Trattamento medico e consenso informato del paziente

Libro dell'anno del Diritto 2012

Trattamento medico e consenso informato del paziente

Antonio Vallini

Gli ultimi interventi della Cassazione qualificano come lesione od omicidio il trattamento arbitrario ad esito infausto o comunque implicante menomazioni non funzionali allo scopo di cura; in caso di accanimento terapeutico, si ritiene che il consenso del paziente non possa fungere da scriminante. Su un diverso fronte, il Parlamento sta per approvare un d.d.l. in tema di dichiarazioni anticipate di trattamento, volto a ridimensionare drasticamente l’autodeterminazione del paziente, specie se incosciente, e l’autonomia terapeutica del medico, in nome della salvaguardia in ogni caso della salute e della durata della vita. Il testo, per la sua dissonanza rispetto a principi fondamentali, è destinato a sollecitare interpretazioni correttive costituzionalmente orientate e questioni di costituzionalità, che in questo contributo già si tenta di abbozzare.

La ricognizione. Contrapposizioni tra giudici e legislatore in tema di autodeterminazione del paziente

Nell’affrontare il tema della autodeterminazione del paziente occorre preliminarmente analizzare i più recenti interventi della giurisprudenza di legittimità e le proposte avanzate in sede legislativa.

1.1 I più recenti arresti di legittimità

Dopo l’intervento delle Sezioni Unite1, che sanciva l’irrilevanza (soltanto) penale del trattamento sanitario ad esito fausto non coperto dal consenso (trattamento arbitrario divergente), lasciando intendere la possibile tipicità del trattamento arbitrario coattivo (cioè attuato nonostante il dissenso)2 e/o ad esito infausto, altre decisioni di legittimità hanno considerato il trattamento arbitrario colposo e con esito infausto3. Sullo sfondo, l’eco di una contrapposizione con il legislatore, esacerbata dalla nota vicenda «Englaro»: il padre/tutore di una ragazza in stato vegetativo persistente veniva autorizzato a rifiutare trattamenti di sostegno vitale in atto (idratazione e alimentazione artificiali), in accordo con la presumibile volontà del rappresentato4; sull’onda del clamore suscitato da queste decisioni, il Governo elaborava un d.l. inteso ad imporre quel tipo di trattamenti ai soggetti in stato vegetativo, che tuttavia il Presidente della Repubblica si rifiutava di controfirmare. Quel conato normativo è l’embrione di uno sviluppo immediatamente successivo, ispirato dalla supposta urgenza di attribuire al medico un dominio sul paziente, vincolato alla salvaguardia «ad ogni costo» della vita. Rispetto a questa «reazione», sembrano una contro-reazione gli sviluppi di legittimità di cui si è detto, che con una sorta di simmetria valoriale recuperano la forza simbolica della sanzione penale per ribadire la prevalenza su ogni altra istanza del principio voluntas aegroti suprema lex e, per altro verso, riducono i margini del potere-dovere di cura entro il limite della stretta funzionalità alla salvaguardia della salute (misurata anche in rapporto a possibili alternative terapeutiche), non della (durata della) vita sic et simpliciter5.

1.2 La proposta di legge sulle DAT

È, dunque, all’attenzione del Parlamento un d.d.l. in tema di DAT – dichiarazioni anticipate di trattamento6 (l’atto mediante il quale è possibile manifestare preferenze circa trattamenti medici che dovessero farsi necessari in un momento di sopravvenuta incapacità), fondamentalmente volto a:

• imporre idratazione ed alimentazione artificiale al paziente in stato vegetativo persistente (art. 3, co. 4);

• privare il rappresentante d’ogni effettivo potere di scelta (art.2, co. 6-8);

• negare ogni valore a prevî orientamenti non formalizzati in una DAT (art. 4, co. 2), riducendo oltremodo gli spazi di rilevanza della stessa DAT (art. 3);

• subordinare l’efficacia dell’atto ad una condizione estrema d’incapacità permanente, vale a dire una «accertata assenza di attività cerebrale integrativa cortico-sottocorticale » (art. 3, co. 5);

• negare ogni vincolo del medico rispetto alle DAT ed alle valutazioni del fiduciario eventualmente nominato (artt. 6 e 7). Alcune norme, poi, insidiano l’autonomia dello stesso paziente cosciente7:

• subordinando alla sua volontà la sola attivazione di cure (ad es. art.1, co.1, lett.e; art. 2, co.1);

• vincolando medico e paziente ad un principio generale di indisponibilità della vita (ad es. art.1, co.1, lett. a e c).

