TRIBUNO della Plebe

Enciclopedia Italiana (1937)

TRIBUNO della Plebe Tribunus plebeius o plebi con la forma arcaica del genitivo, o, anche, con la forma più recente, plebis; in greco ϑήμαρχοι per l'equazione approssimativa fra plebs e δήμος)

Gaetano De Sanctis

Le origini. - Quale che fosse la sua origine, nel sec. V a. C. la plebe romana faceva parte del comune di Roma in condizioni d'inferiorità anche nel campo politico rispetto ai patrizî, essendo priva dello ius honorum. Essa allora si ordinò, per proteggersi contro il predominio dei patrizî, a stato entro lo stato con propri magistrati e proprie assemblee. Il fondamento di tale organizzazione fu posto, secondo le nostre fonti, nel 494 mercé la prima secessione per effetto della quale sarebbero stati eletti i primi tribuni della plebe. Ora si potrà dubitare della data precisa e dei particolari con cui la secessione viene narrata. Ma non pare dubbio che il declinare della monarchia e il prepotere del patriziato che ne fu l'effetto insieme e la causa, indussero la plebe ad organizzarsi per la tutela dei proprî interessi e che questa organizzazione autonoma presuppone un atto o una serie di atti compiuti dalla plebe riunitasi per proprio conto con esclusione dei patrizî, cioè una o più secessioni.

I capi annui che si diede la plebe, secondo la tradizione dal 494, portavano il nome di tribuni. Questo nome viene spiegato dagli antichi e dalla maggior parte dei moderni con riferimento ai tribuni militum, la secessione avendo avuto carattere almeno in prevalenza militare. Sta invece il fatto che i tribuni della plebe in età storica essendo eletti nelle assemblee della plebe ordinate per tribù e presiedendo normalmente queste assemblee da cui facevano votare i plebisciti, non possono avere il loro nome se non direttamente dalle tribù con cui erano in costante relazione, cioè dalle tribù cosiddette serviane. Ognuno vede quanto sarebbe strano che, avendo essi un nome derivato da tribù prive di qualsiasi relazione con le tribù serviane, si trovassero poi casualmente in una così stretta relazione con esse da essere, per così dire, di queste l'emanazione e la rappresentanza. Non sembra ammissibile il collegamento stabilito da E. Meyer e G. Beloch fra i tribuni anziché con le tribù così dette urbane dell'ordinamento serviano. Rimane dunque che i tribuni non hanno potuto prender nome se non dalle tribù rustiche.

Questo ci mette anche sulla via di spiegare il loro numero e la natura stessa di una così singolare magistratura. I tribuni in età storica erano 10. La tradizione concorde ce li mostra in tale numero già almeno fino dalla restaurazione del tribunato dopo i decemviri, anzi di regola già qualche tempo prima. Ma questo numero non aveva molte analogie tra le magistrature romane. Di analogie antiche in Roma non si saprebbero citare che gli oscuri iudices decemviri, anch'essi plebei, e la magistratura straordinaria dei decemviri legibus scribundis. Il numero di dieci non sembra avere nessun addentellato con le istituzioni romane. È infatti non tradizione ma congettura antica destituita di qualsiasi valore, che essi fossero eletti in numero di 2 per ciascuna delle 5 classi serviane. Non v'è la più piccola traccia di relazioni fra i tribuni e le classi, e meno che mai di disparità nel censo fra i candidati al tribunato della plebe. Le notizie contraddittorie delle fonti si eliminano a vicenda e sembrano dimostrare che gli antichi non possedevano una vera tradizione né sul numero originario dei tribuni né sul significato del numero di 10 che essi avevano in età storica. Vari moderni ritengono che il numero originario fosse di 2, fondandosi non tanto sulla tradizione vaga e oscillante, quanto sulla congettura che la plebe ordinandosi a stato entro lo stato prendesse per modello lo stato stesso e nel numero dei suoi capi imitasse quello dei consoli come nella costruzione giuridica della intercessio tribunizia il modello della intercessio del console rispetto al collega. Ma questa tesi disconosce la differenza profonda tra la intercessio tribunizia e la consolare, e inoltre presuppone originaria nella repubblica romana la collegialità di due magistrati supremi, il che invece in forme diverse è oggi messo assai in dubbio. È difficile ad ogni modo negare che il numero di 10 dei tribuni, originario o no, come quello dei decemviri, è in Roma assolutamente artificiale; e, poiché quel numero ha riscontro in Grecia e in particolare negli strateghi ateniesi, è lecito supporre che quel numero si debba in Roma ad imitazione delle istituzioni ateniesi. Senza entrare nella questione della storicità della tradizione la quale ci mostra preceduta da un'ambasceria ad Atene la codificazione delle XII Tavole avvenuta alla metà del sec. V, l'influsso ateniese può essersi fatto risentire in modo indiretto attraverso l'Etruria o la Campania. E tuttavia la tradizione che il numero dei tribuni non fosse fissato originariamente a 10 è nella sua unanimità fededegna. Peraltro accanto alle tradizioni che appunto per collegare i tribuni con istituzioni romane ne dànno originariamente un numero minore, vi sono anche tradizioni le quali sembrano accennare alla possibilità di un numero maggiore. Onde, parrebbe che il numero di 10 fosse in origine il numero minimo, e forse è vero che questo numero si raggiungeva o si sorpassava per via di cooptazione prima della norma che obbligava i tribuni presiedenti ai comizî elettorali a non desistere dal proporre candidati finché il numero di dieci non fosse raggiunto. Ciò sarebbe stato fissato nel 448 a. C. da un plebiscito Trebonio.

