Tra i due imperi. L'affermazione politica nel XII secolo

Storia di Venezia (1995)

Tra i due imperi. L'affermazione politica nel XII secolo

Giorgio Ravegnani

La conquista dei mercati bizantini

Nella seconda metà dell'undicesimo secolo i rapporti fra Bisanzio e Venezia ebbero una svolta decisiva, che portò quest'ultima ad assumere un ruolo preminente nel ommercio con l'Oriente. L'occasione venne fornita dagli avvenimenti del 1081. Il sovrano di Costantinopoli, Alessio I Comneno, a corto di risorse e di forze militari, ricorse all'aiuto veneziano per far fronte all'aggressione dei Normanni e, in cambio, fece una serie di concessioni, la cui ampiezza si giustifica soltanto in rapporto alla situazione disperata in cui si trovava l'Impero. Roberto il Guiscardo, duca di Puglia e Calabria, non faceva mistero, infatti, della sua ambizione di impossessarsi di lisanzio e, nella primavera del 1108 attaccò la costa orientale dell'Adriatico e mise l'assedio a Durazzo. La caduta di questa importante città avrebbe aperto agli invasori 'antica via militare che conduceva a Tessalonica e, di qui, a Costantinopoli. Alessio Comneno si trovò quasi del tutto impotente dinanzi all'aggressione. Nei mesi precelenti, quando già si intravvedeva la minaccia normanna, aveva preso una serie di iniziative politiche e diplomatiche e si era adoperato per ricostruire un esercito con il quale affrontare il nemico. Al momento, tuttavia, i preparativi non erano completati e, di fronte all'aggravarsi del pericolo, l'imperatore altro non poté fare che ricorrere all'aiuto degli alleati. Scrisse perciò al sultano selgiuchide di Asia Minore perché gli inviasse mercenari e, contemporaneamente, fece richiesta di aiuto navale Venezia. La Repubblica in più occasioni aveva messo le proprie forze al servizio dell'Impero; in questa circostanza il suo intervento era indispensabile, dato che la lotta bizantina doveva essere ridotta a poca cosa, del tutto inadatta a far fronte all'apparato bellico dei Normanni. Da parte veneziana vi era inoltre una sostanziale coincidenza di interessi, poiché l'eventuale insediamento dei Normanni su entrambe le coste dell'Adriatico era visto come un pericolo alla libertà di navigazione. La Lotta veneziana raggiunse perciò la città assediata e vinse il nemico al largo di questa; la vittoria tuttavia non fu decisiva e la guerra si trascinò con alterne vicende [no al 1185 quando la morte del Guiscardo mise fine all'aggressione (1).

Venezia fu pronta a intervenire in difesa del tradizionale alleato, ma lo fece a caro prezzo. Un'ambasceria imperiale raggiunse la città con la richiesta di aiuto, fornendo un immediato compenso e assicurando altri vantaggi per il futuro. La proposta venne resa ancor più allettante dall'impegno a concedere quanto promesso tanto in caso di vittoria quanto in caso di sconfitta delle armi veneziane. Alessio Comneno si dichiarava inoltre disposto a soddisfare altre richieste, ponendo come unica condizione che non fossero pregiudizievoli all'Impero. I Veneziani accettarono e formularono le loro richieste ottenendo un impegno esplicito da parte dei legati bizantini (2). L'imperatore si era sbilanciato nelle concessioni e i suoi successori ne avrebbero pagato le conseguenze, ma al momento non esisteva altra possibilità di fermare i Normanni se non mettendo in difficoltà il loro schieramento navale. Una loro sconfitta sul mare avrebbe infatti dato respiro a Costantinopoli, consentendo di intervenire efficacemente sul campo, come poi effettivamente avvenne.

Alessio Comneno accordò la ricompensa che aveva promesso quando ancora le operazioni militari erano in corso. Nel maggio del 1082 emise infatti una crisobolla con la quale concedeva ampi privilegi in cambio dell'aiuto prestato e dell'impegno a fornirlo anche in futuro (3). L'appoggio di Venezia era quanto mai necessario per far fronte alla guerra contro i Normanni, che aveva assunto un andamento sfavorevole, e l'imperatore largheggiò in concessioni, come d'altronde si era impegnato a fare quando aveva stretto l'alleanza. Accordò pertanto titoli nobiliari, elargizioni in denaro, proprietà fondiarie e privilegi di natura commerciale. Questi ultimi furono senza dubbio i più importanti, perché le esenzioni concesse fecero ottenere ai Veneziani una posizione di preminenza nel commercio orientale. Essi avevano già ottenuto vantaggi di questo genere nel 992, con una crisobolla di Basilio II, ma si era trattato di una semplice riduzione di imposte per le navi che arrivavano a Costantinopoli. Ora al contrario furono autorizzati a commerciare in pressoché tutto l'Impero senza pagare tasse e andare soggetti a controlli. Un notevole salto di qualità, tale da determinare inevitabilmente il predominio di Venezia nell'Impero e che sarebbe stato gravido di conseguenze negative per Bisanzio. Al momento, tuttavia, non se ne valutò appieno il rischio, sia per lo stato di necessità sia perché, probabilmente, il volume dei traffici veneziani non era tale da destare preoccupazioni. L'importanza dell'avvenimento non sfuggì tuttavia a una osservatrice attenta come Anna Comnena, figlia e biografa dell'imperatore, che così osserva dopo aver riassunto i termini della crisobolla:

La maggior concessione fu l'aver reso il loro commercio esente da imposte in tutte le regioni soggette all'impero dei Romani, così che essi poterono liberamente esercitarlo a loro piacimento senza dare neppure un soldo per la dogana o per qualsiasi altra tassa imposta dal tesoro, in modo da essere al di fuori da ogni autorità romana (4).

Il chrysoboullos logos - come si chiamava tecnicamente l'atto imperiale - si presentava formalmente come una concessione sovrana, espressa come tale nella forma solenne dell'editto munito di sigillo aureo, ma in realtà in questo come in altri casi era piuttosto il risultato di un accordo bilaterale concluso a seguito di trattative. La forma del privilegio in termini diplomatici voleva sottolineare la pretesa bizantina alla supremazia, più nominale che reale, sugli Stati che come il Ducato veneziano si erano venuti costituendo da un'originaria condizione di sudditanza. Non per nulla, infatti, i Veneziani sono definiti "sudditi" nella crisobolla, quando ormai non esisteva più un reale vincolo di subordinazione. Com'era nella prassi, il documento venne emesso in originale greco e traduzione latina della cancelleria imperiale; il primo è però andato perduto e possediamo soltanto due traduzioni latine inserite in crisobolle posteriori. Lo stesso fenomeno si è verificato d'altronde sia per la crisobolla del 992 che per le successive concesse a Venezia fino al 1198, di cui ci è giunta unicamente la versione latina. All'originale doveva poi essere annessa una sezione relativa agli obblighi veneziani, ma di questa non vi è più traccia. Il testo del privilegio imperiale al contrario ci è giunto integralmente. Il doge otteneva a titolo perpetuo la dignità aulica di "protosevasto" con il relativo stipendio, mentre ai patriarchi di Grado veniva concesso alle stesse condizioni il titolo di "ypertimos". Il primo di questi era stato creato dallo stesso Alessio I, che operò una riforma radicale dei gradi di nobiltà bizantina; il secondo, anch'esso di origine recente, veniva conferito agli ecclesiastici che il sovrano voleva onorare in modo particolare: nel caso specifico Alessio Comneno intendeva alimentare la rivalità fra il patriarca di Grado e il papa Gregorio VII, amico dei Normanni. La concessione di titoli nobiliari non era una novità per i dogi, che già da qualche secolo erano soliti riceverli: l'usanza rientrava nella tradizione diplomatica bizantina e mirava a creare legami fra la corte imperiale e i governanti sudditi o alleati di Bisanzio. Nella concessione del 1082 vi erano tuttavia due forti elementi di novità rispetto al passato: in primo luogo il titolo era ereditario, contrariamente alla prassi bizantina per cui si estingueva con il detentore; in secondo luogo poneva il doge sullo stesso piano della famiglia imperiale, dato che era stato conferito anche al cognato e al fratello di Alessio I. Fino ad allora, infatti, i dogi avevano ottenuto da Bisanzio dignità di rango inferiore, anche se in progressiva crescita nel corso del tempo, in parallelo alla aumentata importanza politica del Ducato (5).

Le elargizioni di denaro, oltre agli stipendi per doge e patriarca, comprendevano un versamento annuale di venti libbre d'oro, che i Veneziani potevano distribuire a piacimento nelle loro chiese. Veniva poi imposto a ogni amalfitano proprietario di una bottega a Costantinopoli o in altri territori dell'Impero di versare annualmente tre monete d'oro alla chiesa di San Marco a Venezia. Le concessioni immobiliari riguardavano Costantinopoli e Durazzo. A Costantinopoli i Veneziani ottennero un quartiere lungo il Corno d'Oro comprensivo di tre scali marittimi e un forno adiacente alla chiesa di San Acindino, che già doveva essere di loro proprietà, con la rendita relativa; a Durazzo la chiesa di Sant'Andrea con le pertinenze di questa, a eccezione del materiale immagazzinato ad uso della flotta imperiale. Il quartiere veneziano di Costantinopoli si estendeva fra due porte della cinta marittima e comprendeva una serie di magazzini con locali sovrastanti, ad uso di abitazione, che si aprivano su un mercato cittadino. In parte, precisa la crisobolla, erano disabitati; in parte abitati da Veneziani o da Greci. L'estensione del quartiere era poi dettagliatamente definita in un documento di consegna, che però non ci è pervenuto. I privilegi economici, infine, riguardavano la facoltà di vendere o acquistare "ogni genere di merce" senza pagare alcuna tassa, essere sottoposti a requisizioni e alla giurisdizione dei funzionari marittimi. Venivano esattamente indicati, a tal fine, i tributi da cui i Veneziani erano esentati, i funzionari marittimi alla cui giurisdizione non sarebbero stati più soggetti e, da ultimo, i centri in cui potevano esercitare liberamente il commercio. Questo diritto in teoria era valido per tutto il territorio bizantino, dato che il concetto è riaffermato per due volte nella crisobolla; nella pratica però doveva essere limitato alle località enumerate nel documento, che andavano dalla Siria alle estreme province occidentali ed erano i principali centri commerciali dell'Impero. Non vi erano compresi i porti del mar Nero, di cui Bisanzio intendeva riservarsi il monopolio, e le isole di Creta e di Cipro, che vennero aperte al commercio veneziano soltanto qualche anno più tardi. Le località indicate erano in tutto trentadue; entravano però nell'elenco anche alcuni centri non più sotto il diretto controllo di Bisanzio, come Antiochia o Durazzo, ma evidentemente in questo caso si teneva conto della transitorietà delle situazioni politiche (6).

Alessio I Comneno morì il 15 agosto 1118 lasciando al figlio Giovanni II un Impero notevolmente rafforzato rispetto a quando egli era salito al trono. Malgrado tutte le difficoltà che aveva dovuto affrontare, il sovrano era riuscito ad avere ragione dei nemici, a consolidare o estendere i confini e a riportare una maggiore solidità interna. L'alleanza con Venezia, al di là dei contrasti occasionali, era stata mantenuta e lo stesso vale per i privilegi commerciali concessi nel 1082, che non vennero messi in discussione. Sotto questo profilo, Venezia continuava a non avere antagonisti, sia rispetto ai commercianti indigeni che alle altre città marinare italiane, e la sua posizione di forza non venne scossa dal trattato con Pisa dell'ottobre 1111. Alessio I aveva emesso una crisobolla a favore di questa città, per dissuaderla dal prestare aiuto ai suoi nemici, ma le condizioni di favore accordate restavano di gran lunga al di sotto di quelle di cui godeva Venezia. I Pisani ottennero infatti un quartiere a Costantinopoli, con un annesso pontile di sbarco, e una semplice riduzione dei dazi doganali al quattro per cento rispetto al normale dieci. I Genovesi inoltre restavano esclusi da questi benefici e il loro momento sarebbe venuto soltanto più tardi.

Le cose però cambiarono bruscamente subito dopo l'avvento al potere di Giovanni Comneno. Un'ambasceria veneziana giunse a Costantinopoli nel 1119 per ottenere il rinnovo del precedente trattato, ma si vide opporre un rifiuto dall'imperatore. In linea teorica, infatti, una crisobolla aveva valore perpetuo, ma nella pratica essa andava soggetta a ratifica da parte del sovrano in caso di successione al trono. Non abbiamo una motivazione ufficiale del gesto di Giovanni II e la storiografia moderna ha formulato diverse ipotesi, ponendolo in dipendenza dai cambiamenti intervenuti nella situazione generale dell'Impero. Lo si è visto perciò come conseguenza di una momentanea eclissi della potenza normanna, che rendeva superfluo l'aiuto veneziano, o dell'aprirsi di nuovi campi di azione per Bisanzio con la creazione degli Stati crociati. Allo stesso modo sono state individuate come possibili cause il contrasto con Alessio I a proposito della Dalmazia, le iniziative politico-militari di Giovanni II nei Balcani o anche misure protezionistiche del commercio bizantino. Giovanni Cinnamo, storico bizantino di una generazione posteriore, l'unica fonte che dà una spiegazione del fatto, lo mette in correlazione al comportamento dei Veneziani residenti nell'Impero. L'immensa ricchezza accumulata a seguito delle concessioni di Alessio I li aveva condotti a insuperbirsi; di conseguenza "trattavano alla stessa maniera un cittadino e un servo" e non si limitavano a farlo con le persone qualunque ma anche con i dignitari di corte. Di qui la decisione di Giovanni II "sdegnato con loro" di espellerli dall'Impero (7). La diagnosi di Cinnamo è da ritenersi sostanzialmente esatta anche se probabilmente limitata a un solo aspetto della questione; errate sono semmai le conclusioni, perché Giovanni Comneno non espulse i Veneziani dall'Impero, ma si limitò a privarli dei privilegi di cui godevano. Lo provano al di là di ogni dubbio alcuni documenti che attestano ancora la presenza di mercanti fra il 1119 e il 1121 (8). Con una decisione del genere, Giovanni Comneno altro non fece se non far valere i propri diritti di parte lesa nei confronti di una minoranza riottosa che scambiava le concessioni sovrane con la licenza a praticare l'arbitrio. I Veneziani non rispettavano gli obblighi di alleanza e per di più si rendevano odiosi ai sudditi dell'Impero. Il loro comportamento doveva essere causa di scandalo e di proteste, come quando, alcuni anni prima, avevano trafugato il corpo di santo Stefano protomartire da una chiesa di Costantinopoli (9).

La decisione di Giovanni Comneno gettò verosimilmente nella costernazione le autorità veneziane, ma sulle prime non vi fu alcuna reazione e soltanto nel 1122 la Repubblica iniziò a fare rappresaglie navali in territorio imperiale. La flotta bizantina non era in grado di far fronte agli attacchi e, nel corso di quattro anni, i Veneziani agirono indisturbati ottenendo una serie di successi, a dire il vero più dimostrativi che reali, ma sufficienti per spingere alla capitolazione l'imperatore. Giovanni Comneno fece sapere al doge che era pronto a rinnovare il trattato e un'ambasceria raggiunse Costantinopoli dalla città lagunare. Nell'agosto 1126 si arrivò a un accordo sancito dall'emissione di una nuova crisobolla, che era completata da una sezione perduta relativa agli obblighi di Venezia. Giovanni Comneno perdonava gli antichi alleati in considerazione dei precedenti meriti e perché di nuovo promettevano di combattere per l'Impero. I loro ambasciatori avevano sottoscritto e giurato un documento nel quale venivano dettagliatamente fissati i doveri nei confronti dell'Impero, a loro volta avevano chiesto la conferma e la parziale modifica della crisobolla di Alessio I e Giovanni II la rinnovava integralmente. Aggiungeva poi la modifica chiesta da Venezia, riguardante un'interpretazione autentica del testo alessiano. I funzionari del fisco bizantino avevano infatti interpretato il documento nel senso che erano esentati dal pagamento delle tasse i Veneziani, ma non i sudditi dell'Impero che con loro trattavano. I primi avevano fatto rimostranze e ora l'imperatore accoglieva la loro richiesta, disponendo che l'esenzione si estendesse anche ai suoi sudditi sia quando acquistavano dai Veneziani sia quando vendevano (10).

L'alleanza con Manuele Comneno

Il trattato del 1126 mise fine ai contrasti fra Venezia e Bisanzio per tutta la durata del regno di Giovanni Comneno. L'imperatore morì 1'8 aprile 1143 e gli successe il figlio minore Manuele I, che restò sul trono fino al 1180. Questo nuovo sovrano si trovò fra le mani un Impero notevolmente più solido di quello di Alessio I e si adoperò a sua volta per ristabilire ovunque possibile la potenza bizantina; la sua azione politica segna l'ultimo serio tentativo di dare a Bisanzio una dimensione di potenza egemone, cosa che in parte gli riuscì ma che fu poi vanificata drammaticamente negli ultimi anni. Sconfitto dai Turchi a Miriocefalon nel 1176, l'imperatore vide infatti crollare come un castello di carte l'edificio che aveva faticosamente costruito negli anni precedenti. La pretesa egemonica di Manuele I finì inoltre per scontrarsi con l'esuberante potenza veneziana, le cui aspirazioni non sempre coincidevano con quelle del sovrano di Costantinopoli. Non sappiamo se il governo veneziano chiese al nuovo imperatore la riconferma della crisobolla paterna; di fatto però Manuele Comneno non rinnovò ufficialmente i privilegi di cui godeva la città lagunare. La cosa non sembra aver avuto conseguenze di alcun genere, ma è probabile che siano state avviate trattative fra le parti per definire i rispettivi obblighi. In ogni modo, nel 1147, intervenne un fatto imprevisto che modificò radicalmente la situazione. Durante il passaggio della seconda crociata, mentre l'imperatore era impegnato a scortare i pellegrini, i Normanni di re Ruggero II si impadronirono di Corfù, dove collocarono un presidio di mille uomini. L'arrivo dei crociati e i potenziali pericoli che comportava avevano indotto il sovrano bizantino a distrarre forze dalle isole, dalla Grecia e dal Peloponneso, per concentrarle laddove sarebbero transitati. Di conseguenza la flotta normanna poté attaccare a sorpresa senza incontrare una resistenza adeguata. Da Corfù, dove parte della popolazione aderì alla loro causa in odio alle autorità imperiali, i Normanni fecero un'incursione nel Peloponneso occupando Modone; tentarono quindi un attacco, andato a vuoto, su Monemvasia e presero Nauplia. Di qui proseguirono fino all'Eubea devastando le coste e saccheggiando Negroponte. Secondo alcune fonti occidentali, la stessa sorte toccò ad Atene. Al ritorno sbarcarono truppe nell'isola di Cerigo e a Capo Malea fissandovi dei punti fortificati per controllare lo stretto di Cervi; si diressero quindi al golfo di Corinto dove presero la cittadella di Chrisson. Le loro truppe, sbarcate dalle navi, si spinsero anche all'interno e si impadronirono di Tebe e di Corinto facendovi un enorme bottino. Dopo di ciò si ritirarono e la flotta riprese la via della Sicilia portando le ricchezze depredate e un gran numero di prigionieri. Le navi da guerra dei Normanni, secondo uno storico bizantino, erano così cariche di preda da sembrare pesanti vascelli mercantili.

