomi di Aristotele, Ipparco e Tolomeo.

Solo al principio dell'epoca moderna comincia nuovamente a farsi strada l'opinione che le stelle fisse si trovino a distanze diverse. Per Copernico (1473-1543) la Terra non è più il centro dell'Universo, ma questo posto è occupato dal Sole, attorno al quale circolano i pianeti; tuttavia le stelle sono ancora considerate fisse sopra una sfera. Tycho Brahe (1546-1601), oltre ad abolire le sfere cristalline dei sistemi precedenti, afferma esplicitamente che le stelle non sono a distanze eguali da noi. Spetta peraltro a Keplero (1571-1630) il merito di aver considerato per primo il Sole come una delle stelle fisse, che egli supponeva avessero tutte la stessa luminosità intrinseca. Egli poneva il Sole al centro del Sistema della Via Lattea, da lui concepito come un enorme anello di stelle. Contemporaneamente, l'invenzione del cannocchiale apriva nuovi orizzonti all'indagine astronomica con la scoperta, compiuta da Galileo, di stelle invisibili ad occhio nudo e la risoluzione in stelle di alcune porzioni nebulari della Via Lattea. Circa un secolo dopo, nel 1718, E. Halley (1656-1742) compiva la fondamentale scoperta dei moti individuali delle stelle e Newton (1643-1727) elaborava la sua teoria della gravitazione universale. Così si preparavano le basi fondamentali del nuovo sviluppo della scienza astronomica; ma si era ancora ben lontani dalla possibilità di affrontare il problema dell'organizzazione strutturale dell'universo, sebbene Giordano Bruno insegnasse l'infinità dei sistemi stellari e, nel sec. XVIII, T. Wright, I. Kant e J. H. Lambert elaborassero grandiose teorie sulla struttura dell'universo. Si trattava infatti di congetture, senza quasi alcuna base osservativa.

Spetta a W. Herschel (1738-1822) la gloria di avere tentato per il primo la risoluzione del grandioso problema su basi sperimentali e con tale successo, che la concezione herscheliana dell'universo può essere considerata come la prima approssimazione dell'architettura del mondo delle stelle, anche se, essendo falliti per l'imperfezione dei mezzi strumentali tutti i tentativi per determinare le distanze delle stelle, il modello di Herschel non potesse contenere alcuna conclusione sulle dimensioni dell'universo stellare. Tali tentativi non furono peraltro completamente inutili, perché, come avevano condotto J. Bradley (1692-1762) alla scoperta dell'aberrazione della luce e della nutazione dell'asse terrestre, così rivelarono al Herschel il moto orbitale delle stelle doppie, mostrando che la legge della gravitazione universale vale anche oltre i limiti del sistema solare.

Fisso nel proposito di determinare la struttura del Sistema stellare, Herschel rinunziò allora alla misura diretta delle distanze delle stelle, iniziando una grandiosa serie di scandagli del cielo con potenti telescopî, allo scopo di precisare la più probabile distribuzione apparente delle stelle, per poi risalire, sulla base di ipotesi semplici e ragionevoli, alla effettiva distribuzione di esse nello spazio.

La sua ipotesi fondamentale fu che la densità apparente delle stelle in una certa regione del cielo fosse un indice della profondità del sistema stellare in quella direzione; vale a dire l'estensione del sistema fosse maggiore nella direzione di una regione ricca di stelle, che non in quella di una regione meno ricca e quindi massima nella direzione della Via Lattea. In più, egli ammise che, in media, le stelle avessero la stessa luminosità intrinseca e che perciò il loro splendore apparente fosse una misura relativa della loro distanza da noi.

In base alle sue osservazioni e a queste ipotesi, Herschel giunse alla sua concezione strutturale dell'universo stellare, secondo la quale questo è simile a un enorme disco o macina da mulino, disposto nel piano della Via Lattea, entro il quale le stelle sono distribuite con densità presso a poco uniforme. Egli stimò lo spessore del disco circa 1/5 del suo diametro, valutato circa 850 volte la distanza media delle stelle di prima grandezza (v. stelle, n. 11). Più tardi, però, specialmente in seguito ai suoi studî sulle nebulose e sugli ammassi stellari, Herschel comprese che un tale modello era un po' troppo schematico e fu condotto ad attribuire sempre maggiore importanza alle irregolarità esistenti nella distribuzione delle stelle nello spazio. Nel sistema herscheliano il Sole occupa una posizione centrale; ma questa non è più considerata come una posizione di privilegio, perché a Herschel stesso si deve la scoperta del moto del Sole tra le stelle, fondamentale per gli studi ulteriori dei rapporti cinematici e dinamici nel mondo stellare. Dai pochi moti propri stellari (circa una trentina) allora conosciuti, Herschel poté determinare la direzione del moto solare verso la costellazione di Ercole, e stimarne la velocità, che, secondo lui, era paragonabile a quella della Terra nella sua orbita.

Herschel mutò più volte le proprie idee sulle nebulose; sembra peraltro certo che in ogni periodo della sua vita egli mantenesse l'opinione che almeno alcune di esse fossero dei sistemi stellari simili alla Via Lattea; opinione già espressa, circa mezzo secolo prima, da J. H. Lambert.

Dopo Herschel occorre attendere circa un secolo per la comparsa di una concezione del Sistema stellare che rappresenti un reale progresso rispetto a quella herscheliana. Tuttavia sono da ricordare le teorie sulla struttura dell'Universo di W. Struve, di F. W. Argelander e specialmente di H. Mädler, che aveva intuito la rotazione del Sistema stellare attorno a un centro di massa, da lui collocato nell'ammasso delle Pleiadi, in prossimità della stella Alcione. Ma, per avvicinarsi alla soluzione del problema, occorrevano nuovi dati di osservazione (masse, distanze e moti spaziali delle stelle); e quindi, per gli ulteriori sviluppi della scienza, furono d'importanza molto maggiore le grandi conquiste astronomiche del secolo XIX: la misura delle parallassi stellari col metodo trigonometrico (F. W. Bessel, 1838), l'applicazione del metodo spettroscopico allo studio delle proprietà fisiche delle stelle e alla misura delle velocità radiali (A. Secchi, W. Huggins, H. C. Vogel, ecc.) e la fondazione su basi rigorose della fotometria stellare (E. C. Pickering). Nella seconda metà del secolo vanno ancora ricordati gli scandagli di G. Celoria e gli studî di G. V. Schiaparelli sulla distribuzione apparente delle stelle più brillanti, e inoltre l'applicazione della fotografia alle osservazioni astronomiche e il grande miglioramento dei mezzi strumentali, i quali consentivano una penetrazione sempre maggiore nella profondità dello spazio. Sullo scorcio del sec. XIX venivano infine creati, per opera di H. v. Seeliger, K. Schwarzschild e J. C. Kapteyn i metodi statistici, che dovevano più tardi contribuire così potentemente alla risoluzione del problema statico e dinamico della struttura dell'Universo.

2. Il problema geometrico della struttura dell'Universo galattico. Statistica stellare. - Il problema strutturale dell'Universo, sia statico sia dinamico, si ridurrebbe a una semplice questione geometrica se, oltre alla posizione apparente delle stelle sulla sfera celeste, noi conoscessimo la distanza e il moto spaziale di ogni stella del Sistema. Ma la potenza dei nostri telescopî ha un limite e solo una modesta minoranza fra le stelle esistenti nell'Universo è osservabile. In secondo luogo le determinazioni delle distanze stellari individuali sono assai scarse; il Catalogo generale delle parallassi di F. Schlesinger, edito nel 1935, contiene infatti un po' meno di 10.000 parallassi determinate con i varî metodi (v. parallasse), delle quali poi una parte rilevante è ancora assai poco sicura. E anche nel campo dei moti spaziali le nostre conoscenze sono per ora assai limitate. Il moto spaziale di una singola stella rispetto al Sole si può determinare conoscendone il moto proprio e la distanza, nonché la velocità radiale. Il primo rappresenta il moto angolare apparente della stella sulla sfera celeste (cioè nel senso perpendicolare al raggio visuale) e si misura in secondi d'arco per anno; per risalire da esso alla velocità trasversale effettiva (espressa in km./sec.) occorre perciò la conoscenza della distanza della stella da noi. Il numero dei moti proprî attualmente conosciuti (circa 100.000) è abbastanza grande; ma gli errori di misura sono ancora piuttosto gravi per molti di essi. Le velocità radiali, dedotte per via spettroscopica, si possono determinare invece con grande precisione (con errori medî inferiori a 1 km./sec.), ma sono limitate ad alcune migliaia di stelle fra le più brillanti, per la difficoltà di fotografare spettri di stelle poco luminose.

Solo per una parte infinitesima della totalità delle stelle sono quindi conosciuti gli elementi necessarî alla soluzione del problema; questo, perciò, deve essere affrontato con procedimenti statistici, i quali si fondano sulla legge dei grandi numeri e sul calcolo delle probabilità.

