TRASCINAMENTO dell'ETERE

Enciclopedia Italiana (1937)

TRASCINAMENTO dell'ETERE

Giovanni Gentile

. Il problema del trascinamento dell'etere - il problema cioè se e in quale misura l'etere, sostegno e veicolo della luce nel suo propagarsi da un punto all'altro dello spazio, partecipi nell'interno dei corpi al loro moto - è una delle questioni più lungamente dibattute nella fisica e quella, nello stesso tempo, che ha portato gli argomenti più decisivi per chiarire, dapprima, la natura dell'etere e per negarne, infine, addirittura l'esistenza.

Difatti se l'idea di un etere, come di una sostanza materiale imponderabile che riempie lo spazio e penetra i corpi, era di per sé implicita nella forma primitiva della teoria ondulatoria della luce, e se una tal cosa poteva far sembrare ogni conferma sperimentale della teoria come una prova anche della presenza effettiva dell'etere nello spazio, il problema delle proprietà fisiche da attribuire a questo ipotetico ente corporeo poteva risolversi solo indirettamente, in base alle speciali ipotesi che si dovevano fare perché la trattazione matematica dei fenomeni luminosi si adeguasse alla realtà sperimentale (v. etere).

Le conclusioni, a cui si arriva, variavano perciò da teoria a teoria - e seguirle storicamente significherebbe fare la storia di gran parte della fisica del sec. XIX (v. luce) -; esse servirono tuttavia a mettere in chiaro che un'indicazione diretta sull'esistenza obiettiva dell'etere si poteva avere soltanto studiando gli effetti caratteristici che si presentano nei fenomeni luminosi quando il punto d'osservazione si muove relativamente alla sorgente e relativamente al mezzo in cui la luce si propaga: cioè quelle esperienze, precisamente, che potrebbero rivelare un trascinamento dell'etere.

1. Teoria di Fresnel. - Già nel 1818 Augustin Fresnel, in una lettera ad Arago, volendo spiegare il fenomeno dell'aberrazione stellare (v. aberrazione: Aberrazione della luce) fu condotto a supporre che il moto della Terra, rispetto all'etere - quello eventuale della stella, data la grande distanza, non produrrebbe, secondo lui, alcun effetto sensibile - avesse un'influenza sulla velocità della luce nell'atmosfera o, comunque, in un corpo trasparente.

E poiché, nella sua concezione, le vibrazioni luminose sarebbero semplicemente vibrazioni elastiche dell'etere, la velocità v di propagazione di queste onde in tanto può variare da una regione a un'altra dello spazio, in quanto ad essa si sovrappone la velocità locale di traslazione, propria dell'etere. Quindi facendo per V la posizione generale:

(dove

è la velocità della luce nell'etere immobile e v. è la componente n della velocità del mezzo con indice di rifrazione n nella direzione del raggio luminoso), il termine additivo kv viene a rappresentare la velocità di trascinamento dell'etere, o anche, semplicemente, la velocità del vento d'etere. Dalla (i) e dalle leggi più semplici della teoria ondulatoria, Fresnel arrivò al risultato che l'angolo di aberrazione α (di cui appare spostata la posizione della stella nel cielo per il fatto che essa si muove normalmente alla congiungente astro-Terra con velocità v ≠ 0) risulta nullo per k = 1 (trascinamento completo; questo caso è stato considerato più tardi da Stokes nella sua teoria dell'etere, incontrando però difficoltà, dovute all'ipotesi che il moto del fluido sia irrotazionale, difficilmente superabili senza ipotesi troppo artificiose); di più:

per k = 0 (trascinamento nullo) e

per

Non sarebbe stato facile decidere sperimentalmente tra la seconda e la terza espressione per α, dato che n nell'aria è molto vicino all'unità; ma Fresnel concluse che l'etere è parzialmente trascinato, cioè:

avendo intuito che l'angolo d'aberrazione non doveva dipendere da n. Ciò significa che se, per es., si riempie d'acqua il cannocchiale con cui si guarda la stella, non si osserva alcuno spostamento nella sua posizione apparente. Ora non solo le esperienze di G. B. Airy (1871-72) hanno confermato tale previsione, ma di più H. Fizeau verificò direttamente che la velocità della luce in un mezzo materiale in moto è data effettivamente dall'espressione di Fresnel:

Fresnel interpretò così il suo risultato: l'etere deve avere nell'interno dei corpi con indice di rifrazione n una densità n2 volte maggiore che nello spazio libero; ma "non è che una parte di un tale mezzo che è trascinata dal nostro globo: quella che costituisce l'eccesso della sua densità rispetto all'etere nel vuoto". Vale a dire, essendo nel vuoto n ==1, solo una parte, corrispondente alla densità n2 − 1, è trascinata con la velocità v del corpo; il resto sta fermo. La quantità di cui va aumentata la velocità di propagazione delle onde è, secondo Fresnel, quella con cui si muove il "centro di gravità del mezzo", cioè (n2 − 1)/n2v. Se pure non è chiaro come si possa definire quest'ultima grandezza fisica, si può arrivare direttamente allo stesso risultato finale osservando che se nell'etere la regione di densità n2, seguendo il corpo, si sposta con velocità v., si ha un trasporto di materia eguale a (n2 − 1) • v per unità di tempo e di superficie, attraverso la frontiera che separa i due mezzi rispettivamente con densità 1 e n2. In quest'ultima regione allora, per note condizioni di continuità, si deve arere un flusso continuo con velocità kv, tale che si abbia: n2kv = (n2 − 1) v.

2. Teoria di Hertz. - Messa in luce attraverso l'opera di Faraday e di Maxwell l'identità di natura dei fenomeni elettrici e magnetici e dei fenomeni luminosi, anche al problema delle proprietà fisiche dell'etere venne data una soluzione soddisfacente, in quanto che il concetto d'etere veniva a identificarsi con l'altro, fornito di più preciso significato fisico, di campo elettromagnetico.

Con questo veniva insieme che anche il problema del trascinamento riguardava non solo quelle particolari oscillazioni elettromagnetiche che sono le onde luminose, ma si poneva in generale per tutte le azioni elettriche che, come tali, hanno sempre la loro sede nell'etere.

Così se si potevano concepire altre esperienze, anche d'elettrostatica, per decidere se l'etere fosse trascinato o no dai corpi, la risposta a una tale questione poteva anche cercarsi teoricamente, studiando l'elettrodinamica dei corpi in movimento.

Ma, intanto, poiché un moto s'intende sempre relativo a un riferimento, avrebbe un significato puramente convenzionale voler distinguere accanto a un'elettrodinamica dei corpi in quiete un'elettrodinamica dei corpi in moto, se non si dimostrasse dapprima che esiste un sistema di riferimento e uno solo in cui le leggi dell'elettrodinamica assumono una forma particolarmente semplice. Solo in questo caso sarebbe lecito indicare l'etere come quell'oggetto che fissa nello spazio un simile riferimento privilegiato; in caso contrario, l'ipotesi stessa dell'etere verrebbe a perdere ogni fondamento, a meno che si rinunci a considerarlo come una "sostanza" e ci si limiti, come è stato proposto da A. Einstein, ad adoperare questo termine come "sinonimo di campo".