La focalizzazione

È pacifico che l’attuazione di un qualsiasi trattamento medico presupponga il consenso informato del paziente8. A tacere delle fonti internazionali, già quelle interne offrono indicazioni univoche, a partire dall’art. 32, co. 2, Cost., che nel vietare i «trattamenti sanitari obbligatori» - TSO(eccettuati quelli contemplati da una legge ad hoc, attenta a non violare «i limiti imposti dal rispetto della persona umana») delinea un diritto generale alla piena autodeterminazione in ambito sanitario. Una prerogativa che articola un più generale principio di libertà di cui all’art. 13 Cost.9.

2.1 L’autodeterminazione del paziente cosciente ed il divieto di trattamento arbitrario «coattivo»

Piena autodeterminazione significa anche diritto a rifiutare cure salvavita. La prospettiva di una morte imminente non può implicare la dismissione di prerogative fondamentali, come la libertà sul proprio corpo, stante tra l’altro l’inesistenza (e l’assurdità) di un dovere di vivere10. La prima ricaduta di carattere penalistico è che, se il paziente dissente, viene meno l’obbligo del medico di curare in quel modo, dunque la responsabilità di questi – vuoi per atipicità del fatto, vuoi per difetto di antigiuridicità – qualora la mancata attuazione o la sospensione del trattamento lascino progredire la malattia sino al verificarsi di lesioni o morte11. Vale il contrario: in caso di violazione di un dissenso esplicito, il conseguente trattamento arbitrario coattivo integra gli estremi di una violenza privata, anche se attuato nei confronti del paziente incapace12. L’attuale versione della normativa sulle DAT ha poche chances di alterare un simile assetto13. Il fondamento e la disciplina dell’autodeterminazione terapeutica discendono senza mediazioni da norme costituzionali, sicché sono insensibili a disposizioni di legge ordinaria – salva la previsione espressa di TSO, nel rispetto dei limiti stabiliti. Per altro verso, la continua insistenza, nel d.d.l., sull’indisponibilità della vita e sul divieto di «ogni forma di eutanasia» in altro non si sostanzia, al momento di tradursi in precetto (cfr. art. 1, lett. c, art. 3, co.3, art. 6, co. 6), se non nell’(inutile) conferma della vigenza degli artt. 575, 579 e 580 c.p.: norme che, ormai è assodato, non limitano il diritto di rifiutare le cure, ma trovano in quel diritto un limite. Ancora, l’art. 2, in tema di consenso informato, conferma profili già da tempo elaborati da dottrina e giurisprudenza (consapevolezza, libertà, attualità, univocità, libertà di forma, ecc.). Si subordina al consenso, è vero, la sola attivazione del trattamento sanitario; ma nel comma 5 si ammette la revoca del consenso precedentemente prestato, sicché v’è modo di articolare un’interpretazione adeguatrice che consideri come anche la prosecuzione di un trattamento non più voluto costituisca un’offesa all’autodeterminazione costituzionalmente salvaguardata. Ultimo momento d’ambiguità è l’art. 2, co. 9, secondo il quale il consenso informato «non è richiesto» in caso di rischio imminente per la vita. Ammesso che il disposto davvero riguardi anche il paziente compos sui, esso comunque escluderebbe, nei casi precisati, l’onere per il medico di attuare una completa informazione e di raccogliere un composito consenso; fermo restando il dovere preminente ex art. 32, co. 2, Cost. – di non intervenire ove il paziente abbia in ogni caso rifiutato le cure.

