Tradizioni popolari

Enciclopedia Dantesca (1970)

Tradizioni popolari

Giovanni B.Bronzini

La Commedia, rispecchiando la civiltà medievale in tutti i suoi aspetti e a diversi livelli sociali e culturali, è tra le opere di D. la più ricca di riferimenti al mondo popolare, nonché di agganci a quello primitivo: essi vanno collocati nella cultura dell'epoca è analizzati nel contesto logico e poetico del poema.

Lo stesso tema centrale del viaggio ultraterreno, comune alla letteratura visionistica classica e medievale, lascia scoprire nel suo svolgersi un retroterra primitivo, in quanto esso comporta, pur nella sua acquisita eticità cristiana, un duplice movimento di eliminazione e propiziazione, corrispondente al meccanismo rituale delle grandi feste di rinnovamento della natura. E la liberazione dai mali si ottiene, come nelle civiltà primitive, con la loro pubblica denuncia, a cui si adegua l'espiazione, regolata nell'Inferno dalla legge del contrapasso, fondata sui principi magici dell'omeopatia e allopatia. Significativo è il tempo in cui s'inizia il viaggio, che si fa coincidere col principio del secolo, reso solenne dal giubileo dell'anno santo, e con l'equinozio di primavera, periodo dedicato alla celebrazione dei riti agrari di fertilità e alle iniziazioni misteriche. In tale scenario rituale il protagonista svolge, visto sul piano di una cultura primitiva, la funzione propria dell'iniziando e la sua impresa è comparabile, nella struttura della favola, a quella dell'eroe in cerca dell'oggetto smarrito. E come nelle forme drammatiche popolari, generate dai riti di rinnovamento della natura, si ha la drammatizzazione benefica della favola, operata, attraverso le prove difficili da superare, scontri e contese, con l'intervento dei dannati, la cui funzione è varia, e dei diavoli, che per la loro azione di contrasto sono narrativamente definibili come opponenti.

Accertato e unanimemente riconosciuto è il carattere popolare, desunto dai nomi e dai modi di comportarsi, dei diavoli così detti minori posti a custodia dei barattieri nell'ottavo cerchio (vedi, per esempio, Cagnazzo, Draghignazzo, Ciriatto, Alichino, Farfarello, Barbariccia); rilevabile è altresì il fine magico-incantatorio della loro azione di ostacolo e di ritardo nei riguardi del pellegrino e della sua guida, che, in termini strutturali, sono l'agente principale e l'adiuvante. Di natura popolare sono pure le aggiunte o variazioni fisionomiche apportate da D. all'aspetto dei grandi demoni, come la coda di Minosse e la canizie di Caronte, ma la popolarità della loro tipologia si desume soprattutto dalle funzioni che compiono: il continuo andare e tornare di Caronte sull'Acheronte fa di quel traghettatore di anime uno dei tanti navigatori maledetti di cui è ricca la novellistica marinara. Opposto a Caronte, nocchiero infernale, è l'angelo, nocchiero divino, la cui alata navigazione è simile a quella leggendaria dell'Olandese volante. Alla schiera di nocchieri mitici appartiene Ulisse, nocchiero verso l'ignoto e traghettatore di morituri, il cui naufragio avviene nella fase culminante dell'impresa, che è etnologicamente il momento più grave e rischioso.

Oltre che per riflesso del mondo primitivo, la Commedia presenta un quantitativo cospicuo di tradizioni popolari attinte alla cultura e alla vita del Medioevo, per le quali va anzi tutto tenuta presente l'implicita distinzione dantesca fra le usanze e credenze magiche, riconosciute dalla scienza e condannate da D. solo quando fossero in contrasto con la fede, e le superstizioni del volgo, condannate totalmente in nome della ragione; onde, tra gli operatori di magia collocati nella quinta bolgia, all'ultimo posto sono ammassate le triste che lasciaron l'ago, / la spuola e 'l fuso, e fecersi'ndivine; / fecer malie con erbe e con imago (If XX 121-123). Stolto e volgare, come attestano gli antichi commentatori, è pure il trarre auspici dalle faville che si alzano dai tizzoni di brace (Pd XVIII 100-103). Espressione di stoltezza volgare sono le incomprensibili parole pronunziate, come una formula magica, da Nembrot. A un grado superiore di magia appartiene, invece, l'arte divinatoria, legata alla scienza astrologica e alla tradizione classica, che la rendono nella maggioranza dei casi accettabile e conciliabile con la ragione e la fede. Così, per essere gl'influssi astrali ammessi dalla scienza medievale, vengono considerati da D. come segni di predisposizione (If XV 55-56, XXVI 23, Pg XVI 73-76, XXX 109-117), e, per l'autorità degli antichi, si dà credito a opinioni del tipo di quella sulla maggiore veridicità dei sogni mattutini, che D. riveste di senso religioso e cristiano in Pg IX 13-19 Ne l'ora... che la mente nostra, peregrina / più da la carne e men da' pensier presa, / a le sue visïon quasi è divina, / in sogno mi parea...

