Traduzione

Enciclopedia Italiana - VI Appendice (2000)

Traduzione

Sergio Marroni

(App. V, v, p. 533)

La traduzione letteraria

Se si sottopone a un approfondito esame l'idea, per molto tempo assai diffusa, che il tradurre consista nel 'trasporto' del significato di una parola o di un testo concepiti in una lingua (lingua di partenza) in un'altra (lingua d'arrivo), in modo che il rapporto fra le due parole o i due testi si configuri come sinonimico, vale a dire che il 'testo d'arrivo' comunichi ciò che comunica il 'testo di partenza', finiranno con l'emergere problemi teorici di non facile soluzione e si scorgerà come tale modello poggi su premesse tutt'altro che incontestabili. Occorrerà precisare, per es., a che cosa alluda, in questo contesto, la metafora del 'trasporto'; a che cosa si faccia riferimento quando si parla del significato di una parola o di un testo da tradurre, se tale significato possa essere determinato, e come; su quale base poi si possa affermare che due espressioni linguistiche hanno lo stesso significato e se, nei fatti, tale rapporto di sinonimia sia davvero riscontrabile; se, infine, parlare di sinonimia fra due parole sia lo stesso che parlare di sinonimia fra testi estesi.

Già nell'antichità, pur senza mettere in dubbio l'opinione generale che le parole si riferissero alle cose mediante una relazione diretta (per quanto convenzionale) e implicitamente universale, chi operava in quel territorio di confine che è la t. doveva avvertire qualche disagio. L'ancoraggio più sicuro pareva allora la t. parola per parola, non solo quantitativamente (far corrispondere a ogni parola una parola) ma spesso anche distribuzionalmente (mantenere lo stesso ordine delle parole). I più avvertiti, tra cui grandi traduttori come Cicerone, Orazio, s. Gerolamo, videro che ciò portava all'assurdo e invocarono la libertà da un simile metodo al fine di ottenere una corrispondenza più autentica fra i sensi dei due testi. Celebre l'affermazione polemica di s. Gerolamo nell'Epistola lvii ad Pammachium: "Ego enim non solum fateor, sed libera voce profiteor, me in interpretatione Graecorum, absque Scripturis sanctis, ubi et verborum ordo mysterium est, non verbum e verbo, sed sensum exprimere de sensu".

Nasceva l'opposizione fra t. letterale e t. libera, tra fedeltà e infedeltà, che ha permeato secoli di discussioni intorno a questa antichissima e fondamentale attività umana. Benché ricondotte entro uno schema oppositivo semplice e ricorrente, tali discussioni, a ben vedere, cercavano di cogliere qualcosa di ciò di cui oggi siamo maggiormente consapevoli, vale a dire che le lingue sono entità complesse, stratificate, articolate, disomogenee, e che nella t. entrano in gioco tutti i pezzi di cui sono fatte; che nel tradurre è coinvolto un numero impressionante di facoltà, capacità, conoscenze, esperienze, non soltanto linguistiche; che le t. assolvono compiti diversissimi in una comunità linguistico-culturale; che si traduce per scopi differenti. Dietro l'opposizione tra lettera e senso è dato rintracciare idee, motivazioni, esigenze, finalità che, col progredire delle conoscenze, faticano a essere dicotomicamente accorpate. L'alternativa tra fedeltà e infedeltà si sfaccetta, incrinandosi sempre più, e anche qui la metafora mostra la corda: a che cosa, a chi si è fedeli o infedeli nel tradurre?

Non è di grande aiuto neppure uno schema tripartito, come quello offerto dal celebre traduttore inglese J. Dryden, che nella prefazione alle sue Epistles di Ovidio (1680) propose il modello di un'aurea mediocritas, denominata parafrasi, situata fra la metafrasi, o t. letterale, e l'imitazione. Analoga tripartizione ritroviamo nel De optimo genere interpretandi di P.-D. Huet (1680).

Una rottura si verificò certamente a cavallo tra 18° e 19° secolo, quando le riflessioni sparse di traduttori, talora acute ma quasi sempre dettate direttamente dall'empiria, cominciarono a essere ordinate, organizzate in saggi o trattati di più ampio respiro teorico. Vanno ricordati i nomi di A. Fraser Tytler in Inghilterra e soprattutto di F. Schleiermacher e W. von Humboldt in Germania. Nell'alveo della cultura tedesca, che riconosce in una t. - la Bibbia di M. Lutero - una delle sue pietre angolari, in un periodo storico in cui la questione dell'identità tedesca era al centro di un ampio dibattito, si rianimò in forme originali e stimolanti la riflessione sul tradurre. Con i romantici la t. entrò nel dibattito filosofico concernente i fondamenti del linguaggio (in particolare i problemi posti dalla diversità delle lingue, il rapporto tra lingua, pensiero e realtà, l'articolazione del significato dei segni linguistici) e l'ermeneutica. Il tradurre tra diverse lingue fu collocato così tra gli sforzi che ciascun individuo compie ogni giorno per interpretare col proprio sistema di riferimenti quanto viene espresso in sistemi che si collocano a varie distanze geografiche (lingue, dialetti), cronologiche (stadi diversi della medesima lingua), sociali (registri parlati dalle diverse classi che compongono una comunità), individuali (si notò che due membri di una comunità, pur appartenendo al medesimo strato sociale, apprendono e adoperano la lingua in modi non totalmente coincidenti) o anche miste (lingue lontane su più piani, come l'ebraico, il greco antico o il latino).