L'incursione normanna aveva avuto luogo nella seconda metà del 1147 e, forse, si era protratta anche nei primi mesi del 1148; alla fine di questa, a quanto pare, era rimasto un presidio di invasori nella sola Corfù. Si ripeteva così la drammatica situazione di alcuni decenni prima, con Normanni in possesso di una testa di ponte dalla quale potevano comodamente attaccare l'Impero. Come già al tempo del Guiscardo, la minaccia incombeva tanto su Bisanzio quanto su Venezia, i cui interessi tornavano a coincidere con l'Impero in funzione antinormanna. Manuele Comneno inviò ambasciatori nella città lagunare per chiedere aiuto e i Veneziani a loro volta mandarono ambasciatori a Costantinopoli. Questi ultimi, presenti nella capitale d'Oriente nel settembre 1147, chiesero a Manuele Comneno la riconferma dei vecchi privilegi commerciali in cambio dell'aiuto militare. Manuele I acconsentì e, nell'ottobre dello stesso anno, confermò solennemente la conclusione dell'accordo con una crisobolla. Con questa rinnovava negli stessi termini gli impegni presi da suo padre e, su richiesta degli ambasciatori veneziani, aggiungeva l'autorizzazione a commerciare senza pagare tributi anche a Creta e a Cipro. Questo privilegio, a dire il vero, era già stato accordato da Giovanni Comneno ma nella pratica veniva disatteso, per cui ora Venezia ne otteneva una solenne conferma che metteva fine a ogni dubbio in proposito (11).

Nell'inverno 1147-1148 venne allestita a Venezia una flotta per intervenire a Corfù e, nel marzo del 1148, quando ancora non era operativa, Manuele Comneno concluse un nuovo trattato con gli emissari del comune. Su richiesta veneziana, infatti, egli ampliò il quartiere concesso da Alessio I, che era divenuto troppo piccolo, e in più concesse ai Veneziani un nuovo scalo marittimo in aggiunta ai tre che già possedevano. In cambio i governanti veneziani mettevano la flotta a disposizione di Bisanzio fino al settembre dello stesso anno e richiamavano alle armi i loro cittadini presenti nell'Impero. L'accordo di marzo venne nuovamente sancito con una crisobolla, il cui testo è di notevole interesse per un paio di buoni motivi. In primo luogo presenta un prologo che, contrariamente al solito, non contiene divagazioni retoriche bensì una ricostruzione degli avvenimenti che avevano portato alla nuova alleanza con Venezia; in secondo luogo vi si trova una descrizione dettagliata del nuovo quartiere veneziano nella capitale, che compensa la mancanza di analoghi riferimenti nella concessione di Alessio I. Secondo la ricostruzione ufficiale degli avvenimenti, visti naturalmente dalla parte di Bisanzio, l'attacco improvviso dei Normanni aveva fatto sì che i Veneziani si mettessero spontaneamente al servizio dell'imperatore, dato che lo consideravano come un danno per la propria città. Essi avevano inoltre ordinato ai loro compatrioti presenti nell'Impero di mettersi ugualmente al servizio dell'imperatore fino al mese di settembre "della prossima indizione", cioè del 1148. In cambio di quanto promesso, tenendo conto che i Veneziani e i loro traffici erano aumentati al punto di non essere più contenuti nell'area assegnata da Alessio I, Manuele Comneno concedeva anche il richiesto ampliamento del quartiere comprendente abitazioni, spazi liberi e un altro scalo. Il tutto andava enumerato con cura e, come al tempo di Alessio I, registrato in un verbale di consegna che doveva essere inserito nell'archivio imperiale assieme alla crisobolla. Anche questo verbale è però andato perduto, ma il documento superstite in questo caso supplisce alla carenza definendo i confini del nuovo quartiere, con una lunga serie di toponimi di cui solo parte corrispondono a località a noi note. Nella concessione era compreso il quarto scalo marittimo, che veniva dato per intero ai Veneziani, con le case e i magazzini ad esso pertinenti. Erano però escluse le porte e le mura cittadine, che restavano sotto il controllo dell'autorità imperiale (12).

Manuele Comneno non aveva concepito la campagna contro Corfù come semplice operazione difensiva, bensì quale parte di un progetto più ambizioso di riconquista del territorio italiano. Una volta eliminata la testa di ponte di Corfù, aveva infatti intenzione di portare direttamente la guerra nel Regno normanno per farla finita con i nemici di sempre e, a tal fine, iniziò a mettere insieme una grande armata di terra e di mare della quale intendeva prendere personalmente il comando. L'inizio delle operazioni era previsto per la primavera del 1148 e l'imperatore doveva essere sicuro di risolvere la questione in poco tempo, a giudicare dal fatto che si era assicurato l'aiuto veneziano soltanto per sei mesi. I suoi progetti vennero però ritardati da un fatto imprevisto: il popolo nomade dei Cumani superò infatti la frontiera danubiana invadendo la Tracia e Manuele I fu costretto ad affrontarli. Se ne liberò senza grande fatica ma non gli fu possibile iniziare la campagna contro i Normanni prima della fine dell'anno, come aveva intenzione di fare, e la rimandò al successivo. Le forze di terra svernarono in Tracia; la flotta venne inviata a Corfù al comando del megas dux Stefano Kontostefanos, cognato dell'imperatore, e qui si ricongiunse alle navi veneziane. Queste ultime erano partite qualche tempo dopo la seconda crisobolla al comando del doge Pietro Polani, ma a Caorle il doge si era ammalato ed era dovuto rientrare a Venezia lasciando alla guida della flotta il fratello Giovanni e il figlio Naimerio. Durante la sosta invernale, Manuele I incontrò l'imperatore Corrado III che, reduce dalla crociata, si era imbarcato in Palestina 1'8 settembre raggiungendo Tessalonica. I due sovrani si recarono a Costantinopoli dove, il giorno di Natale, conclusero un'alleanza antinormanna, impegnandosi ad attaccare congiuntamente il Regno di Sicilia nel 1149 (13). L'assedio di Corfù si rivelò meno facile di quanto si prevedeva e l'impegno veneziano andò ben oltre i termini fissati inizialmente. La posizione elevata della cittadella rendeva vani gli sforzi dei veneto-bizantini sbarcati dalle navi, che non riuscivano a colpire efficacemente i nemici.

Ogni tentativo si rivelava inutile e gli assedianti si trovavano nella stessa situazione di chi "lanciasse le frecce verso il cielo per colpire le nubi". I Normanni non intendevano capitolare e, a differenza degli avversari, potevano fare grandi danni con i proiettili delle loro macchine da lancio. Di conseguenza, il bilancio delle perdite si faceva di giorno in giorno più pesante e "quasi tutte le pietre erano bagnate dal sangue dei Veneziani", come osserva un loro storico sintetizzando con una espressione efficace la gravità della situazione in cui si erano venuti a trovare. Dopo tre mesi di assedio, il comandante imperiale si risolse ad attaccare le mura con una torre mobile, ma restò ucciso durante lo scontro compromettendone l'esito. Manuele I nominò un successore, ma le operazioni continuarono ad essere infruttuose e si ebbe, tra l'altro, un grave incidente fra Bizantini e Veneziani che rischiò di far saltare l'alleanza. A primavera, finalmente, l'imperatore raggiunse il teatro operativo e, sotto il suo comando, fu fatto un secondo tentativo di prendere Corfù con una torre mobile, ma anche questo non venne coronato da successo. Nel frattempo il re Ruggero II diede il via a una operazione diversiva, inviando dalla Sicilia una flotta di sessanta navi destinate a devastare le coste della Grecia. Sperava così di distrarre l'imperatore dall'assedio, ma questi si limitò ad inviare una squadra mista veneto-bizantina, che si diresse verso la costa meridionale del Peloponneso sconfiggendo i Normanni a Capo Malea. Nel corso di questo scontro navale, per poco non fu fatto prigioniero il re di Francia Luigi VII che, al ritorno dalla Terra Santa, era casualmente salito su una delle navi normanne che attaccavano la Grecia. La battaglia di Capo Malea, secondo le fonti veneziane, fu un grande successo che costrinse le poche imbarcazioni superstiti a rientrare in Sicilia. In realtà vi sono buoni motivi per ritenere che si tratti di un'esagerazione, dato che i Normanni con quaranta navi riuscirono a raggiungere il Bosforo, saccheggiando i dintorni di Costantinopoli e lanciando frecce incendiarie contro il palazzo imperiale. Si trattò tuttavia di un'azione puramente dimostrativa perché si ritirarono quasi subito; al ritorno furono nuovamente intercettati dalla flotta alleata e persero diciannove navi (14).

L'incursione della flotta normanna non modificò il corso degli avvenimenti: l'assedio di Corfù si fece sempre più serrato e nell'estate del 1149 la guarnigione si arrese. Il castellano trattò con i Bizantini e, dopo aver ottenuto che il presidio normanno potesse ritirarsi senza essere disturbato, aprì le porte della città e passò al servizio dell'imperatore. Manuele Comneno vi pose una guarnigione e si apprestò a proseguire la campagna portando direttamente la guerra in Italia, come aveva stabilito con Corrado III, mentre la flotta veneziana rientrava in patria. Raggiunse a tal fine Valona, da dove contava di attraversare l'Adriatico, ma per la seconda volta i suoi progetti furono resi vani dalle circostanze avverse. Venne dapprima trattenuto dal cattivo tempo che impedì la traversata; fu poi costretto ad abbandonare i suoi soldati per andare a reprimere una rivolta di Serbi suscitata dal re Ruggero II, cui fece seguito una guerra con l'Ungheria. L'imprevisto non lo spinse tuttavia a rinunciare all'operazione e affidò il comando al megas domestikos Axouch, che già aveva guidato le truppe a Corfù dopo la morte di Stefano Kontostefanos. Axouch ebbe ordine di sbarcare ad Ancona per stabilirvi una base operativa, ma il generale imperiale non fu assolutamente all'altezza del suo compito. Avanzò un poco a nord di Valona, fino all'estuario del fiume Vjosa, e qui si fermò senza prendere alcuna iniziativa. I motivi della sua inazione non sono del tutto chiari: sembrano essere dipesi dall'incapacità di condurre una guerra marittima, ma un ruolo non secondario pare essere stato svolto anche dall'opera di convincimento dei Veneziani. Essi vedevano infatti con scarsa simpatia l'eventuale insediamento dell'Impero su entrambe le coste dell'Adriatico: una situazione che avrebbe riproposto, sia pure a rovescio, i pericoli per la libertà di navigazione che si sforzavano di evitare combattendo l'espansionismo normanno. Si adoperarono perciò per boicottare i programmi dell'imperatore facendo pressioni sul suo generale e, a quanto pare, ebbero successo. I loro sforzi vennero inoltre premiati dal caso perché una tempesta danneggiò notevolmente la flotta imperiale, che nell'inverno 1150 abbandonò le acque albanesi rientrando a Costantinopoli (15).

Il fallimento dell'operazione non fece abbandonare a Manuele Comneno il progetto di condurre la guerra in Italia. Era spinto dal desiderio di farla finita con i Normanni e, nello stesso tempo, dall'aspirazione universalista tipica dei sovrani di Bisanzio che lo portava ad estendere i confini in tutti i territori un tempo soggetti all'Impero. L'intesa con Corrado III venne mantenuta e, nel marzo del 1151, l'imperatore di Bisanzio gli comunicò di essere pronto a intervenire in Italia per un'azione contro il nemico comune. Corrado III, a sua volta, era intenzionato a iniziare le operazioni l'anno successivo, ma morì prima di mettere in atto i suoi propositi, il 15 febbraio 1152. Il nuovo sovrano tedesco, Federico I Barbarossa, si mostrò molto più tiepido del predecessore di fronte alla prospettiva di un accordo con i Bizantini. Si ebbero comunque trattative per un'alleanza antinormanna, ma con scarsi risultati pratici, dato che il Barbarossa mal si adattava all'idea di un'interferenza bizantina nelle vicende italiane. Nel giugno 1155, quando il sovrano tedesco si trovava in Italia, Manuele Comneno decise di troncare gli indugi e inviò i propri plenipotenziari ad Ancona per dare il via a un'operazione congiunta. Questi incontrarono il Barbarossa mentre si ritirava in Germania, ma ancora una volta non vi fu possibilità di intesa. Manuele non si lasciò tuttavia scoraggiare dall'insuccesso e decise di agire da solo: i suoi uomini raccolsero truppe mercenarie e, con l'aiuto dei vassalli normanni ribelli, attaccarono la Puglia, giungendo in breve tempo fino alle porte di Taranto. Il successo andò inizialmente al di là delle più ottimistiche previsioni e all'impresa si unì anche il papa Adriano IV, ma nel 1156 il nuovo re di Sicilia, Guglielmo I, sconfisse pesantemente le truppe bizantine presso Brindisi e costrinse il papa alla pace. Adriano IV fu costretto a riconoscere le conquiste normanne e in cambio ottenne dal re l'omaggio vassallatico. Guglielmo I procedette alla riconquista del territorio italiano; nel 1157 inviò una squadra navale ad attaccare l'Eubea e questa, a quanto pare, arrivò in seguito fino alle mura di Costantinopoli. Nel corso dello stesso anno si ebbero altri scontri in Italia, ma nella primavera del 1158 venne concluso un trattato, con la mediazione del papa, e i Bizantini evacuarono la penisola. L'impresa non fu soltanto un insuccesso militare, ma ebbe anche pesanti conseguenze politiche: creò infatti un contrasto insanabile fra l'imperatore di Bisanzio e il collega germanico e condusse a una frattura nelle relazioni con Venezia. Il timore di una riaffermata presenza bizantina in Italia aveva spinto la Repubblica a concludere un trattato con Guglielmo I nel 1154 e, al momento delle ostilità, Venezia restò neutrale. Per aggirare l'ostacolo, Manuele Comneno si rivolse a Genova nel 1155, gettando le basi di un accordo, ma la diplomazia normanna vanificò la sua opera l'anno successivo ottenendo che anche questa città restasse al di fuori del conflitto (16).

Di fronte al Barbarossa

I rapporti fra Venezia e l'Impero di Occidente avevano andamento discontinuo e si basavano essenzialmente su due punti: la concessione di privilegi e occasionali relazioni politiche, sia in termini di accordo che di contrasto. I privilegi erano definiti da un trattato, il pactum, le cui norme costituivano una sorta di carta dei diritti veneziani nella terraferma italiana e fissavano le regole per l'esercizio del commercio. L'usanza era già in vigore con i sovrani del Regno italico, che confermavano gli accordi intervenuti fra il Ducato e i vicini della terraferma emettendo anche un praeceptum, con cui venivano garantiti tutti i possedimenti veneziani nei loro domini. Ottone I rinnovò i privilegi per Venezia, sia pure con alcune modifiche del pactum, e stabilì che fossero garantiti per tutta la durata del suo regno e non più per soli cinque anni, come era stato fino ad allora. Al tempo di Ottone III, inoltre, pactum e praeceptum si fusero in un unico documento, che perse il carattere originario di accordo fra le parti assumendo la forma diplomatica di privilegio, allo stesso modo delle crisobolle concesse dai sovrani bizantini. La validità degli accordi si estendeva ora all'intero Regno italico e non più, come fino a quel momento, alle città in rapporti commerciali con Venezia che venivano elencate nei pacta stessi. L'importanza del pactum diminuì con l'indebolimento del potere imperiale al tempo della lotta per le investiture e l'affermazione dei comuni italiani. La prassi di rinnovarli non fu comunque abbandonata e, negli anni in cui Venezia affermava il proprio potere in Oriente, si ebbero conferme da parte di Enrico IV nel 1095, di Enrico V e Lotario III nel 1111 e 1136. Subito dopo, però, si ebbe un'interruzione con Corrado III, al quale non fu neppure chiesto il rinnovo del patto, a causa del suo scarso peso sul Regno italico. L'unico intervento di questo sovrano a favore di Venezia fu fatto con la conferma dei privilegi di cui godeva il monastero di San Nicolò del Lido.

Le relazioni politiche, a partire dal 1055, furono sostanzialmente buone. Venezia cercò di tenersi il più possibile lontana dalle lotte fra Impero e papato riformatore e anche in seguito, sebbene impegnata in conflitti con i vicini della terraferma, non arrivò a una rottura con i sovrani germanici. Nei decenni successivi al rinnovo del pactum da parte di Enrico V la Repubblica evitò con cura ogni attrito con l'Impero e, al tempo di Lotario III, fu al fianco di questo sovrano contro i Normanni e Ancona ('7). Quando però nel 1152 salì al trono Federico Barbarossa si aprì una prospettiva del tutto diversa. Il nuovo sovrano non aveva alcuna intenzione di essere assente dalla scena politica italiana e si adoperò con ogni energia per consolidare l'autorità imperiale. Il suo programma di restaurazione creò un potenziale pericolo per Venezia, che vedeva con sospetto il costituirsi in terraferma di un solido dominio in grado di interrompere i traffici commerciali. Come in Oriente e nell'Adriatico, alla città lagunare premeva la libertà di movimento entro le direttrici di traffico essenziali per la sopravvivenza e il conflitto con il Barbarossa finì per diventare inevitabile, anche se per alcuni anni il comune evitò di assumere un atteggiamento ostile mantenendosi neutrale. Nel dicembre 1154, durante la prima discesa in Italia, il sovrano svevo fu raggiunto da un'ambasceria veneziana all'assedio di Galliate, un castello milanese a est di Novara. Qui la legazione veneziana, guidata dal figlio del doge Domenico Morosini, ottenne il rinnovo dei consueti privilegi che erano stati riconfermati per l'ultima volta da Lotario III nel 1136 (18). In seguito non vi furono altri rapporti ufficiali: dopo la distruzione di Galliate e di altri centri il Barbarossa scese fino a Roma per esservi incoronato dal papa Adriano IV e di qui riprese la via del Nord rientrando in Germania nel luglio del 1155. Subito dopo ebbe luogo la spedizione bizantina contro i Normanni e, in tale circostanza, Venezia si trovò indirettamente allineata con lo Svevo, che inizialmente aveva progettato di tornare in Italia per opporsi ai disegni di Manuele Comneno.

Le relazioni si mantennero amichevoli anche negli anni successivi e, nell'ottobre del 1157, una delegazione veneziana prese parte alla dieta di Besançon durante la quale si ebbe il famoso contrasto fra i principi tedeschi e il cardinale Rolando Bandinelli, che sosteneva la tesi della superiorità del papato sull'Impero (19). Si trattava però di una tranquillità apparente e la seconda discesa in Italia del Barbarossa fece precipitare la situazione. La notizia della resa di Milano nel settembre 1158 fu accolta forse con piacere dai governanti veneziani, che vedevano così umiliata una concorrente commerciale, ma la successiva dieta di Roncaglia creò sicuramente un clima di inquietudine. La decisa riaffermazione dei diritti imperiali, la determinazione a esigerne il rispetto, dovette far avvertire una minaccia incombente, tanto da riconsiderare l'atteggiamento nei confronti del Barbarossa. In assenza di documenti, non sappiamo tuttavia quale sia stata la reazione ufficiale di Venezia, ma è chiaro dagli avvenimenti successivi che si apprestava ad opporsi alle pretese del sovrano germanico. L'occasione venne fornita ai primi di settembre del 1159 dall'elezione al soglio pontificio del Bandinelli, con il nome di Alessandro III, al quale una fazione cardinalizia avversa contrappose il cardinale Ottaviano, che assunse il nome di Vittore IV, dando così vita a uno scisma destinato a durare per diciotto anni con l'avvicendamento di tre antipapi. Venezia si affrettò a sostenere Alessandro III, mentre il Barbarossa prese posizione per il rivale che si mostrava favorevole alla sua politica. L'esempio veneziano fu seguito da altri governi e, in funzione dello scisma, si costituì uno schieramento di forze contrarie all'Impero che comprendeva i Regni di Francia e Inghilterra, Venezia e i comuni italiani nemici del Barbarossa, la corte siciliana e il sovrano di Costantinopoli. Quest'ultimo, dopo il 1158, aveva abbandonato ogni progetto di alleanza con il Barbarossa, ma non le aspirazioni alla riconquista italiana. L'occasione per proseguire questa politica gli venne offerta dall'appoggio ad Alessandro III, con il quale negli anni successivi avrebbe avviato trattative per essere incoronato imperatore. L'accordo con il papa lo condusse a un riavvicinamento con i Normanni e con Venezia, ma mentre i rapporti con i primi continuarono a essere difficili, con Venezia vi fu per qualche tempo un'effettiva collaborazione (20).