Questa esigenza fondamentale è stata riconosciuta in tutta la sua importanza già da H. Hertz che, dopo verificate le conseguenze sperimentali della teoria di Maxwell, tentò per primo di costruire su basi classiche una elettrodinamica dei corpi in movimento. Egli si lasciò guidare nel suo tentativo dal concetto della relatività del moto, e precisamente dalla necessità di cercare delle equazioni per l'elettrodinamica, che soddisfino al principio di relatività classica (di Galileo). Egli modifica perciò le equazioni di Maxwell in modo che risultino invarianti rispetto al gruppo delle trasformazioni (cosiddette di Galileo) che dànno la legge con cui classicamente si trasformano le coordinate, quando si passa da un sistema di riferimento a un altro, mobile rispetto al primo. Ma per ottenere questo, egli dové aggiungere ai termini soliti delle equazioni di Maxwell altri termini, che contengono esplicitamente le componenti della velocità (s'intende, relativamente all'etere) dell'origine delle coordinate e che si annullano per velocità nulla. Così, nella teoria di Hertz, l'etere assume una funzione caratteristica, di modo che, per es., nel fenomeno elementare della forza elettromotrice indotta in un filo mosso in un campo magnetico, bisogna distinguere se è il filo o la calamita l'oggetto che si muove rispetto all'etere; mentre, nel fatto reale, ha importanza solo il moto relativo del circuito indotto rispetto al campo esterno.

Ma anche prescindendo da questa difficoltà, la teoria di Hertz si dimostra completamente inadeguata perché in disaccordo con i fatti sperimentali (esperimenti di Wilson, di Eichenwald-Röntgen, ecc.).

3. Teoria di A. H. Lorentz. - A. H. Lorentz scoprì il gruppo delle trasformazioni (dette appunto di Lorentz) rispetto a cui le equazioni di Maxwell sono invarianti; ma, ritenendo che dovesse sempre valere il principio di relatività classica e quindi le formule di trasformazioni galileiane, egli interpretò questo risultato nel senso che le equazioni di Maxwell dovessero essere scritte unicamente per l'etere, sede naturale dei fenomeni elettrici. Così, a differenza di H. Hertz, egli nella sua Teoria degli elettroni mantiene alle equazioni dell'elettromagnetismo la forma classica di Maxwell (con qualche modifica per tener conto dell'atomicità delle cariche elettriche), trovando naturale che queste equazioni non assumano - come invece avviene per le equazioni della meccanica - la stessa forma in un sistema di riferimento e in un altro, mobile rispetto al primo di moto rettilineo uniforme.

D'altra parte l'elettrodinamica di Lorentz rimane sempre un'elettrodinamica nel vuoto: gli elettroni, o meglio le cariche elementari (positive e negative), sono gli unici agenti produttori del campo elettromagnetico e l'azione tra di essi si esplica con l'unico intermediario del campo nel vuoto. Un dielettrico, quindi, o un corpo ponderabile qualunque non costituisce un "mezzo" in seno a cui si esplicano le azioni elettriche, la sua presenza nello spazio avendo unicamente l'effetto di sovrapporre al campo degli elettroni all'esterno quello proprio degli elettroni che esso contiene.

Questo spiega, in particolare, come si possa arrivare, con Lorentz, alla stessa formula (2) di Fresnel senza però dover concludere che l'etere sia trascinato: l'etere rimarrebbe sempre in quiete, indifferente all'azione dei corpi che attraversano lo spazio. Difatti la velocità di ogni onda luminosa, emessa singolarmente da una molecola, è sempre la stessa della luce nel vuoto; cioè nell'etere libero. Ma la perturbazione elettromagnetica che effettivamente si propaga nel corpo disperdente è quella dovuta alla sovrapposizione di tutte le onde elementari, che, nell'interno del mezzo, sono originate dall'oscillazione dei momenti elettrici indotti nelle singole molecole. Questo fatto, insieme con l'altro che l'eccitazione luminosa si propaga da una molecola all'altra del mezzo con velocità finita, fa sì che il campo elettromagnetico totale si muova con velocità di fase c/n. Se poi c'è un moto d'insieme delle molecole del corpo disperdente, nello stesso senso, per es. con la direzione di propagazione del raggio luminoso, si ha inoltre un ritardo nell'eccitazione successiva delle molecole, tale che la velocità di fase risulta data di nuovo dall'espressione (2). In questo, come in tutti gli altri casi in cui si ha un moto relativo tra due corpi materiali (lo strumento con cui si osserva e il mezzo corporeo in cui si svolge il processo osservato), la teoria di Lorentz rende conto dei risultati sperimentali. Quando invece si cerca di rilevare direttamente un moto di corpi rispetto all'etere (esperimenti di Michelson-Morley; di TroutonNoble) l'accordo con l'esperienza cessa: la teoria di Lorentz diventa insostenibile e così si arriva alla teoria della relatività di Einstein (v. relatività).