Agli albori dello sviluppo dei grandi imperi coloniali e dell'intensificazione dei viaggi su lunghe distanze, favorita dalla scoperta della forza vapore, Schleiermacher e Humboldt cominciarono ad affrontare in modo nuovo i problemi posti dalla differenza tra le lingue e le culture. Tra queste e quelle si scorgono influenze reciproche consistenti, soprattutto nei campi della letteratura, della filosofia e delle scienze, dal momento che la formazione e la fissazione dei concetti appaiono come inevitabilmente connesse, se non addirittura dipendenti, con lo strumento usato per esprimere i concetti medesimi, sicché i legami risultano tanto forti che la t. non può spezzarli, ma deve limitarsi a indicarli, per quanto possibile; anzi è questo il suo merito maggiore: arricchire una lingua, una cultura, introducendo in essa nuovi modi di pensare e di organizzare i concetti. Si sviluppa così l'ideale di una t. deviante, straniante senza giungere agli eccessi della stranezza, capace di dilatare le capacità espressive della lingua d'arrivo. Humboldt e Schleiermacher consideravano insensato il luogo comune secondo cui il traduttore dovrebbe scrivere come avrebbe fatto l'autore se avesse scritto direttamente nella lingua d'arrivo e opponevano a tale finzione l'ideale di una t. che facesse rivivere il sentimento di estraneità che prova chiunque si scontri con sistemi di lingua e di pensiero differenti.

Alcune delle idee esposte da Humboldt e Schleiermacher trovarono agli inizi del 20° secolo una conferma ancora più radicale nella riflessione di F. de Saussure sul linguaggio. La definizione del 'principio di arbitrarietà', inteso come uno dei fondamenti del linguaggio, ebbe conseguenze profonde sulla teoria della traduzione. È convenzionale non soltanto il rapporto tra parola e cosa, come era apparso già ai filosofi antichi nel loro tentativo di dare conto della diversità degli idiomi umani, ma anche il rapporto dei significati tra loro; vale a dire che ogni lingua organizza l'intero sistema dei concetti, e quindi, mediatamente, dei riferimenti alla realtà esterna, in modo peculiare, cosicché nessuna parola di una lingua è completamente uguale alla parola di un'altra lingua, poiché ciò che con esse si può intendere, i loro possibili usi, le loro possibili associazioni e combinazioni con altre parole non potranno mai coincidere in tutto e per tutto. Ne consegue che una t., sia letteraria sia non letteraria, per quanto letterale, non potrà mai riprodurre esattamente l'insieme dei significati contenuti nell'originale. La fedeltà in questo senso è costituzionalmente esclusa: si dice sempre, inevitabilmente, qualcosa di più, di meno, di diverso.

Lo strutturalismo, che ha in Saussure uno dei suoi fondamentali ispiratori, ha cambiato radicalmente la riflessione sul linguaggio nel Novecento, e la teoria della t. ne venne profondamente influenzata. Da un lato si giunse a ritenere che la t. è impossibile. Un'accezione temperata, che tiene conto dei generi, di questo principio si può riconoscere nella tesi che la poesia sia intraducibile, come hanno sostenuto recentemente, tra gli altri, R. Jakobson o M. Wandruszka.

Già Dante aveva scritto: "E però sappia ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può de la sua loquela in altra transmutare, sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia" (Convivio, I, vii). A tale principio può essere ricondotta anche la tesi, legata in qualche modo con la precedente ma operante su distinzioni logiche, secondo cui solo una parte del significato, quella denotativa, cioè il contenuto razionale del segno, può essere sempre in qualche modo tradotta, mentre la struttura delle forme e la loro connotazione, cioè gli elementi emotivi, stilistici, associativi ecc., sono irrimediabilmente intraducibili. Era l'opinione, per es., di L. Bloomfield. A conclusioni simili si era giunti anche dal versante idealistico, come mostra il pensiero di B. Croce, il cui influsso fu tale, in Italia, da contrastare per decenni la penetrazione dello strutturalismo. Limitandosi a considerare il problema della t. letteraria, Croce ne affermò l'impossibilità teorica sulla base del principio dell'identificazione di intuizione ed espressione; o meglio la t. è relativamente possibile, nel senso che o è commento, parafrasi o è ricreazione approssimativa. Alla metà degli anni Cinquanta la formulazione da parte di B.L. Whorf, sulla scorta di ricerche in campo etnolinguistico, del 'principio di relatività linguistica' - secondo cui persone che parlano lingue grammaticalmente molto diverse sono indotte a compiere osservazioni diverse sulla realtà e a valutare diversamente osservazioni simili -, inserendosi nel filone di pensiero che risale a Humboldt e contribuendo al consolidamento dei rapporti fra linguistica, semiotica e antropologia (evidenti in B. Malinowski e C. Lévi-Strauss), sembrò puntellare la tesi dell'intraducibilità.