Venezia diede rifugio agli ecclesiastici fedeli ad Alessandro III, ma non vi furono ancora per alcuni anni atti di ostilità aperta e nell'autunno del 1161 il notaio imperiale Burcardo, in missione per il suo sovrano, poté tranquillamente fermarsi nella città lagunare. Poco tempo più tardi, tuttavia, il Barbarossa prese l'iniziativa. Cominciò con l'imporre un rigido blocco commerciale, lasciando aperte soltanto le vie marittime ai Veneziani, che si risolsero a resistergli contando sull'amicizia del sovrano di Costantinopoli e dei Normanni (21). All'inizio del 1162 prese il via anche un'azione militare volta alla sottomissione di Venezia, che fu condotta per suo ordine dalle città legate all'Impero. I Veneziani risposero agli attacchi con fortunate controffensive, ma in seguito Veronesi, Padovani e Ferraresi si impossessarono a sorpresa del castello di Cavarzere facendovi prigioniero il presidio veneziano. Il comune reagì prontamente rioccupando il centro e prendendo a sua volta Adria e Ariano, che vennero saccheggiate. Nello stesso tempo il doge ricorse alla via diplomatica e riuscì a corrompere i governanti di alcune città rivali, che si impegnarono in un patto segreto contro il Barbarossa. L'attacco più pericoloso venne condotto dal patriarca di Aquileia Ulrico, che con un esercito consistente andò a porre l'assedio a Grado. Anche in questa occasione, però, la reazione veneziana fu efficace. Il doge Vitale Michiel spedì subito alla volta di Grado le galee che aveva a disposizione e una di queste, precedendo le altre, si gettò audacemente sulle forze nemiche. Gli attaccanti catturarono senza subire perdite il patriarca e il suo seguito, e furono condotti a Venezia, a quanto pare, circa settecento prigionieri. I nemici vennero dispersi e massacrati in gran numero durante la fuga; le forze in ritirata vennero poi inseguite all'interno del loro territorio, dove i vincitori distrussero alcuni castelli. Il patriarca restò prigioniero per qualche tempo e fu poi liberato dietro pagamento di un tributo annuale. Fallì, infine, la contemporanea azione su Caorle dei Trevigiani, messi in fuga con molte perdite al ritorno della squadra veneziana (22).

Il fallimento dell'operazione militare fece abbandonare al Barbarossa i progetti di sottomissione di Venezia. Al culmine della propria potenza, dopo la distruzione di Milano nel marzo 1162, si preparò ad attaccare l'Italia meridionale e con larghe concessioni si assicurò l'appoggio di Pisa e di Genova. A quest'ultima, in particolare, consentì di boicottare il commercio dei Veneziani se non avessero riacquistato la sua amicizia (23). La spedizione contro il Regno di Sicilia tuttavia non ebbe luogo e nel corso dell'estate del 1162 il sovrano rientrò in Germania. Tornò in Italia l'anno successivo con un piccolo esercito e vi si trattenne fino al settembre del 1164. Questa terza discesa diede una svolta decisiva agli avvenimenti perché la resistenza italiana assunse un aspetto coerente, da occasionale come era stata fino a quel momento. L'attività diplomatica del doge ottenne infatti i risultati voluti e, nell'aprile del 1164, si costituì per iniziativa veneziana la lega veronese, alla quale aderirono Verona, Padova e Vicenza e quasi tutti i centri minori della marca veronese. La scintilla per la ribellione aperta era stata fornita soprattutto dalle angherie dei governatori imperiali, che sottomettevano le città a un regime spietato. Venezia approfittò del generale malcontento e fornì l'aiuto finanziario per la formazione della lega. I rappresentanti dei singoli centri si riunirono di nascosto in una località a noi sconosciuta e, dopo molte discussioni, si accordarono giurando di opporsi alle pretese del Barbarossa e di riconoscergli soltanto gli antichi diritti sovrani (24). Venezia si accollò il maggiore onere finanziario, facendo conto probabilmente anche sui finanziamenti che provenivano da Bisanzio. Nel giugno 1164, inoltre, il governo contrasse un prestito di 1.150 marche d'argento con dodici fra i cittadini più facoltosi, che in cambio ottennero la cessione per undici anni delle entrate del mercato di Rialto (25).

Il Barbarossa fu notevolmente contrariato, ma aveva pochi soldati e cercò di venire a patti. Inviò a Verona legati di Pavia, Cremona, Novara, Lodi e Como, città a lui fedeli, che ammonirono i ribelli invitandoli a presentarsi dinanzi al sovrano per ottenere riparazione dei torti subiti. L'invito fu accettato e i rappresentanti delle città della marca si recarono a Pavia per incontrarlo, ma le trattative non condussero ad alcun risultato. Lo Svevo decise perciò di usare la forza. Raccolse le truppe che aveva a disposizione e ordinò alle città italiane di fornirgli soldati. In vista della spedizione, fu largo di promesse e di concessioni per assicurarsi la fedeltà dei sudditi.

Il 3 aprile fece una donazione al vescovo di Cremona, il 24 maggio accordò ampi privilegi alla città di Ferrara come ricompensa dei servizi prestati e in vista dei futuri disagi " nella guerra da muovere ai Veneziani, Padovani, Vicentini e Veronesi che hanno sollevato le insegne della rivolta contro di noi e l'impero" e lo stesso fece tre giorni più tardi con Mantova, che fu però esentata dal partecipare alla guerra imminente. Quest'ultima concessione fu verosimilmente acquistata a caro prezzo dai cittadini mantovani e comunque il sovrano non dovette escludere che anch'essi vi potessero essere coinvolti per causa sua: in tal caso si impegnava ad aiutarli "come sudditi fedeli" e a non concludere la pace senza di loro (26). La lega veronese, dal canto suo, si associò anche a Treviso e si preparò alla difesa mettendo in campo un esercito consistente. L'imperatore attaccò in giugno in direzione di Verona distruggendo molti castelli e villaggi, ma non osò scontrarsi con le forze superiori degli avversari, dato che aveva con sé pochi Tedeschi e gli Italiani del suo seguito mostravano scarso entusiasmo per l'impresa. Fu perciò costretto a ripiegare e impiegò ancora qualche tempo a cercare appoggi diplomatici e militari per ritentare l'operazione; riuscì anche a organizzare una congiura in Verona. I congiurati promisero di consegnargli la città e, a quanto pare, ai primi di settembre si rimise in movimento alla volta di questa. Ma il complotto venne sventato e l'imperatore rientrò in Pavia per raggiungere la Germania poco più tardi (27).

Nel novembre 1166 lo Svevo scese in Italia per la quarta volta. Evitò di percorrere la valle dell'Adige, presidiata dalla lega, e attraverso la Valcamonica raggiunse la Lombardia accampandosi a Roncaglia. Verso la metà di gennaio fu a Bologna; si diresse in Romagna devastandola per alcuni mesi; giunse quindi ad Ancona, che assediò per qualche tempo, e in luglio si impadronì di Roma insediandovi il nuovo antipapa Pasquale III e costringendo Alessandro III alla fuga. Il successo fu però effimero perché l'esercito invasore venne decimato da un'epidemia e il Barbarossa dovette riprendere in tutta fretta la via del ritorno arrivando a Pavia il 12 settembre del 1167. Qui radunò le forze fedeli e nel corso dell'inverno tentò alcuni attacchi contro il territorio di Milano, ma in marzo fu costretto ad abbandonare l'Italia. La sua posizione si era fatta difficile, dato che nel corso del 1167 il moto di ribellione si era notevolmente esteso. Tra febbraio e marzo del 1167 le città di Bergamo, Brescia, Cremona e Mantova si erano infatti unite per difendersi dal comune nemico; alla nuova alleanza, sancita forse da un convegno a Bergamo, aderirono in marzo i Milanesi ed essa venne confermata il mese successivo dall'incontro che tradizionalmente si ritiene tenuto a Pontida, al quale pare aver preso parte anche una rappresentanza della lega veronese.

Gli alleati iniziarono a ricostruire Milano e, nel corso dell'anno, ricevettero l'adesione di altre città. A fine anno, quando il Barbarossa si trovava ancora in Lombardia, la nuova confederazione si fuse con la lega veronese dando vita alla lega lombarda. I delegati di sedici centri convennero in una località imprecisata e si vincolarono con il giuramento a condurre una lotta comune contro l'imperatore. Le città si assunsero una serie di obblighi reciproci e, per meglio coordinare le azioni, costituirono una commissione intercittadina formata dai "rettori" dei singoli centri, uno per città e destinati a restare in carica per un anno dopo aver prestato giuramento. Venezia entrò nella lega con una posizione particolare: era tenuta a prestare aiuto navale ai confederati, mentre questi ultimi non sarebbero stati obbligati a partecipare alle operazioni della flotta, facendosi però carico di difendere i confini terrestri del dominio veneziano. I Veneziani per parte loro si impegnavano anche a dividere con gli alleati eventuali sussidi provenienti da Bisanzio o dalla Sicilia; dovevano però trattenere quanto prestato alla lega veronese e il rimborso delle spese sostenute per le ambascerie fatte a questo scopo presso le due corti (28). Qualche tempo prima, in effetti, era giunto a Venezia un contributo di Manuele Comneno, che era stato utilizzato per finanziare la lega delle città lombarde. I Veneziani avevano chiesto aiuto all'imperatore promettendogli che in caso di un suo intervento queste città si sarebbero unite a lui. L'imperatore raccolse l'invito e inviò in missione segreta in Italia il sebastos Michele Chalufes, con l'incarico di elargire denaro per procurarsi alleati. Il dignitario bizantino lasciò a Durazzo la maggior parte del denaro affidatogli, come gli era stato ordinato, e raggiunse Venezia. L'accordo venne raggiunto rapidamente e il comune si impegnò a collaborare con l'imperatore e a mettere a sua disposizione una flotta di cento navi. I negoziati furono estesi a Cremona e Padova e ad altre città che entrarono a far parte della coalizione filobizantina (29).

La rottura con Bisanzio

La costituzione della lega lombarda rafforzò notevolmente le posizioni veneziane nei confronti del Barbarossa, ma nel frattempo un'altra crisi si andava sviluppando in Oriente. Le divergenze politiche con Manuele Comneno al tempo della spedizione in Italia non avevano interrotto i rapporti commerciali con Bisanzio. Nel 1158 i traffici a Costantinopoli erano pienamente in corso e, malgrado un ordine di rientrare in patria, è da ritenersi che pochi Veneziani abbiano abbandonato la capitale d'Oriente (30). Nel 1162, inoltre, la colonia veneziana passò indenne attraverso la bufera che si abbatté su Pisani e Genovesi. Questi ultimi si erano insediati in buon numero a Costantinopoli dopo il 1155, destando la gelosia dei Pisani che li attaccarono in forze. Furono respinti, ma alcuni giorni dopo rinnovarono l'attacco assieme a Bizantini e Veneziani, danneggiando notevolmente le proprietà genovesi e uccidendo un uomo. A seguito di ciò, Manuele Comneno espulse Genovesi e Pisani senza prendere alcun provvedimento nei confronti dei Veneziani, che trassero indirettamente profitto dalla situazione (31). Negli anni della contesa con il Barbarossa vi fu inoltre il riavvicinamento politico di cui si è detto, segnato dall'appoggio finanziario alla lotta contro il sovrano tedesco.

L'intesa fu tuttavia di breve durata. Le divergenze fra Venezia e Bisanzio erano infatti nella forza delle cose, dato che la diversità di alcune aspirazioni politiche non poteva evitare i dissensi. La politica italiana di Manuele Comneno fu certamente vista con sospetto a Venezia, anche se coincidente nella comune aspirazione a farla finita con il Barbarossa. Le trattative con Alessandro III, in particolare, rischiavano di riproporre a rovescio la situazione contro cui Venezia si batteva, sostituendo all'egemonia dello Svevo quella del collega orientale. Nel 1166 si arrivò a un passo dall'accordo e questo fu sicuramente il momento di maggior pericolo per Venezia. Il sovrano di Costantinopoli offrì infatti la riunificazione delle Chiese greca e latina in cambio della sua incoronazione e del ristabilimento dell'unità dell'Impero. La situazione si presentava particolarmente favorevole: nel maggio dello stesso anno era morto infatti il re di Sicilia Guglielmo I lasciando il trono al figlio in minore età e privando così il papa dell'appoggio di un alleato sicuro. Una delegazione di cardinali raggiunse Costantinopoli dove si ebbero laboriosi negoziati, che però si arenarono sulla richiesta di trasferire la sede imperiale in Occidente. L'anno seguente la situazione generale subì un cambiamento e la costituzione della lega lombarda rafforzò le posizioni di Alessandro III: l'intesa con Bisanzio passò quindi in secondo piano e, malgrado la prosecuzione dei contatti, non si arrivò mai ad alcun risultato concreto (32).

Un altro punto di frizione fra Venezia e Bisanzio riguardava il possesso della costa adriatica. All'inizio del regno di Manuele Comneno, dopo una lunga serie di guerre, la Dalmazia risultava spartita fra Venezia, l'Ungheria e i governi autonomi. I Veneziani possedevano le isole del Quarnaro e Zara, gli Ungheresi la regione fra Sebenico e la Narenta con le città di Traù e Spalato e la regione meridionale, con Ragusa e Cattaro, era formalmente bizantina, ma in realtà del tutto autonoma. Manuele Comneno intervenne a più riprese contro gli Ungheresi e, nel luglio 1167, riportò una vittoria decisiva contro il re Stefano III, a seguito della quale la Dalmazia, la Croazia, la Bosnia e il territorio di Sirmio passarono sotto il suo controllo. Questa nuova situazione era gravemente dannosa per gli interessi di Venezia, che si trovava ad avere l'Impero come vicino nell'Adriatico settentrionale, in territori che da tempo rivendicava alla propria sovranità. Le mire di Manuele Comneno verso l'Occidente continuavano inoltre ad estendersi anche all'altra costa dell'Adriatico attraverso una rinnovata influenza su Ancona, che era rientrata nell'orbita imperiale. Qualche tempo dopo la partenza dei Bizantini, nel 1158, la città aveva infatti ripreso i rapporti con il Comneno, che se ne era assicurato l'amicizia a prezzo di consistenti elargizioni di denaro. Ancona faceva parte teoricamente dell'Impero germanico, ma restò soggetta a Bisanzio fino alla fine del regno di Manuele Comneno e venne perciò assediata a due riprese dai Tedeschi (33).

La politica del sovrano di Bisanzio rischiava dunque di vanificare la posizione di privilegio faticosamente ottenuta da Venezia e il governo veneziano non mancò di mostrare il proprio disappunto. Il 10 dicembre 1167 giunsero a Venezia tre ambasciatori imperiali per chiedere il "solito aiuto" in caso di guerra con i Normanni: Manuele Comneno aveva infatti deciso di dare in sposa la propria figlia Maria al re Guglielmo II, ma le trattative si erano interrotte e si profilava un nuovo rischio di guerra. Questa volta, però, il comune veneziano non fu disponibile e il doge Vitale Michiel oppose un rifiuto per non turbare i buoni rapporti con la corte siciliana. Qualche tempo più tardi, inoltre, vennero concluse le nozze fra due figli del doge e due principesse ungheresi, in funzione chiaramente antibizantina. I Veneziani tendevano la mano ai nemici di sempre nel momento in cui erano stati sconfitti dall'imperatore di Bisanzio, verso il quale non avvertivano più il vincolo di alleanza che fino ad allora aveva segnato la loro azione politica (34). Che cosa sia accaduto in seguito, non è del tutto chiaro. Secondo le fonti veneziane, subito dopo questi fatti il doge ordinò ai compatrioti di non recarsi più nell'Impero. Circa tre anni più tardi, tuttavia, Manuele inviò due ambasciatori a Venezia per chiedere il ripristino delle relazioni, invitando i vecchi alleati a tornare tranquillamente a Bisanzio e promettendo loro un monopolio commerciale. Allettati da queste promesse, i governanti veneziani permisero ai loro concittadini di recarsi nell'Impero e, perciò, ne partirono circa ventimila portando con sé una grande quantità di denaro, armi e navi. Insieme a loro presero la via di Costantinopoli due ambasciatori, Sebastiano Ziani e Orio Mastropiero, i futuri dogi. L'imperatore accolse i nuovi arrivati con grande cordialità, ma era pronto a ingannarli malgrado i giuramenti fatti ai due ambasciatori per dissipare i sospetti suscitati da alcuni informatori. Il 12 marzo 1171, infatti, egli ordinò l'arresto di tutti i Veneziani presenti nell'Impero e la confisca dei loro beni (35).

Questa versione dei fatti ha suscitato dubbi fra gli storici moderni, ma non è da escludere che sia attendibile, anche se i documenti del tempo attestano che non vi fu una completa interruzione dell'attività commerciale dei Veneziani nell'Impero (36). Le fonti greche, al contrario, non accennano in alcun modo ad una prima rottura delle relazioni. Non vi sarebbe stato di conseguenza alcun ritorno dei Veneziani e la decisione di Manuele sarebbe maturata a seguito dei disordini di cui questi furono responsabili a Costantinopoli. Nel maggio del 1170, infatti, l'imperatore sottoscrisse una crisobolla con la quale concedeva ai Genovesi privilegi commerciali e un quartiere a Costantinopoli e lo stesso fece con i Pisani nel luglio dello stesso anno. I Veneziani, furibondi per la presenza dei concorrenti, devastarono il quartiere genovese appena costituito a Costantinopoli, abbattendone le case e infliggendo gravissimi danni. L'imperatore ordinò loro di rifondere i danni ed essi non solo si rifiutarono, ma minacciarono anche una ritorsione come ai tempi di suo padre. Per questo motivo Manuele Comneno decise di intervenire e diede il via all'operazione del marzo 1171 (37). Le opinioni sono discordanti anche sulle motivazioni del gesto di Manuele Comneno. Secondo i Veneziani, vi sarebbe stata una relazione di causa-effetto fra il rifiuto di prestare aiuto a Bisanzio nel 1167 e l'arresto dei Veneziani: l'imperatore avrebbe agito con premeditazione per vendicarsi dell'affronto subito e, nello stesso tempo, sarebbe stato spinto dall'avidità di denaro vedendo che abbondavano di ricchezze. Si giustificano così il richiamo dopo la rottura dei rapporti e il miraggio di concessioni particolari per farli tornare nell'Impero in gran numero e con grandi disponibilità (38). La versione dei Bizantini è al contrario più articolata. Secondo Giovanni Cinnamo, si tratterebbe dell'evolversi della situazione esistente al tempo dei provvedimenti restrittivi di Giovanni Comneno. A seguito della rappacificazione, i Veneziani mostravano ancor più superbia e arroganza di prima, tanto da esercitare violenze su persone di alto rango e su molti altri. Al tempo di Manuele I, poi, si erano uniti con donne bizantine mescolandosi ai cittadini e andando a prendere dimora al di fuori dei confini loro assegnati. L'imperatore, di conseguenza, aveva distinto i residenti da coloro che capitavano a Costantinopoli per affari, chiamando i primi burgenses e obbligandoli a comportarsi vita natural durante come sudditi di Bisanzio. L'assalto al quartiere genovese e il rifiuto di rifondere i danni avevano fatto traboccare il vaso e Manuele I si era deciso a ordinare l'arresto dei Veneziani. Niceta Coniate insiste sullo stesso tema: la ricchezza li aveva resi arroganti, ed essi non solo esercitavano violenze sui Bizantini, ma rifiutavano anche di eseguire gli ordini dell'imperatore. La benevolenza del sovrano si era perciò mutata in ostilità. Manuele Comneno non aveva scordato l'affronto subito all'assedio di Corfù, dove era stato dileggiato dai suoi alleati; a questo si aggiungevano un'offesa più grave ancora, forse il rifiuto di prestargli aiuto contro i Normanni, e un altro crimine più recente, che era verosimilmente l'attacco al quartiere genovese. Di conseguenza, dato che i loro misfatti erano divenuti intollerabili, ne aveva ordinato la punizione (39).