Vediamo come ciò sia possibile. È chiaro che l'osservazione diretta del cielo può permettere solo lo studio apparente delle stelle sulla vòlta stellata; vale a dire la determinazione del numero delle stelle che si trovano in ogni determinata area del cielo (per es., quella del campo di un telescopio), in relazione alla loro grandezza apparente, al moto proprio, alla velocità radiale, ecc. Il problema che la statistica stellare si propone di risolvere consiste nel risalire dalla distribuzione apparente delle stelle all'effettiva distribuzione spaziale, alla distribuzione delle grandezze assolute, nonché alla distribuzione dei moti stellari, in modo da consentire la deduzione della forma, delle dimensioni, della ripartizione delle masse e del regime di moto dell'Universo stellare.

Gli elementi da determinare sono espressi mediante tre funzioni statistiche, le quali sono:

1. la funzione di densità spaziale D (r), che dà il numero di Stelle contenute nell'unità di volume (per es., in un parsec cubo) nei varî punti del sistema, cioè alle varie distanze r;

2. la funzione di frequenza delle grandezze assolute ϕ (M), detta anche funzione di luminosità, che dà il numero relativo di stelle delle diverse grandezze assolute M per unità di volume, nelle varie regioni dello spazio;

3. la funzione di velocità spaziale f (v), che dà il numero relativo delle stelle, in ogni regione dello spazio, che si muovono nelle varie direzioni con determinata velocità v. Lo studio di quest'ultima riguarda più propriamente il problema dinamico dell'Universo, ma anche nella soluzione del problema statico essa viene impiegata, in quanto la grandezza del moto di una stella (o meglio ancora di un gruppo di stelle) è spesso l'unico indice della sua distanza.

La risoluzione del problema statico della struttura dell'Universo stellare è possibile poiché esiste una relazione, data da Seeliger nel 1898, che collega la funzione di densità D (r) e la funzione di luminosità ϕ (M) con la distribuzione delle stelle rispetto alla grandezza apparente. Questa ultima viene rappresentata da un'altra funzione statistica: la funzione di frequenza delle grandezze apparenti a (m), che dà il numero di stelle in successivi ed eguali intervalli di grandezza apparente m.

La relazione fondamentale di Seeliger consente, almeno in via numerica, la determinazione della funzione di densità quando siano conosciute le altre due.

La funzione a (m) proviene direttamente dalle osservazioni, ma, non ostante l'enorme materiale di osservazioni fotometriche raccolto, la sua conoscenza è limitata alle stelle relativamente brillanti. Basta pensare che solo in poche regioni del cielo sono state determinate fino ad oggi le grandezze apparenti delle stelle fin verso la 20ma grandezza, mentre si stima che il massimo numero di stelle si addensi intorno alla 30ma grandezza. A questa deficienza di dati si cerca di ovviare con ipotesi abbastanza ragionevoli sull'andamento generale della funzione a (m). La seguente tabella contiene i valori di questa funzione fino alla 20ma grandezza, secondo F. H. Seares e P. J. Van Rhijn.

Ancora più grave è il problema della determinazione della funzione ϕ (M), la quale dipende dalla conoscenza delle distanze stellari. Data l'importanza statistica di questa funzione, il materiale diretto proveniente dalla misura delle distanze stellari attraverso le parallassi trigonometriche o spettroscopiche deve essere integrato con procedimenti statistici, che consentono la valutazione delle distanze medie di gruppi di stelle. Fra questi il più importante è quello che sfrutta il moto del Sole tra le stelle.

Nello stesso modo come a un osservatore, situato in un treno in moto, gli oggetti più lontani sembrano immobili, mentre quelli più vicini appaiono muoversi in direzione contraria a quella del convoglio e tanto più rapidamente quanto minore è la loro distanza, così, per effetto del moto del Sole, che trascina con sé la Terra nello spazio, le stelle più vicine sembreranno muoversi più rapidamente di quelle lontane. Naturalmente, siccome l'effetto del moto solare (moto parallattico) sul moto proprio di ogni stella è sovrapposto a quello individuale (moto peculiare), un procedimento basato su questo principio non permetterà di determinare la distanza di una stella singola. Tuttavia, considerando gruppi di stelle, o per mezzo di procedimenti statistici più elaborati, è possibile eliminare l'effetto dei moti peculiari, e giungere così alla valutazione della distanza media dei gruppi di stelle considerati, e, successivamente, alla grandezza assoluta media delle stelle che li compongono.

Elemento essenziale per questo calcolo è la conoscenza del moto del Sole fra le stelle. Questo può essere determinato sia mediante i moti proprî, sia mediante le velocità radiali. I risultati differiscono un po' tra loro e dipendono anche dalle stelle scelte per la determinazione. La determinazione più attendibile del moto solare, rispetto alle stelle visibili ad occhio nudo, mostra che il Sole si muove con la velocità di 20 km./sec. verso un punto situato nella posizione AR = 18hom, D = +30°.

La conoscenza della funzione di luminosità è peraltro ancora molto vaga e ciò obbliga a fare delle ipotesi sulle sue caratteristiche, tra cui la principale è che essa rimanga sempre la stessa attraverso tutto il sistema stellare. La funzione di luminosità conclusa da Kapteyn, in seguito alle sue fondamentali ricerche, e leggermente modificata da Seares, è la seguente:

Si vede dalla tabella che in enorme maggioranza le stelle sono meno luminose del nostro Sole, la cui grandezza assoluta è 4,85. Per stelle meno luminose della grandezza assoluta + 12,5 l'andamento della funzione di luminosità è sconosciuto e quindi questa funzione deve essere prolungata in modo più o meno ipotetico.

Circa la funzione di densità a priori si può dire soltanto che essa dovrà in media decrescere con la distanza e che anzi da un certo punto in poi dovrà tendere a zero. Ciò equivale a dire che necessariamente l'Universo stellare deve essere finito. Per conseguenza nella relazione di Seeliger la funzione di densità viene normalmente assunta come la funzione incognita da determinare. Nota D (r) possiamo sapere quante sono le stelle in ogni unità di volume nei varî punti del sistema stellare e quindi riconoscerne la forma e le dimensioni.

La necessità di introdurre delle ipotesi per ovviare alla deficienza delle nostre conoscenze fa sì che le ricerche sulla struttura dell'Universo debbano procedere per successive approssimazioni, prendendo dapprima in considerazione le più importanti particolarità della distribuzione apparente delle stelle e poi cercando di migliorare le rappresentazioni schematiche dell'Universo così ottenute.

La prima rappresentazione schematica dell'Universo, dovuta a Seeliger, presuppone che la densità spaziale dipenda solo dalla distanza da noi e non dalla direzione; ammette cioè che l'Universo abbia una simmetria sferica attorno al Sole. Il trascurare già il più elementare dato di fatto sperimentale, che è la concentrazione delle stelle attorno alla Via Lattea, conduce a una rappresentazione notevolmente errata rispetto al vero Universo. Una seconda rappresentazione di Seeliger conduce all'Universo tipico, nel quale è tenuto conto della concentrazione galattica e la densità varia non solo con la distanza dal Sole, ma anche con la distanza dal piano galattico. La densità spaziale risulta tendere assai più rapidamente a zero nella direzione dei poli galattici che nel piano galattico; cioè l'Universo tipico ha una forma lenticolare, con un asse di simmetria perpendicolare al piano galattico.

Col progredire delle ricerche statistiche divenne ben presto evidente l'impossibilità di procurarsi i dati necessarî in tutto il cielo e già nel 1906 Kapteyn propose di concentrare gli sforzi su aree celesti scelte opportunamente. La collaborazione internazionale di molti tra i più potenti osservatorî avrebbe dovuto procurare per tutte le stelle di queste aree le grandezze, i moti proprî, i tipi spettrali, le velocità radiali, ecc. Questo piano grandioso è in continuo progresso anche dopo la morte del suo geniale ideatore ed è destinato a dare col tempo i frutti migliori. Nel frattempo, però, si è cercato di utilizzare i dati disponibili, e con questi, nel 1920, Kapteyn e Van Rhiin potevano concludere la loro fondamentale ricerca statistica sulla struttura dell'Universo, basata sulle stelle più brillanti della 12ma grandezza apparente.

Il Sistema stellare, nella costruzione tipica di Kapteyn e Van Rhiin, ha la massima densità al centro, in prossimità del quale il Sole è posto per ipotesi. Dal centro la densità decresce lentamente in tutte le direzioni, ma in vario grado a seconda della latitudine galattica: sul piano galattico la densità diviene 1/100 di quella attorno al Sole a una distanza di 9000 parsecs, mentre nella direzione dei poli galattici ciò si verifica a una distanza di solo 1200 parsecs. Siamo così di fronte a una struttura che ha qualche analogia col modello herscheliano, ma è ancor più appiattita di questo verso il piano galattico; di più la sua estensione è precisata almeno approssimativamente (fig. 1).