Ma le conseguenze della svolta strutturalista potevano d'altro lato stimolare una visione agonistica della t. come cimento fatto di sconfitte e successi (la Miseria y esplendor de la traducción, secondo J. Ortega y Gasset), o, in termini più semiologici, una nozione di 'traducibilità relativa' dei diversi testi (che si ritrova, per es., in W. Koller), fondata non su distinzioni estetiche o intuitive ma sul riconoscimento scientifico dei diversi componenti in cui si strutturano i livelli e i piani del linguaggio. Si apriva la strada a ricerche che, abbandonata una visione semplicistica, incentrata su dicotomie quali lettera e senso, fedeltà e infedeltà, affrontassero l'insieme dei fattori e dei condizionamenti coinvolti nell'atto del tradurre, la complessa struttura delle lingue di partenza e d'arrivo, l'articolazione e la stratificazione del testo di partenza. Le differenze tra i sistemi linguistici potevano essere viste non come un ostacolo più o meno insormontabile ma come un oggetto di studio decisivo per ricercare le possibilità e i limiti della traduzione.

Gli anni Cinquanta e Sessanta segnarono un'evoluzione molto importante ma certamente non lineare. Alcuni fattori di vario ordine entrarono prepotentemente in gioco per modificare il quadro generale: l'infittirsi degli scambi economici, politici, culturali, l'aumento sempre più vertiginoso della mobilità, favorita da nuovi e più rapidi mezzi di locomozione, lo sviluppo e la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, l'innalzamento del tenore di vita e la crescita dei tassi di alfabetizzazione e d'istruzione in molti paesi produssero una domanda e un'offerta di t. sempre più vaste sia come numero e tipo di opere sia come lingue da cui tradurre. Quantitativamente e qualitativamente non era facile né economico soddisfare le crescenti esigenze provenienti dai più diversi settori della società. Negli Stati Uniti lo sviluppo della scienza dell'informazione e dell'informatica suscitò la speranza di poter giungere in breve tempo a una fully automatic high-quality translation, una t. completamente automatica di alta qualità. Ma dopo circa un decennio di ricerche e di scarsi risultati, nonostante le correzioni apportate alle premesse teoriche, inizialmente ingenue e approssimative dal punto di vista della teoria linguistica, nel 1966 il rapporto dell'ALPAC (Automatic Language Processing Advisory Committee), sostenendo l'inutilità di sforzi tesi a tale obiettivo, segnò una battuta d'arresto ufficiale che comportò il blocco quasi totale dei finanziamenti pubblici.

La ricerca sulla t. automatica (continuata comunque nei decenni successivi non solo negli Stati Uniti, spesso con obiettivi molto più limitati ma anche più raggiungibili) non si giovava solo dei progressi tecnologici, ma anche dello sviluppo di correnti della filosofia del linguaggio e della conoscenza che, in sintonia con l'evoluzione impetuosa soprattutto della fisica, della chimica, della matematica, si proponevano di rendere 'scientifico' lo studio del linguaggio umano. Si poneva come condizione che le lingue fossero formalizzabili, cioè descrivibili mediante strumenti matematici, e inoltre che le diverse formalizzazioni fossero compatibili tra loro.

Nonostante le prudenze e certe ambiguità di N. Chomsky sulla possibilità di ricavare dal suo modello "procedimenti ragionevoli di traduzione" (Chomsky 1966; trad. it. 1970, 1979², p. 233, n. 17), la grammatica generativo-trasformazionale, con la sua forte carica razionalistica e universalistica, è apparsa come una teoria e uno strumento che autorizzavano in linea di principio la t. da una qualsiasi lingua a un'altra. Poste strutture superficiali proprie di ciascuna lingua e strutture profonde che sembravano sempre più assomigliarsi, postulata l'esistenza di universali linguistici formali e sostanziali, invocata come oggetto privilegiato di conoscenza scientifica la competenza del parlante nativo ideale, incardinata l'analisi sulla sintassi, elaborato un codice di formalizzazione tendente a una crescente complessità, la teoria di Chomsky si prestava bene, da un lato, a sostenere le ricerche sulla t. automatica, dall'altro a ridurre drasticamente, sminuendone l'importanza o cancellandoli, i fattori di differenziazione nell'uso linguistico e, più in generale, le divergenze tra le lingue umane.