È impossibile dire, naturalmente, come siano andati davvero i fatti, giacché siamo in presenza di versioni di parte dello stesso avvenimento. Al di là dell'esatta definizione di questi, tuttavia, si possono individuare tre dati oggettivi, che sono avvalorati anche da altre fonti: la presenza massiccia di Veneziani nell'Impero, la loro ricchezza e la difficoltà di convivere con l'elemento bizantino. Sul numero di Veneziani nell'Impero abbiamo soltanto due cifre: la prima dei ventimila che vi si sarebbero recati a seguito dell'invito imperiale; la seconda dei circa diecimila che vennero fatti prigionieri nella sola Costantinopoli nel 1171. In un caso e nell'altro è probabile che le indicazioni siano esagerate, come spesso in simili valutazioni quantitative, ma esse restano comunque indice di una presenza massiccia, confermata d'altronde anche da altre fonti. Esistevano infatti colonie di Veneziani nella capitale e nelle altre principali città dell'Impero e i mercanti della Repubblica vi risiedevano in pianta stabile o le visitavano occasionalmente per i loro traffici. Al tempo di Manuele Comneno costituivano la più importante presenza straniera a Bisanzio; avevano la facoltà di commerciare liberamente, con la sola eccezione dei porti del mar Nero che vennero aperti agli Occidentali soltanto dopo la quarta crociata. A Costantinopoli possedevano un intero quartiere, con abitazioni, chiese, magazzini e quattro punti di attracco e avevano ugualmente proprietà in altri centri dell'Impero bizantino. Il volume dei loro traffici doveva essere notevolmente aumentato a partire dagli anni Trenta del dodicesimo secolo, da quando cioè la crisobolla di Giovanni II aveva esteso i privilegi fiscali anche a chi commerciava con i Veneziani. Ne sono significativa testimonianza i documenti superstiti, con i quali si può seguire l'attività di numerosi mercanti, primo fra tutti Romano Mairano, un viaggiatore intraprendente che nella seconda metà del secolo assunse un ruolo di rilievo nei traffici con l'Oriente costituendosi una notevole fortuna (40).

La ricchezza dei Veneziani destava l'invidia dei Bizantini e il loro comportamento arrogante altro non faceva che peggiorare la situazione. Giovanni Cinnamo e Niceta Coniate, interpreti dell'opinione dei ceti colti della capitale, si mostrano notevolmente critici nei confronti di questi alleati riottosi e insolenti. Secondo Cinnamo i Veneziani erano gente corrotta e illiberale, piena di marinaresca rozzezza e lo stesso giudizio ricorre in Niceta Coniate, che li definisce "uomini nutriti dal mare, errabondi alla maniera dei Fenici, rotti a tutte le astuzie". Essi, aggiunge lo storico bizantino, erano venuti a contatto con Bisanzio perché serviva il loro aiuto navale e in seguito "a sciami e a tribù" avevano cambiato la loro città per Costantinopoli, disseminandosi poi in tutto l'Impero e finendo per mescolarsi con i sudditi di questo. Avevano conservato solo il nome quale ricordo della loro origine, ma per il resto si erano integrati nella società bizantina; la mancanza di riconoscenza aveva però compromesso una simile situazione di favore con le conseguenze ben note. Lo stesso Manuele Comneno, in una lettera al doge, rimproverava ai Veneziani di essersi comportati stupidamente, perché si erano mostrati insolenti e nemici degli imperatori, che dal nulla li avevano resi ricchi e potenti. L'anomalia del comportamento veneziano, d'altronde, non era soltanto un'opinione degli intellettuali bizantini, ma trova riscontro anche in un episodio significativo. Al tempo dell'assedio di Corfù, nel 1148-1149, gli accampamenti degli alleati erano stati divisi per evitare incidenti. Ciò malgrado, sorse una zuffa sanguinosa al mercato che divideva i due campi. Gli ufficiali veneziani cercarono di sedarla senza risultato e, alla fine, il comandante imperiale fece intervenire la sua guardia del corpo costringendo i Veneziani a fuggire sulle navi. Questi ultimi, per vendicarsi, presero il largo e attaccarono alcune navi da carico bizantine incendiandole; dopo di che si impossessarono della nave imperiale, la addobbarono con drappi e tappeti e portarono a bordo un negro, al quale resero in modo grottesco gli onori dovuti all'imperatore. In questo modo si presero gioco dei riti del cerimoniale aulico bizantino e dello stesso Manuele Comneno, la cui carnagione aveva un colorito molto scuro. L'imperatore, che aveva bisogno del loro aiuto, passò sopra l'insulto, ma non se lo scordò mai (41).

L'operazione del marzo 1171 venne programmata con cura. Furono diramati ordini operativi nella capitale e nelle province e, al momento opportuno, l'azione prese il via simultaneamente. I Veneziani, colti di sorpresa malgrado i sospetti di qualche tempo prima, vennero imprigionati e i loro beni confiscati. Il numero di prigionieri era così elevato che le prigioni non furono sufficienti; vennero perciò dirottati nei monasteri e, un po' più tardi, alcuni riacquistarono la libertà sulla parola. Uno di questi, il mercante Romano Mairano, riuscì a raggiungere nottetempo la sua nave con la quale prese il largo assieme ad altri compatrioti. Tentarono la fuga soprattutto i celibi, che non avevano evidentemente affetti da conservare e furono disponibili all'impresa. La flotta imperiale inseguì i fuggitivi e li raggiunse in prossimità di Abido cercando di incendiare la loro nave con il fuoco greco; non riuscì però nell'intento e i Veneziani si allontanarono raggiungendo Acri. Malgrado la scarsità di testimonianze, è da ritenere che anche nelle province pochi siano sfuggiti alla cattura. Sappiamo di Veneziani incarcerati a Sparta e di una nave in viaggio da Corinto a Costantinopoli, che venne catturata dalla marina imperiale. Gli occupanti furono tratti in prigione a Rodosto con i soli abiti che avevano addosso e il loro carico fu confiscato. Più fortuna ebbero i residenti ad Almiro, nel golfo di Volo: venti navi veneziane elusero la sorveglianza e riuscirono a tornare in patria (42).

La notizia della cattura arrivò a Venezia come un fulmine a ciel sereno. Il doge Michiel non seppe spiegarsi il comportamento dell'imperatore e ne informò il consiglio; tutti furono affranti per la perdita subita, ma inizialmente prevalse la moderazione e si pensò di inviare ambasciatori a Costantinopoli per chiedere spiegazioni. Giunsero però a Venezia nel frattempo i profughi di Almiro e la loro irritazione fece prevalere il partito della guerra. La convinzione di essere stati colpiti ingiustamente eccitò gli animi e si decise di non lasciare spazio ai negoziati. I maestri d'ascia si misero all'opera e nell'arco di quattro mesi venne approntata una flotta di cento navi da guerra e venti da carico. In settembre questa fece vela alla volta dell'Oriente sotto il comando del doge e, durante il tragitto, si unirono altre dieci galee fornite da Istriani e Dalmati. Il doge inviò trenta navi contro Traù, soggetta all'imperatore, che fu presa subendo il saccheggio e una parziale demolizione; con le rimanenti proseguì alla volta di Ragusa. I cittadini inalberarono sulle mura i vessilli imperiali rifiutando la resa e la città venne assediata. Nel corso del primo giorno di assedio i Veneziani si impossessarono di alcune torri sostituendo gli stendardi bizantini con il leone marciano e il giorno successivo l'arcivescovo, con il clero e tutti gli abitanti, si arresero. Il doge prese possesso della città ottenendo il rinnovo degli antichi obblighi di sudditanza; vennero abbattute le mura marittime e una torre in uso agli Imperiali; l'arcivescovo fece atto di sottomissione al patriarca di Grado e fu insediato un governatore veneziano.

Di qui la flotta raggiunse l'Eubea assediandone la capitale. Il comandante del presidio bizantino entrò in trattative con il doge e promise la restituzione dei beni confiscati se fosse stata inviata un'ambasceria a Costantinopoli. Il Michiel si lasciò convincere e inviò in legazione il vescovo di Iesolo, Pasquale, che conosceva il greco, e il nobile Manasse Badoer. Nel frattempo l'armata veneziana si trasferì a Chio sottomettendo tutta l'isola e vi passò l'inverno, durante il quale vennero effettuate numerose incursioni punitive contro le città costiere dell'Impero. Gli ambasciatori non riuscirono a vedere Manuele Comneno e furono richiamati; essi avevano avuto comunque assicurazioni sulle possibilità di far pace e tornarono con un legato bizantino, che però sembra fosse stato inviato soltanto per guadagnare tempo e informarsi sulla consistenza delle forze avversarie. L'inviato imperiale sollecitò una nuova ambasceria e i due precedenti ambasciatori assieme a un terzo presero la via della capitale d'Oriente. Durante questa seconda legazione, le forze veneziane vennero colpite da un'epidemia ed ebbero in poco tempo un migliaio di morti. Pieni di sospetti verso l'imperatore, i Veneziani pensarono che avesse fatto avvelenare i pozzi e il vino. Nel frattempo si avvicinava una flotta imperiale e, ai primi di aprile, gli occupanti lasciarono Chio, asportandone tesori e reliquie, e raggiunsero l'isola di Panagia. Anche qui però il morbo continuò a imperversare e a fare vittime.

A Panagia furono raggiunti dai loro legati che, come i predecessori, tornarono a mani vuote portandosi dietro un incaricato dell'imperatore. Si rinnovò la prassi ormai consueta e, su consiglio del bizantino, Enrico Dandolo e Filippo Greco presero la via di Costantinopoli. L'epidemia continuava intanto a mietere vittime e i Veneziani si spostarono a Lesbo con l'intenzione di raggiungere poi l'isola di Lemno, ma il cattivo tempo li costrinse ad approdare a Sciro dove trascorsero la Pasqua (il 16 aprile) "nel lutto e nell'afflizione a motivo degli uomini che ogni giorno morivano". Poco dopo, l'insofferenza ormai generalizzata spinse il doge a ordinare la ritirata e la sua flotta fece vela per Venezia, inseguita e attaccata dalle navi bizantine. La grande armata messa in campo l'anno precedente rientrò in patria umiliata e di fatto sconfitta, portandosi dietro per di più l'epidemia che ne aveva fatto strage; lo scontento fu così grande che pochi giorni dopo il doge venne assassinato. La terza ambasceria si risolse ugualmente in un fallimento e i due legati vennero insultati da Manuele; fu in questa occasione che, secondo la tradizione, il futuro doge Enrico Dandolo venne fatto accecare dall'imperatore (43).

La pace in Occidente

Negli anni successivi alla partenza del Barbarossa la lega si rafforzò giungendo a contare trentasei città collegate nel 1174. Venezia continuò a farne parte, ma non si attenne alla lettera dei patti e di fatto ebbe un atteggiamento del tutto indipendente. In aperta violazione al divieto di concludere accordi separati, infatti, i governanti veneziani inviarono una flotta in aiuto dei Tedeschi che assediavano Ancona. L'arcivescovo di Magonza, Cristiano, cancelliere di Federico I, sceso in Italia per conto del suo signore, il 1° aprile del 1173 andò a porre l'assedio alla città alleata dei Bizantini, in cui era presente il legato Costantino Ducas, un alto dignitario della corte di Manuele Comneno. Cristiano di Magonza disponeva di truppe imperiali e di un largo rincalzo di alleati locali, ma non aveva una flotta adeguata ed inviò un'ambasceria a Venezia a chiedere aiuto. La richiesta fu accolta di buon grado, sia per la tradizionale inimicizia con la città rivale, sia per poter colpire indirettamente gli interessi di Manuele Comneno, che a sua volta incitava gli Anconetani a praticare la guerra di corsa contro Venezia. Venne sottoscritto un trattato, che non ci è pervenuto, e quaranta galee assieme a un numero imprecisato di navi da carico presero il largo alla volta di Ancona, forse al comando del figlio del nuovo doge Sebastiano Ziani (44). La flotta gettò le ancore nel porto isolando completamente le comunicazioni marittime; al centro dello schieramento prese posto l'enorme nave di Romano Mairano "come un castello, sotto la cui ombra e protezione sembravano stare tutte le altre galee e navi" e sopra di questa furono collocate le macchine belliche che quotidianamente colpivano gli assediati. Gli alleati tentarono inizialmente di prendere la città con la forza, ma gli Anconetani opposero una resistenza ostinata e, di conseguenza, l'arcivescovo di Magonza si risolse ad aspettarne la caduta per fame. Gli assediati non si limitarono però a restare sulla difensiva e riuscirono a mettere in difficoltà lo schieramento nemico con azioni audaci. Un canonico di nome Giovanni, in un giorno di burrasca, raggiunse a nuoto le navi veneziane e tagliò la gomena dell'ancora prodiera della nave di Romano Mairano, che rischiò di andare perduta. Gli Anconetani approfittarono del disorientamento avversario attaccando i Veneziani e riuscirono ad allontanare dalla parte più sicura del porto sette loro galee, che furono gettate dal vento a sfasciarsi sugli scogli. Verso la metà di ottobre, quando i difensori erano già alle strette, Ancona venne salvata da un intervento esterno. Il legato bizantino, da solo o con altri emissari, uscì infatti dalla città assediata convincendo ad accorrere in soccorso di questa Aldruda Frangipane, contessa di Bertinoro, e Guglielmo Marchesella degli Adelardi di Ferrara, le cui forze misero in fuga i Tedeschi e i loro alleati e costrinsero i Veneziani a ritirarsi (45).

L'atteggiamento disinvolto del comune veneziano fu molto apprezzato dal Barbarossa e in seguito si ebbero altri contatti fra Cristiano di Magonza, l'imperatore e il doge per cercare di definire una pace separata con il papa. Le trattative ebbero luogo, ma non si arrivò a un accordo e nel 1174 il Barbarossa decise di ricorrere ancora alle armi scendendo in Italia per la quinta volta. Alla fine di settembre distrusse Susa e, dopo aver ottenuto la resa di alcuni centri piemontesi e lombardi, assediò inutilmente Alessandria per alcuni mesi. L'anno successivo non si ebbero fatti militari di rilievo e vennero avviate prudenti trattative di pace con i Lombardi; nel 1176 ripresero le operazioni e il 29 maggio si svolse la famosa battaglia di Legnano da cui l'imperatore uscì sanguinosamente sconfitto. Federico I si rese conto che ormai ogni prosecuzione del conflitto sarebbe stata inutile e decise di aprire negoziati con il papa, per convincerlo alla pace e poter trattare successivamente con le città della lega e il re di Sicilia. Nell'ottobre del 1176 un'ambasceria imperiale investita di pieni poteri raggiunse Alessandro III ad Anagni e, dopo una quindicina di giorni di discussioni, si giunse a un accordo e alla determinazione di convocare un incontro con i Lombardi e i Siciliani per definire la pace. Non venne però coinvolto l'imperatore di Costantinopoli, la cui potenza era disastrosamente crollata dopo la sconfitta da poco subita ad opera dei Turchi. Quali possibili sedi furono indicate Venezia, Ravenna o altra località da stabilire (46).

Il voltafaccia del papa provocò la defezione di alcune città della lega, che aderirono al partito imperiale, ma i negoziati proseguirono come era stato deciso ad Anagni. Prima di partire alla volta del Nord, Alessandro III inviò una legazione di cardinali a Bologna per annunciare il suo arrivo e una seconda a Federico I, che si trovava vicino a Modena, per avere un salvacondotto e fissare il luogo del congresso. Il Barbarossa si mostrò largamente disponibile e come sede venne scelta Bologna, d'intesa anche con i rappresentanti della lega, a condizione che l'imperatore restasse a Imola durante le trattative. Il papa lasciò Anagni in dicembre e si diresse a Vieste per imbarcarsi alla volta di Venezia e di qui raggiungere Bologna. A Vieste fu accolto dai legati del re di Sicilia, Ruggero conte di Andria e l'arcivescovo di Salerno Romualdo, che fu poi il principale storico degli avvenimenti; il 9 marzo prese il largo con le navi messe a disposizione da Guglielmo II e il 23 giunse a San Nicolò del Lido, dove venne ricevuto dai figli del doge Ziani e da alcuni nobili (47).

Alessandro III trascorse la notte nel monastero di San Nicolò e, al mattino del giorno seguente, la vigilia dell'Annunciazione, si recarono a rendergli omaggio il doge e il suo seguito, i patriarchi di Grado e di Aquileia con i vescovi suffraganei e tutto il clero, vestiti dei loro abiti sacerdotali e con le croci. Il corteo di navigli addobbati per l'occasione arrivò al Lido e i partecipanti resero gli onori dovuti al papa; dopo di che presero la via del ritorno con Alessandro III seduto sull'imbarcazione ducale in mezzo allo Ziani e al patriarca di Grado Enrico Dandolo. La processione raggiunse solennemente la chiesa di San Marco, dove era attesa da un'enorme folla festante che occupava anche tutti gli spazi antistanti. All'interno della chiesa il papa parlò al popolo assiepato e lo benedisse; tornò quindi sulla nave del doge che lo accompagnò fino al palazzo del patriarca, destinatogli come alloggio, e qui ricevette l'omaggio di vescovi, abati e chierici delle località limitrofe, che accorsero a Venezia per vederlo. Il giorno successivo, inoltre, Alessandro III si recò di nuovo a San Marco e vi officiò pubblicamente la messa esaudendo così la richiesta del governo ducale. Nel frattempo il Barbarossa si era spostato a Ravenna e quindi a Cesena, dove aveva saputo dell'arrivo del papa a Venezia. Da Cesena gli inviò un'ambasceria per chiedere di cambiare il luogo dell'incontro in Ravenna o Venezia, dato che i Bolognesi erano molto ostili alla causa imperiale e in particolare al suo cancelliere Cristiano di Magonza, che nel Bolognese aveva di recente operato con le sue truppe. Il papa rifiutò di decidere senza ascoltare il parere degli alleati e del suo clero che già lo attendevano a Bologna, ma venne incontro alla richiesta imperiale convocando per il 10 aprile una riunione delle parti a Ferrara al fine di dirimere la questione. Una settimana prima di questo incontro, nella quarta domenica di Quaresima, celebrò di nuovo una messa solenne a San Marco e fece dono di una rosa d'oro al doge, come tradizionalmente i papi facevano a questa data con il prefetto della città di Roma (48).