Come lo stesso Kapteyn ha osservato, questa costruzione trascura, per la natura stessa del metodo statistico, particolarità essenziali di struttura del Sistema stellare. Intanto non viene tenuto conto dell'assorbimento della luce nello spazio, che, come vedremo più avanti, ha un'importanza grandissima nella valutazione delle dimensioni del Sistema galattico. Secondariamente, è appena necessario notare che l'Universo di Kapteyn è un modello regolare, nel quale la Via Lattea, visibilmente di natura molto complessa, dovrebbe apparire come una fascia intensamente luminosa lungo l'equatore galattico e regolarmente degradante verso il polo. I valori medi di distribuzione distruggono, in sostanza, ogni peculiarità di struttura. Infine i valori della densità calcolati da Kapteyn debbono essere considerati assai provvisorî, in quanto si può dimostrare che occorrerebbe la conoscenza della distribuzione apparente in tutto il cielo delle stelle fino alla 17ma grandezza, per poter accogliere con fiducia le conclusioni sulla estensione dell'Universo fino a un valore della densità pari a 1/100 di quello intorno al Sole.

Dal punto di vista del metodo vanno ricordate le ricerche statistiche di C. V. L. Charlier e collaboratori. Lo Charlier, senza prendere in considerazione particolarità strutturali della Via Lattea, esamina alcune aree del cielo, studiando tutti i caratteri conosciuti delle stelle contenutevi. L'evitare l'uso di osservazioni fatte in tutto il cielo per non incorrere in erronee valutazioni della densità spaziale è certo da consigliare; ma la scarsità dei dati rende le conclusioni dello Charlier notevolmente incerte.

Perciò un progresso reale rispetto ai risultati del Kapteyn fu compiuto solo nel 1928 ad opera del Seares e collaboratori, quando fu possibile sfruttare le misure fotometriche eseguite all'Osservatorio del M. Wilson, comprendenti stelle fino alla 18ma grandezza in 139 delle aree scelte del Kapteyn. Dato il maggior materiale disponibile, il Seares poté tener conto della variazione della distribuzione apparente delle stelle anche con la longitudine galattica; a causa di questa variazione, apparve subito evidente che il Sole non poteva trovarsi al centro del Sistema. Supposto allora il Sole eccentrico, la direzione nel piano galattico in cui le stelle sono più fittamente distribuite dovrà evidentemente individuare la direzione del centro del sistema. La longitudine galattica di questo centro risultò variabile con la grandezza media delle stelle considerate; le stelle più deboli (18ma grandezza) dànno per la longitudine galattica del centro circa 320°, mentre quelle più luminose conducono a un valore assai minore. La conclusione tratta dal Seares fu che il Sistema galattico non è un sistema unitario nel senso stretto della parola; ma le stelle attorno al Sole costituiscono un aggruppamento (sistema locale) distinto dal grande Sistema, di cui è una parte.

L'esistenza del Sistema locale era già stata segnalata più volte, soprattutto in seguito alle ricerche compiute dallo Charlier nel 1916 sulle stelle B, ma acquista un'importanza assai maggiore nelle ricerche del Seares. Secondo queste, esso sembra estendersi fino a includere stelle della 12ma grandezza, cioè fino oltre 3000 parsecs. Le ricerche del Kapteyn limitate alla 12ma grandezza dovevano quindi riferirsi quasi esclusivamente a questo sistema locale, mentre le stelle più deboli esaminate dal Seares fanno in maggioranza parte del grande Sistema. Il Sole si trova quasi esattamente nel piano galattico, mentre è alquanto a Nord del piano fondamentale del Sistema locale. La densità spaziale fu determinata dal Seares in varie direzioni, col risultato che essa si riduce ai 2/100 del valore che essa ha nei pressi del Sole, a 25.000 parsecs di distanza nella direzione del centro, a 8000 nella direzione opposta e a 2000 nella direzione dei poli galattici.

Secondo le ricerche del Seares, il Sistema galattico è già più complesso che in quelle del Kapteyn e le sue dimensioni, specie nel piano galattico, risultano molto maggiori. Si vedrà però più avanti che le conclusioni del Seares sono assai influenzate dal fenomeno dell'assorbimento della luce nello spazio interstellare; così, per es., la distanza del centro, valutata in un primo tempo a circa 1000 parsecs, è stimata dallo stesso Seares alquanto maggiore, e oggi viene considerata eguale a quasi 10.000 parsecs.

Le ricerche del Kapteyn e quelle del Seares si riferiscono a tutte le stelle in blocco; in esse si tiene cioè conto della distribuzione apparente delle stelle solo in relazione alla loro grandezza apparente e non ad altre caratteristiche, come ad es. il tipo spettrale. Ma risultati del più alto interesse si possono anche ottenere considerando invece la distribuzione di classi speciali di oggetti celesti, specialmente se queste classi contengono oggetti assai luminosi e quindi visibili anche a grandissime distanze.

In tal modo invece di ottenere il quadro completo della struttura del Sistema stellare, si potrà averne solo, per così dire, l'ossatura, come se, volendo avere un'idea dello schieramento di un esercito, anziché esaminare come sono dislocati i singoli gregarî, ci si limitasse a segnare sulla carta le posizioni degli ufficiali o dei vari comandi. Se poi, come spesso accade, i singoli oggetti della classe considerata hanno tutti press'a poco lo stesso splendore assoluto, il problema si semplifica enormemente e non è necessario trattarlo con metodi statistici complicati. Infatti la relazione tra la grandezza assoluta M di una stella, la grandezza apparente m e la sua distanza r, in parsecs, dal Sole, è (v. stelle, n. 6)

Se ora entro una classe di oggetti si può ammettere che M abbia lo stesso valore per tutti i membri, una volta conosciuto questo valore, la distanza r di ogni individuo della classe dipende solo da m e in questo caso le misure fotometriche sono altrettante misure di distanze.

Il metodo può essere utilizzato statisticamente con enorme vantaggio per tutte quelle stelle per cui oltre alla grandezza apparente si conosce lo spettro, in modo da poter stabilire se esse appartengono al gruppo delle stelle giganti, o delle stelle nane del tipo spettrale di cui fanno parte (v. stelle, n. 19). In quest'ordine di idee l'applicazione del metodo spettroscopico per la determinazione della distanza delle stelle dà i frutti migliori per le indagini sulla struttura dell'Universo. L'inconveniente che solo le stelle relativamente brillanti si possono studiare spettroscopicamente (anche col prisma obiettivo riesce difficile ottenere spettri di stelle meno luminose della 14ma grandezza) è grandemente compensato dalla possibilità di scegliere in tal modo solo stelle giganti, che sono visibili a distanze enormi.

Charlier, già nel 1916 e poi nel 1926, aveva studiato la distribuzione spaziale delle stelle ad elio, più brillanti dell'8ª grandezza; ma anche in queste ricerche appare solo l'aspetto d'insieme del sistema. Invece particolarità strutturali di grande importanza furono messe in evidenza da A. Pannekoek nei suoi studi sulle stelle A, B e K, comparsi nel 1929.

Questo autore già in importanti lavori del 1924 aveva cercato di mettere in evidenza le irregolarità della distribuzione spaziale delle stelle. Il metodo da lui adoperato per le stelle A, B e K è veramente elementare: le stelle, per le quali si può ammettere M costante, sono contate entro successivi intervalli di grandezza apparente (e quindi di distanza) in aree eguali del cielo. Lo spazio risulta così diviso in tante celle, in ognuna delle quali si trova un numero noto di stelle. Con questo procedimento, in cui poco o nulla viene supposto sopra le funzioni statistiche, non vengono distrutte o snaturate le importantissime peculiarità della struttura del gruppo di stelle studiate.

Nei lavori del Pannekoek le stelle B non appaiono più costituire un sistema attorno al Sole, ma un certo numero di gruppi, ciascuno dei quali è un'unità quasi indipendente nel più grande Sistema. Sebbene oggi si tenda verso una concezione più unitaria del Sistema stellare, pure è innegabile che in esso esistono condensazioni stellari, quali quelle messe in evidenza dai lavori del Pannekoek.

Ma il passo decisivo verso le concezioni attuali sulla forma e sulle dimensioni del Sistema galattico fu fatto in seguito alle fondamentali ricerche di H. Shapley sulla distribuzione degli ammassi globulari.

Questi oggetti celesti sono poco numerosi; attualmente se ne conoscono circa un centinaio e probabilmente questo è con molta approssimazione il loro numero totale. Per lo studio della loro distribuzione nello spazio non si possono applicare quindi i metodi statistici, ma i singoli ammassi debbono essere studiati individualmente. Fortunatamente la scoperta di numerose variabili di tipo cefeide (v. stelle, n. 24) negli ammassi globulari ha permesso di determinare con sufficiente precisione la distanza dei più vicini e di constatare che questi oggetti non solo sono apparentemente assai simili gli uni agli altri, ma hanno effettivamente dimensioni e luminosità press'a poco eguali. In base a questa osservazione si è potuta valutare con buona approssimazione la distanza e quindi la posizione nello spazio di tutti gli ammassi globulari conosciuti.

