VENEZIE, TRE

Enciclopedia Italiana - II Appendice (1949)

VENEZIE, TRE (XXXV, p. 78)

Elio MIGLIORINI
Emilio LAVAGNINO
Bruno NICE
Carlo SCHIFFRER

Veneto. - Durante la seconda Guerra mondiale, poiché sulla linea del Po ebbero termine (aprile 1945) le operazioni militari, il Veneto fu preservato dagli orrori della guerra combattuta; tuttavia numerose città (e specialmente Treviso, Verona, Vicenza, Udine; v. alle voci in questa App.) e varie ferrovie (compresi i ponti sul Po) subirono gravi danni per gli attacchi aerei. Le industrie soffrirono per la scarsezza di materie prime ed anche l'agricoltura regredì per mancanza di concimi. Ora le condizioni agricole sono tornate quasi normali:

Anche la produzione di vino che era stata di 2.965.000 hl., come media del periodo 1936-39, si è portata a 3.148.000 hl. nel 1946.

Secondo l'art. 131 della nuova costituzione (art. 131), il Veneto forma una regione, ed ha per confine verso oriente la Livenza. Consta di 7 provincie: Verona, Vicenza, Padova, Rovigo, Venezia, Treviso, Belluno. La sua superficie è 18.383 kmq.; la popolazione, al 31 dicembre 1947, era 3.566.136 ab. (194 per kmq.).

Affermatosi il concetto delle Tre Venezie, M. Bartoli aveva proposto per il Veneto il nome di Venezia Euganea (che ricorda l'antica popolazione degli Euganei e uno dei maggiori rilievi della regione), mentre G. I. Ascoli e, dopo di lui, O. Marinelli, preferirono il nome di Venezia Propria. Nell'uso comune il toponimo Veneto ha tuttavia avuto la prevalenza ed è stato accolto anche nella nuova costituzione.

Danni di guerra ai monumenti e alle opere d'arte. - Nel Veneto oltre ai disastri provocati dai bombardamenti aerei, si debbono lamentare quelli provocati dalla resistenza delle truppe tedesche in ritirata. I danni maggiori si sono verificati a Padova, Verona, Vicenza e Treviso (vedi, in questa App. le singole voci). Di relativa entità sono stati a Rovigo i danni del duomo, della chiesa della Beata Vergine del Soccorso e del Seminario arcivescovile. A Venezia, lo spostamento d'aria provocato dallo scoppio d'una nave tedesca carica di munizioni ha determinato la caduta d'una parte degli affreschi del Tiepolo a palazzo Labia; a Battaglia, in provincia di Padova, si sono avuti danni al Castello del Cataio; a Ponte di Brenta il crollo della volta della chiesa parrocchiale decorata con affreschi del Crossato e i danni gravissimi alla bella villa Giovannelli Sambonifacio. A Mestre, veniva danneggiata la chiesa di San Lorenzo rifatta dal Maccaruzzi nel XVIII sec.; a Stra, nella Villa Negrelli, già Foscarini, crollava un angolo con perdita delle decorazioni interne; venivano colpiti al Dolo l'elegante palazzina Zanon Bon nella facciata, a Mira il cinquecentesco palazzo dei Leoni e alla Malcontenta il palazzo Foscari, leso nell'elegante pronao ionico del Palladio. A Bassano del Grappa, oltre i danni già riparati al caratteristico ponte in legno, sono da rammentare quelli alla chiesa di S. Francesco e all'attiguo chiostro nonché altri di minor conto nel duomo e in altri edifici.

Storia. - Nel Veneto, forse più che nelle altre regioni italiane, avevano vigore le tradizioni risorgimentali antitedesche, che nel progressivo dissolversi del fascismo sotto i colpi della sconfitta militare rappresentarono l'elemento connettivo permanente in cui si riconobbero gli oppositori dei varî partiti. A partire dall'8 settembre 1943, queste forze si costituirono spontaneamente in nuclei di resistenza, che a poco a poco si organizzarono facendo capo al Comitato di liberazione nazionale per l'alta Italia (CLNAI). Ma l'organizzazione effettiva, praticamente si faceva e disfaceva incessantemente, per l'iniziativa, sovente autonoma, dei partiti, di gruppi, d'individui. Nel campo della resistenza civile, per es., notevole impressione suscitò, fra tutti gli antifascisti d'Italia (e anche fuori d'Italia), il coraggioso gesto del rettore dell'università di Padova, Concetto Marchesi, che il 9 novembre 1943, inaugurando l'anno accademico, cacciò le camicie nere in divisa che erano penetrate a forza nell'aula magna. Costretto il Marchesi ad abbandonare l'Italia, il ruolo di capo della rivolta politico-culturale per il Veneto fu assunto da Egidio Meneghetti, che fu anche presidente del Comitato di liberazione nazionale. Mentre anche nel campo militare si organizzavano e agivano le forze della Resistenza (v. in questa Appendice), i Tedeschi, in previsione del crollo della Linea gotica e di una successiva resistenza sulle Alpi, allestivano opere difensive in tutta la zona veneta, e sottraevano alla repubblica le provincie di Udine e di Belluno, aggregandole alla zona militare delle Prealpi e al territorio del "Litorale Adriatico". Ma né queste provvidenze strategiche, né la tecnica del terrore, applicata con inumana pedanteria, né l'apparato poliziesco e spionistico valsero ad evitare il crollo. L'entusiasmo dei patrioti non fu scosso neppure dalle incursioni aeree alleate, abbattutesi sulle più belle città venete in nome di esigenze militari. E quando, il 26 aprile 1945, fu dato il segnale della generale insurrezione, i partigiani, aiutati dai cittadini di ogni condizione, assalirono ed impegnarono da ogni parte i Tedeschi, che non riuscirono ad organizzarsi nelle posizioni difensive, né a rientrare in Germania, né a distruggere l'attrezzatura economica della regione e neppure ad accordarsi tempestivamente per le condizioni di resa, la quale avvenne per iniziativa di singoli gruppi e in momenti diversi. Nello stesso tempo venivano spazzate le superstiti vestigia del governo fascista; ci furono molte esecuzioni (sovente sommarie). Giungevano intanto le avanguardie alleate che, liberate quasi interamente da preoccupazioni militari, potevano occupare rapidamente tutta la regione.