Il 9 aprile Alessandro III si recò per mare a Loreo e di qui, risalendo il Po, raggiunse Ferrara il giorno successivo. L' II aprile incontrò nella chiesa maggiore di San Giorgio gli inviati della lega ai quali rivolse un discorso ed essi risposero con parole di velata critica alla pace separata che, di fatto, aveva concluso con lo Svevo. Tre giorni più tardi vennero scelti sette delegati di ogni parte, in rappresentanza di papa, lega e imperatore, a cui si aggiunsero i due inviati del re di Sicilia, e a questi venne affidato il compito di trattare la questione in sospeso. Le discussioni furono molto vivaci: le candidature di Bologna, Piacenza, Ferrara oppure Padova vennero bocciate dagli Imperiali, che a loro volta suggerivano senza successo Pavia, Ravenna e Venezia. I rappresentanti della lega insistevano per Bologna, ma gli inviati di Federico I rifiutavano di recarsi in una città in cui Cristiano di Magonza era odiatissimo e proponevano Venezia "dove entrambe le parti potevano recarsi senza timore e risiedere con sicurezza". I Lombardi però diffidavano della città lagunare che aveva violato i patti con loro sottoscritti e che spesso, affermavano, aveva accolto gli ambasciatori imperiali. Era chiaro il riferimento all'assedio di Ancona e ai rapporti diplomatici fra il doge e la corte sveva, che la lega aveva subito per evitare una rottura con Venezia, ma che considerava né più né meno come un tradimento. I Tedeschi al contrario tenevano in grande considerazione la sostanziale neutralità di Venezia: una città che, come afferma con orgoglio un suo cronista, era "sicura per tutti, ricca, abbondante d'ogni cosa e la sua popolazione tranquilla e amante della pace". La contesa si trascinò per alcuni giorni e alla fine prevalse la mediazione dei Siciliani, appoggiata dal papa, e si optò per Venezia a condizione che il governo ducale si impegnasse con il giuramento a non fare entrare Federico I senza autorizzazione del papa e garantisse la piena libertà di movimento, le persone e le cose dei partecipanti al congresso. Il pontefice scrisse allo Ziani e questi rispose dando le assicurazioni che gli erano state chieste; il 9 maggio Alessandro III, insieme ai Siciliani, prese ancora la via di Venezia dove arrivò il giorno successivo fermandosi a San Nicolò del Lido. L'indomani venne di nuovo accompagnato solennemente a San Marco dal doge e dal clero e, da qui, al palazzo patriarcale (49).

Negli stessi giorni convennero a Venezia alcune migliaia di persone coinvolte a diverso titolo nel congresso e, fra queste, gli esponenti più illustri dei ceti dirigenti di allora. I colloqui iniziarono poco tempo più tardi con una serie di riunioni in una cappella del palazzo patriarcale e si trascinarono fino ai primi di luglio. L'ordine dei lavori prevedeva che fossero affrontate prima le trattative con la lega, poi con il re di Sicilia e infine con la Chiesa, ma non fu possibile trovare una via di intesa se non con quest'ultima. Il papa propose perciò di concludere una tregua di sei anni con i Lombardi e di quindici con il Regno di Sicilia; i mediatori tedeschi, guidati da Cristiano di Magonza, risposero di non essere autorizzati a concluderla senza il consenso dell'imperatore e si recarono da lui per consultarsi. Il Barbarossa, che al momento si trovava a Pomposa, si mostrò contrariato dalla novità e rimandò gli ambasciatori a Venezia; cercò comunque di sfruttare la situazione a proprio vantaggio e fece sapere in segreto al papa che avrebbe acconsentito in cambio di una contropartita. Chiedeva infatti di poter godere ancora per quindici anni, quanto doveva durare la tregua con i Siciliani, dei frutti dei beni matildini, che secondo il concordato di Anagni andavano restituiti alla Chiesa. Il papa non si assunse l'onere di una nuova interruzione delle trattative e accettò; si giunse così a definire un trattato il cui testo sarebbe stato sottoposto all'imperatore per la ratifica. Cristiano di Magonza, al ritorno da Pomposa, chiese inoltre che il suo sovrano potesse avvicinarsi a Venezia per evitare lunghi tragitti agli ambasciatori e gli alleati gli consentirono di recarsi a Chioggia con un piccolo seguito, a condizione che non procedesse ulteriormente senza permesso. L'arcivescovo di Magonza, che in quei giorni era il principale mediatore fra le parti, prestò giuramento a nome del suo signore e assieme ad altri lo raggiunse per accompagnarlo a Chioggia intorno al 12 luglio (50).

L'aver autorizzato Federico I a spostarsi fu però un errore che per poco non ebbe conseguenze disastrose. La vicinanza dell'imperatore spinse infatti i suoi sostenitori a cercare di capovolgere il corso degli avvenimenti, per dare a questi un esito favorevole alla loro parte, e lo stesso Barbarossa si prestò inizialmente all'impresa, mettendo in pericolo il fragile compromesso che aveva portato all'incontro veneziano. Si ebbe così un drammatico susseguirsi di avvenimenti, densi di colpi di scena, di cui abbiamo un racconto dettagliato nell'opera di Romualdo Salernitano, che ne fu uno dei principali protagonisti. L'iniziativa partì dai capi di una fazione popolare veneziana, che tentarono di portare in città l'imperatore senza il consenso del papa. Si presentarono dinanzi a lui e lo invitarono animatamente a entrare senza timore a Venezia, assicurando che con il loro aiuto avrebbe fatto pace a sua discrezione con i Lombardi e la Chiesa. Federico I intravvide un'estrema possibilità di risolvere a proprio vantaggio la lotta per cui aveva speso più di vent'anni: si dichiarò d'accordo e li rimandò indietro per dare corso all'azione cercando di attirare tutto il popolo dalla sua parte. Subito dopo arrivarono alcuni cardinali e gli altri mediatori della pace con il testo del trattato definito a Venezia, ma lo Svevo guadagnò tempo in attesa degli sviluppi del complotto. Il 20 luglio i suoi sostenitori convocarono un'assemblea nella chiesa di San Marco alla quale prese parte anche il doge; convinsero con le loro parole quasi tutti i partecipanti e riuscirono a provocare una sedizione che fu sul punto di degenerare in tumulto. Si rimproverò allo Ziani di non consentire al sovrano di entrare in città, costringendolo a restare a Chioggia "dove è esposto agli incomodi della stagione calda e deve sostenere i notevoli fastidi delle mosche e delle zanzare". Il doge rammentò il vincolo del giuramento, ma gli fu obiettato che da questo ci si doveva ritenere sciolti dal momento che l'imperatore si trovava già in territorio veneziano. La discussione andò per le lunghe e il doge non fu in grado di avere la meglio; alla fine si mandò di comune intesa una delegazione di ribelli al papa. Costoro arrivarono alla dimora di Alessandro III e, senza alcun riguardo, lo fecero svegliare comunicandogli a nome di doge e popolo la decisione di lasciar entrare in Venezia il Barbarossa. Il papa ne fu molto contrariato e ricordò l'obbligo di avere il suo permesso; li invitò tuttavia ad attendere fino al giorno seguente l'arrivo dei cardinali inviati a Chioggia, che dovevano tornare insieme ai messi dell'imperatore, per avere la sua risposta sul da farsi. La proposta non soddisfece i richiedenti ma essi, non volendo comportarsi diversamente, fecero buon viso a cattivo gioco e se ne andarono.

Così almeno nel racconto della nostra unica fonte, che sembra implicare un sostanziale successo del complotto: i sediziosi avevano avuto ragione dell'opposizione ducale e Alessandro III era riuscito soltanto a ottenere un rinvio. Il largo appoggio popolare sembrava rendere inevitabile una soluzione di forza, tale da risolvere le trattative in senso favorevole alla causa imperiale. Nelle ore che seguirono il colloquio con il papa la situazione precipitò: si sparse la voce di quanto stava accadendo e i delegati lombardi fuggirono alla volta di Treviso, terrorizzati all'idea dell'arrivo del Barbarossa. Il papa stesso e i cardinali che con lui erano rimasti furono presi da grande timore, ma i messi di Guglielmo II si dissero pronti a portarli in salvo con le loro navi anche se i Veneziani si fossero opposti. L'invito cadde però nel vuoto perché Alessandro III restò della precedente idea di attendere fino al giorno dopo il ritorno dei suoi inviati. I Siciliani si recarono quindi dal doge che teneva udienza a palazzo; gli rammentarono gli impegni sottoscritti, la loro azione per convincere il papa e i Lombardi a scegliere Venezia come sede del congresso e da ultimo minacciarono di non attendere l'arrivo dell'imperatore in città. Lo Ziani si trovò preso tra due fuochi e tentennò: rispose che anche a lui e a parte del suo governo la venuta del Barbarossa sarebbe stata sgradita, ma nello stesso tempo aveva un forte timore di un tumulto popolare. Aggiunse poi che non avrebbe dato ai Siciliani la licenza di andarsene e che, al contrario, li invitava ad attendere fiduciosamente l'arrivo dell'imperatore. La risposta fece andare su tutte le furie i legati di Guglielmo II, che ricordarono al doge la loro libertà di movimento; annunciarono la decisione di partire il giorno successivo e di informare il loro re di tutto quanto era accaduto. Dalle parole passarono poi ai fatti e, tornati alle loro dimore, fecero subito preparare le navi per il viaggio.

A questo punto, il panico si sparse per le strade di Venezia. Chi aveva parenti nelle terre normanne ebbe timore che fossero arrestati per rappresaglia e un gran numero di persone, uomini e donne, si recò dallo Ziani per invitarlo a trovare un rimedio. Il doge rispose che ciò non avveniva per sua volontà ma per opera di alcuni sediziosi; i presenti ne chiesero i nomi ma egli si rifiutò di concederli per evitare che si spargesse sangue in città e, come unico provvedimento, fece andare dal papa le persone più fidate per chiedere perdono e pregarlo di intervenire sui messi del re. Alessandro III fu disponibile alla mediazione e spedì dai Siciliani un suo collaboratore, insieme agli inviati del doge, per trasmettere l'invito personale a recedere dalla decisione che avevano preso. L'opera di convincimento fu solo in parte efficace: i Siciliani si mostrarono meno intransigenti, rispondendo che l'indomani avrebbero stabilito il da farsi, ma restarono ancora su posizioni assai critiche:

Il santissimo papa, essendo un uomo perfetto e santo e fiducioso nell'autorità dei suoi meriti, non ha paura di morire e non teme gli inganni e le insidie dei Veneziani. Noi però, che al momento siamo più imperfetti, non vogliamo morire [...>.

Gli uomini del doge tornarono da lui per riferire gli ultimi sviluppi e così terminò questa giornata drammatica, che rischiava di compromettere tutto il lavoro diplomatico compiuto fino a quel momento. I rappresentanti della lega avevano già abbandonato Venezia e i Siciliani si apprestavano a farlo; il doge si trovava prigioniero delle fazioni e il papa riusciva soltanto a ritardare di poco il corso degli avvenimenti. L'indomani, però, tutto divenne semplice. Lo Ziani fece bandire a Rialto il divieto di parlare dell'arrivo del sovrano senza il permesso del papa e questa misura sedò in parte la confusione che si era sparsa in città. La fine del complotto fu però decretata dallo stesso Federico I: quando infatti arrivò ai suoi orecchi l'eco di quanto stava accadendo, egli ritenne più opportuno abbandonare un progetto che si rivelava troppo pericoloso. Con l'abilità di cui era capace, cambiò subito partito e "deposta la ferocia del leone indossò i panni mansueti della pecora" dichiarando di aderire all'intesa. Ordinò quindi a Enrico di Dessau, figlio del marchese Alberto, e al suo camerario Sigelboth di andare a Venezia con i mediatori di pace e di giurare che accettava il trattato, così come era, e che lo avrebbe fatto giurare anche da dodici suoi principi non appena fosse stato in città. Gli intermediari si affrettarono a portare la buona notizia e Alessandro III, scampato il pericolo, poté richiamare i Lombardi fuggiti nel Trevigiano (51).

Il 22 luglio i due Tedeschi prestarono giuramento solenne a Venezia per conto del loro sovrano e, con l'autorizzazione del pontefice, sei galee partirono alla volta di Chioggia per condurlo in città. Su una di queste aveva preso posto il figlio del doge Pietro mentre l'altro figlio, Iacopo, attese il Barbarossa a San Nicolò dove egli giunse il giorno successivo. Il 24 luglio, una domenica, ebbe luogo la riconciliazione ufficiale dell'imperatore e del papa, che si incontrarono a San Marco in una solenne cornice cerimoniale. Di fronte all'ingresso principale della chiesa fu elevato un podio con sopra il trono papale e due grandi stendardi con il vessillo di San Marco furono disposti da una parte e dall'altra della riva su cui sarebbe sceso il sovrano. Il papa lasciò il suo alloggio di buon mattino e salì sulla galea che lo avrebbe portato a San Marco con i legati siciliani, i Lombardi e una gran quantità di persone; ascoltò la messa e quindi si sedette in trono per attendere Federico I. Intorno a lui stavano i più alti dignitari civili ed ecclesiastici e la piazza era gremita da una folla straordinaria. Nel frattempo un collegio di cardinali si era recato dall'imperatore per togliere la scomunica che pesava su di lui e i suoi principi e, quando questo rito fu compiuto, si mosse alla volta del Lido un corteo formato dal doge con i nobili, dal patriarca di Grado e numerosi membri del clero. Il Barbarossa insieme ai cardinali che lo avevano assolto prese posto sull'imbarcazione del doge e arrivò con questa fino alla riva di San Marco. Qui si formò un nuovo corteo, preceduto da vessilli e da croci, che aprì la via fino al cospetto del papa. Quando fu dinanzi al suo antico nemico, il sovrano si tolse il mantello e si gettò a terra baciandogli i piedi. Il papa in lacrime lo fece rialzare, gli diede il bacio della pace e lo benedisse; subito dopo i Tedeschi intonarono a gran voce il Te Deum laudamus e a questi fece eco la folla che, come scrive lo stesso Alessandro III, "a gran voce rese grazie e lodi all'Altissimo". L'imperatore prese quindi la destra del papa e, insieme al doge, lo accompagnò in chiesa fino all'altare dove lasciò molti doni; in chiesa ottenne di nuovo la sua benedizione e subito dopo si recò con i suoi nel palazzo Ducale, destinatogli come alloggio, mentre il papa con il seguito riprese la via della dimora patriarcale. A sera il Barbarossa chiese al papa di officiare messa in San Marco il giorno successivo, festa di San Giacomo, e questi accettò l'invito. Anche in questa occasione fece sfoggio di umiltà andando incontro al pontefice fuori dalla chiesa e accompagnandolo all'interno. Durante il rito prese posto fra i prelati germanici e, quando il papa parlò dal pulpito, si fece tradurre le sue parole dal patriarca di Aquileia; quando ebbe concluso il sermone salì vicino a lui assieme allo stesso patriarca che a sua volta denunziò pubblicamente la pace. Alla fine della messa il Barbarossa si avvicinò di nuovo al pontefice in compagnia dei suoi principi e, dopo avergli baciato i piedi, gli porse un dono prezioso dal suo tesoro. Lo accompagnò infine fuori dalla chiesa e, quando Alessandro III salì sul cavallo bianco che lo attendeva all'uscita, tenne la staffa con un gesto di omaggio feudale che alcuni anni prima aveva rifiutato ad Adriano IV. Afferrò quindi la briglia per condurre il cavallo fino alla riva, dove era in attesa l'imbarcazione del papa, ma questi lo dispensò quasi subito e gli permise di allontanarsi dopo averlo benedetto. Terminava così il cerimoniale pubblico che, fra commozione e calcolo politico, aveva simbolicamente mostrato la riconciliazione dei due poteri e Alessandro III, al colmo della gioia, poteva scrivere all'arcivescovo di York che erano stati resi "tutti quegli onori che i suoi predecessori già erano soliti tributare ai nostri" (52).

L'indomani Federico I andò a far visita privata al pontefice e, il 1° agosto, venne solennemente giurata la tregua con i comuni e il re di Sicilia. Il papa, l'imperatore e tutti i grandi convennero nella sala più grande del palazzo patriarcale, dove le parti prestarono solenne giuramento di rispettare la pace stabilita con la Chiesa e le tregue con la lega e il Regno di Sicilia, che vennero definite e giurate. Il 14 agosto, per adempiere una condizione del trattato, Alessandro III pronunciò la scomunica nella chiesa di San Marco contro chi avesse violato gli accordi, alla presenza dell'imperatore, di ecclesiastici, del doge, dei legati siciliani e di un gran numero di altre persone. Questo atto mise fine al congresso di pace e il 16 agosto i Siciliani lasciarono Venezia per tornare in patria, seguiti dal Barbarossa che partì il 18 settembre e dal papa che vi si trattenne fino al 16 ottobre. La loro presenza fu quanto mai proficua per i Veneziani, che oltre al prestigio derivante alla loro città ottennero visibili segni di gratitudine. Il papa officiò più volte la messa in San Marco e altrove; consacrò tre chiese e concesse la sua protezione ai monasteri di San Daniele, San Secondo e Sant'Ilario. Durante il congresso vennero inoltre risolte le controversie fra i patriarcati di Aquileia e di Grado con un concordato, che fu riconosciuto solennemente nel 1180. L'imperatore, a sua volta, concesse privilegi al vescovo di Torcello e ai monasteri di San Giorgio e San Zaccaria; il 17 agosto rinnovò inoltre il pactum aggiungendo ai tradizionali benefici la completa esenzione dal pagamento delle tasse in tutto l'Impero. Cadeva così per i mercanti veneziani l'obbligo di corrispondere il quadragesimum, pari al valore della quarantesima parte di una merce, ed essi ottenevano anche in Occidente privilegi analoghi a quelli già concessi da Bisanzio. In questo caso, tuttavia, la disposizione rimase del tutto teorica, in quanto l'imposta continuò a essere pagata negli scambi con i comuni italiani (53).

L'impossibile riconciliazione con Bisanzio

La pace di Venezia fu il trionfo dell'abilità diplomatica veneziana. Essa colpì l'immaginazione dei contemporanei e, nel secolo successivo, si radicò nella coscienza civica dando origine alla leggenda della concessione di insegne regali ai dogi da parte di Alessandro III (54). In termini politici costituì la fine dei contrasti con gli Svevi nell'Italia settentrionale, fino al tempo di Federico II, e liberò il governo veneziano da una notevole fonte di preoccupazione. La situazione a Bisanzio, al contrario, restava ancora molto critica e il bilancio degli avvenimenti del 1172 si chiudeva in modo disastroso per il comune. L'iniziativa di Manuele Comneno aveva dato un colpo gravissimo al commercio, anche se in seguito alcuni mercanti veneziani continuarono a loro rischio a praticare i mercati bizantini (55). Migliaia di Veneziani erano imprigionati nell'Impero, i loro beni passati al fisco o a chi se ne era impossessato a diverso titolo, la spedizione punitiva si era risolta in un disastro e il doge Michiel era stato assassinato. Il suo successore abbandonò la politica precedente e cercò di premere su Bisanzio per altre vie, fomentando la ribellione dei Serbi e fornendo navi per l'assedio di Ancona. La via diplomatica non venne tuttavia trascurata, ma i risultati furono nulli perché l'imperatore continuò a servirsi della tattica dilatoria che tanto gli si era rivelata utile in precedenza. Nel 1174 un'ambasceria veneziana raggiunse Costantinopoli, dove era stata invitata con il miraggio di concludere un accordo, e qualche tempo più tardi tornò indietro seguita da messi imperiali. Questi fecero di nuovo balenare la possibilità di raggiungere la pace e ancora una volta due legati della Repubblica presero la via dell'Oriente. Il risultato fu quello di sempre: un ambasciatore morì a Costantinopoli e l'altro rientrò con due inviati dell'imperatore. A Venezia si decise a questo punto di dare un segnale più forte e nel 1175 fu concluso un trattato con il re di Sicilia: fu stipulata una pace ventennale e in cambio la città ottenne concessioni commerciali (56). Questo fatto nuovo, a quanto pare, spinse Manuele I a rivedere la propria posizione. Vennero avviati nuovi negoziati, segnati da almeno un'altra ambasceria a Costantinopoli, e nel 1179 si giunse alla liberazione di parte dei prigionieri. Secondo Niceta Coniate, Manuele Comneno in questa circostanza reintegrò i Veneziani nei loro privilegi, restituì i beni sottratti e si impegnò a pagare ratealmente un indennizzo di quindici centenari, pari a millecinquecento libbre di iperperi d'oro a pieno titolo; secondo le fonti veneziane al contrario non si giunse a un accordo del genere se non alcuni anni dopo. Questa seconda ipotesi pare avvalorata dal fatto che non venne emessa alcuna crisobolla per rinnovare i vecchi trattati, come al contrario fu fatto in seguito. Non tutti i prigionieri inoltre vennero liberati e, nel 1182, il quartiere veneziano a Costantinopoli non era stato ancora ricostituito. Se ne deve quindi dedurre che più che di accordo in senso stretto si sia trattato di un gesto di buona volontà del sovrano in vista dell'esito favorevole delle trattative (57).