Talune credenze e usanze plebee e irrazionali serbano, tuttavia, nella coscienza di D. un valore rituale e svolgono nel poema una funzione sacrale che le riporta al loro significato primitivo. Tale è quella ricordata dal poeta, per il suo effetto di prescrizione temporale, inoperante contro la giustizia divina, in Pg XXXIII 36 (che vendetta di Dio non teme suppe), riferentesi alla comune opinione dei Forentini che consideravano prescritta la vendetta di un'uccisione se l'omicida entro nove giorni avesse mangiato zuppa di vino sulla tomba dell'ucciso, la quale veniva perciò guardata a vista dai parenti del morto. Anche il rito della grave mora conserva i caratteri di una sacralità primitiva nelle parole di Manfredi (Pg III 124-132) sulla persecuzione subita dal suo corpo, rimasto insepolto per l'intervento dell'arcivescovo di Cosenza su mandato del papa Clemente IV, e privato dell'ambito onore di giacere protetto dal pesante mucchio di sassi che i soldati vi avevano gettato sopra. I due versi famosi salsi colui che 'nnanellata pria / disposando m'avea con la sua gemma (Pg V 135-136) sottolineano, al di là delle varie interpretazioni, la ritualità essenziale degli sponsali, ponendo l'accento sul rito preliminare della promessa (sponsio o desponsatio), che si attuava con la consegna dell'anello e precedeva l'unione effettiva degli sposi che si compiva con le nozze.

Delle danze, componenti propiziatorie delle feste, sono rievocate dal poeta con mirabile precisione in alcune felici similitudini sia la ‛ ruota ' e la ‛ carola ' (Pd XIV 19-21, XXIV 13-18, XXV 103), che erano le due principali e illustri varietà di ballo in tondo, sia la ‛ tresca ' (If XIV 40, Pg X 64-65), che era un ballo saltereccio di origine e uso popolare. Come emblemi rituali hanno interesse demologico alcuni elementi del vestiario del tempo, come le bianche bende che Beatrice d'Este mutò in nere passando a seconde nozze (Pg VIII 74) e la benda, cioè il velo che gli statuti comunali prescrivevano per le donne sposate e che la Gentucca lucchese ancora fanciulla non poteva indossare (XXIV 43).

Frequente è il ricorso di D. al repertorio delle leggende di argomento religioso e storico, la maggior parte delle quali, prodotte in ambiente scolastico, erano e sono di largo consumo popolare, come la leggenda di s. Nicola e delle tre zitelle ricordata in Pg XX 31-33 fra gli esempi di povertà e liberalità. Tra le leggende storiche di rilevanza etnologica va segnalata quella, riferita dal Villani, relativa alla statua di Marte presso il Ponte Vecchio (If XIII 143-151), che collega per magia simpatica la città di Firenze alla statua del suo antico patrono e ne rispecchia simbolicamente la sorte. I racconti tradizionali sulle origini di Firenze, a cui allude D. nel discorso di Cacciaguida (Pd XV 124-126), sono tramandati anche dal Villani e dal Boccaccio ed erano divulgatissimi nella cultura medievale. Favola letteraria è quella della rana e del topo, ricordata in If XXIII 4-9 secondo la versione popolare di una delle raccolte medievali di favole dette esopiche.

La popolarità di alcune leggende storiche viene confermata dai riscontri folclorici attuali, dai quali risalta, in taluni casi, il divario fra tradizione dotta e popolare. Dotta è la tradizione, riferita da Salimbene e accolta da D., della fama di eretico attribuita per il suo epicureismo a Federico II di Svevia (If X 119); mentre una leggenda popolare ancora viva in Sicilia (Pitré, Fiabe, IV, n. CCIX) attribuisce la sua dannazione nell'Inferno alle prepotenze e crudeltà dell'imperatore, e vi si accenna anche in If XXIII 66. Sempre in Sicilia correva nel secolo scorso - come ci testimonia il Pitré - la leggenda erudita, riportata dal Villani e accolta in parte da D. (Pd III 113-114), di Costanza d'Altavilla, che sarebbe stata tratta con forza dal monastero e data in isposa a Enrico VI, mentre in realtà non fu mai suora. La leggenda mitologica che poneva la fucina di Vulcano sul Mongibello (If XIV 51-60) trova riscontro nelle credenze del popolo siciliano, che fanno dell'Etna la sede dei diavoli operai.