Venezia tridentina (p. 84).

In virtù dell'art. 131 della nuova costituzione italiana, la Venezia Tridentina è diventata regione amministrativa col nome di Trentino Alto Adige. La sua superficie complessiva rimane pressoché inalterata (13.602 kmq. nel 1948), ma con l'approvazione dello statuto regionale (29 gennaio 1948) è variata, rispetto al 1936, quella delle due unità storiche (ed ora anche amministrative) formanti la regione: cioè il Trentino rappresentato dalla provincia di Trento, decurtata di circa 250 kmq. a favore dell'Alto Adige, che si identifica con la provincia di Bolzano. Le presenti condizioni di superficie e demografiche sono riassunte in questo specchio:

Rispetto al ceusimento del 1936 l'aumento demografico complessivo non è stato di rilievo (5,5% in Trentino e 4,9% in Alto Adige): si deve anzi notare che in alcune zone abbastanza vaste gran parte dei comuni è in decremento demografico (ad es. in Valsugana, in Val Venosta, in Valle Isarco, in Pusteria). In più si è avuta una graduale diminuzione dell'eccedenza dei nati sui morti, nel periodo anteguerra (8,1‰ nel 1925-29; 7,3‰ nel 1930-34; 6,7‰ nel 1935-39). Dopo la guerra sia questa eccedenza (1946: 11,3‰) sia il numero dei matrimonî (1935-39: 6,4‰; 1946: 8‰) hanno registrato un forte rialzo.

Le condizioni economiche restano, nelle linee generali, invariate. Questo specchio, che dà le cifre relative al 1945, non mostra in realtà valori molto diversi da quelli riportati nel vol. XXXV, p. 89, e che si riferivano al 1929.

In particolare si può notare una lieve riduzione nei seminativi (la superficie a frumento è diminuita ad es. da 16.000 ha., media degli anni 1936-40, a 12.000 ha. nel 1947; ed ugualmente la sua produzione complessiva da 245.000 a 125.000 q. Anche più forte è l'inflessione del rendimento per ha.: da 15,7 a 10,4 q.). Invece le colture specializzate hanno continuato a svilupparsi elevandosi la produzione dell-uva da 829.000 q. (media degli anni 1936-40) a 1.004.000 q. nel 1947, quella di mele e pere da 1.034.000 q. a 1.639.000 q., quella di ciliege e susine da 18.000 q. a 40.000 q.

Riguardo al bestiame, oscillazioni più o meno forti (e negative per gli equini e i bovini) hanno segnalato le valutazioni tenutesi dopo quella del 1930, riportata nello specchio a p. 89 del vol. XXXV. Degno di nota l'aumento degli ovini e anche quello dei suini durante gli anni di guerra.

Un campo in cui l'impulso è stato negli anni anteguerra notevolmente forte, è quello dell'industria idroelettrica. Con 54 centrali e 717.000 kW di potenza installata, la regione era nel 1942 al quarto posto tra quelle italiane, e ospitava i due impianti nazionali con maggior potenza installata: quello di Cardano, in Valle Isarco a oriente di Bolzano (198.790 kW) e quello di Bressanone (173.760 kW), che sono in cascata con un altro importante impianto intermedio sito a Ponte Gardena (55.500 kW). I due serbatoi che animano l'impianto di Bressanone sono posti sui fiumi Rienza (1,9 e di 2 milioni di mc. di invaso) e Isarco (2 milioni di mc.). In avanzata costruzione un altro grande impianto con diversi salti, che sfrutta il lago di Resia, presso le sorgenti dell'Adige, e i laghi sottogiacenti di Mezzo e di S. Valentino alla Muta. Il suo serbatoio ha una capacità utile di 110 milioni di mc. e assicurerà due centrali, una a Glorenza (salto di 600 m.) e l'altra a Castelbello (salto di 300 m.).