4. Accettato il principio, fondamentale in quest'ultima teoria, che per due osservatori, mobili l'uno rispetto all'altro di moto non accelerato, tutti i fenomeni fisici si svolgono secondo le stesse leggi, risulta evidente che esiste una tripla infinità di sistemi di riferimento perfettamente equivalenti, e, quindi, cade da sé l'ipotesi d'un "etere sostanziale". Inoltre il problema particolare - proprio dell'elettrodinamica dei corpi in movimento - di trovare l'espressione del campo elettrico ???E e di quello magnetico ???H e dei rispettivi vettori induzione ???D e ???B in funzione dei valori che queste stesse grandezze assumono nel sistema delle cariche in quiete, si risolve immediatamente - quando siano note le corrispondenti formule di trasformazione per le coordinate - in base alle proprietà tensoriali di questi vettori (la coppia ???E e ???B e la coppia ???H e ???D costituiscono, secondo Minkowsky, due tensori antisimmetrici del secondo ordine).

Allo stesso modo, per risolvere il problema: in quale direzione arrivi, per un osservatore che si sposta lungo l'asse Ox con velocità −v un raggio di luce di frequenza ν e propagantesi nella direzione ortogonale Or, attraverso un mezzo con indice di rifrazione n; possiamo fare uso della proprietà che la fase, cioè l'espressione:

è un'invariante. Sostituendo in (3) per y e per t la loro espressione (v. relatività: form. 1) nelle coordinate x′, y′, t′. del sistema mobile, la (3) diventa:

Scrivendo ora la (4) sotto la forma:

la ν′ rappresenta la frequenza, V la velocità, e Θ l'angolo che il raggio forma con la direzione primitiva Oy′. Dal confronto di (1) con (2) si vede subito che, a meno di termini dhrdine superiore in v/c, è sempre ν′ = ν e v = c/n; invece è

(Θ non è ancora l'angolo di aberrazione α; cn per aver questo si deve tener conto, di più, della rifrazione del raggio al limite dell'atmosfera, per cui diventa: α = nΘ = v/c).

Con un calcolo analogo si vede subito che tanto ν′ quanto V variano con la direzione del raggio e così, per un raggio propagantesi nella direzione del moto Ox, la V (sempre a meno di termini del secondo ordine) è data dalla stessa espressione (2) di Fresnel. La cinematica relativistica ci mette dunque in grado di spiegare, senza alcuna speciale ipotesi, gli effetti osservati. Le differenze che si trovano tra le formule classiche e le relativistiche, sono sempre almeno del secondo ordine in v/c e questo spiega, dato il valore enorme di c (c = 300.000 km./sec. e per il moto della Terra sull'eclittica, v/c = 1/10.000), le grandi difficoltà che s'incontrano per una verifica quantitativa della teoria della relatività.

5. Passando adesso in rassegna le esperienze che presentano speciale interesse per la questione del trascinamento dell'etere, abbiamo dapprima gli esperimenti con cui si rivela l'effetto di un moto rettilineo uniforme, relativo all'osservatore. Questi esperimenti sono:

Esperienza di Fizeau. - La lastrina di vetro semiargentata a divide il raggio luminoso r in due raggi che, dopo percorso in senso contrario l'uno rispetto all'altro, il cammino a b c d e a, si riuniscono nel raggio af; le frange d' interferenza, che così si originano, sono osservate con il cannocchiale f. Ora l'esperienza che Fizeau eseguì (1851) consiste propriamente nel porre sui lati bc, de due tubi di eguale lunghezza l, entro cui scorre una corrente d'acqua, con velocità v e nel verso indicato nella figura con le frecce. In tal modo essendo diversa per la (1) la velocità nell'acqua dei due raggi, tra essi si ha un ritardo di fase, e, quindi, uno spostamento nella posizione delle frange, che risulta proporzionale a v e al coefficiente k. Dalle misure di Zeeman, che ripeté (1914-1917) con grande cura l'esperienza, si ricava che i valori sperimentali di k sono rappresentabili con grande approssimazione dalla formula (di Fresnel-Lorentz):

Il terzo termine tien conto della dispersione del mezzo, cioè che è:

Esperienze di H. A. Rowland: di Eichenwald-Röntger. - Rowland mostrò (1876) che una corrente di convezione produce un campo magnetico: la corrente era ottenuta facendo rotare un disco di rame, che formava una delle armature di un condensatore carico. Röntgen (1888) e più tardi (1903), con più accuratezza, Eichenwald studiarono come varia in intensità il campo prodotto - con la precedente disposizione sperimentale - quando tra le lastre del condensatore viene interposto un materiale isolante. Facendo rotare solo il dielettrico, oppure facendo rotare una sola lastra o ambedue, insieme con il dielettrico oppure no, si hanno ogni volta valori diversi per il campo magnetico; perché nell'effetto totale concorrono sia le correnti dovute alle cariche libere del metallo, sia quelle dovute alle cariche proprie del dielettrico.

Esperienza di H. A. Wilson. - In un campo magnetico omogeneo H si fa rotare un cilindro metallico cavo: la forza

che si esercita sugli elettroni, provoca una corrente nel metallo, tra le due superficie, interna ed esterna, del cilindro. Sostituendo il metallo del cilindro con un materiale isolante, la stessa forza F produce una polarizzazione d'intensità:

Raccogliendo opportunamente e misurando con un elettrometro le cariche, che vengono a disporsi sulle due facce del cilindro, H. A. Wilson verificò (1903) quantitativamente l'esistenza di questo effetto.

6. D'un altro tipo è l'esperienza di G. Sagnac (1913; che non ci soffermeremo a descrivere), con cui si mette in evidenza l'effetto d'un moto rotatorio sulla propagazione della luce. Sagnac credette di avere con la sua esperienza portato una prova in favore dell'etere, ma M. v. Laue ed altri hanno mostrato che questo risultato si spiega anche con la teoria della relatività. E questo non meraviglia quando si pensi che il principio della costanza della velocità della luce, fondamentale nella relatività ristretta, riguarda soltanto i sistemi in moto rettilineo uniforme. Con una esperienza del tutto analoga Michelson e Gale riuscirono (1924-25) a mettere in evidenza direttamente la rotazione della Terra.

7. Infine, esperienze concepite per mettere in evidenza l'effetto di un moto non accelerato rispetto all'etere sono:

Esperienza di Trouton-Noble. - Un condensatore piano si muova con velocità v rispetto all'etere, in modo che la direzione di v e la normale al piano del condensatore formino un certo angolo. In queste condizioni, il campo magnetico, prodotto dalle cariche superficiali di un'armatura del condensatore, esercita sulle cariche di segno opposto dell'altra una forza; e viceversa. Così ha origine una coppia che tenderebbe a disporre il condensatore normalmente a v. L'esperienza fu eseguita (1903) da Trouton e Noble, che sospesero un condensatore molto leggiero a un filo di quarzo: il moto della Terra rispetto all'etere avrebbe dovuto avere per effetto un momento torcente sul filo, nell'atto della carica e della scarica del condensatore. Non fu notato invece alcun effetto del genere, in accordo con le previsioni della teoria della relatività.