Lo Shapley trovò che gli ammassi globulari si distribuiscono entro un volume di forma grossolanamente sferica. Il Sole si trova quasi alla periferia del sistema formato dagli ammassi globulari, il che spiega come questi si trovino distribuiti quasi esclusivamente sopra un emisfero celeste. Il centro del sistema risulta a una distanza di 16.700 parsecs nella direzione di longitudine galattica 325° e nel piano galattico. Le dimensioni del sistema sarebbero di circa 70.000 parsecs, cioè enormemente maggiori delle dimensioni assegnate all'Universo galattico dalle ricerche statistiche finora ricordate (fig. 2). Tuttavia Shapley non esitò ad affermare che il sistema degli ammassi globulari costituisce l'ossatura del grande Sistema galattico, definito dalle nubi della Via Lattea, entro il quale l'insieme delle stelle studiate dal Kapteyn dovrebbe formare un agglomerato locale. Ciò è reso assai probabile dal fatto che la direzione del centro degli ammassi globulari è assai prossima a quella del centro del sistema delle stelle più deboli studiate dal Seares e che in questa direzione (che corrisponde alla costellazione del Sagittario) la Via Lattea, malgrado la presenza di molte nebulose oscure, raggiunge la sua massima larghezza e il suo massimo splendore (v. fig. 3).

Si vedrà più avanti che le dimensioni valutate dallo Shapley sono state in seguito assai ridotte tenendo conto dell'assorbimento della luce nello spazio. Però, in un primo tempo, l'estensione del Sistema parve enorme in confronto a quella che si attribuiva alle nebulose estragalattiche, le quali sono certamente veri e proprî sistemi stellari situati a distanze enormi. Da ciò lo Shapley fu tratto a proporre la sua ipotesi supergalattica, secondo la quale il grande Sistema della Via Lattea sarebbe analogo non a una nebulosa, ma a un ammasso di nebulose, ognuna simile a quelle estragalattiche. I varî membri dell'ammasso sarebbero il sistema locale e le nubi stellari della Via Lattea. Questa ipotesi è stata peraltro oggi abbandonata per una teoria più unitaria del Sistema galattico, in seguito alla revisione dei dati dimensionali. Ma per vedere come si è giunti all'attuale concezione del Sistema stellare, occorre prima esaminare il lato dinamico del problema strutturale.

3. Il problema dinamico. Rotazione della Via Lattea. - Il problema dinamico si propone la determinazione del regime di moto del Sistema stellare. Evidentemente la risoluzione del problema esigerebbe la conoscenza completa del moto spaziale di ogni singola stella, ma è anche evidente che una simile trattazione del problema è impossibile. Fino da principio si ritenne perciò necessario di servirsi di metodi statistici.

La funzione di frequenza, la cui conoscenza risolve in questo caso il problema, è la funzione di velocità.

Il problema meccanico è analogo a quello che si presenta nella teoria cinetica dei gas; le stelle della Via Lattea equivalgono alle molecole gassose, come immaginò per primo lord Kelvin. La differenza fondamentale, che distingue il caso stellare da quello della teoria cinetica dei gas, consiste nella estrema rarefazione delle stelle entro il Sistema. Infatti le distanze che separano le stelle sono così grandi rispetto alle dimensioni e alle velocità stellari, che si può calcolare che una stella passa in media a una distanza da un'altra minore o eguale all'orbita di Plutone una volta ogni 100 miliardi di anni (1011 anni). L'effetto delle collisioni, che ha tanta importanza nella teoria cinetica dei gas, è perciò trascurabile nel caso stellare.

Già Herschel aveva intuito che la forma schiacciata del Sistema della Via Lattea si poteva paragonare con le forme di equilibrio di un fluido rotante. H. Gyldén (1871) cercò di determinare le leggi dei moti stellari nell'ipotesi che le stelle ruotino attorno a un centro dinamico come i pianeti intorno al Sole. E H. Poincaré, nel 1885, dimostrò che se un fluido rotante deve rimanere in equilibrio sotto l'azione contrastante delle forze centrifughe e della mutua azione gravitazionale delle sue varie parti, la sua velocità angolare non può superare un certo limite, che varia con la densità media del fluido. Poiché questa è assai piccola nel Sistema stellare, deve essere piccola anche la velocità angolare e Poincaré ne dedusse che il periodo di rotazione del Sistema doveva superare i 10 milioni di anni. Tuttavia, tentativi effettuati per mettere in evidenza dai moti proprî delle stelle l'esistenza di un moto rotatorio del Sistema condussero a risultati incerti e contraddittorî e solo assai recentemente il fenomeno della rotazione della Via Lattea fu accertato in base alle sue conseguenze.

I primi investigatori supposero concordemente che i moti stellari fossero ripartiti a caso. Si deve a H. Kobold, e soprattutto al Kapteyn, la scoperta fondamentale che nel Sistema galattico i moti individuali delle stelle rivelano invece l'esistenza di una direzione privilegiata che giace nel piano galattico.

In che cosa consista il fenomeno in questione, si può spiegare facilmente con una rappresentazione geometrica. Consideriamo una certa area del cielo e supponiamo di formare un diagramma nel modo seguente: a partire da un'origine arbitraria si tracci un segmento orientato di lunghezza pari al numero delle stelle di quell'area il cui moto proprio si trova nella direzione del segmento stesso. È evidente che, se i moti stellari sono ripartiti a caso, il numero delle stelle che si muovono nelle varie direzioni è sempre lo stesso; quindi la lunghezza di tuttì i segmenti che si possono tracciare non dipende dalla direzione. Gli estremi di questi segmenti giaceranno perciò sopra una circonferenza col centro nell'origine. Questo, naturalmente, se il Sole fosse immobile, ríspetto alla media delle stelle considerate. Se invece, come avviene effettivamente, il Sole si muove rispetto alle stelle, gli estremi di questi segmenti si troveranno sopra una curva allungata nel senso contrario a quello del moto solare, poiché vi saranno più stelle che si muovono apparentemente nella direzione contraria a quella del moto solare, che non nella sua direzione. Costruendo i diagrammi per varie regioni del cielo, nella maggior parte dei casi le curve che si trovano sono invece fortemente allungate in due direzioni, nessuna delle quali coincide col moto solare. Questi allungamenti rivelano che nei moti delle stelle esistono delle direzioni preferenziali. Diagrammi abbastanza simili a quelli osservati si possono ricavare teoricamente, supponendo di trovarsi in presenza di due gruppi di stelle, in ciascuno dei quali i moti sono ripartiti a caso, ma dotato ognuno di un certo moto d'assieme relativo al Sole. In questo caso, se il fenomeno è generale, le direzioni preferenziali delle varie aree devono essere tali che disposte sopra un globo celeste convergano in due punti. Questo è ciò che effettivamente si osserva; i due punti in questione si trovano a circa 100° di distanza l'uno dall'altro.

Secondo le osservazioni le stelle sembrano divise in due correnti compenetrantisi che si muovono relativamente al Sole secondo due direzioni formanti tra loro un angolo di circa 100°. Il moto del Sole rispetto al sistema di tutte le stelle è la media di quello relativo ad ognuna delle due correnti. Se però noi prescindiamo dal Sole e consideriamo solo il moto di una corrente rispetto all'altra vediamo che questo avviene lungo una certa direzione, che individua un asse fondamentale per la distribuzione dei moti stellari. Questo asse determina sulla sfera celeste due punti diametralmente opposti, detti vertici, che giacciono press'a poco sull'equatore galattico e uno dei quali si trova nella costellazione del Sagittario.

Questo è il punto di vista adottato nella teoria della doppia corrente del Kapteyn. Esiste però un'altra interpretazione del moto preferenziale, dovuta a K. Schwarzschild, la quale evita la separazione piuttosto artificiale delle stelle in due gruppi. Secondo questa teoria, detta ipotesi ellissoidale, le stelle sono ancora considerate nel loro insieme e la direzione preferenziale del moto è indicata come una direzione lungo la quale le stelle tendono a muoversi con maggiore frequenza.

La differenza tra le due ipotesi può essere spiegata chiaramente così: supponiamo di riunire in un dato istante tutte le stelle che occupano una certa regione dello spazio in un punto e di lasciarle poi libere di muoversi ciascuna col suo moto individuale. Dopo qualche tempo l'insieme di queste stelle formerà una specie di ammasso in cui le stelle che si muovono più rapidamente saranno giunte a distanze più grandi. Questo ammasso risulterà allungato nel senso della direzione preferenziale, poiché lungo questa direzione dovrà muoversi il maggior numero delle stelle. Secondo l'ipotesi della doppia corrente questo ammasso è descritto come la sovrapposizione di due ammassi sferici, con i centri disposti lungo la direzione preferenziale. Secondo l'ipotesi ellissoidale, invece, l'ammasso è considerato un tutto unico, di forma oblunga, in cui le superficie sulle quali la densità stellare è costante sono degli ellissoidi con gli assi maggiori nella direzione dei vertici.