Danni ai monumenti e alle opere d'arte. - Con quelli subìti da Trento (v. in questa App.) Bolzano è il centro della regione che ha subìto i danni più gravi dalla guerra a causa dei bombardamenti aerei, e non solo ai suoi edifici di carattere monumentale ma anche a tante altre costruzioni caratteristiche quali quelle che s'aggruppavano pittorescamente intorno al duomo. Appunto il duomo, la bella chiesa gotica costruita fra il XIV e il XX secolo, è stato uno degli edifici più danneggiati dalla città. Tuttavia gli interessanti lavori di restauro compiuti sotto la direzione dell'architetto Antonino Rusconi hanno valso a conservare al magnifico edificio quei valori che ne fanno uno dei monumenti più importanti della regione. Anche i restauri alla chiesa dei Francescani sono stati ultimati; nella chiesa dei Domenicani, scoperchiata dalle esplosioni, è stato possibile restaurare le belle pitture trecentesche della cappella contigua al presbiterio. Anche nella chiesa di S. Osvaldo, ricca di preziose pitture del XIV e XV secolo, sono stati iniziati lavori di restauro. A Bolzano sono stati anche colpiti e molto danneggiati la chiesa di S. Giustina, la chiesa e il convento di S. Giorgio e la chiesa romanica della Maddalena. Danni notevoli ha riportato a Bolzano anche il palazzo dei principi di Campofranco e il palazzo dell'Ordine Teutonico dalle caratteristiche forme gotiche.

Nell'Abbazia di Novacella presso Varno è stato necessario ricostruire la cupola e rifare il tetto della cappella della Madonna ma anche il grande campanile romanico è gravemente lesionato. Presso Bressanone è stata colpita l'antichissima chiesa di S. Croce con interessanti pitture del sec. XVII e l'altra di S. Valentino di Funes dove tuttavia è stato possibile porre in salvo l'interessante trittico del sec. XV. Notevoli anche i danni subìti dal convento dei Francescani a S. Candido.

Storia. - La storia della regione tridentina in quest'ultimo decennio è, per più aspetti, connessa con quella dell'Alto Adige (per il quale v. in questa seconda App., I, p. 147). Motivi di carattere strategico suggerirono di curare lo sviluppo stradale della regione con nuove linee di comunicazione rapida, come la strada delle Palade, quella da Vipiteno per la val di Sarentino ed altre minori; ed insieme anche di accrescerne la sicurezza con la costruzione di una linea difensiva militare dalla Pusteria a Bolzano e da qui verso la Val Venosta. Mentre l'asse Roma-Berlino appariva consolidato, le esuberanti dimostrazioni pantedesche nella provincia di Bolzano, prospettate come atto di solidarietà col governo italiano e con la sua politica estera, si prestavano a sospetti.

Intervenuta l'Italia in guerra a fianco della Germania nazista, grevi nubi si addensarono sull'orizzonte politico nella zona di confine, la quale vide partire per la Russia la divisione Tridentina che vi subì gravi perdite e tornò più che decimata. La caduta del fascismo favorì subito un nuovo afflusso di truppe tedesche, le quali già il 2 agosto 1943 entrarono di forza dal Brennero e si stabilirono in tutti i centri maggiori col pretesto di crearvi una base di rifomimento per le loro formazioni operanti nel mezzogiorno.

Dal 2 settembre 1943 incominciarono i bombardamenti aerei da parte degli Alleati; le incursioni vennero poi aumentando d'intensità negli anni successivi e sconvolsero varî punti della linea ferroviaria della Val d'Adige e della Valsugana. L'8 settembre 1943, alla notizia dell'armistizio, le truppe tedesche, con un colpo di mano già studiato nei minimi particolari, s'impossessarono di tutte le caserme e dei principali uffici pubblici. I soldati italiani opposero notevole, per quanto inutile, resistenza a Trento, a Rovereto, a Bolzano, subendo numerose perdite. Ma i Tedeschi s'insediarono da padroni e costituirono la Operationszone Alpenvorland (zona di operazione delle Prealpi) con un alto commissario a Bolzano, e due prefetti a Trento e a Belluno; cercarono anche di formare un Corpo di Sicurezza Trentino per il mantenimento dell'ordine e introdussero in tutta la zona la leva militare per l'esercito tedesco e per il servizio del lavoro. Con ciò la regione venne di fatto sottratta alla sovranità della repubblica sociale italiana che da Verona e da Salò dovette accontentarsi di timide e inutili proteste.

Intanto nel Bellunese si andavano organizzando i primi nuclei della resistenza partigiana, che si diramarono in breve e portarono alla costituzione di un comitato di liberazione di Trento, con a capo Giannantonio Manci. La delazione di uno degli affiliati diede in mano alla Gestapo le fila dell'organizzazione: ciò fu causa dell'eccidio del 28 giugno 1944, eseguito da mandatarî delle SS in borghese, a Riva, ad Arco e Rovereto. Seguirono numerosi arresti, processi, condanne, esecuzioni, mentre le bande armate e i partigiani, scesi dai monti, tentavano di attuare un piano di azione che, per circa due mesi (luglio e agosto), tenne in apprensione i comandi militari; questi però nell'autunno passarono al rastrellamento, alle rappresaglie, alle esecuzioni di prigionieri e di ostaggi.