Tali premesse suggeriscono l'ipotesi che i tribuni della plebe fossero originariamente i capi delle 16 o 17 tribù rustiche dell'ordinamento cosiddetto serviano. Le ipotesi che i tribuni fossero eletti in assemblee curiate o in assemblee centuriate, presentano egualmente difficoltà press'a poco insormontabili. Ed anche l'ipotesi che essi fossero eletti prima da assemblee non suddivise in sezioni come altre assemblee romane e solo più tardi s'introducesse una divisione in sezioni corrispondenti alle tribù, pare rappresentarci una poco concepibile evoluzione costituzionale. Queste difficoltà si superano ritenendo che i tribuni eletti dalle singole tribù per provvedere alle proprie faccende e alla propria tutela, si siano riuniti rivoluzionariamente in collegio col consenso della plebe insorta e che un secondo atto della plebe organizzantesi a stato entro lo stato consistesse nel sostituire, per l'elezione dei capi delle tribù divenuti capi di tutta la plebe, alle tribù isolate l'assemblea dei plebei di tutte le tribù. Che ciò sia avvenuto per una rogazione di Publilio Volerone nel 471, può parere dubbio; ma non pare dubbio che il concilium plebis per tribù si sia costituito nella prima metà del sec. V a. C. e che in sostanza la tradizione sia nel vero rappresentando come tappe successive i tre atti fondamentali nella storia del tribunato: la costituzione del tribunato come magistratura della plebe, 497, l'elezione dei tribuni nel concilium plebis tributum nel 471, l'obbligo fatto ai tribuni di esigere la nomina dei 10 successori, 448.

Caratteri e poteri del tribunato. - È caratteristico dei tribuni della plebe che la loro autorità non è legitima ma sacrosancta. Ciò vuol dire che nelle sue origini non si fonda sopra una legge dello stato ma sul giuramento della plebe di sostenerla ad ogni costo (Festo, p. 318; Livio, III, 55, 7). In sostanza il potere dei tribuni prima che essi s'inserissero negli ordinamenti costituzionali romani, cioè prima che potessero considerarsi come veri magistrati, è un potere rivoluzionario, il quale si esercita soltanto perché la plebe costituitasi a stato entro lo stato è sempre pronta a prestare ad essi man forte fino al segno di mettere fuori della legge chi lede l'autorità loro e di garantire l'impunità a chi per difenderli uccide l'aggressore o l'offensore.