In sostanza le due ipotesi non sono che due modi diversi di descrivere lo stesso fenomeno, ognuno dei quali presenta i suoi vantaggi. In generale, però, negli sviluppi statistici si dà la preferenza all'ipotesi ellissoidale.

Dalle velocità radiali il moto preferenziale viene messo in evidenza in modo perfettamente analogo a quanto accade per i moti proprî e individua press'a poco la stessa direzione dei vertici.

In questo caso la funzione di velocità proviene in modo quasi diretto dai dati di osservazione, poiché le velocità radiali non richiedono la conoscenza delle distanze stellari.

È bene ricordare che oltre al fenomeno generale del moto preferenziale esistono correnti speciali di stelle alle quali partecipa un numero limitato di stelle, fisicamente connesse, che si muovono parallelamente nello spazio, formando come degli sciami che attraversano il corpo generale del Sistema. Queste correnti si chiamano ammassi in moto; i più noti sono l'ammasso delle Iadi, quello dello Scorpione-Centauro, quello dell'Orsa Maggiore, cui partecipano stelle che si trovano in regioni del cielo assai distanti tra loro, ecc.

Varî tentativi per interpretare il fenomeno del moto preferenziale dal punto di vista dinamico, sono stati fatti da A. S. Eddington e soprattutto dal Kapteyn e J. H. Jeans. Il Kapteyn, partendo dal principio che il Sistema stellare debba trovarsi in equilibrio sotto l'azione gravitazionale del complesso, trova che è necessario ammettere un moto di rotazione. Assumendo per la distribuzione delle masse quella da lui trovata nella risoluzione del problema statico, il Kapteyn spiega il fenomeno della doppia corrente mediante due moti rotatorî eguali e opposti, con la velocità di circa 20 km./sec. ognuno, sicché la velocità relativa sarebbe di circa 40 km./sec., in accordo con le osservazioni. Il centro del moto dovrebbe trovarsi in una direzione perpendicolare a quella del vertice, a una distanza dal Sole di circa 650-700 parsecs. Jeans ha dato alla medesima teoria un'elegante trattazione matematica, giungendo agli stessi risultati del Kapteyn. È da osservare però che l'ipotesi di Kapteyn di due moti rotatorî eguali e opposti lascia in sostanza in quiete il Sistema nel suo complesso.

Ma con l'aumentare dei dati di osservazione, soprattutto delle velocità radiali delle stelle, divenne presto evidente che la distribuzione generale dei moti stellari non si poteva rappresentare con un'unica distribuzione ellissoidale, o con l'ipotesi di solo due o tre correnti stellari. La ragione principale di ciò sta nel fatto che le velocità stellari mostrano una notevole asimmetria, scoperta da B. Boss e successivamente studiata in modo particolare da G. Strömberg e J. H. Oort. Boss, studiando i moti delle stelle che possiedono grandi velocità, si accorse del fatto che esse non si muovono indifferentemente in tutte le direzioni, ma, nella massima parte, sono dirette verso punti situati in una sola metà della sfera celeste. Successivamente Strömberg poteva dimostrare che l'asimmetria dei moti è una proprietà del tutto generale.

Vediamo in che cosa consista questo fenomeno che ha un'importanza fondamentale per le vedute attuali sul regime dinamico del Sistema stellare. Consideriamo un certo gruppo di stelle, per es. le variabili a lungo periodo; per esse si può calcolare il moto medio del gruppo rispetto al Sole e lo scostamento medio (dispersione) dei moti individuali delle stelle che compongono il gruppo rispetto ad esso. Il fenomeno dell'asimmetria consiste nel fatto che i moti di tutti i gruppi che si possono formare sono diretti verso una regione limitata del cielo, il cui centro si trova nella costellazione Carina. Si trova inoltre che esiste una stretta correlazione tra la grandezza del moto di tutto il gruppo e quella dello scostamento medio: l'uno cresce al crescere dell'altro. Se poi si fissa uno dei varî gruppi possibili e si riferisce ad esso il moto dei rimanenti, si nota che questi moti relativi sono tutti diretti verso una stessa direzione, che si trova all'incirca nel piano galattico, a 90° dalla direzione del centro individuato dalla distribuzione degli ammassi globulari (fig. 4).

Per interpretare questi fatti scoperti empiricamente dallo Strömberg, B. Lindblad ha immaginato la teoria generale della rotazione del Sistema galattico, che è la base teorica di tutte le conoscenze attuali sulla struttura del Sistema stellare. Secondo Lindblad, noi dobbiamo figurarci il Sistema stellare formalmente diviso in un numero molto grande di sottosistemi; questi, però, non vanno pensati separati l'uno dall'altro (come, ad es., le nubi galattiche o i singoli ammassi) ma mutuamente compenetrantisi e dotati ognuno di una forma sferoidale con lo stesso asse e lo stesso piano di simmetria (il piano galattico): A ognuno di essi spetta una diversa velocità di rotazione rispetto al comune asse di simmetria e quindi un diverso schiacciamento. Da teoremi generali di meccanica statistica (e precisamente dal teorema del viriale di R. Clausius) risulta che quanto maggiore è la velocità di rotazione di un sottosistema, tanto più piccola deve essere la dispersione interna delle velocità dei suoi membri.

Ciò premesso, i fatti osservati si spiegano nel modo più semplice e completo possibile, ammettendo che il Sole appartenga a uno dei sottosistemi che possiedono la massima velocità di rotazione. Evidentemente in questo caso la grande maggioranza dei sottosistemi verrà lasciata indietro dal Sole nel suo moto di rotazione e quindi le velocità di gruppo, che vanno considerate come le differenze tra la velocità di rotazione del Sole e quelle dei varî sottosistemi, saranno tutte rivolte nella medesima direzione, che risulterà nel piano galattico e normale alla direzione del centro. Quest'ultimo viene così fissato nella costellazione del Sagittario, in perfetto accordo con i risultati conseguiti nello studio della distribuzione delle stelle nello spazio. Inoltre il sottosistema che possiede la minima velocità di rotazione (e quindi la massima velocità di gruppo relativa al Sole) avrà anche la massima dispersione delle velocità individuali, conformemente ai risultati dello Strömberg. Questo gruppo risulta formato dagli ammassi globulari che, anche per la distribuzione spaziale di questi, che denota una concentrazione galattica assai piccola, può ritenersi sensibilmente privo di moto rotatorio. La velocità del Sole rispetto al sistema degli ammassi globulari, 275 km./sec., coincide quindi con la velocità rotazionale del Sole nel piano galattico. Questo valore è confermato dall'osservazione delle nebulose estragalattiche, che, essendo esterne al Sistema stellare, non partecipano del moto di rotazione.

Quanto al fenomeno dell'esistenza di una direzione preferenziale dei moti, entro ogni singolo sottosistema, questo è spiegato dalla teoria col fatto che le stelle tendono a muoversi con maggiore frequenza nella direzione radiale, che non parallelamente al moto di rotazione. Secondo la teoria, poi, la dispersione osservata delle velocità nei diversi gruppi richiede per il Sole una distanza dal centro di rotazione pari a 0,77 volte il raggio effettivo di tutto il Sistema. Questo risultato si accorda con quello ricavato dalla distribuzione degli ammassi globulari, per mostrare come il Sole occupi nell'Universo galattico una posizione molto eccentrica. Inoltre la velocità del Sole è assai vicina alla cosiddetta velocità di fuga, cioè alla velocità limite oltre la quale una stella non può essere trattenuta dall'azione gravitazionale del Sistema. Per tale ragione non vi potranno essere stelle le quali abbiano grandi velocità relative al Sole e dirette nel senso del moto di rotazione del Sistema (verso la costellazione di Cefeo); ma tutte le grandi velocità stellari dovranno essere rivolte verso la regione opposta del cielo. Le osservazioni, come già è stato detto, non solo confermano questo fatto, ma permettono anche di determinare la grandezza della velocità di fuga e quindi l'intensità dell'azione gravitazionale in prossimità del Sole.

Si vede facilmente che la velocità angolare del Sistema deve variare con la distanza dall'asse di rotazione. Infatti questa velocità sarebbe costante se la distribuzione delle masse entro il Sistema fosse uniforme, mentre invece noi sappiamo che la densità decresce verso l'esterno. Se viceversa l'enorme maggioranza delle masse fosse concentrata in prossimità del centro, allora la legge del moto dovrebbe essere analoga a quella che vige nel sistema solare, dove il quadrato della velocità angolare è inversamente proporzionale al cubo della distanza dal Sole. È ovvio che nel Sistema stellare dovrà verificarsi un regime di moto intermedio tra questi due casi estremi; comunque è assai probabile che la velocità angolare diminuisca con la distanza dall'asse di rotazione. Questa è stata la considerazione che ha condotto Oort alla scoperta della rotazione differenziale del Sistema galattico.