Gli avvenimenti bellici nella regione si conclusero il 27 aprile 1945 con le operazioni militari nella zona di Riva e nelle valli adiacenti; il 4 maggio le truppe americane entravano a Trento, ultima città della regione liberata dal nemico; essa venne retta da un comitato di liberazione nazionale, in continuo contatto coi rappresentanti del govemo militare alleato, mentre nella parte settentrionale della regione elementi nazisti riparati in Alto Adige, tentarono, insieme con elementi francesi, un'unione con la nuova Austria. Nei due anni successivi fu messa sul tappeto la questione dell'autonomia amministrativa della regione, alla quale si dedicarono varî progetti di statuto che portarono a vivaci discussioni. Basti accennare al progetto elaborato dal Comitato di liberazione nazionale di Trento, dal MAR (Movimento autonomistico regionale) di Bolzano, e dall'ASAR (Associazione studî autonomia regionale), mentre il governo faceva elaborare per suo conto uno "Schema di statuto per l'autonomia della Regione Tridentina".

Il problema, reso difficile da interferenze non sempre chiare, venne risolto con lo statuto definitivo del 29 gennaio 1948 sulla base del quale il 28 novembre 1948 furono tenute le prime elezioni per il consiglio regionale, che hanno dato i seguenti resultati: Provincia di Trento: Democrazia cristiana, seggi 15; Partito popolare tirolese-trentino, 4; PSLI, 2; PSI, 2; PCI, 1; Partito autonomista indipendente, 1; Partito antiautonomista, 1; Provincia dí Bolzano: Partito Popolare Sudtirolese, seggi 13; Democrazia cristiana, 2; PSLI, 1; PSI, 1; MSI, 1; Indipendenti, 1.

Venezia Giulia (p. 90).

In relazione alle clausole del trattato di pace del 10 febbraio 1947 l'Italia ha perduto quasi il 95% dell'area della Venezia Giulia e l'87% della sua popolazione. Si può calcolare infatti, approssimativamente, che 7625 kmq. della regione con 424.000 ab. (valutati in base alla popolazione residente del censimento del 1936) sieno stati incorporati dalla Iugoslavia e che 742 kmq. con 343.000 ab. formino per ora il Territorio libero di Trieste. La piccola porzione della Venezia Giulia, che è rimasta all'Italia, copre pertanto una area di circa 476 kmq. e conta una popolazione di circa 117.000 ab. (residenti nel 1936). Essa coincide esattamente con l'attuale provincia di Gorizia, la quale, insieme con la provincia di Udine, costituisce - nell'ambito dell'ordinamento regionale-amministrativo della repubblica - la regione Friuli-Venezia Giulia.

La frontiera italo-iugoslava è rimasta inalterata nel suo estremo tratto settentrionale, conservando alla provincia del Friuli, ossia alla Venezia Euganea, la conca di Tarvisio. Il suo nuovo tracciato ha inizio poco ad est del M. Mangart, il vertice settentrionale della Venezia Giulia, donde - anziché seguire, come il tracciato precedente, lo spartiacque principale alpino che rappresenta il confine naturale - corre su spartiacque secondarî, poi attraversa, senza tener conto della configurazione del rilievo, zone pianeggianti e di colline, fino alle foci del Timavo.

Più precisamente, dal Mangart (m. 2678) la nuova frontiera italo-iugoslava segue verso occidente il crinale che divide l'alto bacino dello Isonzo dalla conca di Tarvisio; di qui piega verso SO., raggiungendo, sempre lungo il crinale suddetto, il M. Cergnale (m. 2344), donde comincia a seguire con andamento generale N-S, ma con molti salienti, il vecchio confine italo austriaco del 1866. Al pari di questo, infatti, a sud del M. Canin (m. 2573) essa non contorna esattamente il limite occidentale del bacino dell'Isonzo, ma lascia in territorio italiano l'alta valle del suo affluente Uccea, mentre assegna alla Iugoslavia una notevole porzione dell'alto bacino del Natisone. Al M. Mataiur (m. 1642) la frontiera sale di nuovo sullo spartiacque Isonzo-Natisone, al termine del quale scende nel fondovalle dello Judrio, che è interposto fra questi due fiumi, seguendolo fino a monte del villaggio di Mernico (m. 103). Ivi la frontiera italo-iugoslava abbandona il tracciato di quella italo-austriaca del 1866, che continuava lungo il corso dello Judrio, e corre dapprima sul fianco sinistro della valle principale dello Judrio stesso finché, giunta a circa 5 km. da Cormons, piega decisamente verso SE. e quindi verso E. Essa segue così, ad un'altezza media di 100-150 m., l'orlo meridionale della zona collinare del Collio fino al M. Sabotino (m. 610), donde riprende a correre in direzione sud, mutilando Gorizia di una parte dei suoi sobborghi. Oltrepassata la città, la frontiera percorre la pianura sulla sinistra dell'Isonzo, incontrandone l'affluente Vipacco a soli 46 m. sul mare, dopo di che s'inerpica sull'altopiano carsico, mantenendosi - ad un'altezza media di m. 200 - ad est del vallone di Doberdò, percorso dalla carrozzabile Gorizia-Trieste, fino a toccare a nord del villaggio di Medeazza, appartenente al Territorio libero di Trieste, il punto d'incontro fra quest'ultimo, l'Italia e la Iugoslavia. Di qui la frontiera orientale italiana scende nella stretta pianura costiera formata dalle alluvioni del Timavo, terminando alla più orientale delle sue due foci.

In seguito all'adozione della frontiera su descritta, il punto più orientale della frontiera terrestre italiana si trova fuori della Venezia Giulia ossia ad est di Tarvisio, presso il M. Forno (13°43′ long. E. di Greenwich).