Questo potere rivoluzionario dei tribuni della plebe si esercitava soprattutto sotto forma di auxilium; invocato cioè dal plebeo che si credeva leso nei suoi diritti o nei suoi interessi da un atto o da un decreto del magistrato, il tribuno della plebe, se riteneva giustificata la richiesta d'aiuto (appellatio), interveniva per mezzo dell'intercessio ossia vietando l'atto o cassando il decreto. Ciò dava al tribuno un'autorità che pur nel suo carattere essenzialmente negativo era superiore a quella di ogni altro magistrato dello stato, compresi i consoli, con la sola esclusione, almeno in origine, del dittatore. Era peraltro, come si è detto, autorità essenzialmente negativa e in ciò stava l'inferiorità del tribuno della plebe di fronte a tutti i magistrati, poiché esso non possedeva l'imperium, né quello in città né molto meno quello fuori di città, vale a dire il comando militare. Anzi fuori di città il tribuno non poteva neanche opporre il suo divieto agli atti dei magistrati perché non poteva mai pernottare oltre un miglio al di là del pomerio. Solo assai più tardi, quando il tribunato s'inserì negli ordinamenti costituzionali, in casi particolarissimi, venne inviato appunto, per esercitare eventualmente la sua autorità, a magistrati in possesso dell'imperium militiae (così a Scipione Africano, 204).

S'intende che il veto opposto dai tribuni all'azione dei magistrati, essendo non di carattere legale ma di carattere rivoluzionario, non poteva avere effetto che per mezzo della coercizione o della giudicazione fondate l'una e l'altra sulla prontezza della plebe ad appoggiarle. I tribuni della plebe potevano pertanto, in forza di questo appoggio, arrestare il magistrato recalcitrante e multarlo o persino minacciarlo di morte. Da ciò si svolsero i processi istruiti dai tribuni innanzi al concilio plebeo delle tribù e può darsi che in origine la plebe presieduta dai tribunali si arrogasse anche la giurisdizione capitale (leggende di Coriolano, 491, e di Cesone Quinzio, 461). Ma la legge delle XII Tavole riservò la giurisdizione capitale al comitiatus maximus, cioè ai comizî centuriati, e ai comizî tributi presieduti dai tribuni della plebe non rimasero che i processi intorno alle multe. I tribuni del resto continuarono ad arrogarsi il diritto di mettere senz'altro a morte chi contrastasse alla loro autorità; ma soltanto in casi estremi di ribellione.

Forse in origine la intercessione tribunizia era limitata ai decreti dei magistrati, ma non è dubbio che assai presto essa si estese anche alle deliberazioni che l'intero popolo prendeva nei comizî centuriati o curiati sotto la presidenza dei magistrati, comprese le nomine che si facevano nei comizî centuriati. S'intende che anche qui l'intercessione conservò il suo carattere negativo cioè contro la messa in votazione della proposta o della candidatura, e pertanto dovette effettuarsi prima che il risultato finale dello scrutinio fosse proclamato. Di questa maniera d'intercessione i tribuni della plebe fecero largo uso specie impedendo le elezioni consolari nel periodo della lotta per la parità dei diritti.

Anche più tarda fu probabilmente l'altra maniera di intercessione dei tribuni, quella contro i senatusconsulti. Essa non poteva avere infatti alcun significato finché il senato era un consiglio dei magistrati supremi le cui deliberazioni li vincolavano non giuridicamente ma solo moralmente. Quando le cose mutarono e il senatusconsulto acquistò valore normativo, s'intende che i tribuni, a tutela della plebe, credessero loro dovere di estendere anche ad esso la loro facoltà d'intercessione. Soltanto, a differenza dalle rogazioni comiziali, essi qui la esercitavano quando il senatusconsulto era già perfetto o sul punto di divenire tale, perché non partecipavano alle deliberazioni del senato e non avevano alcuna qualifica per assistervi.

Fin qui pertanto l'autorità dei tribuni della plebe è solamente negativa, e quel che può apparire positivo nella coercizione o nella giudicazione, non è in fondo che un'appendice necessaria a difesa del diritto di voto. Autorità veramente positiva il tribuno non gode se non in quanto ha diritto di proporre alla plebe quelle sue deliberazioni che portavano il nome di plebisciti. Queste in origine non vincolavano che la plebe e non riguardavano che i suoi particolari interessi. Tale, ad es., la norma che ordinava di eleggere dieci tribuni della plebe. Ma queste deliberazioni potevano anche interferire nella vita di tutto il popolo, così per es. le stesse leggi sacrate o quella norma che ci viene tramandata come rogazione Duilia del 479: qui plebem sine tribunis reliquisset... tergo ac capite puniretur (Liv., III, 55, 14). Tale interferenza poteva anche essere più diretta: questo fin dal 476 è il caso del plebiscito Icilio per la distribuzione in lotti dell'agro pubblico sull'Aventino e nel 445 del plebiscito Canuleio sul connubio tra patrizî e plebei. La tradizione è sostanzialmente nel vero quando ci rappresenta gli accaniti conflitti mercé i quali la plebe si sforzava d'imporre al popolo la validità di tali suoi plebisciti e i patrizî recalcitravano contro la violenta imposizione. Alla equiparazione fra plebisciti e leggi, preparata dalle leggi Publilie del 339, si giunse solamente con la legge Ortensia del 287 circa.