Esperienza di Michelson-Morley. - J. C. Maxwell osservò a proposito dell'etere - in un articolo pubblicato (1878) sotto questo titolo nell'Encyclopaedia Britannica - che l'unico modo per avere una prova certa della sua esistenza era quello di misurare otticamente il cammino percorso dalla Terra nell'etere, fra due istanti successivi di tempo. Dalla lettura di questo articolo Michelson, che allora si trovava a Berlino, trasse (1881) l'ispirazione per il suo celebre esperimento, di cui la fig. 17 della voce interferenza, XIX, p. 389, dà lo schema. Questo dispositivo è montato su una croce di materiale molto rigido (nella primitiva esperienza, di metallo; in quelle successive, fu costruita anche in pietra) che poteva girare solidalmente intorno al centro: questo, quando il peso dell'equipaggio fu molto rilevante, era ottenuto facendo galleggiare l'intero apparecchio in un pozzo di mercurio. L'esperienza, come concezione, è molto semplice: si fanno interferire tra loro i due raggi che percorrono, ognuno nei due sensi, rispettivamente i due cammini tra loro perpendicolari e di lunghezza D. Ora se la Terra si sposta con velocità v e nella direzione, poniamo, SL rispetto all'etere, la distanza effettivamente percorsa dalla luce, andando da L allo specchio di destra nel tempo τ, è: D + τv = τc. Proseguendo su questa via si dimostra immediatamente che il moto assoluto della Terra avrebbe per effetto uno spostamento Δ delle frange, che è dato da:

cioè per D = 1,2 m. e per luce gialla (com'era nell'esperienza del 1881) uno spostamento Δ di qualche centesimo di frangia. Tornato in America il Michelson riprese con Morley l'esperienza e come risultato d'una lunga serie di misure pubblicò (1887) che entro i limiti degli errori sperimentali non era stato osservato alcun effetto.

Negli anni seguenti l'esperienza - data l'importanza fondamentale del risultato - fu ripetuta varie volte: in America da Morley e Miller (1904-05), da Miller (1922-26) e da Kennedy (1926); in Europa da A. Piccard e E. Stahel (1929) e da Joos (1930). Tutti questi fisici hanno confermato il risultato negativo dell'esperienza, tranne l'americano Miller, che avrebbe trovato che l'etere alla superficie della Terra è parzialmente trascinato, e sempre meno via via che ci innalziamo. Così egli ha eseguito una lunga serie di esperienze (1922-26) sul Monte Wilson (1885 m. s. m.): avrebbe trovato che il vento d'etere da una velocità di 3 km. /sec. sul livello del mare, verso i 2000 m. arriva a 9 km./sec. (la velocità della Terra sull'eclittica è di 30 km./sec.). Contro questa conclusione è da osservare - oltre tutte le difficoltà che presenterebbe una spiegazione teorica del suo risultato - che il fisico Tomascheck ha ripetuto (1925-26) l'esperienza di Trouton e Noble sulla montagna della Jungfrau (sopra i 2000 m.) e che, per quanto la precisione delle misure fosse superiore a quella delle esperienze del Miller, non ha trovato alcun effetto positivo nel senso voluto da questo. In realtà troppe sono le cause d'errore perché sia possibile ottenere un effetto del tutto nullo; e così è piuttosto da dire che via via che la precisione delle misure è stata aumentata, non è accaduto di trovare alcun effetto positivo che superasse i limiti degli errori sperimentali. La conclusione più ragionevole è quindi che ove tutte le sorgenti d'errore fossero eliminabili il risultato dell'esperienza sarebbe pienamente negativo.

Bibl.: E. T. Whittaker, History of the Theories of Æther, Londra 1910; M. v. Laue, Das Relativitätsprinzip, Lipsia 1921; Handbuch der Physik, XII, Berlino 1927; Dayton C. Miller, The Aether drift, in Rev. of Modern Physics, V, 1933; G. Joos, Wiederholungen des Michelson-Versuchs, in Naturwissenschaften, XIX (1931), pagg. 784, 934.