Mentre la popolazione di quel ridotto lembo della Venezia Giulia che è rimasto all'Italia è quasi completamente italiana, numerose campagne e città italiane sono state poste sotto la sovranità iugoslava. Inoltre la parte più vasta e popolata di quella zona che la nuova frontiera lasciava inizialmente all'Italia fu organizzata nel cosiddetto Territorio libero di Trieste, imponendo alla sua popolazione, in schiacciante maggioranza italiana, un'indipendenza contraria ai suoi sentimenti ed ai suoi interessi economici.

La nuova frontiera ha spalancato tutte le porte orientali della pianura friulana, o meglio di quella grande pianura padano-veneta che costituisce la zona più vitale dell'Italia. Eccettuato il passo del Predil (m. 1156), infatti, i valichi stessi sono posti a modesta altitudine, come mostrano i principali fra essi: nella valle del Natisone (circa m. 230), sulla strada Udine-Caporetto; alla periferia settentrionale di Gorizia (m. 90), presso lo sbocco in pianura dell'Isonzo, sulla strada Gorizia-S. Lucia di Tolmino-Piedicolle; alla periferia orientale di Gorizia (m. 80), allo sbocco della vallata del Vipacco, sulla strada Gorizia-Lubiana; nella pianura costiera del Timavo (ad una cinquantina di m.) sulla strada Monfalcone-Trieste. Le stazioni di Gorizia centrale e di Monfalcone rappresentano i due nuovi transiti rispettivamente per le linee Piedicolle-Jesenice e Trieste-Postumia.

Il nuovo confine ha separato dalla zona rimasta all'Italia e dallo stesso Territorio libero di Trieste le miniere di Idria (mercurio), dell'Arsa (carbone) e dell'Istria in genere (bauxite); i boschi dell'alto e medio Carso, produttori di legname e di carbone vegetale; le risorse zootecniche dell'alto Isonzo (bovini) e della maggiore parte dell'Istria (ovini); i cementifici del medio Isonzo, i molini della valle del Vipacco, le industrie varie di Pola e di Fiume; i porti mercantili e pescherecci posti a sud del Quieto; i centri turistici di Abbazia, Brioni e Postumia. A Gorizia e nella stessa Trieste il confine è stato portato fin dentro il caseggiato o a breve distanza da esso; Trieste risulta separata da Monfalcone, che ne è il vero sobborgo industriale. Tutti i centri della zona rimasta all'Italia e del Territorio libero di Trieste dipendono inoltre per il fabbisogno di energia elettrica dalle centrali isontine di Dòblari e di Plava, assegnate alla Iugoslavia, e, poiché esse non erano sufficienti neanche prima della guerra, sono riforniti soprattutto dalle centrali venete di S. Croce e del Cellina. Questi danni, però, colpiscono non soltanto la provincia di Gorizia e il Territorio libero di Trieste, ma anche la zona posta ad oriente dei loro confini. Le colline del Collio, il bacino dell'Isonzo e la valle del Vipacco non possono più mantenere i loro normali rapporti con la pianura friulana e specialmente con Gorizia, che ne è il capoluogo ed il mercato naturale. Lo stesso dicasi dei piccoli centri del Carso, che vivono in funzione del centro urbano di Trieste. Tutti i piani di miglioramento delle comunicazioni stradali e ferroviarie, della rete idrica ed elettrica, delle bonifiche e degli impianti industriali della regione, già progettati dall'Italia, sono gravemente compromessi dallo smembramento politico della regione stessa, a causa del quale Trieste vede minata la sua naturale funzione di capoluogo regionale e di porto internazionale.

Danni di guerra ai monumenti e alle opere d'arte. - Oltre quelli subìti da Udine (v. in questa App.), a Pordenone, dove la vòlta della chiesa di Cristo è stata abbattuta e il palazzo comunale sfondato, sono stati colpiti anche il duomo e la chiesa di S. Giorgio. A Casarsa della Delizia l'antica chiesa parrocchiale di S. Croce è stata colpita e sono stati gravemente danneggiati gli affreschi del Pordenone e dell'Amalteo che ne decorano la tribuna. Anche a Pradolone, per le esplosioni che hanno danneggiato l'edificio, sono andati distrutti gli affreschi di Pomponio Amalteo della chiesa di S. Maria delle Grazie, mentre il palazzo comunale di Venzone, costruito nel 1410, è stato colpito in pieno e per gran tratto abbattuto. A Illegio la chiesa di S. Floriano è stata devastata dai Tedeschi che vi hanno bivaccato. A Gorizia, ove il Castello aveva subìto qualche danno, la chiesa di S. Giusto è distrutta; così a Rifinbergo è stato minato e incendiato dai Tedeschi l'antico castello fondato dai Templari e poi, nel sec. XIII, passato ai conti Lantieri di Rifinbergo.

A Trieste ha subìto qualche danno, del resto non grave, il teatro romano. Anche i castelli di Moncorona, di Montelepre a Planina, quello Gravisi a Capodistria, quello Grimani a Sanvincenti sono stati molto gravemente danneggiati. A Gimino la chiesa parrocchiale, un edificio cinquecentesco riattato nel Settecento, ha subìto danni alle pareti ed è stata in parte scoperchiata, mentre a Parenzo sono in rovina alcune caratteristiche case quattrocentesche, e a Rozzo è stata molto danneggiata la chiesa di S. Antonio, un edificio di gusto gotico con volte a nervature.