Manuele I non poté tuttavia risolvere la questione perché morì il 24 settembre 1180. Il suo regno era stato costellato di luci e ombre, segnato da successi brillanti e da catastrofiche sconfitte; fu senza dubbio l'ultimo periodo di splendore del vecchio Impero mediterraneo che dopo di lui si avviò a un'inarrestabile decadenza. Il trono passò al figlio Alessio II sotto la reggenza della madre, la normanna Maria di Antiochia, ma entrambi vennero tolti di mezzo a seguito di un colpo di stato che nel 1182 portò al potere Andronico I Comneno, cugino di Manuele. Andronico Comneno rappresentava il nazionalismo bizantino, in funzione antioccidentale, e la sua presa di potere fu segnata da un massacro di Latini per le strade di Costantinopoli ad opera della popolazione aizzata dagli agenti imperiali. La penetrazione degli Occidentali nell'Impero era infatti divenuta sempre più massiccia, generando odi e risentimenti che in questa occasione esplosero in modo irrefrenabile. La plebe inferocita si gettò sui quartieri latini saccheggiandoli e facendo strage degli abitanti; si ebbero migliaia di vittime e i sopravvissuti vennero venduti come schiavi ai Turchi. La strage colpì i Genovesi e i Pisani presenti in città, ma non i Veneziani, che non avevano ancora ripopolato il loro quartiere nella capitale bizantina. Subirono comunque le conseguenze della generale sollevazione contro i Latini, che si ritorse anche contro di loro. Una delle navi mercantili che ancora raggiungevano Costantinopoli a quel tempo, infatti, venne bloccata da altre navi veneziane al Capo Malea e i mercanti furono avvisati di non procedere oltre se volevano sopravvivere; di conseguenza cambiarono itinerario e raggiunsero Alessandria (58).

Andronico Comneno riscosse molte simpatie fra i suoi sudditi, ma si trovò in una pericolosa situazione di isolamento internazionale. Non potendo trattare immediatamente con Genova e con Pisa, che erano state pesantemente colpite dal massacro, si rivolse nel 1183 a Venezia e in segno di benevolenza rilasciò gli ultimi prigionieri. I negoziati procedettero spediti e, fra l'estate e l'autunno 1183, fu concluso un accordo che contemplava la restituzione del quartiere di Costantinopoli, il risarcimento in rate annuali dei danni subiti nel 1171 e il rinnovo dei privilegi. Venne probabilmente emessa una crisobolla (59) e i Veneziani ricominciarono a tornare in buon numero nell'Impero esercitandovi i loro traffici e riprendendo possesso del quartiere di Costantinopoli. L'invio della prima rata del risarcimento tardò tuttavia un paio di anni e, negli ultimi giorni del regno di Andronico, vennero inviate a Venezia cento libbre d'oro. Non sappiamo se il ritardo sia stato intenzionale o previsto dai termini dell'accordo, ma l'invio della prima rata sembra coincidere in modo non casuale con la necessità dell'aiuto veneziano contro i Normanni, che nel giugno del 1185 aggredirono di nuovo l'Impero. Quando l'oro bizantino arrivò a Venezia, furono nominati funzionari appositi per esaminare le richieste di risarcimento e la distribuzione del denaro venne affidata ai capi delle contrade. La somma disponibile risultò tuttavia di gran lunga al di sotto delle necessità e i richiedenti si dovettero accontentare di una frazione di quanto reclamavano (60).

Il pagamento di cento libbre d'oro restò un caso isolato. Nel settembre del 1185 Andronico Comneno venne eliminato da una sollevazione popolare e la situazione tornò in alto mare. La sua caduta fu causata dall'invasione normanna: come un secolo prima i Normanni si impossessarono di Durazzo; proseguirono per Tessalonica, che fu presa e messa brutalmente a sacco, e di qui si diressero a Costantinopoli. La popolazione della capitale, terrorizzata e inferocita, insorse contro il sovrano e lo uccise dopo averlo orribilmente torturato. Con la sua morte si estinse anche la dinastia che per più di un secolo aveva governato l'Impero e il potere passò a Isacco II Angelo, esponente di una fazione avversa al Comneno. Isacco Angelo riuscì a sconfiggere i Normanni e a ricacciarli dal territorio dell'Impero, eccezion fatta per Cefalonia e Zacinto che rimasero in loro possesso. Egli abbandonò la politica fortemente antiaristocratica del predecessore, ma proseguì nella linea favorevole a Venezia e avviò trattative per assicurarsi l'alleanza del comune e allontanarlo dalle potenze occidentali ostili a Bisanzio. I legati del doge Orio Mastropiero raggiunsero Costantinopoli e trattarono con l'imperatore circa la riconferma dei privilegi, la costituzione di un'alleanza militare e il risarcimento dei danni, che ancora restava pendente. Si arrivò in breve tempo a un accordo parziale: il primo e il secondo punto vennero definiti con l'emissione di tre crisobolle nel febbraio 1187, mentre per la questione del risarcimento dei danni l'imperatore ottenne un rinvio. La prima crisobolla rinnovava i privilegi ottenuti dal tempo di Alessio I; la seconda il diritto al quartiere di Costantinopoli così come era stato concesso da Manuele Comneno; la terza introduceva al contrario un elemento di novità con un trattato di alleanza fra il comune e l'Impero. Quest'ultima crisobolla ha particolare interesse anche se, a quanto sappiamo, i contenuti rimasero confinati alla pura teoria, perché mai in seguito vi fu occasione di metterli in pratica. A differenza delle precedenti non ha più l'aspetto formale di una concessione, bensì quello di un trattato alla pari fra nazioni sovrane. Vi compare per la prima volta, inoltre, la sezione relativa agli obblighi di Venezia, che rende pienamente l'idea del carattere di reciprocità di simili atti, al di là della forma diplomatica delle precedenti crisobolle. L'accordo si articola in numerosi punti e definisce minuziosamente i doveri dei contraenti. La parte centrale consiste nell'impegno di Venezia a non assalire Bisanzio e a prestare aiuto contro ogni nemico, a eccezione del "re di Germania", finché fosse stata in pace con lui, e del re di Sicilia, al quale era legata dal trattato ventennale, che però non sarebbe stato ritenuto valido allorquando i Normanni avessero assalito l'Impero. L'imperatore da parte sua rinnovava l'impegno a garantire i privilegi, i beni e le persone dei Veneziani e a risarcirli dei danni subiti; in più si assumeva l'onere di prestare a sua volta un occasionale aiuto militare e a concedere spazi ed esenzioni fiscali nei territori conquistati con operazioni congiunte (61).

L'accordo con Isacco Angelo, al di là delle numerose clausole, era destinato a rimanere più un'aspirazione che una realtà. L'Impero era ormai esangue e, anche se lo si fosse voluto, non sarebbe stato più possibile condurre una politica di ampio respiro come al tempo dei Comneni. Il processo di decadenza interna era stato abilmente mascherato dai successi di Manuele Comneno, ma ora era esploso in tutta la sua gravità congiungendosi alle disfatte in politica estera. Corruzione, abusi e una fiscalità oppressiva rendevano particolarmente odioso ai sudditi il governo di Costantinopoli, facendone un organismo inefficiente e instabile. Ne approfittarono i nemici di sempre per espandersi ai danni dell'Impero, ma il pericolo maggiore per la stessa sopravvivenza di questo venne dalla terza crociata, quando Federico Barbarossa decise di occupare con le armi la capitale bizantina. Il passaggio dell'esercito tedesco attraverso i Balcani fu visto con grande sospetto a Costantinopoli, sebbene fosse stato consentito da Isacco II, e la situazione degenerò non appena il Barbarossa raggiunse il territorio bizantino nell'estate del 1189. Lo Svevo si alleò con Serbi e Bulgari contro Bisanzio e il governo bizantino rinnovò contro di lui un precedente trattato con Saladino; il Barbarossa passò quindi alle vie di fatto e aggredì l'Impero con il proposito di occupare Costantinopoli. Scrisse in patria al figlio Enrico di inviare una flotta, chiedendo anche la benedizione papale per l'impresa, e si mise in marcia alla volta della città, ma Isacco Angelo finì per cedere e nel febbraio 1190 l'accordo venne ristabilito. Poco tempo più tardi, il 10 giugno 1190, la morte di Federico I avrebbe messo fine, almeno provvisoriamente, al pericolo di una conquista occidentale dell'Impero bizantino.

Il rinnovo dei trattati con Bisanzio aveva fatto sì che Venezia fosse piuttosto tiepida di fronte alla prospettiva della crociata, al punto di mettersi in urto con il Barbarossa, e in seguito il comune sfruttò nuovamente la situazione a proprio vantaggio. Di fronte all'avvicinarsi dello Svevo, infatti, Isacco Angelo ebbe disperatamente bisogno di alleati e ancora una volta cercò di rendersi amica Venezia, la cui potenza marittima poteva essere determinante sia in caso di intervento che di neutralità. Nel giugno 1189, pertanto, emise a favore di questa una quarta crisobolla per definire le questioni della restituzione dei beni e del risarcimento dei danni. Due anni prima, ordinando la riconsegna dei beni confiscati ai Veneziani, l'imperatore aveva istituito una commissione per recuperare quanto non fosse immediatamente reperibile. La commissione non aveva però ottenuto grandi risultati, malgrado la buona volontà imperiale, a motivo delle difficoltà tecniche che comportava l'identificazione di ciò che era stato di proprietà veneziana. Il comune aveva protestato per il ritardo e il sovrano aveva deciso di mettere fine alla controversia. I tre ambasciatori veneziani già presenti a Costantinopoli per definire un accordo vennero raggiunti da altri due nel 1189 e tutti assieme trattarono con l'imperatore. Isacco Angelo cercò con loro una via di uscita e i Veneziani alla fine gli proposero un ampliamento del loro quartiere a Costantinopoli che comportasse una rendita annuale di cinquanta libbre d'oro. La richiesta riguardava in specifico i quartieri dei Tedeschi e dei Francesi, adiacenti a quello veneziano. L'imperatore, sebbene in linea di principio fosse contrario all'estensione della presenza straniera nella capitale, decise di accondiscendere alla richiesta. La sua disponibilità venne formalmente giustificata dal fatto che anche i Veneziani dovevano essere considerati Romani, né più né meno come i Bizantini ritenevano di essere, ma in realtà Isacco II doveva scendere a qualsiasi compromesso pur di mantenere l'amicizia veneziana nel momento del bisogno. A giustificazione del suo operato, inoltre, l'imperatore addusse il fatto che i quartieri francese e tedesco erano poco usati dai titolari e, più che alle rispettive nazioni, appartenevano ai pochi commercianti di passaggio. Questi rendevano uno scarso servizio all'Impero, per cui si riteneva più conveniente assegnarli ai Veneziani per l'utile che essi arrecavano. I quartieri vennero trasferiti ai nuovi assegnatari con i relativi punti di approdo e il verbale di consegna fu messo in mano agli ambasciatori alla presenza dello stesso Isacco II. Il passaggio di proprietà comportava anche il trasferimento delle rendite, che erano pari appunto a cinquanta libbre d'oro. Il trattato del giugno 1189 riguardò inoltre l'annosa questione del risarcimento dei danni, che si trovava ancora al punto di partenza dopo il primo pagamento di Andronico Comneno. Isacco II accettò di pagare l'intera somma e, sebbene un centenario fosse già stato versato, decise ugualmente di corrispondere tutti i quindici centenari chiesti da Venezia. Questa decisione è presentata nel testo della crisobolla come un atto di benevolenza, ma non è da escludere che egli volesse così evitare di riconoscere un atto politico dell'odiato predecessore. Una prima quota di duecentocinquanta libbre venne data agli ambasciatori del doge e l'imperatore si impegnò a far avere il resto in rate uguali nell'arco di sei anni. Anche questo impegno, tuttavia, non fu mantenuto: dopo l'arrivo della prima rata si ebbero ulteriori pagamenti nel 1191 e nel 1193 ma quando, nel 1195, Isacco II perse il trono, il debito non era stato ancora saldato e soltanto con la conquista di Costantinopoli, nel 1204, il comune veneziano avrebbe recuperato tutto quanto riteneva di proprio diritto. Dalle trattative fra i legati veneziani e il sovrano emersero infine due decisioni accessorie, che furono ugualmente inserite nel testo della crisobolla. La prima riguardò la facoltà concessa ai Veneziani di intentare causa ai Bizantini che, per disposizione di Manuele Comneno, si fossero impossessati dei loro beni e non li avessero restituiti; la seconda la dichiarazione di nullità delle azioni intentate per debiti dall'una e dall'altra parte prima della cattura dei Veneziani (62).

Il perdurare delle appropriazioni indebite, malgrado l'obbligo di restituire tutto ai Veneziani, rende chiaramente l'idea del cattivo funzionamento della commissione imperiale incaricata del recupero e, nello stesso tempo, della precarietà della rinnovata amicizia con l'Impero. I ritardi nel risarcimento, intenzionali o meno che fossero, e la sostanziale impossibilità di ritrovare tutto quanto era appartenuto ai Veneziani rendevano assai fragile la nuova amicizia, che era molto più formale che sostanziale. L'aiuto veneziano era sì necessario all'Impero come lo era stato in precedenza, ma ora andava prestato a un corpo in agonia più per farlo sopravvivere che per definirne un nuovo ruolo di potenza internazionale. A ciò si aggiungeva l'instabilità della situazione interna, che non doveva promettere nulla di buono ai governanti della città lagunare. Una prova evidente si ebbe dopo la deposizione di Isacco II, nell'aprile del 1195, quando il potere passò al fratello Alessio III, che cambiò la linea politica del predecessore con conseguenze disastrose per Venezia. Alessio III Angelo assunse infatti un atteggiamento ostile alla Repubblica, favorendo sistematicamente Genovesi, Pisani e Ragusei ai danni di questa e, in particolare, facendo leva sull'antagonismo di Pisa che si trovava allora in fase di notevole potenza. Le relazioni con Pisa e Genova erano già state normalizzate da Isacco II, con due crisobolle del febbraio e aprile 1192, alle quali se ne aggiunse in giugno un'altra per Ragusa (Dubrovnik), che era rientrata nell'orbita bizantina, ma Alessio III si spinse più oltre cercando di allentare la presa veneziana sull'economia dell'Impero. A dispetto degli impegni solenni, fece pagare tasse ai Veneziani e impose contributi alle loro navi; sospese l'invio delle rate di risarcimento e aizzò i Pisani contro i concorrenti. Si ebbero di conseguenza frequenti scontri fra le due fazioni, nelle strade di Costantinopoli o sul mare, con alterne vittorie e conseguenti saccheggi dei beni degli avversari da parte dei vincitori (63).

La politica di Alessio III rappresentò un pericolo mortale per Venezia, i cui traffici erano già messi in difficoltà dalla pirateria che in quegli anni affliggeva pesantemente le rotte bizantine. Nello stesso tempo la situazione si faceva difficile anche in Occidente. Il nuovo sovrano tedesco, Enrico VI, non aveva rinnovato il pactum con Venezia, ma aveva concesso il proprio favore a Pisa con un trattato nel 1191 e accordando altri privilegi negli anni successivi. Alla fine del 1194, inoltre, Enrico VI aveva cinto anche la corona di Sicilia, pervenutagli dalle nozze con Costanza di Altavilla, facendo propria la tradizionale politica normanna di conquista dell'Impero bizantino che egli congiungeva all'aspirazione paterna al dominio universale. Si veniva così configurando una situazione di estrema gravità per Venezia che, in caso di realizzazione del progetto di Enrico VI, avrebbe visto concretizzarsi una seria minaccia per la propria indipendenza. Nel corso del 1195 la situazione si aggravò ulteriormente con lo scoppio della guerra fra Pisa e Venezia. I Pisani comparvero nell'Adriatico e presero Pola, ma furono costretti a ritirarsi dalla flotta inviata da Venezia, che poi raggiunse Modone catturando due vascelli mercantili dei nemici; al ritorno la squadra veneziana si impossessò di un'altra nave pisana e i vincitori rientrarono in patria portando quattrocento prigionieri. Nel marzo 1196, inoltre, una flotta del comune era presente ad Abido, all'ingresso dell'Ellesponto, verosimilmente per affrontare i Pisani ma, forse, anche per intimorire l'imperatore di Bisanzio e farlo recedere dai suoi propositi ostili. La guerra veneto-pisana sarebbe probabilmente durata a lungo, ma il 1° settembre dello stesso anno Enrico VI impose la pace ai contendenti, le cui flotte gli sarebbero state necessarie per la spedizione contro Bisanzio. Nello stesso tempo si riavvicinò a Venezia: già nel gennaio 1195 aveva riconfermato i privilegi della chiesa veneziana di San Marco a Palermo e altri ne emise, fra 1195 e 1196, per i monasteri di San Michele di Murano e di Sant'Ilario. Il 6 giugno I197, infine, rinnovò il pactum del Barbarossa. L'attacco all'Impero d'Oriente era ormai imminente, ma il 28 settembre del 1197 Enrico VI morì improvvisamente a Messina mentre stava allestendo una grande flotta per dare il via alla conquista (64).

È difficile dire come Venezia avrebbe reagito se l'impresa di Enrico VI avesse avuto luogo, ma è certo che la morte del sovrano fu quanto mai provvidenziale per il comune, dato che i successori, impegnati nelle lotte per il trono, non furono in grado di condurre una politica di ampio respiro e si disinteressarono per alcuni anni delle vicende italiane. La situazione a Bisanzio, al contrario, restava ancora tesa e furono necessari tre anni di negoziati con Alessio III per arrivare a un accordo, durante i quali si ebbe una crisi del commercio veneziano nell'Impero (65). Il doge Enrico Dandolo inviò un'ambasceria a Costantinopoli per ottenere il rinnovo della crisobolla di Isacco II e il risarcimento promesso, ma questa non ottenne risultati e fu seguita da una legazione bizantina a Venezia. Si ebbe un altro fallimento e ricominciò il solito andirivieni di ambasciatori. I Veneziani inviarono di nuovo loro legati a Costantinopoli, ma anche questi non ebbero successo e tornarono in patria insieme a un inviato bizantino che, per ordine dell'imperatore, condusse le trattative per le lunghe. Il doge Dandolo, però, non intendeva trascinare la cosa all'infinito e inviò altri ambasciatori a Bisanzio che, il 27 settembre 1198, arrivarono finalmente a un accordo, confermato due mesi più tardi da una lunghissima crisobolla (66).