Le conseguenze dirette di questo complesso movimento sulla teoria della t. negli anni Sessanta e Settanta sono state molteplici. A fronte di un aumento continuo della produzione globale di opere tradotte (l'Index translationum pubblicato annualmente dall'UNESCO annovera, pur nei suoi forti limiti, dovuti al tipo di opere registrate e alle modalità di registrazione, 9000 opere pubblicate in t. nel 1948 nei paesi aderenti, 41.332 nel 1970, 50.430 nel 1977), cominciarono a tenersi corsi di studio e formazione per traduttori e interpreti presso numerosi centri universitari o parauniversitari, si formarono associazioni internazionali e nazionali di categoria (anche con lo scopo di promuovere il riconoscimento del ruolo del traduttore, spesso ancora oggi sottovalutato, sia sul piano culturale sia su quello economico), si fondarono riviste dedicate esclusivamente alla pratica traduttiva e alla connessa ricerca teorica, si sviluppò o si aggiornò la legislazione specifica. Lo studio dei problemi della t. accampò sempre più forti pretese di scientificità esigendo un riconoscimento da parte delle istituzioni accademiche. Ci si opponeva ad approcci al tradurre poggianti solo sull'esperienza pratica o su tradizionali interpretazioni soggettive che facevano appello all''arte', all''intuizione' del traduttore. Si cercarono altre strade che non fossero quelle di una formazione dei traduttori basata su letture soggettive, su metodologie prescrittive e insondabili valutazioni dei risultati.

La linguistica (in particolare la linguistica chomskiana, soprattutto negli Stati Uniti e in alcuni paesi europei, ma anche alcune ramificazioni dello strutturalismo saussuriano), la teoria dell'informazione e la semiotica, discipline guida nel campo umanistico di quegli anni, sembravano garantire un fondamento all'aspirazione a costruire un'oggettivabile 'scienza' della traduzione. Essa era vista in un primo tempo come una branca della linguistica applicata. È emblematico il titolo del più celebre lavoro di E.A. Nida, teorico e traduttore della Bibbia, Toward a science of translating (1964). In Germania si affermava la Übersetzungswissenschaft, che aveva i suoi punti di forza nell'università del Saarland a Saarbrücken (W. Wilss) e nella Scuola di Lipsia (O. Kade, A. Neubert, G. Jäger). Centrale in questo contesto è l'idea della t. come 'transcodificazione', analizzabile in una fase di decodificazione e una di ricodificazione, fondata sulla nozione di 'equivalenza': le unità del testo d'arrivo (l'attenzione è incentrata soprattutto sulla parola o sulla frase) devono essere equivalenti alle unità del testo di partenza. Koller (1972, pp. 69 e segg.) afferma che "linguisticamente la traduzione può essere descritta come transcodificazione o sostituzione: gli elementi a₁, a₂, a₃... dell'inventario di segni linguistici L₁ vengono sostituiti mediante gli elementi b₁, b₂, b₃... dell'inventario di segni linguistici L₂". Vengono fornite norme attraverso cui sia possibile raggiungere questo obiettivo sulla base di un'analisi linguistica approfondita e tenendo conto dei condizionamenti testuali e, in una certa misura, socioculturali, anche se sotto quest'ultimo aspetto non si va oltre affermazioni piuttosto generiche. Specie in Germania si sviluppa, in primo luogo grazie ai lavori di K. Reiss, una tipologia dei testi su cui modulare le scelte traduttive. Si ricercano su queste premesse criteri oggettivi di valutazione dei risultati conseguiti dai traduttori.

L'aspirazione a verificabilità, intersoggettività e valutabilità appariva, però, tanto più realizzabile quanto più si rinunciava a comprendere il fenomeno della t. nel suo complesso e nelle sue sfaccettature, limitandosi a certi tipi di testo di partenza, a certe unità di discorso, a certi tipi di traduzione. La nozione d'equivalenza, del resto, divenne ben presto controversa e apparve talora troppo riduttiva e rischiosamente incardinata su opposizioni che ricordavano le antinomie antiche (come quella fra 'equivalenza formale' ed 'equivalenza dinamica' in Nida). Si è cercato allora di classificare più tipi di equivalenze possibili, invitando alla costruzione di una gerarchia di valori che avrebbe dovuto costituire il fondamento delle scelte del traduttore, a partire da un'analisi linguistica e tipologica dell'originale compiuta con una precisa metodologia.

Si assiste a una sorta di progressiva moltiplicazione delle equivalenze possibili. Kade (1968), per es., distingue fra 'equivalenza totale' (corrispondenza uno a uno: it. lunedì - ingl. monday, it. quattro - ted. vier, it. appendicectomia - fr. appendicectomie), 'equivalenza facoltativa' (corrispondenza uno a molti: fr. esprit - it. spirito / animo / mente / fantasia / senno / senso / pensiero...), 'equivalenza approssimativa' (corrispondenza uno a parte di uno: it. cielo - ingl. heaven / sky, it. zio - lat. avunculus / patruus), 'equivalenza zero' (corrispondenza uno a zero: ingl. pudding - it. pizza). Koller opera una distinzione fra equivalenza denotativa, connotativa, normativo-testuale, pragmatica, formale. In base all'analisi testuale compiuta in vista della t. il traduttore deve scegliere l''equivalente ottimale' fra i possibili 'equivalenti potenziali'. La nozione, insomma, viene progressivamente affinata senza essere messa in discussione. Che in essa sia presente una forte componente normativa appare chiaro anche a questi autori. Koller afferma, per es., che per t. in senso proprio si deve intendere solo "ciò che soddisfa determinate esigenze di equivalenza di tipo normativo" (Koller 1979, 1983², p. 89).