2.2 Gli spazi d’autodeterminazione del paziente incapace

In caso d’incapacità legale, il consenso compete al rappresentante, secondo una scelta orientata alla tutela del best interest del rappresentato, dunque normalmente alla preservazione della sua salute e vita14. In caso d’incapacità di intendere e di volere, è in linea di principio doveroso quell’intervento non differibile, atto a recuperare lo stato di coscienza e preservare la salute15. I dubbi sorgono in caso di previo rifiuto di cure non confermabile dal paziente in stato di incoscienza. Sul punto difettano indicazioni normative univoche, se si eccettua una disposizione della Convenzione di Oviedo (art. 9), secondo la quale le precedenti direttive «devono essere prese in considerazione» dal medico – un qualche valore devono, dunque, avere. A prescindere dalla misura di validità di quella fonte per l’ordinamento italiano, non è ictu oculi plausibile che qualsiasi manifestazione di volontà, anche la più radicata e inequivoca, debba sempre considerarsi invalida per il solo venir meno delle facoltà psico-fisiche – anche per cause occasionali, transeunti, o preventivate (si pensi ad un’anestesia chirurgica). Si può ben dire, dunque, che regola generale rimane quella incentrata sul diritto di rifiutare le cure16, ferma restando la necessità di valutare di volta in volta quanto il previo dissenso corrisponda e all’interesse attuale del paziente e alla specifica necessità terapeutica. Resta da stabilire a quali condizioni simile attualità «logica» sia riscontrabile17. Alcuni giudici civili aggirano l’ostacolo valorizzando le funzioni dell’amministratore di sostegno, nominato appunto per esprimere il dissenso a certi trattamenti18. Le sentenze sul caso Englaro costituivano un deciso salto in avanti, attribuendo al tutore il potere di decidere pur in assenza di chiare direttive del rappresentato. Con riferimento almeno all’incapace legale, l’entrata in vigore del testo sulle DAT avrebbe un impatto dirompente. Invero, il consenso all’atto medico, prestato dal rappresentante, non potrebbe che essere orientato alla salvaguardia della salute e della vita (col solo limite dell’«accanimento terapeutico»). Qualsiasi precedente espressione di volontà dell’interessato non avrebbe rilievo giuridico, se priva dei requisiti di una DAT; e se anche formalizzata in una DAT, la sua efficacia sarebbe comunque subordinata al sopravvenire di una specifica ed estrema condizione di incapacità permanente (v. supra), a tacere delle ambiguità della norma circa il possibile oggetto di quell’atto. Insomma: si prescrive un obbligo di curarsi e restare in vita, che nella sua categoricità contrasta con gli artt. 32, co. 2 e 3, Cost., perché opera una discriminazione tra pazienti coscienti e incoscienti, irragionevole nella sua assolutezza e attuata «approfittando», per così dire, di una condizione di «inferiorità»19. L’unica deroga (salvo definirne la misura) appare ulteriormente discriminatoria, concernendo una categoria soltanto d’incapace permanente, tra le tante ipotizzabili: se, dunque, la ratio della disciplina fosse ispirata dall’esigenza di tenere in ogni caso in vita persone con possibilità di recupero delle proprie facoltà, essa – oltre che in sé assai discutibile – sarebbe irragionevolmente declinata. La legge appare, poi, intimamente contraddittoria: è assurdo che una normativa in tema di DAT, istituto per sua natura funzionale ad estendere agli incapaci spazi di autodeterminazione20, miri pervicacemente al risultato esattamente opposto. Un’opportunità d’interpretazione costituzionalmente orientata potrebbe forse esser fornita dal richiamo congiunto alla tutela della vita e della salute, sicché non esisterebbe un obbligo di protrarre condizioni di vita non accompagnate da uno stato di salute (e la nozione di salute in una certa misura risente degli orientamenti dell’interessato). Ancor più arduo rimediare in via ermeneutica alla subordinazione della validità delle DAT alla cessazione dell’«attività cerebrale integrativa cortico-sottocorticale». Una definizione forse insensata dal punto di vista medico21, comunque fortemente problematica se riferita allo stato vegetativo permanente, perché pur minimi segni di attività cortico-sottocorticale potrebbero essere rilevabili anche «in caso di lesioni encefaliche devastanti che perdurano da anni»; proprio quelle «condizioni cliniche», peraltro, «che i cittadini che compilano i testamenti biologici vogliono evitare»22.