A Fiume le chiese di S. Nicola e del Redentore sono le più gravemente colpite mentre a Ossero, nell'isola di Cherso, il duomo quattrocentesco e l'antico palazzo vescovile, ora casa parrocchiale, hanno subìto danni notevolissimi. A Fiume hanno subìto danni anche il chiostro di S. Francesco e, nelle adiacenze del Tempio di Augusto, la curia romana. (Vedi anche Pola, in questa App.).

Storia. - La soppressione, voluta dal governo fascista, di ogni segno esteriore di vita nazionale slava esasperò per reazione lo spirito nazionalista ed unì tutte le classi della popolazione slava in un comune sentimento di ostilità non solo contro il regime, ma anche contro l'Italia. In genere, l'ordine esteriore non appariva turbato; tuttavia sintomi d'inquietudine politica, di malcontento diffuso e di lavorio sotterraneo si avevano nei frequenti processi politici, nei provvedimenti di confino, ecc. Dopo il 1938 la tensione internazionale ebbe la sua ripercussione in loco, rafforzando lo spirito di resistenza che animava la popolazione slava. Nel 1940, prima dell'entrata in guerra dell'Italia, vi furono numerosi arresti di Slavi appartenenti ad ogni ceto ed a varie fedi politiche; un'ottantina di essi furono deferiti al Tribunale speciale. Al processo, celebrato alla fine del 1941, i più rivelarono fermezza di carattere e coraggio. Si ebbero 9 condanne a morte (furono eseguite quelle contro 5 comunisti) e moltissime a varî anni di carcere.

Fino a questo momento la questione giuliana era rimasta nell'ambito interno dello stato italiano; la dichiarazione di guerra alla Iugoslavia la riportava sul tappeto dei problemi internazionali. Il generale Simović, capo del governo iugoslavo a Londra, faceva pubbliche dichiarazioni dalle quali risultava che il governo britannico, in caso di vittoria, si era impegnato di assegnare la Venezia Giulia alla Iugoslavia; solo per Trieste l'impegno appariva meno preciso.

Nelle zone slave della Venezia Giulia le forze della resistenza iugoslava, che facevano capo a Tito, trovarono un terreno particolarmente adatto alla loro azione: il lungo periodo di compressione fascista aveva non solo creato i presupposti psicologici necessarî ma aveva pure preparato e allenato all'azione e alla lotta un gruppo attivo di organizzatori comunisti, che riuscirono a dare consistenza ad un Fronte di liberazione (Osvobodilna Fronta), che raccoglieva sotto il suo controllo elementi politici di varia provenienza. Da parte slava nascevano così nell'illegalità i quadri di un'organizzazione molto serrata, mentre da parte italiana un lavoro del genere era appena ai suoi esordî ed aveva pochi addentellati in un ambiente periferico, come quello giuliano.

Avvantaggiati da questa circostanza, nel settembre del 1943 gli Slavi riuscirono dappertutto, tranne che nelle maggiori città, a rimanere padroni della situazione: poterono approfittare dei sentimenti di ostilità contro il fascismo e contro i Tedeschi, largamente diffusi, per attrarre nella propria orbita anche elementi italiani ed incorporarli nelle loro formazioni partigiane. Tra il settembre e l'ottobre le S.S. compirono azioni di rastrellamento che estesero un sufficiente controllo germanico ai centri, alla costa, alle linee di comunicazione, senza però riuscire a debellare la guerriglia nelle vaste zone montuose e boscose. Ciò creava i presupposti perché ogni successiva resistenza - soprattutto nel suo aspetto più decisivo, quello militare - continuasse a svolgersi entro l'orbita dell'OF e a far capo a Tito.

Contemporaneamente i Tedeschi sottraevano le provincie di Udine, Gorizia, Trieste, Pola e Fiume (e Lubiana) alla giurisdizione del governo della cosiddetta repubblica sociale e le trasformavano in una specie di protettorato germanico, sotto il nome di "Zona di operazioni del litorale adriatico" (Operationszone Adriatisches Küstenland), sotto un "Supremo commissario" (Oberster Kommissar) con poteri civili, assistito da consiglieri tedeschi i quali controllavano prefetti e podestà scelti dalle autorità germaniche. Agli Slavi i Tedeschi si presentarono come liberatori dal giogo italiano; sugli Italiani tentarono d'influire con la propaganda fondata su una specie di patriottismo locale e su quel tanto di ricordi nostalgici che l'amministrazione ordinata del periodo austriaco aveva lasciato in alcuni strati sociali.

L'occupazione tedesca accelerò l'organizzazione dei movimenti politici clandestini italiani. Come nelle altre regioni dell'Italia occupata, così nella Venezia Giulia, sullo scorcio del 1943, si formarono i CLN che entrarono in rapporto col CLNAI di Milano.