Tra la fine degli anni Settanta e nel corso degli anni Ottanta le critiche alla 'scienza' della t. - che, indirizzatasi verso una crescente astrazione e modellizzazione, sembrava scavare un fossato sempre più profondo fra principi, metodi e dettami della teoria e prassi concreta dei traduttori - trovarono una decisa manifestazione nelle ricerche compiute da studiosi soprattutto dei Paesi Bassi, del Belgio e d'Israele (tra gli altri A. Lefevere, J. Lambert, Th. Hermans, J.S. Holmes, I. Even-Zohar, G. Toury, S. Bassnett-McGuire), i quali ricondussero i propri lavori sotto l'etichetta inglese di translation studies. È significativa l'assenza di termini quali science o theory. Ispirandosi alle teorie della letteratura elaborate dai formalisti russi e praghesi, per vie diverse essi arrivarono a convergere su numerosi obiettivi. Reagivano alle limitazioni generalmente imposte, per cui di fatto l'intero spettro della t. letteraria veniva escluso da ogni elaborazione 'scientifica', e anzi proprio la t. letteraria diveniva il centro d'interesse principale. Rifiutavano recisamente l'atteggiamento prescrittivo e normativo che aveva informato le precedenti definizioni e teorie della t., in quanto inadeguato a rendere conto della produzione effettiva di testi tradotti. Giudicavano come assolutamente inapplicabile al tradurre la nozione di equivalenza. Lavoravano all'elaborazione di procedure puramente descrittive dei testi d'arrivo nelle diverse culture e della loro azione e ricezione; in tal modo l'accento era posto sulla t. non come processo ma come prodotto, fatto storico inserito nel proprio ambito di fruizione. Si parla di approccio target oriented. Muovevano da unità di analisi che tenevano conto in prima istanza del testo nel suo complesso e non della parola o della frase. Rinunciavano a ogni illusione scientista, a tentativi di formalizzazione che finiscono col trascurare la varietà e irregolarità degli usi linguistici reali, ignorando l'eterogeneità e talora la contraddittorietà delle motivazioni che stanno dietro la produzione di testi.

Ogni tentativo di fornire una definizione essenzialistica della t. cela in realtà, secondo Th. Hermans, un atteggiamento normativo e restrittivo da respingere: "Come nel caso di concetti quali letteratura, poesia o arte, una delimitazione tautologica o - per metterla in modo più garbato - sociologica e pragmatica sembra quanto di meglio si possa sperare: una traduzione (letteraria) è ciò che è considerato traduzione (letteraria) da una comunità culturale data in un'epoca data" (The manipulation of literature, 1985, p. 13). Di qui, fra l'altro, l'interesse di teorici della t. come J.S. Holmes, per es., verso altri tipi di manipolazione testuale, quali il commento, l'imitazione, la parodia, il saggio critico, la parafrasi (Holmes 1988, pp. 23-33).

La linguistica, cui si concede di aver dato buona prova di sé nell'analisi di t. non letterarie, appare inadeguata a dissodare il terreno della t. letteraria. Il quadro teorico di riferimento (sempre aperto ad aggiustamenti e rielaborazioni indotte dallo studio dei casi concreti, su cui s'insiste molto e verso cui si incitano i ricercatori) è costituito da un'idea della letteratura come 'sistema complesso e dinamico' entro cui e su cui agiscono numerose forze interdipendenti.