2.3 Il trattamento arbitrario «divergente» come lesione od omicidio. La tipicità

In difetto di chiare indicazioni normative, i penalisti si sono esercitati nelle ricostruzioni più variegate in tema di trattamento arbitrario divergente. La dicotomia fondamentale è tra un’ipotesi di riconducibilità al paradigma dei reati contro l’integrità personale o la vita, e/o alla fattispecie di violenza privata. Esclusa questa seconda eventualità dalla citata sentenza delle Sezioni Unite, la più recente giurisprudenza si concentra sull’altra prospettiva di rilevanza penale. Taluni sostengono l’intrinseca tipicità dell’atto chirurgico, anche quando ad esito fausto, perché comportante un’incisione nel corpo, dunque un evento tipico di lesione23; altri distinguono tra esito infausto, tipico, e fausto, invece concettualmente e/o assiologicamente incompatibile con l’evento di malattia24 (talora intesa come compromissione «funzionale» dell’organismo). Quest’ultimo orientamento è avallato dalle S.U.25 e non smentito dai successivi arresti della Cassazione, che si limitano ad esprimere alcune ragionevoli perplessità, specie riguardo alla possibilità di tracciare una netta distinzione tra esito fausto e infausto26. Anche per questa ragione, l’ultima giurisprudenza di legittimità27 preferisce sostenere che, ove l’intervento abbia avuto complessivamente successo, del reato di lesioni difetti casomai l’offesa tipica, altro requisito rispetto all’evento «naturalistico». Una soluzione problematica quanto ne sono le relative premesse dogmatiche. Nella sentenza appena citata si ritiene nondimeno lesione ogni menomazione non necessaria rispetto alle esigenze curative. Da altra recente pronuncia della Cassazione28 – che sviluppa uno spunto offerto dalle Sezioni Unite29 – ricaviamo che sulla misura di quella necessità incide la volontà del paziente, quand’egli, se correttamente informato, avrebbe optato per altro trattamento.

2.4 L’antigiuridicità

Le ultime sentenze confermano la propensione della giurisprudenza ad escludere che il consenso – sia esso considerato ex art. 50, oppure 51 c.p. (quale presupposto per l’operatività di un’autorizzazione legale all’attività terapeutica lege artis) – possa «giustificare» la produzione di limitazioni permanenti dell’integrità fisica (si argomenta sovente ex art. 5 c.c.). In questo scenario si comprende l’irrilevanza del consenso rispetto a gravi menomazioni chirurgiche non strettamente funzionali ad uno scopo terapeutico, ivi comprese quelle inerenti ad atti d’accanimento, desumibile dagli ultimi interventi della Cassazione.