Se infatti il Sole occupa una posizione molto eccentrica nel sistema stellare, un semplice ragionamento geometrico mostra che per effetto della rotazione differenziale del sistema (eliminata la componente del moto solare rispetto alle stelle più vicine) la velocità radiale media delle stelle situate alla distanza r dal Sole (purché non troppo grande rispetto alle dimensioni del sistema) deve dipendere dalla longitudine galattica L, secondo la legge:

dove A è una costante e L0 è la longitudine del centro. L'effetto della rotazione differenziale sui moti proprî delle stelle è analogamente espressa dalla legge:

dove μL è la componente rotazionale del moto proprio, parallela al piano galattico e B un'altra costante. Le costanti A e B sono legate alla velocità angolare ω del sistema nel punto occupato dal Sole, dalla semplice relazione AB = ω.

La teoria della rotazione differenziale è stata applicata da Oort e da numerosi altri autori ai gruppi più diversi di oggetti celesti, ottenendo sempre una brillante conferma. I valori dedotti della longitudine del centro sono in perfetto accordo con quelli ricavati per altre vie e permettono di fissare definitivamente la direzione del centro dell'Universo stellare a 325° di longitudine galattica. La teoria permette anche di calcolare la velocità angolare del Sistema in prossimità del Sole, che risulta di 0″,0062 all'anno e corrisponde a un periodo di rotazione di circa 200 milioni di anni. E siccome la velocità lineare di rotazione è di circa 275 km./sec., la distanza del Sole dal centro risulta di 9400 parsecs. Il raggio effettivo del Sistema viene quindi pari a circa 12.000 parsecs e la massa totale può essere valutata press'a poco a 160 miliardi di masse solari. Sebbene questo numero possa sembrare eccessivo, esso non è in aperta contraddizione con le valutazioni statistiche, secondo cui il numero totale delle stelle componenti il Sistema galattico è di circa 100 miliardi; tanto più se si considera che una parte notevole della massa totale può trovarsi sotto forma di materia cosmica e di nebulose oscure.

La conferma più brillante della teoria della rotazione differenziale è data dalla valutazione del suo effetto sulle nubi di calcio interstellare, a opera di B. P. Gerasimovič e O. Struve, e, poi, con materiale più vasto, di J. S. Plaskett e J. A. Pearce. Negli spettri di alcune stelle (tutte ad alta luminosità) compaiono alcune righe dovute al calcio ionizzato e al sodio, le quali, per molte ragioni, non possono essere originate nell'atmosfera stellare. Per conseguenza queste righe vengono attribuite all'assorbimento di uno strato gassoso di densità estremamente tenue che riempie gli spazî interstellari. Applicando a queste nubi interstellari le formule della rotazione differenziale, si trova per il coefficiente rA un valore che è esattamente la metà di quello ricavato dalle stelle negli spettri delle quali si osservano le righe interstellari. Ciò significa che la distanza media di queste nubi è la metà della distanza media delle stelle, il che non solo conferma che la densità delle nubi di calcio è sensibilmente uniforme, ma fornisce anche un validissimo sostegno alla teoria di Oort.

4. Stato attuale del problema della struttura dell'Universo galattico. Evoluzione del Sistema stellare. - Tra le dimensioni attribuite al Sistema galattico dalla teoria della rotazione e quelle ricavate dallo studio degli ammassi globulari esiste un'aperta contraddizione: infatti, la distanza dal Sole del centro geometrico degli ammassi globulari è di 16.700 parsecs, mentre quella del centro di rotazione è di 9400 parsecs. Questo disaccordo può essere tolto solo supponendo o che la teoria della rotazione galattica si riferisca solo a una parte del Sistema, e precisamente a quella più vicina al Sole, oppure che le dimensioni determinate con i metodi geometrici siano grandemente in eccesso. Quest'ultima sembra essere la vera spiegazione; e la causa dell'errore sistematico nella valutazione delle distanze è da ricercarsi in un forte assorbimento della luce nello spazio, del quale finora non si era potuto tenere conto. Basterebbe infatti ammettere che nella direzione del centro l'assorbimento ammontasse a due grandezze stellari ogni 1000 parsecs (valore non assurdo, poiché nella direzione del centro galattico le fotografie mostrano con evidenza estese nebulose oscure) per ottenere un accordo perfetto tra i risultati geometrici e quelli dinamici. Naturalmente non è detto che un assorbimento così intenso si debba verificare in tutte le direzioni, ma è ormai accertata l'esistenza di un generale assorbimento della luce nello spazio, prevalentemente attorno al piano galattico.

Il fenomeno dell'assorbimento della luce nello spazio è al momento attuale il problema forse più urgente e più importante dell'astronomia statistica, poiché dalla sua conoscenza dipendono in modo essenziale le nostre idee sulla struttura e sulle dimensioni dell'Universo stellare. Tacendo dei più antichi lavori sul fenomeno dell'assorbimento, i primi risultati conclusivi sembrano dovuti a C. Schalén e soprattutto a R. Trümpler.

Quest'ultimo, studiando le proprietà degli ammassi galattici o aperti, trovò che questi dovrebbero avere in media lo stesso diametro lineare; per conseguenza si può determinare la distanza di ognuno di essi, in base al diametro angolare osservato. Evidentemente questa valutazione della distanza non potrà essere alterata dall'assorbimento della luce. D'altra parte si trova che le stelle dei singoli ammassi soddisfano a una correlazione luminosità-colore simile a quella espressa dal diagramma di Russell (v. stelle, n. 19); quest'osservazione permette di ricavare la grandezza assoluta delle stelle degli ammassi e quindi la loro distanza. Se le grandezze apparenti non fossero alterate dall'assorbimento della luce nello spazio, le distanze trovate con i due metodi non dovrebbero differire sistematicamente tra loro. Si trova invece che tra le due valutazioni della distanza esiste una differenza pari a quella che si dovrebbe avere se nello spazio si verificasse un assorbimento generale di 0,67 grandezze per 1000 parsecs.

Il valore di 0,67 grandezze per 1000 parsecs, trovato da Trümpler per il coefficiente medio di assorbimento dallo studio degli ammassi aperti, è stato confermato come ordine di grandezza da altre ricerche successive. Lo studio della distribuzione delle nebulose estragalattiche mostra che queste si addensano ai poli della Via Lattea e vanno a mano a mano diradandosi verso l'equatore, questa distribuzione apparente fu spiegata molto bene da P. Van de Kamp, ammettendo che le nebulose siano in realtà distribuite uniformemente nello spazio, ma che la luce di quelle nebulose che si trovano in prossimità dell'equatore galattico sia assorbita dalla presenza di uno strato di materia oscurante piuttosto sottile e limitato al piano galattico. Sulla grandezza dell'assorbimento regna però ancora molta incertezza e molte ricerche saranno necessarie prima che il difficile problema possa considerarsi soddisfacentemente risolto.

Un'importante via per affrontare questo problema è quella di studiare l'assorbimento attraverso il suo effetto selettivo. Riesce difficile ammettere che l'assorbimento possa essere causato da materiale gassoso, poiché questo dovrebbe avere una densità, e quindi una massa totale, assurdamente grandi; perciò è molto plausibile l'ipotesi che l'assorbimento sia dovuto a nubi di particelle solide minutissime occupanti gli spazî interstellari. In tale caso la fisica insegna che si dovrà avere un effetto di diffusione simile a quello prodotto dal pulviscolo dell'atmosfera terrestre. Nel caso stellare questo avrà come conseguenza un fenomeno generale di arrossamento: le stelle più distanti dovranno apparire in media più rosse. Gli studî più importanti in questa direzione sono quelli compiuti con la cella fotoelettrica da J. Stebbins e C. M. Huffer, che hanno determinato il valore dell'assorbimento selettivo in varie direzioni nel piano galattico. Lo Schalén ha poi applicato alle particelle solide che producono l'assorbimento in certe nebulose oscure la teoria della diffusione di G. Mie, trovando che le particelle dovrebbero avere dei diametri compresi tra 75 e 90 μμ.

In conseguenza dell'assorbimento s'impone una revisione dei risultati sulla distribuzione delle stelle nello spazio, fondati sui conti di stelle di determinate grandezze apparenti. Il Seares ha mostrato che i suoi conti di stelle nelle aree scelte conducono a distribuzioni della densità spaziale molto diverse a seconda che vengono assunti differenti valori dell'assorbimento (fig. 5). Accettando un valore indipendente dalla direzione e pari a quello determinato da Trümpler, si trova che la densità spaziale nel piano galattico cresce in un primo tempo al crescere dalla distanza dal Sole, per diminuire in seguito. Siccome però questo aumento si dovrebbe logicamente attendere solo nella direzione del centro galattico, occorre ammettere che l'assorbimento varii con la longitudine galattica e abbia il suo massimo valore nella direzione del centro.