Prendendo le mosse da Ju.N. Tynjanov, B.M. Ejchenbaum e V.B. Šklovskij, I. Even-Zohar ha proposto un modello della letteratura come 'polisistema', che ha esercitato un'influenza decisiva sugli autori dei Translation studies. Holmes ne offre la sintesi seguente: "La 'letteratura' in una società data è un insieme di vari sistemi, un sistema di sistemi o polisistema, in cui diversi generi, scuole, tendenze e così via gareggiano continuamente per la migliore posizione, competono fra loro per conquistare lettori, ma anche prestigio e potere. Vista in questa luce, la 'letteratura' non è più quella cosa solenne e piuttosto statica che tende ad essere per i tradizionalisti, ma una situazione fortemente cinetica in cui le cose cambiano continuamente" (Holmes 1988, p. 107). Per Even-Zohar la letteratura tradotta (cioè le opere letterarie tradotte) forma un sistema all'interno del polisistema letterario di una data società in un dato momento storico. Utilizzando le nozioni di attività o posizione 'primaria' o 'secondaria', di 'centro' e di 'periferia', applicabili all'interno di ogni sistema (e di ogni sistema in quanto polisistema) preso in considerazione, lo studioso israeliano descrive due situazioni fondamentali, a seconda che la letteratura tradotta si trovi in posizione primaria (cioè quando "partecipa attivamente alla modellizzazione del centro del polisistema", proponendosi con una carica innovativa) o in posizione secondaria. Mentre quest'ultima appare come quella non marcata, la prima si verifica fondamentalmente in tre casi: "(a) quando un polisistema non si è ancora cristallizzato, cioè quando una letteratura è 'giovane', in fase di formazione; (b) quando una letteratura è o 'periferica' o 'debole', o entrambe le cose; (c) quando ci sono punti di svolta, crisi o vuoti in una letteratura" (Even-Zohar 1978; trad. it. 1995, p. 231). A questo quadro di riferimento possono essere ricondotte linee di tendenza generali sulla scelta delle opere da tradurre, sui tipi testuali favoriti, sulle norme e i metodi di t. prevalenti, sul ruolo dei testi tradotti in un determinato contesto storico-culturale, sul quale influiscono evidentemente condizionamenti di varia natura: ideologica, religiosa, politica, socioeconomica ecc. Alcune idee di Even-Zohar presentano analogie con suggerimenti provenienti da uno studioso di formazione idealistico-storicistica come B. Terracini, che aveva considerato la t. nel complesso gioco d'interazione fra lingue e culture, adoperando, per es., la nozione di 'traduzione espansionista' (Terracini 1957). Sul modello di Even-Zohar si è basato G. Toury per incardinare la teoria ancora di più nel contesto della cultura d'arrivo.

Benché secondo alcuni critici Even-Zohar e Toury abbiano presentato un modello troppo rigido e riduttivo, abbiano privilegiato eccessivamente la t. letteraria, abbiano di fatto trascurato, anche contro le loro stesse premesse teoriche, l'analisi dei condizionamenti extraletterari, abbiano mantenuto nelle loro indagini un atteggiamento ancora in parte prescrittivo, abbiano fatto uso di concetti propri della teoria della t. tradizionale (come quelli di 'universale', o di 'invarianza') e abbiano ceduto talora alla tentazione di pretendere all'oggettività di metodi e risultati, resta il fatto che l'aver equiparato la letteratura tradotta agli altri sottosistemi letterari nell'ambito della teoria del polisistema ha aperto nuove prospettive e stimolato nuove indagini di tipo funzionalistico.

Uscendo progressivamente dalla cornice di riferimento del polisistema, Lefevere, trasferitosi negli Stati Uniti, ha concentrato negli anni Ottanta e Novanta le proprie ricerche sui rapporti fra istituzioni e centri di potere in una determinata società, da un lato, e letteratura e t. dall'altro, mettendo in primo piano i condizionamenti ideologici che presiedono all'elaborazione di testi. Nozioni chiave della sua riflessione sono quella di patronato, cioè ogni individuo, gruppo, istituzione che ha la capacità d'incoraggiare e diffondere oppure di scoraggiare, censurare, distruggere un'opera letteraria, e quella di rifrazione, cioè l'elaborazione di un testo o di parti di esso al fine di adattarlo a un certo pubblico, a una certa ideologia e a una certa poetica. La linea di confine fra t. e non-t. appare a Lefevere e ad altri studiosi attivi in ambiente anglosassone (S. Bassnett-McGuire, M. Tymoczko) sempre meno determinabile a priori (come, del resto, quella tra letteratura e non-letteratura) e sempre più dipendente da condizionamenti ideologici e sociologici.

In anni recenti, mentre si è accresciuta la consapevolezza generale del peso che la letteratura tradotta esercita sia quantitativamente (in Italia, per es., secondo l'ISTAT, nel 1994, escluso il settore scolastico, circa il 30% delle opere complessivamente pubblicate era in t.) sia qualitativamente, si è assistito a un allargamento e a un riorientamento dell'idea di t., al fine di tenere conto della complessità di fenomeni che nelle società moderne a essa vengono ricondotti. La teoria della t. si configura sempre più come un campo di ricerche aperto a molte altre discipline, come l'etnografia, la psicologia, la sociologia, la teoria della letteratura e della cultura, l'economia, la linguistica ecc. In Germania soprattutto si affermano alcune linee di ricerca che segnano un distacco dalla 'scienza della traduzione'. Ci si riallaccia alla forte tradizione ermeneutica (da Schleiermacher fino a M. Heidegger, H.G. Gadamer, J. Habermas) per indagare la fenomenologia del processo di comprensione e interpretazione del testo di partenza. Tradurre cessa d'apparire come una transcodificazione che ruota intorno a cardini esclusivamente linguistici e si rivela invece come una complessa attività comunicativa innanzitutto transculturale. Il testo è considerato come parte integrante della cultura, dell'ambiente in cui è stato prodotto, ed esige un approccio che giunga alle parti muovendo dall'insieme. Centrale diviene la nozione di funzione del testo nell'ambito del suo orizzonte di ricezione.