2.5 La colpevolezza

L’atteggiamento prevalente è quello di ascrivere per colpa – in caso, ovviamente, di violazione di regole cautelari – conseguenze negative che il professionista opera per evitare, e che dunque, se pur previste, non possono dirsi «accettate»30. In questo senso può intendersi l’affermazione delle Sezioni Unite circa la tendenziale incompatibilità tra finalità terapeutica e dolo di lesioni derivate, quale esito infausto, dal trattamento arbitrario. Le più recenti sentenze si limitano a rilevare che un dolo diretto di lesioni (costituite – si badi – non dall’incisione chirurgica in sé, ma da patologie determinate dall’intervento), presupposto di una responsabilità per omicidio preterintenzionale (in causo di esito letale di quelle patologie), sussisterebbe solo quando il medico abbia agito sin dall’inizio per scopi estranei alla salvaguardia della salute. Qualcuno vi legge un’implicita disponibilità all’ipotesi di un’imputazione a titolo di dolo eventuale dell’esito infausto31. L’opinione prevalente32, avallata dalle Sezioni Unite e dalla stessa sentenza della Cassazione 23.9.2010, n. 3452133, è restia a fondare la colpa sulla sola inottemperanza alle regole in tema di acquisizione del consenso34, non essendo le stesse orientate a prevenire danni alla salute (salvo quando funzionali ad un’accurata anamnesi). La sentenza di legittimità dell’8.6.2010, n. 2179935 sembra muovere in controtendenza, quando annovera la mancata acquisizione di un pieno consenso tra le violazioni cautelari addebitabili al medico; arrivando addirittura ad individuare un dolo di lesioni nel fatto, tra l’altro, di aver fraudolentemente carpito quel consenso. Questo passaggio della decisione, a dir poco ambiguo36, acquista una qualche plausibilità nel quadro di un’argomentazione orientata a considerare le menomazioni procurate tipiche (anche) perché non necessarie, e non necessarie (anche) perché inerenti a un intervento diverso da quello preferito dal paziente (v. supra). Se il dissenso determina la tipicità del risultato, esso concorre all’oggetto del dolo37. La questione dell’elemento psicologico si complica ove si ritenga tipico e antigiuridico l’atto medico-chirurgico anche in caso di buona riuscita complessiva – perché in sé costitutivo di una lesione, o perché accompagnato da invalidità qualificabili come malattia. In simile ipotesi, posto che il medico vuole, oppure è certo di realizzare la «lesione» connaturata all’atto, è difficile negare un dolo se non altro diretto, dunque un omicidio preterintenzionale, in caso di successiva morte non voluta38. Frequentemente si afferma, in giurisprudenza, che il dolo «diretto » sarebbe anche in questo caso incompatibile con la finalità curativa. Sennonché, alla stregua delle elaborazioni più diffuse, «scopi» o «motivazioni» benefiche non inficiano il dolo, se comunque il soggetto sa e intende (o è certo di) produrre il risultato tipico – salvo, ovviamente, il caso in cui egli erroneamente supponga un motivo di liceità della condotta, integrando così l’ipotesi di cui all’art. 59, co. 4, c.p. In breve, se davvero si ritiene eccessivo affermare una responsabilità per omicidio preterintenzionale in caso di trattamento arbitrario sfociato, poi, nella morte, deve forse dubitarsi della tipicità dell’accaduto; una volta ammessa tale tipicità, appare arduo escludere l’elemento soggettivo rilevante. Su questo punto, le Sezioni Unite avevano offerto un contributo di chiarezza quantomeno nel metodo, argomentando prima di tutto riguardo all’assenza materiale di un evento di lesioni. Le sentenze successive a tratti sembrano nuovamente avallare l’orientamento che qui si critica.

I profili problematici. Idratazione e alimentazione artificiali come TSO e il valore delle dichiarazioni anticipate