Il tribunato dopo la lex Hortensia. - Con la legge Ortensia la evoluzione che trasforma le assemblee tribute della plebe in organi normali dello stato e i tribuni in veri magistrati, è compiuta. Ma il tradizionalismo romano fa che essi non perdano il loro particolare carattere di sacrosancti, che anzi, costituzionalmente riconosciuto, rende normale la loro posizione privilegiata di fronte a tutte le altre magistrature. Non si tratta più peraltro della dittatura d'una classe o dei suoi rappresentanti. La plebe, ora equiparata, salvo privilegi di poco conto, ai patrizî, non è più una classe economicamente e socialmente inferiore. In essa si è formata una nobilitas che condivide col patriziato la preponderanza nella repubblica e insieme con questo occupa di regola le cariche maggiori dello stato. Inoltre a mano a mano che ricevono la cittadinanza romana gli abitanti d'interi comuni, essi entrano con tutta la loro nobiltà locale nella plebe che si accresce così smisuratamente, mutando la propria compagine sociale ed etnica, mentre il patriziato, casta chiusa, declina numericamente, in modo che la plebe finisce con essere la totalità del popolo romano, eccettuato un piccolo numero di famiglie patrizie. Questo spiega come il tribunato prima dell'età graccana, pur vedendo aumentare i suoi poteri, avesse perduto il carattere rivoluzionario e si fosse, per così dire, addomesticato. Esso entra anzi a poco a poco nel normale cursus honorum dei plebei e viene rivestito dopo la questura e prima delle magistrature curuli. Nel redigere la lista dei senatori i censori dopo quelli che hanno rivestito le maggiori magistrature cominciano a tener conto normalmente anche di coloro che hanno rivestito il tribunato, finché questo uso ha consacrazione legale col plebiscito Atinio della metà probabilmente del sec. II a. C. Forse dopo la legge Ortensia i tribuni cominciano a partecipare normalmente alle discussioni o almeno a talune discussioni del senato: acquistano perfino il diritto di convocare essi stessi il senato. Il campo d'azione legislativa che i tribuni esercitano mercé i plebisciti, si estende perché non solo essi conservano la loro iniziativa di proporre alla plebe leggi che ormai non riguardano più di regola interessi particolari di una classe, ma quelli di tutto il popolo, sì anche sovente il senato invita esso i tribuni a presentare alle assemblee tribute della plebe proposte di plebisciti, trovando questa via di legiferare più facile e rapida ora che i plebisciti sono equiparati alle leggi. D'altronde il tribunato, in cui è rappresentata largamente la nobiltà plebea, è ormai un organo del governo della nobilitas e se c'è fra i tribuni qualche homo novus che abbia velleità troppo ardite di opposizione o di riforma, la nobiltà senatoria riesce di regola a stroncare col veto di un collega guadagnato alla sua causa ogni tentativo pericoloso, anzi il senato si serve normalmente della intercessione tribunizia per limitare il potere del magistrato, sicché il tribunato è in questo periodo un coefficiente di quella stabilità costituzionale che durò dalla pacificazione tra il patriziato e la plebe all'età dei Gracchi. Le stesse accuse tribunizie che in questo periodo spesseggiarono (di tal fatta dovettero essere in massima le 44 accuse intentate contro il vecchio Catone), mentre servivano ai giovani ambiziosi della nobilitas per acquistarsi popolarità o accusando essi stessi come tribuni o promovendo e sostenendo le accuse intentate da un tribuno, giovavano d'altra parte a impedire o frenare gli abusi dei magistrati, specie dei governatori provinciali, tenendo luogo di quel regolare rendiconto che la costituzione romana non conosceva e a rinsaldare così il governo senatorio, impedendo il disgregamento dell'autorità statale minata dal moltiplicarsi delle provincie e dei comandi, di fatto quasi indipendenti, che vi corrispondevano. E tuttavia quando la profonda trasformazione delle condizioni economico-sociali e la grandezza dei compiti nuovi che la conquista dell'impero segnò allo stato romano fecero palese la urgente necessità delle riforme sociali e costituzionali che la nobiltà spalleggiata dai tribuni della plebe era riuscita ad impedire, parve a quei due animosi novatori che furono Tiberio e Gaio Gracco, che il tribunato della plebe offrisse il destro di tentarla. Ma i loro tentativi finirono con l'insuccesso, e ciò per varie ragioni. Era facile infatti alla nobiltà trovare nel collegio dei tribuni chi si opponesse col veto alle riforme ardite proposte dal collega, ovvero chi lo scalzasse nel favore popolare con proposte demagogiche dirette a scompaginare i piani di riforma. Ma il motivo più vero e profondo di tali insuccessi stava in ciò: che il governo senatorio era ormai così profondamente radicato in Roma per ragioni di tradizione di sentimenti e di interessi che non lo si poteva scuotere senza la violenza, che i tribuni della plebe, vincolati alla città, privi di imperio, non erano in grado di organizzare. Onde l'esperienza appunto della catastrofe con cui terminarono i tentativi dei due Gracchi fece che quelli che tentarono poi di abbattere il governo senatorio, come Cesare ed Ottaviano, seguissero una via del tutto diversa. Ma il tribunato della plebe, se non era riuscito a costruire un nuovo ordine, aveva però dato un colpo terribile all'ordine vigente e iniziato il periodo rivoluzionario che durò quasi un secolo. Onde il generale aristocratico che volle restaurare e rendere stabile il governo senatorio, Silla, credette necessario, per porre termine all'anarchia, di esautorare i tribuni della plebe, e ne ridusse il potere in più modi, vietando di rivestire cariche curuli a chi era stato tribuno della plebe, con che si impediva praticamente ai più capaci e ambiziosi di farsi eleggere tribuni, limitando il diritto dei tribuni a presentare proposte di plebisciti col vincolarlo ad una previa ed effettiva discussione ed approvazione del senato, e infine privandoli almeno in gran parte dei loro poteri giudiziarî mercé l'incremento dato ai tribunali speciali delle quaestiones, e in particolare alle quaestio de maiestate. Fra le turbolenze degli anni successivi queste limitazioni del tribunato vennero abolite ed esso fu restituito negli antichi onori e poteri dalla legge Pompeia del 70 a. C. Ma non acquistò per questo quella capacità organica di rinnovare lo stato che gli mancava e contribuì solo, basti qui ricordare il tribunato di Clodio del 58 a. C., a rendere più acuto il disagio e più sentita la necessità d'un rinnovamento costituzionale.