La questione centrale del disaccordo fra Venezia e Bisanzio, cioè il risarcimento dei danni, non venne ufficialmente definita, sebbene gli ambasciatori fossero stati incaricati di farlo, ma è possibile che essa sia stata comunque regolata. In compenso furono determinati altri punti essenziali: il rinnovo dell'accordo di cooperazione militare, la riconferma dei privilegi commerciali e una serie di provvedimenti relativi allo stato giuridico dei Veneziani che vivevano a Bisanzio. Il testo dell'accordo del 1187 venne integralmente riproposto nella nuova crisobolla, ma con le modifiche dovute alla mutata situazione politica. Non vi fu inserito infatti il richiamo all'alleanza con il re di Sicilia e l'obbligo di intervenire in aiuto di Bisanzio fu esteso a qualsiasi nemico, ivi compreso l'imperatore di Germania. In cambio Alessio III riconfermò i privilegi commerciali sanciti dalle crisobolle dei suoi predecessori e a sua volta dichiarò solennemente la completa libertà di commercio per i Veneziani con l'esenzione da tutte le imposte. Per sgombrare il campo da possibili equivoci, inoltre, fece elencare nella crisobolla tutte le città o regioni in cui essi avrebbero potuto esercitare il commercio. Erano infatti sorte controversie a motivo dell'incompletezza delle precedenti concessioni, che non indicavano esattamente tutte le zone aperte ai traffici veneziani; gli ambasciatori se ne erano lamentati con il sovrano ed egli volle così definire una volta per tutte la questione. La lista comprendeva pressoché tutto l'Impero, come si configurava a quel tempo, e anche alcune località che non ne facevano più parte come Antiochia o Laodicea in Siria. Ne restavano però escluse le zone costiere del mar Nero, mantenendo la decisione già adottata al tempo di Alessio I Comneno. Su richiesta degli ambasciatori venne infine definita la condizione dei Veneziani residenti nell'Impero, ai quali furono date alcune garanzie giurisdizionali per meglio tutelarli. Le garanzie vennero estese anche alle proprietà di chi moriva nell'Impero, che non potevano essere toccate dai Bizantini ma dovevano restare nell'ambito della comunità veneziana (67). Questo accordo solenne concludeva la serie dei patti fra Venezia e l'Impero iniziata oltre un secolo prima. Fu l'ultimo tentativo di definire su base pacifica un rapporto divenuto sempre più difficile: agli umori oscillanti dei sovrani di Bisanzio corrispondeva da tempo il desiderio veneziano di una riconciliazione che salvasse gli interessi in Oriente, in un'altalena estenuante di accordi e contrasti. Una riconciliazione tutto sommato impossibile, dato che una delle parti contraenti non dava alcuna garanzia di mantenerla. Di questo fatto dovevano essere ben consapevoli i governanti veneziani e, in particolare, una lucida mente politica come il doge Enrico Dandolo, che soltanto sei anni in più tardi avrebbe guidato i suoi uomini alla conquista di Costantinopoli.

1. Ricostruzioni accurate degli avvenimenti si hanno in Ferdinand Chalandon, Essai sur le règne d'Alexis Ier Comnène (1081-1118), Paris 1900, pp. 57-94 e Roberto Cessi, Venezia ducale, II, 1, Commune Venetiarum, Venezia 1965, pp. 89-120.

2. Anne Comnène, Alexiade, I-II, a cura di Bernard Leib Paris 1937-1943: I, p. 146.

3. La crisobolla è stata variamente datata al 1082, 1084 o 1092, ma le considerazioni di Silvano Borsari, Venezia e Bisanzio nel XII secolo. I rapporti economici, Venezia 1988, pp. 135-138, non lasciano dubbi sull'attribuzione al maggio 1082.

4. A. Comnène, Alexiade, II, p. 55.

5. Giorgio Ravegnani, Dignità bizantine dei dogi di Venezia, in AA.VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, pp. 26-27 (pp. 19-29).

6. L'edizione più recente del documento in I trattati con Bisanzio, a cura di Marco Pozza - Giorgio Ravegnani, Venezia 1993, pp. 27-45.

7. Ioannis Cinnami Epitome rerum ab Ioanne et Alexio Comnenis gestarum, a cura di August Meineke, Bonn 1836, p. 281.

8. Raimondo Morozzo Della Rocca - Antonino Lombardo, Documenti del commercio veneziano nei secoli XI-XIII, I, Torino 1940, nr. 41, pp. 43-44, febbraio 1119; nr. 45, pp. 47-48, marzo 1120; nr. 46, pp. 48-49, gennaio 1121; Famiglia Zusto, a cura di Luigi Lanfranchi, Venezia 1955, nr. 16, p. 38 e Appendice, nr. VI, p. 64, maggio 1119.

9. Andreae Danduli Chronica per extensum descripta a. 46-128o d.C., a cura di Ester Pastorello, in R.I.S.2, XII, 1, 1938-1958, p. 227.

10. I trattati con Bisanzio, pp. 47-56.

11. Historia ducum Veneticorum, a cura di Henry Simonsfeld, in M.G.H., Scriptores, XIV, 1883, p. 75; A. Danduli Chronica, p. 242; San Giorgio Maggiore, II, Documenti (982-1159), a cura di Luigi Lanfranchi, Venezia 1968, nr. 224, p. 450, settembre 1147; I trattati con Bisanzio, pp. 60-65. L'autorizzazione a commerciare in Creta e Cipro potrebbe essere stata concessa da Giovanni Comneno nel 1136: Ralph Johannes Lilie, Handel und Politile zwischen dem byzantinischen Reich und den italienischen Kommunen Venedig, Pisa und Genua in der Epoche der Komnenen und der Angeloi (1081-1204), Amsterdam 1984, p. 375.

12. I trattati con Bisanzio, pp. 70-75.

13. A. Danduli Chronica, p. 243. Secondo l'Historia ducum Veneticorum, p. 75, il doge morì a Caorle e il successore, Domenico Morosini, nominò comandanti della spedizione il fratello e il figlio del Polani. Trattative per un'alleanza antinormanna fra Giovanni Comneno e Corrado III ebbero luogo anche nel 1141-1142 con la mediazione del doge Pietro Polani, come ricorda una lettera del 12 febbraio 1142 scritta da Corrado III al collega orientale: Ottonis episcopi Frisingensis et Rahewini Gesta Frederici seu rectius Cronica, a cura di Franz-Josef Schmale, Berlin 1965, pp. 174-176. Ambasciatori bizantini e veneziani inoltre si erano recati da Lotario III nel 1135 per chiedere un intervento contro Ruggero II: Annales Erphesfurdenses a. 1125-1137, a cura di Georg Heinrich Pertz, in M.G.H., Scriptores, VI, 1844, p. 540.

14. I. Cinnami Epitome, pp. 96-101; Nicetae Choniatae Historia, a cura di Ioannes A. Van Dieten, in Corpus Fontium Historiae Byzantinae, XI, 1, Berlin-New York 1975, pp. 77-79, 82-89; Historia ducum Veneticorum, p. 75; A. Danduli Chronica, p. 243. Secondo l'Historia ducum, nello scontro di Capo Malea vennero catturate quaranta navi normanne e molte altre furono affondate; le navi superstiti, costrette alla fuga, vennero inseguite fino in patria: "ceteras quoque, que evaserant, usque ad terras regis fuerunt insecuti". Il Dandolo al contrario parla dell'incursione a Costantinopoli e dello scontro successivo con gli alleati, che dovrebbe essere lo stesso al quale si riferisce Cinnamo (p. 101).

15. I. Cinnami Epitome, p. 102. L'Historia ducum Veneticorum, p. 75, scrive che dopo la presa di Corfù i Veneziani rientrarono in patria, ma la loro presenza presso l'esercito di Axouch lascia intendere che almeno qualche nave era rimasta.

16. Gottlieb L.Fr. Tafel - Georg M. Thomas, Urkunden zur älteren Handels- und Staatsgeschichte der Republik Venedig mit besonderer Beziehung auf Byzanz und die Levante, I, Wien 1856, nr. LVI, pp. 135-136; A. Danduli Chronica, pp. 245-246.

17. Gerhard Rösch, Venezia e l'Impero 962-1250. I rapporti politici, commerciali e di traffico nel periodo imperiale germanico, Roma 1985, p. 39.

18. Friderici I diplomata inde ab a. MCLII usque ad a. MCLVIII, a cura di Heinrich Appelt, in M.G.H., Diplomata regum et imperatorum Germaniae, X, 1, 1975, nr. 94, pp. 156-160, del 22 dicembre 1154: "Dat. in territorio Novariensi in obsidione castri Galliate" (p. 160). Il pactum venne rinnovato senza modifiche rispetto al precedente.

19. Ottonis et Rahewini Gesta Frederici, p. 408.

20. Historia ducum Veneticorum, p. 77.

21. Ferdinand Güterbock, Le lettere del notaio imperiale Burcardo intorno alla politica del Barbarossa nello scisma e alla distruzione di Milano, "Bullettino dell'Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano", 61, 1949, pp. 18, 52 (pp. 1-65). Burcardo accompagnava nella sua sede il nuovo patriarca di Aquileia Ulrico di Treffen e ricorda che i seguaci di Alessandro III qui dimoranti si rallegrarono dell'arrivo di questo: "Unde lęgtata est Rollandina cardinalitas, quę ibi habitare consuevit". Quando tornò dall'esilio in Francia, nel 1165, Alessandro III ringraziò i Veneziani "quod cardinales et eiectos episcopos susceperant et tantum pro Dei ecclesia opus patraverant" (Historia ducum Veneticorum, p. 78) e sullo stesso tema ritorna in una lettera del 24 novembre 1179: Documenta ad Forumjulii patriarchatum Aquileiensem Tergestum Istriam Goritiam spectantia, a cura di Antonio S. Minotto, I, 1, Venezia 1870, p. 8, e Philippe Jaffé, Regesta Pontificum Romanorum ab condita ecclesia ad annum post Christum natum MCXCVIII, II, a cura di Samuel Loewenfeld - Ferdinand Kaltenbrunner - Paul Ewald, Leipzig 18882, nr. 13497, p. 351. I1 blocco commerciale e l'appoggio degli alleati di Venezia sono ricordati nell'Historia ducum Veneticorum, p. 77.

22. Le operazioni militari del 1162 sono descritte con ampi dettagli dall'Historia ducum Veneticorum, p. 77 e in A. Danduli Chronica, p. 247; una raccolta di fonti veneziane sulla cattura del patriarca di Aquilea è inoltre in Marin Sanudo, Le vite dei Dogi, a cura di Giovanni Monticolo in R.I.S.2, XXII, 4, 1900-191 I, p. 257 n. 1. Il tributo al quale fu costretto Ulrico consisteva in dodici pani e dodici porci inviati annualmente al doge: continuò a essere corrisposto per secoli e diede origine a una festa popolare nel giorno di giovedì grasso: Samuele Romanin, Storia documentata di Venezia, II, Venezia 1854, p. 75. La data della spedizione contro Grado è incerta e alcuni moderni propongono il 1164, ma senza fonti sicure: secondo gli Annales Venetici breves, a cura di Henry Simonsfeld, in M.G.H., Scriptores, XIV, 1883, p. 71, ebbe luogo nel 1161; il Dandolo la colloca contemporaneamente all'azione su Cavarzere e ritiene che il patriarca sia stato catturato "in die iovis de carnisprivio" del sesto anno di dogado di Vitale II Michiel, cioè nel febbraio 1162 (il 9 febbraio 1162, secondo Pio Paschini, I patriarchi d'Aquileia nel secolo XII, "Memorie Storiche Forogiuliesi", 10, 1914, p. 120 [pp. 113-181>), mentre l'Historia ducum Veneticorum non fornisce date ma colloca genericamente gli avvenimenti bellici al tempo della distruzione di Milano.

23. Friderici I diplomata inde ab a. MCLVIII usque ad a. MCLXVII, a cura di Heinrich Appelt, in M.G.H., Diplomata rerum et imperatorum Germaniae, X, 2, 1979, nrr. 356-357, pp. 198-204 (trattati con Pisa dell'aprile 1162); nr. 367, pp. 220-225 (trattato con Genova del 9 giugno 1162).

24. Ottonis Morenae et Continuatorum Historia Friderici I, a cura di Ferdinand Güterbock, in M.G.H., Scriptores rerum Germanicarum, Nova Series, VII, 1930, p. 174; Le Liber Pontificalis. Texte, a cura di Louis Duchesne, II, Paris 1892, p. 411 (Vita di Alessandro III scritta dal card. Bosone).

25. I prestiti della Repubblica di Venezia (sec. XIII-X V). Introduzione storica e documenti, a cura di Gino Luzzatto, Padova 1929, nr. 1, pp. 3-7, 12 giugno 1164.

26. Ottonis Morenae et Continuatorum Historia Friderici I, pp. 174-175; Friderici I diplomata inde ab a. MCLVIII usque ad a. MCLXVII, nr. 433, pp. 328-329, 3 aprile 1164; nr. 441, pp. 338-340, 24 maggio 1164; nr. 442, pp. 340-342, 27 maggio 1164.

27. Cesare Vignati, Storia diplomatica della lega lombarda, a cura di Raoul Manselli, Torino 1966 (riprod. anast. ediz. 1866), pp. 91-93.

28. Gli atti del comune di Milano fino all'anno MCCXVI, a cura di Cesare Manaresi, Milano 1919, nr. LVI, pp. 83-86, del 1° dic. 1167.

29. I. Cinnami Epitome, pp. 228-231, 237. Lo storico bizantino colloca apparentemente la missione di Chalufes al tempo della presa di Roma da parte del Barbarossa (il 24 luglio 1167) e in tal caso si deve ritenere che dati all'estate di quell'anno, quando dovevano essere in corso le trattative per la formazione della lega lombarda. Gli storici moderni, però, preferiscono anticiparla suggerendo date diverse: verso il 1166 (Ferdinand Chalandon, Les Comnène. Études sur l'empire byzantin au XIe et au XIle siècles, II, Jean II Comnène (1118-1143) et Manuel I Comnène (1143-1180), Paris 1912, p. 584), alla primavera del 1165 (Donald M. Nicol, Byzantium and Venice. A Study in Diplomatic and Cultural Relations, Cambridge 1988, p. 95), al 1164 o al massimo all'inizio del 1165 (Paolo Lamma, Comneni e Staufer. Ricerche sui rapporti fra Bisanzio e l'Occidente nel secolo XII, II, Roma 1957, p. 194 n. 1). L'attribuzione al 1167 al contrario è ritenuta molto probabile da Peter Classen, La politica di Manuele Comneno tra Federico Barbarossa e le città italiane, in AA.VV., Popolo e stato in Italia nell'età di Federico Barbarossa. Alessandria e la lega lombarda, Torino 1970, p. 271 (pp. 263-279), con alla n. 22 di p. 271 altre proposte di datazione fra il 1163 e il 1166. Il Chalufes fu un importante collaboratore di Manuele Comneno: prigioniero degli Ungheresi dalla primavera del 1166 all'estate dell'anno successivo, divenne nel 1167 il primo governatore bizantino della Dalmazia: Jadran Ferluga, L'amministrazione bizantina in Dalmazia, Venezia 1978, pp. 259-260. Manuele Comneno continuò anche negli anni successivi a intervenire nelle vicende italiane in antagonismo al Barbarossa. Egli mise a disposizione grandi somme per la ricostruzione di Milano e in ogni città erano attivi suoi partigiani: N. Choniatae Historia, pp. 200-201; cf. P. Lamma, Comneni e Staufer, II, pp. 244-246.

30. Deliberazioni del Maggior Consiglio di Venezia, I, a cura di Roberto Cessi, Bologna 1950, IV-VI, pp. 238-241, maggio 1160. Cf. anche R. Morozzo della Rocca - A. Lombardo, Documenti del commercio veneziano, I, nr. 143, p. 142, che pubblica a sua volta il primo dei tre documenti precedenti con la condanna inflitta dal doge a Marco Bembo, quale ribelle a un ordine di rimpatrio, a risarcire il fratello che ha pagato la multa per lui.

31. D.M. Nicol, Byzantium and Venice, p. 95.

32. F. Chalandon, Les Comnène, II, pp. 564-566.

33. Ibid., pp. 572-573; J. Ferluga, L'amministrazione bizantina, pp. 251-252, 260.

34. Annales Venetici breves, p. 71: "venerunt tres legati imperatoris Grecie cum tribus galeis" (il 10 dicembre 1167); A. Danduli Chronica, p. 249. Secondo J. Ferluga, L'amministrazione bizantina, p. 257, Venezia partecipò alla campagna in Dalmazia con le cento navi che, a giudicare da quanto scrive Cinnamo (p. 237), sembrano essere state promesse per la guerra contro il Barbarossa. Il Dandolo (p. 250) segnala l'atteggiamento ostile a Venezia degli Anconetani "Hemanuelis obedientes imperio" e un successivo attacco navale veneziano.

35. Historia ducum Veneticorum, p. 78; A. Danduli Chronica, pp. 249-250, cf. qui sotto n. 38.

36. La versione veneziana dei fatti è ritenuta attendibile da Silvano Borsari, Il commercio veneziano nell'Impero Bizantino nel XII secolo, "Rivista Storica Italiana", 76, 1964, p. 1003 n. 80 (pp. 982-1011), che esamina documenti genovesi del 1169 1170 nei quali i privilegi veneziani a Costantinopoli sembrano essere un fatto passato. Nel periodo che va dal 1167 al 1171, comunque, più di cinquanta documenti veneziani riguardano i traffici con l'Impero: P. Lamma, Comneni e Staufer, II, p. 220 n. 2.

37. I. Cinnami Epitome, p. 282.

38. A. Danduli Chronica, p. 249: "quod Emanuel grave ferrens, erga Venetos malum in corde concepit; de hoc dux providens, Venetis, ne in Romaniam pergerent, universaliter interdixit ".

39. I. Cinnami Epitome, pp. 281-282; N. Choniatae Historia, pp. 171-172. La versione bizantina dei fatti trova conferma nelle istruzioni che nel 1174 i consoli di Genova diedero all'ambasciatore a Costantinopoli, dove si legge: "occasione cuius rapine curia omnem pecuniam Venetorum cepit, cum inde culpabiles essent et sceleris eiusdem rei" (Codice diplomatico della Repubblica di Genova, II, a cura di Cesare Imperiale di Sant'Angelo, Roma 1938, nr. 96, p. 215). L'unione con donne bizantine urtava la sensibilità collettiva, mentre la condizione di burgenses (Βουϱγέσιοι) era più restrittiva di quella in precedenza goduta dai Veneziani: P. Lamma, Comneni e Staufer, II, pp. 219, 221. L'imposizione di questo nuovo stato ai Veneziani residenti dovrebbe significare che, da quel momento, non si trovavano più sottomessi allo stesso regime dei loro compatrioti che arrivavano e ripartivano. La nuova situazione, comune d'altronde a tutti gli Occidentali stabiliti a Bisanzio, implicava una dichiarazione di fedeltà e, probabilmente, anche una cauzione per le proprietà che venivano concesse: Wilhelm von Heyd, Storia del commercio del Levante nel Medio Evo, Torino 1913, pp. 215-216. Corrispondeva forse alla condizione di uguaglianza ai sudditi di Bisanzio (l'ἰσοπολίτηϚ) che, secondo Niceta Coniate (Historia, p. 173), venne restituita ai Veneziani nel 1179.

40. Historia ducum Veneticorum, p. 78: "Inventi sunt in Constantinopoli eo tempore fere decem milia Venetorum".

41. I. Cinnami Epitome, pp. 28o, 285; N. Choniatae Historia, pp. 85-87, 171.

42. Annales Venetici breves, p. 72; Historia ducum Veneticorum, p. 78; A. Danduli Chronica, p. 250; Martin da Canal, Les estoires de Venise. Cronaca veneziana in lingua francese dalle origini al 1275, a cura di Alberto Limentani, Firenze 1972, XXVII, p. 38; I. Cinnami Epitome, pp. 282-283; N. Choniatae Historia, p. 172. Sia Cinnamo che Niceta ricordano la fuga della nave di Mairano, la cui grandezza straordinaria è messa in luce da entrambi gli storici (questa nave, la "Totus Mundus", fu poi impiegata all'assedio di Ancona nel 1173 e durante la quarta crociata, cf. qui sotto n. 45 e ibid., p. 539 con il nome "Kosmos"), ma non fanno il nome del possessore. Che si trattasse del Mairano è però dimostrato da un documento del 1175: G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, I, p. 168. L'episodio è ricordato anche nella Cronaca di Marco, "Archivio Storico Italiano", 8, 1845, p. 260 (pp. 259-267) dove si legge che "multi ex Venetis aufugerunt de Constantinopoli cum navi una maiorando" (_ Mairani?). La cattura dei Veneziani di Sparta è attestata da un documento del maggio 1183: R. Morozzo della Rocca - A. Lombardo, Documenti, I, nr. 338, p. 334; quella della nave in viaggio da Corinto da un documento del gennaio 1183 (ibid., nr. 336, p. 333) e la fuga da Almiro dall'Historia ducum Veneticorum, p. 79.