I numerosi proverbi e modi di dire sparsi nella Commedia, che pur sono in maggioranza di derivazione dotta, trovano quasi tutti, per un fenomeno di discesa culturale, più o meno esatta corrispondenza nella paremiografia popolare toscana. Tradizionali, ma non esclusivamente popolari, sono gli epiteti registrati nelle cronache del tempo e adoperati dal poeta per designare gli abitanti delle città toscane (v. per es. If XV 67 e 72 ss., Pg XIV 43 ss.).

La descrizione di feste, giuochi e usanze varie è tratta dal vivo, come dichiara lo stesso D. per tornei e giostre (If XXII 1-9) e come fa accennando allo spettacolo, più volte da lui osservato, del palio per la festa fiorentina di s. Giovanni Battista (Pd XVI 40-42) e ricavando in Pg VI 1-9 una similitudine dal gioco della zara, che comprendeva vari, e tutti diffusissimi nel Trecento, giuochi d'azzardo con i dadi. In altri casi la descrizione dantesca sembra ricalcata su una fonte dotta. Da Virgilio è forse presa l'immagine del paleo per la raffigurazione del moto rapido dei beati, in Pd XVIII 41-42, benché consti che l'arnese e il giuoco relativo fossero e siano stati comuni a Firenze, come ci dà notizia Benvenuto e ci attestano vari scrittori, fra cui il Sacchetti e il Pulci; e al paleo si fa ancora cenno in una filastrocca popolare raccolta dal Pitré: " E uno e due e tre / e lo papa non è re / ... e il papa non è la trottola / e la trottola non è il paleo ".

Più simbolici che documentari sono i riferimenti a usanze e costumi dell'antica Firenze rievocati da Cacciaguida (Pd XV 97-126), da cui di oggettivo possiamo soltanto ricavare alcuni elementi del vestiario duecentesco di donna, come la catenella, la corona, le gonne contagiate e la cintura; quasi nulla di specificamente folclorico hanno le ricordate usanze del passato, contrapposte a quelle vive al tempo di D., nonché gli accenni al filare delle donne e alle ninne-nanne, che tendono a ricreare l'atmosfera idillica del tempo andato. È, del resto, un obiettivo metodologico da tener sempre aperto nella ricerca critica delle tradizioni popolari nell'opera di D. quello che mira a individuare, attraverso similitudini, perifrasi e metafore, la loro funzione stilistica, nonché la loro funzione culturale, per cui la quasi esclusiva toscanità e la prevalente fiorentinità delle tradizioni registrate rappresentano un dato significativo della posizione del poeta rispetto al mondo popolare.

Da ciò s'intende come nelle altre opere di D., il cui piano è più tecnicamente e specificamente letterario, il ricorso alle tradizioni popolari sia assai minore e venga dettato da norme di stile ed esigenze di cultura di D. e della sua epoca.

Non più che riflessi, sia pure notevoli, della vita trecentesca, ma non solo delle classi umili, ci offre la Vita Nuova, come l'omaggio delle giovinette amiche alla sposa (XIV 3), il lamento delle donne scapigliate per la morte di Beatrice (XXIII 5) e, infine, la devozione del pellegrinaggio alla Veronica (XL 1 ss.). Il Convivio è sì destinato a un pubblico vasto, dalla cui cerchia è però escluso proprio il volgo.

Il De vulg. Eloq. sembra fornirci un campionario di poesia popolare in quei frammenti di canti (così generalmente si definiscono pur non essendo certa di tutti la natura ritmico-versoria) che D. riporta come esempi delle parlate locali e degli stili inferiori. In effetti essi hanno ben poco di popolare e, comunque, appartengono per fattura a livelli diversi di cultura. Letteraria, per genere, metrica e trasmissione, è la canzone del Castra, da porre se mai sullo stesso piano di produzione giullaresca del canto oltraggioso per Milanesi, Bergamaschi e loro limitrofi, e del Contrasto di Cielo d'Alcamo, ricordati entrambi da Dante. Analogamente i canti a cui apparterrebbero i versi che esemplificano le parlate toscane hanno il carattere di tanta rimeria di piazza del '300, dovuta a rimatori borghesi più che a popolani poeti. Per un altro verso il De vulg. Eloq. può interessare il demologo, che ritrova nel criterio geo-etnografico seguito da D. per la classificazione dei dialetti princìpi anticipatori dei suoi moderni orientamenti di studio, come il principio demo-linguistico delle reazioni etniche, che fu applicato dal Nigra e ha tuttora, se ben dosato, titoli di validità, e l'intravista analogia di evoluzione tra fatti di lingua e di costume.