La coesistenza nella medesima regione di due organi di resistenza: CLN italiano ed OF slavo, pose naturalmente il problema dei loro rapporti reciproci. Un coordinamento dei due movimenti era reso difficile da svariate circostanze di carattere nazionale, politico, sociale ed organizzativo. Il CLN era un organismo nazionale italiano risultante dall'alleanza di cinque partiti politici su base paritetica; strumento di lotta nel periodo clandestino, era destinato in un secondo tempo a servire da avviamento ad un regime di libertà politica. L'OF slavo era un "fronte" che tendeva a riunire il massimo numero possibile di uomini e di organismi diversi sotto il controllo del Partito comunista, per giungere ad un regime di tipo sovietico. Malgrado le difficoltà che derivavano da tali differenze, al principio del 1944 ci furono collegamenti tra gli organi locali e, nell'estate, si ebbero pure convegni e trattative a Milano tra il CLNAI e l'OF nazionale sloveno senza però che si potesse firmare un accordo formale.

Subito dopo, personalità del governo iugoslavo in alcune dichiarazioni ufficiali manifestavano la volontà di anniettersi tutta la Venezia Giulia con parte dell'Udinese, e ben presto tale programma nazionalista slavo cominciò ad essere sostenuto anche dai comunisti italiani, i quali perciò abbandonarono i CLN locali e da quel momento in poi li osteggiarono. Gli altri partiti rimasti nei CLN (Liberale, Democristiano, d'Azione e Socialista) riaffermarono per la maggioranza italiana il diritto all'unità nazionale. Così, già durante l'occupazione tedesca, si delinearono due pregiudiziali inconciliabili ed un sordo conflitto italo-slavo. Da quel momento l'OF mirò a disgregare i CLN e ad attrarre nella propria orbita le loro personalità più rappresentative. Il CLN giuliano fu privato praticamente delle possibilità di agire nelle campagne e sulle montagne controllate dagli Slavi. Gli elementi italiani, che si erano arruolati nelle formazioni partigiane dell'OF, parte vennero allontanati dalla regione ed inviati ad operare nelle zone più interne, parte furono lasciati con scarsi mezzi in posizioni esposte, dove rimasero sacrificati o si dispersero.

Alla fine di aprile 1945 si delineò il tracollo tedesco. Il CLN era riuscito a organizzare qualche migliaio di volontarî e il 30 occupò buona parte dell'abitato di Trieste. Intanto, però, le truppe iugoslave, scivolando fra le colonne tedesche in ritirata e trascurando Lubiana e Zagabria, si precipitarono in direzione di Trieste e dell'Isonzo, che raggiunsero il 1° maggio. I volontarî del CLN furono costretti a sciogliersi; i nuclei tedeschi s'irrigidirono nella resistenza. Il giorno dopo reparti angloamericani si spingevano alla lor volta fino a Gorizia ed a Trieste, obbligavano alla resa i Tedeschi superstiti e si attestavano su una linea ad oriente delle avanguardie iugoslave. Ne derivò tra i due eserciti una situazione tesa e minacciosa, che si protrasse per alcune settimane. Nel frattempo, però, nei territorî occupati, i comandi militari iugoslavi avevano istituito proprie amministrazioni militari. Queste, subito dopo, riconoscevano agli organi dell'OF la rappresentanza esclusiva delle forze di resistenza e della popolazione locale ed affidavano loro l'incarico di formare le nuove amministrazioni civili. Si costituì in tal modo un gran numero di "Comitati popolari" (di rione, di città, di villaggio, di comune, di distretto, di regione, ecc.) diretti in pratica da esponenti del Partito comunista, che procedettero ad un'organizzazione delle zone occupate con una serie di decreti, nei quali si considerava come parte integrante della repubblica slovena tutto il territorio fino ad una linea che andava dalle foci dell'Isonzo per Cormons, Tarcento, fino a Resia ed a Pontebba. A Gorizia, a Trieste e a Pola questi atti furono accompagnati da numerosissime arresti; oltre 4000 Italiani furono deportati e fra questi anche alcuni membri del CLN; molti furono uccisi dopo procedimenti sommarî e precipitati nelle "foibe". A Trieste un corteo inneggiante all'Italia fu preso a fucilate e si ebbero cinque morti e numerosi feriti.

Gli Angloamericani intanto lasciavano fare. Un mese più tardi trattative fra i comandi angloamericani e iugoslavi portavano ad un compromesso (12 giugno). I due eserciti si attestavano lungo una linea, scelta con criterî puramente militari, la quale, dal nome del generale britannico che la tracciò, si chiamò "Linea Morgan". Essa divideva la Venezia Giulia in due parti denominate "Zona A" e "Zona B". Nella prima l'amministrazione veniva assunta dal comando anglo-americano, il quale per la composizione degli organi civili si rivolse a tutte le correnti politiche antifasciste, ottenendo la collaborazione dei soli partiti italiani del CLN. Nella "Zona B", affidata alle autorità militari iugoslave, le condizioni createsi ai primi di maggio non mutarono.