Se in Reiss e Vermeer (1984) si fa ancora uso, sia pure con molte precauzioni, della nozione di equivalenza, il cardine della teoria ruota intorno a quella di scopo. Le scelte del traduttore devono essere coerenti con lo scopo della t., e quest'ultimo va confrontato con lo scopo con cui fu scritto il testo di partenza, anche se può esserci non coincidenza tra i due. Esempio classico per la sua evidenza è quello di un messaggio pubblicitario, che può essere tradotto per farlo funzionare come tale nella cultura d'arrivo o per studiarlo come fenomeno nell'ambito della cultura di partenza. Molti dei caratteri fondamentali di quest'evoluzione della teoria della t. in Germania si possono estrarre dalla seguente definizione di Vermeer: "La traslazione [è] un'offerta d'informazione in una lingua L₂ della cultura C₂ che imita in maniera funzionalmente soddisfacente (!) un'offerta d'informazione in una lingua L₁ della cultura C₁. Ciò significa all'incirca che una traslazione non è una transcodificazione di parole o frasi da una lingua in un'altra, bensì un'azione complessa, con cui qualcuno che si trova in una nuova situazione, sottoposto a nuovi condizionamenti funzionali, culturali e linguistici, riferisce su un testo (le circostanze di partenza), imitandolo per quanto possibile anche formalmente" (Vermeer 1986, p. 33).

Ciò che segna maggiormente il distacco dei teorici della t. tedeschi dai loro colleghi anglosassoni o dal gruppo che si richiama alla teoria del polisistema è l'interesse per la formazione dei traduttori e per la questione della valutazione delle traduzioni. Il dibattito sulle norme di t., in generale respinto, abbandonato o ignorato da altre linee di ricerca, conserva presso questi studiosi un ruolo centrale, naturalmente instradato lungo sentieri nuovi, che si tengono lontani dal prescrittivismo delle teorie precedenti, tanto vivacemente criticate. Accogliendo suggerimenti provenienti dall'ermeneutica, dalla teoria della conoscenza, dall'estetica e dalla teoria della letteratura, si cerca di rendere operativa la nozione di differenza, tanto nella descrizione teorica quanto nella critica e nella didattica. Su queste basi la ricerca si estende progressivamente anche in Germania alla t. letteraria.

H.G. Hönig e P. Kussmaul partono da una definizione di testo come "parte verbalizzata di una sociocultura", concepita per un determinato scopo. Il criterio di valutazione di una t., quindi, non può essere quello improponibile dell'equivalenza, ma un criterio che, tenendo conto delle relazioni fra sfondo socioculturale e parte verbalizzata (il testo) e dei valori presenti nella cultura di partenza e in quella di arrivo, realizza in quest'ultima un nuovo disegno di relazioni tra sfondo e testo che attui "il grado necessario di differenziazione" (Hönig, Kussmaul 1982, 1996⁴, p. 58).

Il progetto di integrare in un unico approccio t. 'pragmatica' e t. letteraria è espressamente formulato da M. Snell-Hornby (1988) che, pur criticando gli studiosi che fanno capo alla 'teoria della manipolazione' e del polisistema per essersi sbilanciati troppo sul sistema d'arrivo, finendo col trascurare i legami con la situazione di partenza, con l'abdicare a un momento critico e col rinunciare all'aspetto didattico-formativo, ne accoglie molte proposte, innestandole nella tradizione dell'ermeneutica e nei rami recenti della linguistica, le cui acquisizioni sono più rilevanti per la t.: linguistica testuale, linguistica pragmatica, sociolinguistica, nuove correnti della semantica riconducibili al vasto campo del cognitivismo. Snell-Hornby si riallaccia alle ricerche sui prototipi, sviluppate da E. Rosch e B. Berlin in psicologia e in etnobiologia e applicate già alla semantica negli Stati Uniti, in particolare da G. Lakoff, e si richiama al principio olistico della psicologia della Gestalt. Rinuncia quindi a una definizione unitaria e onnicomprensiva della t. in favore di un modello stratificazionale in cui prototipi testuali intessono relazioni con aspetti cruciali del tradurre.

Sfruttando la nozione di prototipo, Snell-Hornby può inserire numerosi tipi testuali (dalla letteratura alle istruzioni tecniche) in un diagramma in cui vari approcci disciplinari (linguistici e non linguistici), vari metodi, procedimenti, tecniche di t., varie considerazioni funzionali, varie unità d'intervento (da quello testuale a quello fonetico-fonologico) vengono correlati in modo da individuare configurazioni tipiche in un determinato alveo socioculturale, configurazioni che a loro volta non escludono la possibilità di configurazioni minoritarie o 'irregolari' né intrecci e sovrapposizioni. Fondamentali sono anche in questo modello gli aspetti interpretativi, comunicativi e funzionali che presiedono alla produzione e ricezione di un testo, mentre sul versante didattico e critico viene sviluppata la nozione di 'grado necessario di differenziazione' fra testo di partenza e testo d'arrivo avanzata da Hönig e Kussmaul.