Il tribunato nell'età imperiale. - Sebbene il nuovo regime fondato da Cesare, consolidato e reso stabile da Augusto, avesse nel comando effettivo delle forze militari quella base che era mancata ai tentativi dei Gracchi, non sfuggì ai suoi fondatori l'importanza che la potestà tribunizia poteva avere per dare all'autorità del principe quella consacrazione costituzionale di cui aveva bisogno, se non s'intendeva distruggere al tutto le forme dell'antico regime. Già Cesare si era fatto concedere il carattere di sacrosanctus ed altri privilegi dei tribuni della plebe, ma è incerto se questo fosse ai suoi occhi più di un espediente costituzionale passeggero per dare una consacrazione alla sua personale autorità in attesa di una sistemazione definitiva del regime. Ottaviano poi si fece concedere nel 36 la potestà tribunizia a perpetuità, ma l'autorità sua fu sulle prime fondata sui poteri straordinarî assegnatigli come a triumviro rei publicae constituendae e poi sul consolato conferitogli anno per anno. Solo dopo che ebbe rinunziato nel 27 ai poteri straordinarî e poi nel 23 alla continuazione del consolato, egli fece della potestà tribunizia il fulcro della sua autorità costituzionale, per quanto riguardava in particolare Roma e l'Italia e in genere le sue relazioni col senato e col popolo romano. Questa autorità non solo rendeva sacrosanta la sua persona ma con l'esercizio della pubblica difesa (tuitio) che era propria del tribuno della plebe, portata alle conseguenze estreme, gli assicurava la suprema autorità giudiziaria e col diritto di presentare proposte al senato e al popolo di intercedere alle proposte altrui, la suprema autorità legislativa. S'intende che la sua potestà tribunizia generica e vitalizia non era limitata dalla collegialità, non essendo colleghi dell'imperatore i dieci tribuni nominati anno per anno e quindi non essendo costituzionalmente ammissibile, come non era possibile di fatto, l'intercessione del tribuno contro qualsiasi atto imperiale. Ciò condusse, come è naturale, al graduale esautoramento dei tribuni della plebe, perché, pur rimanendo invariate nominalmente le loro prerogative, essi erano nella impossibilità di adoperare, per influire sull'andamento della cosa pubblica, quelle armi che avevano costituito la loro forza nell'età repubblicana. A ciò si aggiunga che i comizî elettorali, già ridotti a una mera parvenza, furono aboliti nel 14 d. C. da Tiberio e che i comizî o concilî legislativi anch'essi ormai puramente formali, non furono più radunati che estremamente di rado e fin dal primo secolo dell'impero quasi solo per votare la convalida del senatusconsulto che conferiva all'imperatore i suoi poteri e soprattutto la potestà tribunizia con le speciali clausole che l'allargavano e la completavano. L'ultima lex Tribunicia a noi nota è la lex Falcidia del 40 a. C. L'ultima volta in cui i tribuni a nostra notizia esercitano la facoltà di convocare il senato, è nel 218 d. C. Ancora nel 316 e nel 423 gl'imperatori indirizzano comunicazioni secondo l'antico formulario ai consoli, ai pretori, ai tribuni e al senato, ma già nel sec. IV l'autorità tribunizia non è più se non un'ombra, sebbene pare si continuasse ancora per molto tempo a designare annualmente un certo numero di tribuni della plebe.