In ogni caso queste ricerche sul coefficiente di assorbimento conducono a diminuire l'importanza del Sistema locale, la cui esistenza come sistema, oggi, è addirittura messa in dubbio da qualche autore, mentre sempre maggiore importanza acquista la distribuzione generale della densità entro il Sistema galattico, la cui ossatura è molto probabilmente costituita dagli ammassi globulari e dalle stelle ad elio, e nel quale il Sole occupa una posizione molto eccentrica.

In conclusione le ricerche finora eseguite permettono di formarsi un quadro d'insieme abbastanza completo e probabilmente esatto delle principali caratteristiche strutturali dell'Universo galattico. Esso ci si presenta come un agglomerato di stelle e di materia nebulosa, di forma grossolanamente sferoidale e con fortissimo schiacciamento, il quale ruota intorno a un asse perpendicolare al piano galattico. In seno al grande Sistema esistono condensazioni stellari, la cui importanza è molto minore di quella della grande condensazione centrale, che ci viene nascosta dal forte assorbimento causato dalla materia interstellare, formante in questa direzione vere e proprie nebulose oscure, che determinano la nota divisione della Via Lattea in due rami. Il Sole si trova press'a poco nel piano equatoriale del Sistema, a una distanza di quasi 10.000 parsecs dal centro. L'estensione del Sistema nel suo piano equatoriale è di circa 25.000 parsecs, mentre la massa totale è dell'ordine di 160 miliardi di masse solari; lo spessore equivale press'a poco a 1/10 del diametro equatoriale.

Rimane naturalmente ancora una quantità grandissima di lavoro paziente d'indagine per precisare i varî dettagli di questo quadro, tra l'altro sarebbe interessante sapere se le condensazioni locali si distribuiscono, come è forse probabile, in modo da formare qualche cosa di simile alle braccia di una nebulosa a spirale. E ciò tanto maggiormente, in quanto negli ultimi tempi è diventata sempre più evidente l'analogia tra il Sistema galattico e i numerosi sistemi stellari esterni (nebulose estragalattiche), in cui la forma a spirale predomina. Fino a qualche tempo fa la principale difficoltà che si opponeva ad ammettere una stretta somiglianza tra nebulose a spirale e Universo galattico era nelle dimensioni attribuite alla Via Lattea, che erano molto maggiori di quella di ogni Sistema estragalattico. Così, per es., si riteneva che la nebulosa a spirale di Andromeda avesse un diametro di 12.000 parsecs, mentre Shapley attribuiva al Sistema galattico un diametro sette o otto volte maggiore. Anzi, abbiamo visto che, proprio per questa differenza dimensionale, egli era stato indotto a formulare la sua ipotesi supergalattica. Oggi però noi sappiamo che l'Universo stellare ha un diametro di 25.000 parsecs, mentre nuove ricerche dello Stebbins con la cella fotoelettrica hanno concluso per la nebulosa di Andromeda dimensioni circa due volte maggiori di quelle prima accettate. Così, anche l'obiezione dimensionale sembra scomparsa e appare assai probabile la conclusione che l'Universo galattico non sia altro che uno degli innumerevoli Sistemi stellari sparsi nello spazio.

Il quadro delle conoscenze attuali dell'Universo galattico non sarebbe completo senza almeno un breve cenno su quello che si ritiene il suo stato passato. È ovvio che ben poco si può dire con certezza su questo argomento; comunque sembra molto verosimile che il Sistema galattico si sia formato da una materia gassosa primitiva, che occupava in origine un volume assai maggiore di quello dell'Universo attuale. L'azione di cause diverse, tra cui forse non è estranea la viscosità del gas, ha determinato nella massa gassosa un regime di moto rotatorio. Il processo di formazione delle stelle è forse da ricercare in una rapida sublimazione del gas primitivo, che, secondo Eddington, avrebbe dovuto trovarsi a temperatura molto elevata, attorno a particelle solide necessariamente fredde. A causa della maggiore densità le stelle più pesanti si sarebbero formate in prevalenza in prossimità del centro, dove i moti delle particelle solide erano più lenti; invece le stelle più leggiere avrebbero dovuto formarsi più lontano dal centro, acquistando, in media, velocità maggiori. Lo stato generale del Sistema dovrebbe quindi simulare una equipartizione statistica dell'energia, senza che occorra ammettere per l'Universo un'etâ enormemente grande. Col trascorrere del tempo il moto rotatorio dovrebbe fare aumentare lo schiacciamento del Sistema, producendo nelle regioni periferiche equatoriali un regime di instabilità, nel quale va ricercata l'origine delle braccia spiraliformi, così diffuse tra i sistemi stellari estragalattici.

È molto probabile che il tempo necessario a questo processo evolutivo sia relativamente breve, contrariamente a quanto insegnava fino a pochi anni fa il Jeans. Però l'età dell'Universo stellare è assai difficile da stimare, anche perché il processo evolutivo descritto è probabilmente ancora in azione in qualche parte e quindi il Sistema stellare non è tutto ugualmente vecchio. La tendenza moderna è, però, di accorciare la scala del tempo rispetto alle stime più antiche, soprattutto a cagione dell'affermarsi tra gli astronomi della Teoria dell'espansione dell'Universo, di cui ci occuperemo più avanti. Una stima di 100 miliardi di anni per l'età dell'Universo, in luogo dei 10.000 miliardi finora generalmente accolti, appare oggi avere un grado ragionevole di attendibilità.

5. L'Universo metagalattico. Espansione dell'Universo. - La conclusione che la Via Lattea non sia altro che uno degli innumerevoli Sistemi stellari sparsi nello spazio conduce immediatamente al problema di determinare le relazioni di posizione e di moto tra essa e gli altri Sistemi consimili. Come abbiamo già detto, l'insieme di tutti i Sistemi stellari si suol chiamare Universo o Sistema metagalattico. Le difficoltà di determinarne le caratteristiche strutturali sono evidentemente immense, ed è ovvio a priori che ben poco potremo dire su esso.

I conti di nebulose di Seares e E. P. Hubble fanno ritenere che la densità spaziale delle nebulose sia sostanzialmente uniforme; ciò, naturalmente, senza pregiudizio della tendenza delle nebulose di formare dei grandi ammassi. Abbiamo già visto che la tendenza apparente delle nebulose a concentrarsi ai poli della Via Lattea si spiega oggi con l'assorbimento della luce nel Sistema galattico. Una caratteristica del Sistema metagalattico è il valore molto grande del rapporto tra le dimensioni dei singoli individui e le loro distanze. Mentre infatti nel Sistema galattico le stelle si trovano a distanze enormi rispetto alle loro dimensioni (la distanza media di due stelle è infatti circa 20 milioni di volte il diametro medio di una stella), le nebulose sono relativamente affollate a distanze che non superano qualche decina di volte le loro dimensioni.

Le dimensioni del Sistema metagalattico sembrano essere limitate soltanto dal potere di penetrazione dei nostri telescopî. Col grande riflettore del M. Wilson si possono fotografare circa 30 milioni di nebulose, che occupano un volume sferico del raggio di 150 milioni di parsecs.

Un problema molto interessante è quello del regime di moto nel Sistema metagalattico. A causa dell'enorme distanza delle nebulose, l'unica indicazione in questo senso proviene dalle velocità radiali, di cui un buon numero è stato misurato da E. G. Slipher a Flagstaff e poi da Hubble e M. L. Humason al M. Wilson. Tali velocità superano di gran lunga tutte le altre conosciute per qualsiasi oggetto celeste. Velocità dell'ordine di 3 o 4000 km./sec. sono tutt'altro che rare e sono state anche osservate velocità dell'ordine di 50.000 km./sec., un sesto della velocità della luce. Inoltre queste velocità sono tutte positive, cioè corrispondono a moti di allontanamento, come se tutte le nebulose (con eccezione solo di poche tra le più vicine) si allontanassero dalla Via Lattea.

Tra le velocità radiali e le distanze delle nebulose esiste una notevolissima relazione, scoperta da Hubble, per cui la velocità di allontanamento risulta press'a poco proporzionale alla distanza.

Questa correlazione è stata messa in evidenza sia direttamente, per le spirali più vicine, per le quali le distanze sono conosciute col metodo delle novae o delle cefeidi (v. nebulose), sia con metodi statistici, supponendo che lo splendore assoluto o il diametro siano, in media, gli stessi per tutte le nebulose; e si può oggi ritenere stabilita all'infuori di qualsiasi dubbio. Secondo Humason la distanza D espressa in milioni di parsecs, è legata alla velocità V, in km./sec., dalla relazione D = V/560. Data la grandezza eccezionale delle velocità osservate e la citata relazione, è stato messo in dubbio se queste velocità siano reali. Effettivamente ciò che si osserva è un fortissimo spostamento delle righe spettrali verso il rosso; se poi questo spostamento sia dovuto a un effetto Doppler, causato dal moto della nebulosa, o ad altre cause fisiche, a priori non si può affermare. Oggi, però, l'opinione prevalente degli astronomi è di trovarsi in presenza di reali velocità di fuga.