Il distacco culturale con cui D. guarda alle tradizioni del popolo, che trova prova e conferma nella riconosciuta letterarietà di massima con cui sono da lui registrate per preminente esigenza di realismo, si è riflesso nell'aneddotica fiorita intorno alla figura del poeta, quasi tutta di formazione e trasmissione dotta, che fa capo al Boccaccio e al Sacchetti. Essa ce lo presenta come un personaggio superbo, presuntuoso e assai poco indulgente nei riguardi del volgo ignorante. La straordinaria memoria di lui, decantata da Pietro Fullone, poeta popolare siciliano del sec. XVII, è oggetto di una novellina popolare in dialetto veronese, che riferisce la risposta che l'Alighieri avrebbe completata a distanza di un anno al quesito postogli su quale fosse il miglior boccone: " l'uovo - col sale ".

Vi è poi una serie di racconti di autori noti o anonimi, che sono costruiti su temi e motivi novellistici di tradizione classico-medievale e di ampia circolazione, come quello del sogno premonitore della madre di D. che attribuisce una nascita mitica al poeta o quello, fissato in una novella del Sercambi, su " D. e i vestiti alla corte del re Roberto di Napoli ", svolto con altri personaggi nella novellistica europea e anche in un racconto popolare siciliano. La leggenda erudita di D. mago non ha avuto sviluppo nella tradizione popolare, la quale, di contro, ha opposto a essa una testimonianza della fede ortodossa del poeta attribuendogli, attraverso le stampe popolari, quel Credo, recitato per lui, tramandato ed elaborato per via scritta ed orale.

Per le ragioni suddette la Commedia non è mai scesa a un grado e livello massimo di popolarità; la sua influenza, per lo stile e le immagini, si è fatta sentire in alcuni poemi di fattura semiletteraria, come quello siciliano della Baronessa di Carini; e solo taluni episodi, per il loro avvincente sapore romantico, sono entrati nel repertorio dei cantastorie e poeti di popolo, per cui si ritrovano, fedelmente riprodotti o variamente elaborati in forma epica o drammatica, nelle stampe popolari dell'Ottocento, fra le quali registriamo un Maggio e più di un poemetto in ottave sul conte Ugolino, un poemetto su Francesca da Rimini, ricalcato sull'omonima tragedia del Pellico, e varie redazioni, di mediata derivazione dantesca, della storia di Pia.

Cospicuo, per finire, è il fenomeno di discesa nel linguaggio sentenzioso del popolo, specialmente in Toscana e in Sicilia, di proverbi e modi di dire danteschi, nonché di figure tipiche del poema assunte a designare per confronto personaggi reali e particolari comportamenti di vita pratica: che è una spia significativa della lontananza con cui il popolo ha sentito il mondo dantesco e dei suoi tentativi, episodici e isolati, di recepirne solo quanto realmente gli si confacesse.

Bibl. - G. Pitré, Le tradizioni popolari nella D.C. - Appunti, Palermo 1901 (ripubbl. col titolo Appunti su le tradizioni popolari nella D.C., e una nota introduttiva di C. Naselli, in " Nuovi Quaderni del Meridione " III [1965] 162-199); La leggenda di D. - Motti, facezie e tradizioni dei secoli XIV-XIX, con introduzione di G. Papini, Lanciano 1911; A. Graf, Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo, Torino 1925; F. D'Ovidio, D. e la magia, e Ancora D. e la magia, nel vol. Studii sulla D.C., I, Caserta 1931, 121-176, 177-232; G. Colella, Tracce folcloristiche nella D.C., in " Archivio Raccolta e Studio Tradizioni Popolari Ital. " XIII (1938) 113-129; G. Crocioni, Folklore e letteratura, Firenze 1954, 16-27; P. Toschi, Tradizioni popolari della D.C., in " Rassegna Trimestrale di Cultura dell'Ist. Tecnico di Lanciano " III (1965) 9-12; C. Naselli, nota introduttiva a G. Pitré, Appunti, cit. (1965) 162-165; ID., Aggiunte alle tradizioni popolari nella D.C. raccolte dal Pitré, in D. e la Magna Curia, Palermo 1966; G. Crocioni, Le tradizioni popolari nella letteratura italiana, Firenze 1970, 55-67; G.B. Bronzini, Nota sulla ‛ popolarità ' dei proverbi della D.C., in " Lares " XXXVIII (1972) 9-18; ID., Mondo popolare e mondo primitivo in D. - Premessa metodologica e avvio di una ricerca nella D.C., in Miscellanea di studi in onore di Natalino Sapegno, III, Roma 1976.

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