Bibl.: Oltre la trattazione fondamentale di T. Mommsen, Römisches Staatsrecht, II, 3a ed., Lipsia 1887, pp. 272 segg., 869 segg., si vedano soprattutto: L. Lange, Römische Altertümer, I, Berlino 1876, p. 821 segg.; E. Herzog, Geschichte und System der römischen Staatsverfassung, I, Lipsia 1884, pp. 148 segg., 1136 segg.; II, ivi 1887; E. Pais, I fasti dei tribuni della plebe e lo svolgersi della tribunicia potestà (Ricerche sulla storia e sul diritto pubblico di Roma), s. 3a, Roma 1918; G. De Sanctis, Storia dei Romani, II, Torino 1907, p. 26 segg.; IV, i, ivi 1923, p. 534 segg.; J. Beloch, Römische Geschichte, Berlino 1926, p. 264; G. Niccolini, Il tribunato della plebe, Milano 1932; id., I fasti dei tribuni della plebe, Milano 1934. In queste opere ulteriore bibliografia. Di scritti su punti particolari sulle origini del tribunato, cfr.: E. Meyer, Der Ursprung des Tribunato und die Gemeinde der vier tribus, in Hermes, XXX (1895), p. 1 segg. (= Kleine Schriften, I, Halle 1910, p. 351 segg.); G. Niccoli, Origine e primo sviluppo del tribunato della plebe, in Historia, III, p. 181 segg.; A. Momigliano, L'origine del tribunato della plebe, in Bullettino della Comm. archeol. comunale di Roma, LIX (1931), p. 157 segg. Per la legge Ortensia e la validità dei plebisciti, v. ortensio, quinto. Ulteriore bibliografia presso G. Rotondi, Leges publicae populi Romani, Milano 1912, p. 238 segg. Per le leggi di Silla sulla potestà tribunizia, E. Betti, La restaurazione sullana e il suo esito, in Studi storici per l'ant. class., VII (1916), p. 26 segg. V. anche silla. - Per la tribunicia potestas imperiale, v. imperatore e impero.

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