Gli ultimi interventi della Cassazione confermano l’instabilità della giurisprudenza in materia. Sarebbe urgente un intervento chiarificatore da parte del legislatore, il quale tuttavia, con il d.d.l. sulle DAT, pare piuttosto pervicacemente impegnato ad alimentare incertezze, sovvertendo principi, regole e pratiche ormai consolidate, oltretutto mediante norme affette da gravi ambiguità39. I passaggi riferibili al paziente cosciente forse rinvigoriranno, occasionalmente, posizioni del tutto minoritarie, di stampo «paternalistico », ma difficilmente potranno scalfire un orientamento complessivo solidamente radicato in norme fondamentali. Le disposizioni dedicate ai pazienti «incoscienti» risultano, invece, più refrattarie a ortopedie esegetiche, dunque in prospettiva riservate all’attenzione della Corte costituzionale. In quest’ottica, può essere utile considerare due profili ancora, destinati senz’altro a sollevare ardue controversie. Il primo concerne l’obbligo d’idratazione ed alimentazione artificiale anche per il paziente in stato vegetativo persistente, salvo il caso in cui quei trattamenti non siano «più efficaci» (quasi che, in generale, il medico fosse tenuto a imporre cure inutili). La norma non precisa più, come in precedenti elaborazioni, che idratazione ed alimentazione sono mere forme di sostegno vitale, a negarne la natura di trattamenti medici, e a fortiori di atti di accanimento terapeutico (vano gioco delle etichette: qualsiasi trattamento sanitario, anche non terapeutico, ed anche non «accanito», è rifiutabile ex art. 32, co. 2, Cost.; inoltre, tutto ciò che è invasione sgradita della sfera corporale costituisce una coercizione incompatibile se non altro con l’art. 13 Cost.40). Nell’ultima versione si profila un vero e proprio TSO, non volto a garantire diritti terzi, bensì ad imporre un «bene» individuale definito in modo autoritativo dallo Stato, nel disinteresse d’ogni orientamento del malato – fosse anche espresso in DAT, cioè mediante quell’atto che la stessa legge disciplina al fine specifico di consentire la valida formulazione di direttive anticipate. Mancano le condizioni che autorizzano una legge impositiva di TSO, secondo l’art. 32, co. 241, Cost., e si ravvede altresì una violazione dell’art. 3 Cost., nella duplice veste di parametro di ragionevolezza e di uguaglianza. Da questo secondo punto di vista, la disparità di trattamento sanzionabile è quello tra il soggetto capace – che può sempre rifiutare idratazione ed alimentazione – ed invece il soggetto in stato d’incapacità, che non avrebbe mai modo di sottrarsi a quelle cure. Altra questione concerne la vincolatività delle DAT. Il testo definisce le volontà ivi manifestate come semplici «orientamenti», che il medico dovrà «prendere in considerazione», decidendo poi se «seguirle o meno», anche a seguito del dialogo con l’eventuale fiduciario, con l’onere di documentare le ragioni della scelta. Se ancora vale il postulato della razionalità del legislatore, non possiamo pensare che questi abbia progettato una legge tanto articolata sulle DAT, per poi attribuire al terapeuta un pieno arbitrio. Dall’onere di motivazione si deduce, dunque, la sussistenza di una «discrezionalità» del medico «vincolata» ad un’attenta valutazione della «attualità logica» delle DAT, in rapporto, tra l’altro, alla specifica situazione clinica e ad eventuali evoluzioni intercorse nel trattamento della patologia.

Note

1 Cass., S.U., 18.12.2008, n. 2437, in Cass. pen., 2009, 1851, con nota di Viganò e in I dossier di Resp. risarc., 2009, 4.

2 Cfr. Cornacchia, Trattamenti sanitari arbitrari divergenti, in Criminalia, 2009, 417.

3 Cass., sez. IV, 8.6.2010, n. 21799, in Dir. pen. e processo, 2010, 1320, con nota di Iadecola, individua una lesione dolosa in caso di esito infausto e consapevolezza del dissenso del paziente, al quale era stato proposto un certo intervento, poi invece praticato (male) un più rischioso intervento a lui sgradito; Cass., sez. IV, 23.9.2010, n. 34521, in Riv. it. med. leg., 2011, 253, con nota di Fiori-Marchetti-La Monaca, considera omicidio preterintenzionale il fatto del chirurgo che consapevolmente produca menomazioni non necessarie alla salvaguardia della salute, dalle quali derivi la morte; Cass., sez. IV, 13.1.2011, n. 13746 in www.penalecontemporaneo.it, con nota di Cupelli, ritiene configurabile un omicidio colposo in caso d’attuazione – col consenso informato del paziente – di un intervento di cui era preventivabile l’inutilità terapeutica ed anzi la pericolosità, viste le disperate condizioni cliniche, e che, in effetti, provocava la morte.

4 Cass. civ., sez. I, 16 .10.2007 n. 21748, in Fam. dir., 2008, 129, e App. Milano, decr. 9.7.2008, in Fam. dir., 2008, 903. Tra i penalisti, ad es., Canestrari-Mantovani- Santosuosso, Riflessioni sulla vicenda di Eluana Englaro, in Criminalia, 2009, 331 ss.; Viganò, Decisioni mediche di fine vita e «attivismo giudiziale», in Riv. it. dir. e proc. pen., 2008, 1605 ss.