43. Cronaca di Marco, pp. 260-261; Annales Venetici breves, p. 72; Historia ducum Veneticorum, pp. 79-80; A. Danduli Chronica, pp. 251-253; M. da Canal, Les estoires, XXVII-XXVIII, pp. 38-40; I. Cinnami Epitome, pp. 283-286; N. Choniatae Historia, pp. 172-173. Secondo Cinnamo i Veneziani furono respinti dall'Eubea; passarono a Chio dove vennero sconfitti dagli Imperiali e costretti a reimbarcarsi; in seguito si spostarono continuamente sotto la minaccia della flotta imperiale, con la quale non osarono scontrarsi in una battaglia decisiva ma da cui subirono notevoli danni. Secondo Niceta Coniate assediarono Calcide in Eubea e diedero fuoco alla parte che riuscirono a prendere. In primavera, quando passarono a Chio, Manuele Comneno inviò contro di loro centocinquanta triremi, con equipaggi meglio addestrati di quelli veneziani e, alla notizia dell'arrivo di queste, la flotta degli invasori cambiò sede di continuo per non essere costretta a combattere. I Bizantini non erano in grado di raggiungerli perché meno abili nella navigazione e alla fine l'ammiraglio imperiale riprese la via di Costantinopoli.

44. Breviarium Pisanae Historiae, in R.I.S., VI, 1725, col. 190 b; Bernardo Marangone, Annales Pisani, a cura di Michele Lupo Gentile, in R.I.S.2, VI, 2, 1930, p. 59: "et quadraginta galeis Veneticorum"; Historia ducum Veneticorum, pp. 81- 82; Boncompagni Liber de obsidione Ancone, a cura di Giulio C. Zimolo, in R.I.S.2, VI, 3, 1937, dove si legge tra l'altro che i Veneziani "semper quodam speciali odio Anchonam oderunt" (p. 12); A. Danduli Chronica, pp. 250, 261; Andreae Danduli Chronica brevis de sanctis episcopis Ticinensibus, a cura di Ester Pastorello, in R.I.S.2, XI, 1, 1903-1906, p. 366.

45. Boncompagni Liber de obsidione, pp. 14-15, 18-21. Secondo Boncompagno i Veneziani abbandonarono l'assedio dopo che Cristiano fuggì di notte per non scontrarsi con gli avversari (p. 45); per l'Historia ducum (p. 82) e il Dandolo (p. 261) i due fatti non sono connessi e l'abbandono veneziano fu causato dal sopraggiungere dell'inverno, mentre secondo Cinnamo (p. 289) i liberatori di Ancona sconfissero i nemici costringendoli alla fuga. Un'opinione del tutto diversa in Romualdi Salernitani Chronicon, a cura di Carlo Alberto Garufi, in R.I.S.2, VII, 1909-1935, p. 265 per cui Cristiano di Magonza abbandonò l'assedio dopo aver ricevuto molto denaro dagli Anconetani. L'assedio di Ancona fu oggetto anche di un'orazione celebrativa di Eustazio di Tessalonica: Antonio Carile, Federico Barbarossa, i Veneziani e l'assedio di Ancona del 1173. Contributo alla storia politica e sociale della città nel secolo XII, "Studi Veneziani", 16, 1974, pp. 25-27 (pp. 3-31).

46. Historia ducum Veneticorum, p. 82; C. Vignati, Storia diplomatica, p. 286: "in eundo Venetias vel Ravenam, et cetera loca quae procedere disposuerunt" (trattato di Anagni, ottobre 1176). Secondo un cronista del tempo, però, già ad Anagni si ebbe un accordo segreto fra papa e imperatore per tenere il congresso a Venezia (Gesta Federici I imperatoris in Lombardia auct. cive Mediolanensi, a cura di Oswald Holder-Egger, in M.G.H., Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum, XXVII, 1892, pp. 63-64).

47. Historia ducum Veneticorum, p. 82.

48. Ibid., pp. 82-83, 84; Romualdi Chronicon, pp. 270-271; Le Liber Pontificalis, II, pp. 437-438. Si tratta della prima delle sei rose donate ai dogi dai papi, che è andata perduta così come tutte le altre: Rodolfo Gallo, Il tesoro di S. Marco e la sua storia, Venezia-Roma 1967, pp. 218-220.

49. Romualdi Chronicon, pp. 271-275; Historia ducum Veneticorum, p. 83 (l'elogio di Venezia è alla p. 82: "quia Venecia tuta erat omnibus et fertilis et abundans in omnibus et gens eius quieta et pacis amatrix"); De pace Veneta relatio, a cura di Ugo Balzani, "Bullettino dell'Istituto Storico Italiano", 10, 1891, p. 12: Venezia "que soli Deo subiacet" (pp. 7-16); Le Liber Pontificalis, 11, p. 438.

50. Romualdi Chronicon, pp. 275-279 (secondo il quale il Barbarossa andò da Cesena a Chioggia); Historia ducum Veneticorum, p. 83 (che fornisce alle pp. 84-89 l'elenco dei partecipanti al congresso); De pace Veneta relatio, pp. 12-13; Le Liber Pontificalis, II, pp. 438-439: "tractatus ipse multis intervenientibus indutiis usque ad apostolorum Petri et Pauli octavas processit" (p. 438). La tradizione parla di 8.420 uomini, che si fermarono a Venezia per circa tre mesi (Historia ducum Veneticorum, p. 89: "Sunt omnes in numero 8.420"), ma la cifra è forse esagerata e da ridurre a non più di 6.000-6.500: Giorgio Cracco, Un "altro mondo": Venezia nel Medioevo. Dal secolo XI al secolo XIV, Torino 1986, p. 53. La data del 12 luglio circa per l'arrivo a Chioggia del Barbarossa è ipotizzata da August Baer, Die Beziehungen Venedigs zum Kaiserreiche in der staufischen Zeit, Innsbruck 1888, p. 50.

51. Romualdi Chronicon, pp. 279-283 (il passo citato è a p. 282). Questo episodio, nel quale furono sicuramente implicati alcuni nobili, mostra la frattura esistente fra i populares veneziani, in parte favorevoli al Barbarossa e in parte contrari: Giorgio Cracco, Società e stato nel Medioevo veneziano (secoli XII-XIV), Firenze 1967, pp. 51-52.

52. Alexandri III Opera omnia, in Patrologia Latina, 200, 1855, cc. 1130-1131 (del 26 luglio 1177; altre lettere sullo stesso argomento scritte fra 27 e 30 luglio: ibid., cc. 1131-11 33); Romualdi Chronicon, pp. 283-285; Historia ducum Veneticorum, p. 83; De pace Veneta relatio, pp. 13-16; Le Liber Pontificalis, II, pp. 439-440. Le testimonianze di Romualdo e del card. Bosone, che fu al servizio di Alessandro III, sono da considerare di primaria importanza; è incerto però se l'autore della relazione de pace Veneta è stato un testimone oculare, come ritiene l'editore più recente: Rodney M. Thomson, An English Eyewitness of the Peace of Venice, 1177, "Speculum", 50, I, 1975, pp. 29-32 (pp. 21-32).

53. Romualdi Chronicon, pp. 286-294; Annales Venetici breves, p. 72; Historia ducum Veneticorum, pp. 83-84, Supplementum, p. 90; A. Danduli Chronica, pp. 264-265; SS. Secondo ed Erasmo (1089-1199), a cura di Eva Malipiero Ucropina, Venezia 1958, nr. 30, pp. 50-53, 8 settembre 1177; SS. Ilario e Benedetto e S. Gregorio (819-1199), a cura di Luigi Lanfranchi - Bianca Strina, Venezia 1965, nr. 29, pp. 86-90, 5 ottobre 1177; Friderici I diplomata inde ab a. MCLXVIII usque ad a. MCLXXX, a cura di Heinrich Appelt, in M.G.H., Diplomata rerum et imperatorum Germaniae, X, 3, 1985, nr. 691, pp. 209-212, 3 agosto 1177; nr. 692, pp. 212-214, 3 agosto 1177; nr. 695, pp. 218-222, 17 agosto 1177; nr. 696, pp. 222-223, 17 agosto 1177; nr. 708, pp. 242-243, settembre 1177; Heinrich Kretschmayr, Geschichte von Venedig, I, Gotha 1905, pp. 265-266; G. Rösch, Venezia e l'Impero, pp. 43-44.

54. Agostino Pertusi, La presunta concessione di alcune insegne regali al doge di Venezia da parte del papa Alessandro III, "Ateneo Veneto", n. ser. , 15, 1977, pp. 133-155.

55. R.Morozzo della Rocca - A. Lombardo, Documenti, I, nr. 241, pp. 235-236, maggio 1 1 7 1 ; nrr. 273-275, pp. 267-271, marzo 1176 (mercanti veneziani a Costantinopoli e a Tebe) ; S. Giorgio Maggiore, III, Documenti (1160-1199), a cura di Luigi Lanfranchi, Venezia 1968, nrr. 374-375, pp. 131 - 133 (a Costantinopoli nel gennaio 1176) ; S. Giovanni Evangelista di Torcello (1024-1199), a cura di Luigi Lanfranchi, Venezia 1948, nr. 64, pp. 96-98, del novembre 1177: "Nicolaus Albinus de Torcello habitator modo in Constantinopoli".

56. Historia ducum Veneticorum, p. 81; A. Danduli Chronica, pp. 26o-261; G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, I, nrr. LXIV-LXVI, pp. 171- 175.

56. N. Choniatae Historia, pp. 173-174; R. Morozzo della Rocca - A. Lombardo, Documenti, I, nr. 303, pp. 298-299, marzo I179; nr. 305, pp. 300-302, aprile 1179; nr. 309, pp. 304-305, agosto 1179; nr. 311, pp. 307-308, novembre 1179; nrr. 313-314, pp. 309-311, novembre 1179. Questi documenti e altri del 118o (ibid., nrr. 315-316, 319-320, pp. 311-313, 315-317), tutti rogati a Venezia, attestano la definizione di affari rimasti interrotti a seguito degli avvenimenti del 1171 e la coincidenza si può spiegare solo con il ritorno in patria dei prigionieri: S. Borsari, Venezia e Bisanzio nel XII secolo, pp. 23-24. Gli ambasciatori veneziani del 1174 furono Vitale Dandolo, Ma-nasse Badoer e Vitale Falier; i secondi Vitale Dandolo ed Enrico Navigaioso, il primo dei quali morì a Costantinopoli. La terza ambasceria ebbe luogo dopo la conclusione del trattato con Guglielmo I ed era costituita da Leonardo Michiel, Marino Michiel e Filippo Greco. Essi tornarono in patria "imperfecto tractatu" con i legati imperiali, che qualche tempo dopo vennero licenziati dato che "iuxta solitum" tiravano le cose per le lunghe (A. Danduli Chronica, pp. 260-262).

57. R. Morozzo della Rocca - A. Lombardo, Documenti, I, nr. 331, pp. 326-327.

58. Historia ducum Veneticorum. Supplementum, pp. 89-90, 92; A. Danduli Chronica, p. 266. La cronologia è stabilita con buone argomentazioni da S. Borsari, Venezia e Bisanzio nel XII secolo, p. 25 n. 109, mentre R.J. Lilie, Handel und Politik, p. 549, e altri ritengono che la pace non sia stata formalmente conclusa prima del febbraio 1185, sulla base del doc. nr. 353 della raccolta Morozzo-Lombardo. La crisobolla verosimilmente e-messa da Andronico Comneno è probabile sia andata perduta perché non più trascritta in seguito dato che "quella specie di damnatio memoriae che colpì Andronico dopo la sua morte fece sì che la cancelleria imperiale ne ignorasse completa-mente gli atti" (S. Borsari, Venezia e Bisanzio nel secolo XII, p. 25); ad essa pare comunque alludere il prologo della successiva concessione di

Isacco Angelo: "que ultra eam ipsis promissa sunt ob causam, que in chrysobulo pro iisdem edito notificantur" (I trattati con Bisanzio, p. I o6). L'arrivo a Venezia degli ultimi prigionieri liberati è ricordato anche in R. Morozzo Della Rocca - A. Lombardo, Documenti, I, nr. 336, pp. 332-333, gennaio 1183 (Enrico Vitale da Mazzorbo e Giacomo Badoer attestano che la nave su cui viaggiavano era stata catturata da una galea imperiale) e nr. 338, pp. 334-335, maggio I 183 (attestazione di un debito contratto durante la prigionia a Sparta).

6o. R. Morozzo della Rocca - A. Lombardo, Documenti, I, nr. 347, p. 343 (prestito stipulato a Costantinopoli per un viaggio ad Alessandria, giugno 1184) ; nr. 349, pp. 344-345 (prestito per un viaggio a Durazzo e Costantinopoli, agosto I 184); nr. 353, pp. 347-349 (un prestito a Tebe per traffici a Venezia e di nuovo nell'Impero, febbraio 1185); nr. 358, pp. 352-353 (prima menzione dell'arrivo a Venezia delle cento libbre d'oro di Andronico Comneno, novembre 1185); nrr. 36o-361, pp. 354-356, dicembre 1185; nr. 365, pp. 359-360, gennaio 1188; nr. 369, pp. 362-363, agosto 1188; nrr. 378-380, pp. 371-374, marzo-aprile 1190 (pagamenti con il denaro di Andronico) ; Nuovi documenti del commercio veneto dei sec. XI-XIII, a cura di Antonino Lombardo - Raimondo Morozzo della Rocca, Venezia 1953, nr. 33, pp. 36-38 (contesa per la proprietà di un molo a Costantinopoli, maggio 1184; questo documento segnala anche la presenza a Costantinopoli dei legati ducali Enrico Dandolo e Domenico Sanudo) ; S. Borsari, Venezia e Bisanzio nel secolo XII, pp. 25, 43-45 (contratti di locazione a Costantinopoli di immobili appartenenti alla Chiesa veneziana nel febbraio-marzo 1184, con documenti in parte inediti studiati anche da Chryssa A. Maltézou, Il quartiere veneziano di Costantinopoli. Scali marittimi, "Thesaurismata", 15, 1978, pp. 42-44 [pp. 30-61>). Il denaro fu portato a Venezia dagli ambasciatori del comune e ivi suddiviso.

61. Historia ducum Veneticorum. Supplementum, p. 90; A. Danduli Chronica, p. 271. Edizione delle crisobolle: I trattati con Bisanzio, pp. 84-99.

62. I trattati con Bisanzio, pp. 97, I o6 (istituzione della commissione e difficoltà operative), 105-1 I o (testo della crisobolla del 1189) ; Historia ducum Veneticorum. Supplementum, p. 90; A. Danduli Chronica, p. 271 ; R. Morozzo Della Rocca - A. Lombardo, Documenti, I, nrr. 378-380, pp. 371-374, marzo-aprile 1190; nr. 403, pp. 395-396, dicembre 1191; nr. 418, pp. 409-410, luglio 1193 (mercanti veneziani hanno ottenuto la restituzione di somme confiscate). L'ostilità fra il Barbarossa e Venezia, a proposito della spedizione orientale, risulta chiaramente dalla Historia de expeditione Friderici imperatoris, a cura di Anton Chroust, in M.G.H., Scriptores rerum Germanicarum. Nova Series, V, 1928, pp. 70-71.

63. Historia ducum Veneticorum. Supplementum, p. 93: "Venetos tam in personis quam rebus cepit propriis molestare"; N. Choniatae Historia, pp. 537-538; I trattati con Bisanzio, p. 117: "pro facto Pisanorum"; Freddy Thiriet, La Romanie vénitienne au Moyen Âge. Le développement et l'exploitation du domaine colonial vénitien (Xlle-XVe siècles), Paris 1959, p. 56. Secondo Niceta Coniate, l'atteggiamento ostile ai Veneziani si deve a entrambi i fratelli Angeli, ma in realtà va limitato al solo Alessio III: Charles M. Brand, Byzantium Confronts the West 1180-1204, Cambridge 1968, p. 367 n. 14. Alessio III nel 1196-1197 era debitore di quattrocento libbre d'oro, pari a due anni di rate: I trattati con Bisanzio, p. 117 e N. Choniatae Historia, p. 538, che però valuta a duecento libbre il residuo debito complessivo.

64. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, I, nr. LXXVIII, pp. 216-225 (flotta veneziana ad Abido); Annales Venetici breves, p. 72; Historia ducum Veneticorum. Supplementum, p. 91; A. Danduli Chronica, p. 273 (guerra con Pisa); Karl Friedrich Stumpf-Brentano, Die Reichskanzler vornehmlich des 10., II. und 12. Jahrhunderts, II, Die Kaiserurkunden des 10., II., und 12. Jahrhunderts, Innsbruck 1865-1881, nr. 4899, p. 447, 11 gennaio 1195; nr. 4935, p. 451, 20 maggio 1195; SS. Ilario e Benedetto, nr. 36, pp. 105-109, 23 agosto 1196; Pactum cum Venetis, a cura di Ludwig Weiland, in M.G.H., Leges, IV, Constitutiones et acta publica imperatorum et regum inde ab a. DCCCCXI usque ad a. MCXCVII, 1893, nr. 378, pp. 526-530; S. Borsari, Il commercio veneziano, pp. 1009-1010; C.M. Brand, Byzantium, p. 211 (pirateria e assalto a una nave veneziana nel 1192).

65. La crisi del commercio veneziano risulta dall'assenza di documenti relativi ai traffici in Costantinopoli fra 1195 e 1199: R. Morozzo della Rocca - A. Lombardo, Documenti, I, pp. 416-435.

66. I preliminari che portarono all'emissione della crisobolla sono riassunti nel prologo di questa, dove si fa riferimento anche all'accordo del 27 settembre 1198 (I trattati con Bisanzio, pp. 120-122), nell'Historia ducum Veneticorum. Supplementum, p. 91 e in A. Danduli Chronica, pp. 274-275. Il doge inviò all'imperatore Ranieri Zeno e Marino Mastropiero e questi tornarono a Venezia con un delegato imperiale. Si ebbe poi una seconda ambasceria veneziana, tra 1196 e 1197, composta da Enrico Navigaioso, Andrea Donato e Benedetto Grilioni, che rientrò in patria seguita da un legato imperiale con l'incarico segreto di ritardare le trattative. Il doge, però, volendo concluderle, lo rimandò a Costantinopoli assieme a Pietro Michiel e Ottaviano Quirini. I legati veneziani minacciarono Alessio III di prestare aiuto a suo nipote, al quale aveva tolto il trono, e ottennero la definizione del trattato. La stessa sequenza temporale è indicata nella crisobolla di Alessio III, con maggiori particolari sulla definizione delle trattative e, naturalmente, senza alcun accenno all'irritazione e alle minacce dei Veneziani che risultano dalla cronaca del Dandolo.

67. I trattati con Bisanzio, pp. 119-137. Nelle istruzioni fornite a Enrico Navigaioso e Andrea Donato (ibid., pp. 116-118) si fa esplicito riferimento a ritardi nel risarcimento e alla necessità di trattare in proposito: gli ambasciatori ebbero l'incarico di chiedere le quattrocento libbre dovute, ma all'occasione di accontentarsi della metà o anche di nulla purché l'imperatore emettesse una crisobolla. Il testo del Dandolo fa pensare che i Veneziani abbiano ottenuto soddisfazione, dato che si dice che Alessio III "largiorem crusobolium solito, et restitucionem dampnorum Venetiis indulsit" (A. Danduli Chronica, p. 275), ma l'Historia ducum Veneticorum. Supplementum, p. 92, precisa che il debito non fu pareggiato fino alla conquista di Costantinopoli.