Il Consiglio dei ministri degli Esteri delle quattro grandi potenze nella sua prima riunione a Londra (settembre 1945) stabilì come principio che la frontiera fra Italia e Iugoslavia, pur tenendo conto delle principali esigenze economiche della regione, dovesse corrispondere ad una "linea etnica", in modo da "lasciare un minimo di abitanti sotto dominazione straniera". Il tracciato della "linea etnica" doveva essere studiato da una commissione di esperti delle stesse quattro potenze, la quale doveva compiere un'inchiesta sul posto. La commissione svolse le sue indagini nella primavera successiva; però non riuscì a trovare una formula di accordo. Gli esperti inglesi ed americani assegnarono all'Italia Trieste, Pola e tutta la costa occidentale dell'Istria (gli Americani anche il bacino minerario di Albona). Gli esperti sovietici, invece, partendo dal principio che gli interessi delle popolazioni campagnole devono prevalere su quelli dellepopolazioni più fluttuanti delle città, accolsero tutte le rivendicazioni iugoslave. Infine i Francesi introdussero un principio nuovo: quello della "bilancia etnica", secondo il quale dalle due parti doveva rimanere un numero pressoché uguale di minoranze nazionali. I loro calcoli furono però fatti prendendo come base i dati del censimento austriaco del 1910, il quale, notoriamente, aveva gonfiato il numero degli Slavi presenti nella regione, sicché essi, tagliando trasversalmente l'Istria sul basso Quieto, proposero una linea di compromesso.

Alla seconda sessione del Consiglio dei ministri degli Esteri (Parigi, maggio-luglio 1946) una serie di cedimenti della diplomazia angloamericana e di compromessi successivi portarono all'accordo che prendeva per base la linea proposta dai Francesi, istituendo però ad occidente di essa - fra Duino e Cittanova - il Territorio libero di Trieste. La Conferenza della pace (Parigi, luglio-ottobre) e la successiva riunione del consiglio dei ministri degli Esteri (New York, novembre 1946) non modificarono il compromesso raggiunto.

Entrato in vigore il trattato di pace, le truppe anglo-americane dalle posizioni della Linea Morgan si ritirarono entro i confini del Territorio libero di Trieste (per il quale, in particolare, v. trieste in questa Appendice); la parte meridionale di quest'ultimo continuò ad essere occupata dalle truppe iugoslave.

Bibl.: Mancano ancora opere critiche; abbondano quelle polemiche o di propaganda. Per la parte generale: E. Sestan, Venezia Giulia, Lineamenti di storia etnica e culturale, Roma 1947; G. Montemuliano (A. Tamaro), V. G. italiana ed europea, ivi 1946; C. Schiffrer, Sguardo storico sui rapporti tra Italiani e Slavi nella Venezia Giulia, Trieste 1946; M. Zoli, Trieste e la regione Giulia nella ricostruzione europea, Firenze, 1946. Per la politica del fascismo verso gli Slavi: Cermeli, Life and death struggle of a national minority. The Yugoslavs in Italy, Lubiana 1936. Il punto di vista fascista in V. Gayda, La Iugoslavia contro l'Italia, 2ª ed., Roma 1941. Sulla resistenza: Trieste nella lotta per la democrazia, Trieste 1945 (riflette il punto di vista dell'OF); E. Steffè, Partigiani italiani nella Venezia Giulia, ivi 1946. Documenti sulle trattative tra il CLN e l'OF ne La Voce libera, 11 febbraio 1946. Per l'occupazione nazista della regione fr. il volume del prefetto di Trieste dell'epoca: B. Coceani, Mussolini, Hitler, Tito alle porte orientali d'Italia, Rocca San Casciano 1948. Per il punto di vista iugoslavo sulla questione giuliana: Digović e Goranić, La Haute Adriatique et les problèmes politiques actuels, Losanna 1944.

Sull'opera della Commissione d'inchiesta: N. Le Lannou, in Annales de géographie, gennaio-marzo 1947 (esperto della delegazione francese); L. Unger, The economy of the Free Territory of Trieste, in Geographical Review, ottobre 1947 (esperto della delegazione americana). Per il confine orientale da un punto di vista geografico e per questioni etniche ed economiche, cfr. anche: M. Bartoli-G. Vidossi, Alle porte orientali d'Italia. Dialetti e lingue della V. G. e stratificazioni linguistiche in Istria, Torino 1945; F. Milone, Il confine orientale, Napoli 1945; Sator (P. Battara), Popolazioni della V. G., Roma 1945; R. Battaglia, Dialetti e dimore ai confini orientali d'Italia, in Riv. geogr. it., LIII, 1946; Ist. di Statistica dell'univ. di Trieste, l'economia della Venezia Giulia, Trieste 1946; B. Nice, Il problema giuliano in un anno di trattative, in Riv. st. pol. internaz., XIII, 1946; C. Schiffrer, La V. G. Saggio di una carta dei limiti nazionali italo-iugoslavi, Roma 1946; Soc. Geogr. It., Il confine orientale d'Italia, Roma 1946; Soc. Istr. Arch. e St. Patria, La V. G. terra d'Italia, Venezia 1946. Quotidiani e periodici: durante l'occupazione tedesca: Il Piccolo; Deutsche Adria Zeitung; l'Italia repubblicana (fascista). Dal maggio 1945: Il nostro avvenire (slavofilo, organo dell'OF, 1° maggio-12 giugno) continuato da Il corriere di Trieste; Il Lavoratore (comunista), Il giornale alleato (organo del AMG) sostituito dall'indipendente Giornale di Trieste (marzo 1947); La voce libera (organo del CNL, ora del partito repubblicano e dei socialisti saragattiani); le Ultimissime, quotidiano d'informazioni (dicembre 1947). Ordini, atti ufficiali, ecc. Allied Military Government Venezia Giulia, The Allied Military Government Gazette, Trieste 1945-47 (ed ital.: La Gazzetta del Governo militare alleato).

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