Sorge ora il problema dinamico di trovare la ragione di questa fuga generale delle nebulose. Da un punto di vista puramente cinematico questo fenomeno corrisponde a un'espansione o progressiva rarefazione del Sistema metagalattico, nel senso che la distanza tra due individui qualunque del Sistema va continuamente crescendo e la velocità è tale da alterare il carattere del Sistema in un tempo relativamente breve.

Dal punto di vista della meccanica classica, quanto si osserva attualmente corrisponde a ciò che si avrebbe se in origine tutti i membri del sistema si fossero trovati riuniti in un unico punto. Se nessuna azione gravitazionale fosse intervenuta, dopo un certo tempo i varî corpi del sistema avrebbero dovuto necessariamente allontanarsi l'uno dall'altro e, a un dato istante, i più veloci si dovrebbero trovare alle maggiori distanze dal centro. Un osservatore situato su un membro qualunque del sistema (anche non al centro) dovrebbe osservare una relazione velocità-distanza simile a quella che si constata tra le nebulose. Questo è più o meno il concetto della teoria cinematica di E. A. Milne sul moto delle nebulose estragalattiche. A parte il carattere artificioso di questa teoria, si può notare che, trascurando l'azione gravitazionale, è necessario ammettere che il moto delle nebulose sia uniforme. In tal caso le osservazioni delle velocità radiali conducono alla conclusione che 2 miliardi di anni fa tutte le nebulose dovevano essere concentrate in un unico punto e che questa, perciò, dovrebbe essere l'età del sistema metagalattico. Tempo troppo breve, invero, se si pensa che la stessa età viene attribuita alla crosta terrestre dallo studio delle sostanze radioattive! Si potrebbe sfuggire a questa difficoltà ammettendo l'esistenza di azioni gravitazionali. Ma, in tal caso, è stato riconosciuto che questa teoria rientra nella teoria relativistica generale dell'espansione dell'Universo.

Oggi l'opinione più diffusa fra gli astronomi è che la ragione del moto di allontanamento delle nebulose estragalattiche sia da ricercarsi nelle equazioni fondamentali della teoria della relatività. Due soluzioni generali di queste equazioni erano conosciute fino dal 1917; entrambe presuppongono che lo spazio abbia delle proprietà analoghe a quelle di una superficie sferica, la cui estensione è finita, sebbene debba evidentemente considerarsi illimitata. Come le dimensioni della superficie sferica si possono rappresentare mediante il raggio, così quelle dello spazio finito e illimitato della teoria della relatività si possono rappresentare mediante una grandezza chiamata il raggio dello spazio. Una delle due soluzioni, dovuta ad A. Einstein, conduce a un Universo contenente della materia, distribuita uniformemente; nell'Universo di Einstein, però, non esistono moti sistematici della materia: esso è perfettamente in equilibrio. La seconda soluzione, dovuta a W. De Sitter, conduce invece ad un Universo vuoto di materia; ma se in esso introduciamo una particella e un osservatore, questo dovrà osservare che la particella si allontana da lui con una velocità crescente con la distanza. Nell'Universo di De Sitter si ha quindi un moto sistematico della materia analogo a quello osservato nell'Universo metagalattico. Però si può constatare che né l'una né l'altra soluzione sono buone approssimazioni per l'Universo reale: infatti l'Universo di Einstein contiene materia, ma non spiega l'allontanamento delle nebulose estragalattiche; l'Universo di De Sitter spiegherebbe questo allontanamento, ma la densità dell'Universo reale, per quanto piccola, è sempre eccessiva rispetto all'ipotesi di un Universo vuoto.

Per molto tempo si ritenne che queste due soluzioni fossero uniche; ed esse sono effettivamente le sole soluzioni statiche delle equazioni gravitazionali. Ma se si ammette la possibilità di soluzioni dinamiche, in cui cioè il raggio dello spazio varii col tempo, si vede che c'è un'infinità di soluzioni possibili. Ognuna di queste conduce a un Universo in certo qual modo intermedio tra quello di Einstein e quello di De Sitter, nel senso che gl'infiniti Universi dinamici contengono materia, e questa, inoltre, possiede moti sistematici. Mancano attualmente dati sufficienti per poter scegliere tra l'infinità di soluzioni dinamiche possibili; se però si accetta l'ipotesi di G. Lemaître, che l'Universo reale corrisponda a una soluzione in cui il raggio dello spazio cresce col tempo, il moto delle nebulose riceve un'interpretazione assai semplice. In questo caso lo spazio è analogo alla superficie di un pallone sferico che si vada gonfiando. Se noi supponiamo che sulla superficie del pallone siano tracciati dei segni, si capisce che le distanze mutue di questi, misurate sulla superficie, vanno crescendo con velocità proporzionale alla loro grandezza. Lo stesso accadrebbe, secondo la teoria dell'espansione dell'Universo, per le nebulose. Può essere interessante notare che se lo spazio fosse realmente curvo, dovrebbe essere possibile valutarne la curvatura attraverso conti di nebulose. Non sembra che i telescopî attuali permettano di penetrare nello spazio a distanza sufficiente per tale scopo; ma vi è la speranza che il nuovo telescopio americano con specchio di cinque metri di diametro possa efficacemente contribuire anche alla soluzione di questo problema.

Bibl.: S. Newcomb-R. Engelmann, Populäre Astronomie, 7ª ediz., Lipsia 1922; W. W. Campbell, Stellar motions, New Haven 1913; A. S. Eddington, Stellar movements, Londra 1914; H. N. Russell, R. S. Dugan, J. Q. Stewart, Astronomy, Boston 1927; J. H. Jeans, Astronomy and Cosmogony, Cambridge 1928; H. Shapley, Star Clusters, New York 1930; B. Lindblad, Die Milchstrasse, in Handb. d. Aph., V, ii, Berlino 1933: E. e B. Strömgren, Lehrbuch der Astronomie, ivi 1933; A. S. Eddington, The expanding Universe, Cambridge 1933; E. F. Freundlich, in Zur Erforschung des Weltalls, Berlino 1934; G. Armellini, Trattato di Astronomia siderale, III, Bologna 1936. - Inoltre, cfr. anche i lavori originali di Kapteyn, Charlier, Pannekoek, Seares, Strömberg, Lindblad, Schalén, Trümpler, De Sitter, ecc.

Filosofia.

Il termine "universo" è usato talora come sinonimo di mondo o cosmo, più spesso a indicare la totalità dell'esistenza fisica, di cui i sistemi cosmici sono parte. Già per Anassimandro i cosmi o cieli sono tutti abbracciati dall'infinità del principio universale generatore; l'atomismo poi si fa tipico assertore dell'idea di un numero infinito di mondi, generantisi nell'infinità degli spazî e dei tempi dall'infinità degli atomi in moto incessante. Ma Platone e Aristotele vi contrappongono l'unicità del mondo chiuso tutto nella sfera celeste, oltre il cui limite esistono per l'uno solo le realtà ideali esterne, per l'altro Dio, pensiero puro. Questa limitazione della realtà naturale prevale poi sopra la concezione stoica, che dal cosmo (tutto) distingue l'universo comprendente anche l'infinito vuoto circostante; e sopra l'epicurea, che afferma la summa vis infinitatis, attuante in ogni istante nell'infinità dell'universo tutte le infinite possibilità che si svolgono anche nell'infinita serie dei tempi. Il neoplatonismo fuori della sfera celeste ammette solo l'empireo, il cui concetto trasmette al pensiero medievale (cfr. Dante) con quello della limitazione del mondo. Contro questa il Rinascimento, specie con G. Bruno, rivendica l'infinità dell'universo popolato di mondi infiniti; il cui concetto diventa poi patrimonio comune del pensiero moderno (Cartesio, Pascal, ecc.), e domina fin tutto il sec. XIX, ed è usato ancora da S. Arrhenius nella discussione degli effetti della gravitazione.

Bibl.: A. Rey, La théorie de la phys. chez les physiciens contemp., Parigi 1907; id., Le retour éternel, ivi 1927; S. Arrhenius, L'évolut. des mondes, Parigi 1910; H. Poincaré, Leçons sur les hypothèses cosmog., ivi 1911; E. Belot, Essai de cosmog. tourbillonn., ivi 1911; id., L'origine dualiste des mondes, ivi 1924; P. Duhem, Le système du monde de Platon à Copernic, voll. 5, ivi 1913-17; J. Jeans, L'univers, ivi 1930; id., I nuovi orizzonti della scienza, Firenze 1934; J. Sageret, Le système du monde de Pythagore à Eddington, Parigi 1931; A. S. Eddington, L'universo in espansione, trd. it., Bologna 1934; id., Luci dall'infinito, trad. it., Milano 1934; id., La natura del mondo fisico, trad. ital., Bari 1935.

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