Interamente dedicata alla t. letteraria è la riflessione di F. Apel, che propone la seguente definizione di t., in cui ritorna centrale la nozione di differenza: "La traduzione è una forma che insieme comprende e dà corpo all'esperienza di opere in un'altra lingua. Oggetto di questa esperienza è l'unità dialettica di forma e contenuto, come rapporto di volta in volta instauratosi fra la singola opera e un dato orizzonte di ricezione (stadio della lingua e della poetica, tradizione letteraria, situazione storica, sociale, collettiva, individuale). Nella nuova configurazione questa costellazione diventa specificamente sperimentabile come distanza dall'originale" (Apel 1983; trad. it. 1993, p. 28). Diverse discipline e diversi orientamenti di ricerca contribuiscono a una visione della t. come operazione complessa, immersa nel fluire della storia (storia delle forme, delle poetiche, delle lingue, delle culture, delle società, degli individui).

Il problema della t., per Apel, risiede nel dinamismo e nella storicità di tutti i momenti e fattori del processo: dal significato dell'originale, soggetto all'interpretazione dei lettori (contemporanei e non), e quindi anche del traduttore, al significato della t., soggetto all'interpretazione dei lettori, e quindi anche del critico della t. stessa. Solo qui si chiude il processo, esattamente dove si riapre per lasciare spazio a nuove interpretazioni e a nuove traduzioni. E Apel sottolinea come anche l'interpretazione del critico sia immersa nella storia, orientata da pregiudizi, preferenze e convinzioni di varia natura, consci e inconsci, stimolata da finalità e interessi teorici e pratici. Tale stato di cose "non si può né evitare né lamentare, in quanto un'eccessiva neutralità limiterebbe la funzione orientativa della critica" (Apel 1983; trad. it. 1993, p. 62). Di qui si può e si deve invece partire per allontanare ogni illusione di oggettività e per chiarire la funzione e le condizioni della critica. Essa non può dire come si debba produrre una t. letteraria (assunto privo di qualsiasi scientificità); può solo delimitare, date determinate condizioni, "una gamma di possibilità con orizzonte aperto" (Apel 1983; trad. it. 1993, p. 51). Alla ricerca è preclusa sia la via della prescrittività dogmatica sia quella di una descrizione di regole atemporali. Momento descrittivo e momento normativo sono possibili solo all'interno di un movimento continuo in cui è inserito chi descrive il fenomeno o ne elabora o ricava regole. Per questo ogni traduttore letterario dovrebbe esplicitare quanto più possibile i propri orientamenti e ogni critico dovrebbe offrire come minimo "una caratterizzazione del testo di partenza nel contesto della letteratura di partenza; una caratterizzazione della traduzione come testo a sé rispetto alla letteratura della lingua d'arrivo; informazioni [...] che indichino sulla base di quale specifico atteggiamento ricettivo si dovrebbe intendere la traduzione come testo. Ciò che giustifica e collega queste informazioni è il desiderio di chiarire quanto più possibile al lettore quale sia il modo di procedere del traduttore" (Apel 1983; trad. it. 1993, p. 60). Apel invita a fondare la teoria della t. letteraria su un esame sempre più vasto di casi concreti di traduzione.

La teoria della t. negli anni Novanta ha conosciuto in Europa e in America un progressivo consolidamento e allargamento di orizzonti. In questo contesto la t. letteraria è ormai considerata generalmente, se non come il terreno privilegiato di analisi per la vastità e complessità dei fenomeni che pone in essere, quanto meno come un settore impossibile da trascurare. Si moltiplicano le ricerche su corpora più o meno vasti di diverse letterature, generi, epoche, autori. Si affronta il problema molto delicato dello stile. Si ridiscutono le nozioni stesse di originale e di significato, poiché l'esame delle t. mette a dura prova la loro consistenza, mostrandone l'irrimediabile relatività (si veda in proposito Quine 1959). Si rivalutano le incoerenze, gli errori, le deviazioni, i lapsus come segnali positivi di una determinata appropriazione da parte della cultura d'arrivo. Appare con sempre maggiore chiarezza che si traduce quello che si legge, che si è imparato a leggere, che si è condizionati, spesso inconsapevolmente, a leggere, che si vuole leggere in un testo che si trasforma storicamente in nuovo punto di partenza per interpretazioni sempre nuove, le quali si concretano in testi d'arrivo che riconoscono come unica fonte di legittimazione la contrattazione del consenso dei riceventi.

La ricerca pare procedere lungo alcuni percorsi fondamentali ormai tracciati: sfrondamento di preconcetti e apriorismi, accoglimento dei contributi che provengono da diverse discipline che hanno qualcosa o molto da dire intorno alla t., riavvicinamento di teoria e prassi, acquisizione su larga scala, temporale e geografica, di dati. Il giusto appello al lavoro descrittivo dopo tanti modelli sbrigativamente, aprioristicamente e assolutisticamente prescrittivi non può sopprimere (e lo dimostrano le incertezze o le contraddizioni più o meno palesi in più d'uno studio contemporaneo) l'esigenza di fondare in modo esplicito modelli e strategie traduttive storicamente e culturalmente determinati, soggetti a continua critica e a continue verifiche, correlate con la prassi.

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