5 Una nozione tutta oggettiva d’accanimento terapeutico – quale quella proposta da Cass., sez. IV, 13.1.2011, cit. – stride tuttavia col principio d’autodeterminazione del paziente, cfr. Cupelli, cit.

6 Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento, trasmesso al Senato, in seconda lettura, il 13.7.2011. Sulle precedenti proposte Tassinari, Note a margine dei recenti disegni di legge relativi al «testamento biologico», in Medicina e diritto penale, Pisa, 2009, 403 ss.

7 Il d.d.l. risente anche del caso «Welby - Riccio», relativo ad un rifiuto di sostegni vitali da parte di un soggetto perfettamente capace: cfr. Trib. Roma, 17.10.2007, Riccio, in Dir.pen. e processo, 2008, 59, nota di Vallini; cfr. altresì Donini, Il caso Welby e le tentazioni pericolose di uno «spazio libero dal diritto», in Cass. pen., 2007, 902 ss.; Seminara, Le sentenze sul caso Englaro e sul caso Welby: una prima lettura, in Dir.pen. e processo, 2007, 1561 ss.

8 Su tutto ciò che segue, e per tutti: Ferrando, Fine vita e rifiuto di cure: profili civilistici, e Canestrari, Rifiuto informato e rinuncia consapevole al trattamento sanitario da parte di paziente competente, entrambi in AA.VV., Il governo del corpo, II, Milano, 2011, 1865 ss., 1901 ss. Da ultimo, C. cost. n. 438/2008, in www.associazionedeicostituzionalisti.it; v. poi, tra le tante Cass., sez. V, 21.4.1992, n. 5639, in Cass. pen., 1993, 63; Cass., sez. IV, 12.7.2001, n. 28132, in Cass. pen. 2002, 517; Cass., sez. VI, 14.2.2006, n. 11640, in CED Cass. n. 233851; Cass., S.U., 18.12.2008, n. 2437, cit.; Cass., sez. IV, 8.6.2010, n. 21799, cit.; Cass., sez. IV, 23.9.2010, n. 34521, cit.

9 Già Mantovani, I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero, Padova, 1974, 84; Tordini Cagli, Principio di autodeterminazione e consenso dell’avente diritto, Bologna, 2008, 90 ss.; C. cost. n. 438/2008, cit.; tra le tante v. poi Cass., sez. IV, n. 1572, cit.; Cass., sez. IV, 14.3.2008, n. 11335, in Dir. pen. e processo, 2009, 66; Cass., S.U., 18.12.2008, n. 2437, cit.; Cass., sez. IV, 8.6.2010, n. 21799 cit.

10 Precisazione ricorrente nella giurisprudenza citata. Il dibattito sul punto è ampio e articolato, una ricostruzione critica in Vallini, cit., 73 ss.

11 Cfr., ad es., Giunta, Diritto di morire e diritto penale. I termini di una relazione problematica, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, 95.

12 In tal senso anche le sentenze più inclini a depotenziare il ruolo del consenso: Cass., sez. I, 11.7.2002, Volterrani, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2003, 608.

13 Cfr. Viganò, L’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali nei confronti di pazienti in stato vegetativo permanente: la prospettiva penalistica, 22, in www.forumcostituzionale.it.

14 Da ultimo d’Avack, Il rifiuto delle cure del paziente in stato di incoscienza, in AA.VV., cit., 1917 ss.; Scalera, I trattamenti sanitari dell’interdetto: poteri del tutore e ruolo del giudice, in Fam. dir., 2011, 793 ss.

15 V. già Giunta, Diritto di morire, cit., p. 103. Sull’inapplicabilità, in tali casi, dell’art. 54 c.p.: Bellagamba, Stato di necessità ed attività medico-chirurgica: profili di una relazione di incompatibilità, in Medicina e dir. pen., cit., 22 ss.

16 Da ultimo, Azzalini, Le disposizioni anticipate del paziente: prospettiva civilistica, in AA.VV., cit., 1951 ss.

17 Sul punto per tutti Provolo, Le direttive anticipate: profili penali e prospettiva comparatistica, in AA.VV., cit., 1976 ss.

18 Per tutti Scalera, L’amministrazione di sostegno e il consenso ai trattamenti medico-chirurgici, in Fam. dir., 2011, 745 ss.

19 Analogamente Viganò, L’interruzione, cit., 22 ss., 25 ss.

20 Come ben emerge dalla comparazione: Paonessa, La disciplina delle direttive anticipate di trattamento: uno sguardo all’esperienza straniera, in Criminalia, 2008, 455 ss.; Provolo, cit., 1981 ss.

21 Marino, Testamento biologico: una legge antiscientifica, in www.scienzainrete.it.

22 Orsi, Biotestamento, un cattivo servizio alla vita che finisce, in www.scienzainrete.it.

23 Ad es., Cass., sez. V, 21.04.1992, n. 5639, cit.; di recente, valorizzando tutte le conseguenze dell’atto chirurgico e sulla scorta di una nozione tendenzialmente soggettiva di salute: Viganò, Profili penali del trattamento chirurgico eseguito senza il consenso del paziente, Riv. it. dir. proc. pen., 2004, 176 ss.; di recente De Francesco, Diritto penale, Torino, 2011, 331 ss. in virtù del principio di non contraddizione ritiene atipico l’atto medico imposto dall’obbligo di garanzia, tendenzialmente tipico quello non coperto da quell’obbligo, ad es. per carenza di consenso.

24 Ad es., Manna, Trattamento sanitario «arbitrario»: lesioni personali e/o omicidio, oppure violenza privata?, in Ind. pen., 2004, 457 ss.; Giunta, Il consenso informato all’atto medico tra principi costituzionali e implicazioni penalistiche, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2001, 400 s.

25 Cass., S.U., 18.12.2008, n. 2437, cit.

26 Mantovani, Diritto penale, Padova, 2011, 277; Padovani, Diritto penale, Milano, 2008, 155.

27 Cass., sez. IV, 23.9.2010, n. 34521, cit.

28 Cass., sez. IV, 8 giugno 2010, n. 21799, cit.

29 Che scrivevano: «per esito fausto dovrà intendersi soltanto quel giudizio positivo sul miglioramento apprezzabile delle condizioni di salute del paziente, ragguagliato … anche alle alternative possibili, nelle quali devono necessariamente confluire le manifestazioni di volontà … espresse dal paziente».

30 Cfr. Giunta, Medico (responsabilità penale del), in Diritto penale, Milano, 2008, 877 ss.

31 Valsecchi, Sulla responsabilità penale del medico per trattamento arbitrario nella giurisprudenza di legittimità, in www.penalecontemporaneo.it.

32 Tra i tanti, Eusebi, Verso una recuperata determinatezza della responsabilità medica in ambito penale?, in Criminalia, 2009, 427 s.

33 Cass., sez. IV, 23.9.2010, n. 34521, cit.

34 Tesi sostenuta ad es. da Giunta, Il consenso informato, cit., 401 s.; Pelissero, L’intervento medico in assenza di consenso: riflessi penali incerti e dilemmi etici, in Dir. pen. e proc., 2005, 379.

35 Cfr. Iadecola, cit., 1335 s.

36 Cass., sez. IV, 8.6.2010, n. 21799, cit.

37 Analogamente Pelissero, Intervento medico e libertà di autodeterminazione del paziente, in Dir. pen. e proc., 2009, 466.

38 Così, con importanti precisazioni: Viganò, op. ult. cit.

39 Cfr. Agosta, Note di metodo al disegno di legge in materia di dichiarazioni anticipate di trattamento ( tra molteplici conclusioni destruentes ed almeno una proposta construens), in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 14 ss.

40 Ad es. Pulitanò-Ceccarelli, Il lino di Lachesis e i diritti inviolabili della persona, in Riv. it. med. leg., 2008, 338.

41 Già Vincenzi Amato, Il 2° comma dell’art. 32, in Comm. Cost. Branca, art. 29-34, Bologna- Roma 1976, 172 ss.; C. cost. n. 218/94, 307/90 e n. 258/94.

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