Tasso, Torquato. - Poeta (
Vita e opereFiglio di Bernardo e di
Dopo il successo dell'Aminta, dramma pastorale da lui stesso fatto rappresentare nel 1573, ebbe ufficio, puramente nominale, di lettore di geometria e della sfera nello Studio; più tardi fu pure nominato storiografo ducale. Sono anni, questi, di vivace fervore, di grande attività artistica: oltre al gran numero di prose e di rime, condusse sino al principio del 2° atto (1574) la tragedia Galealto re di
Nel 1578 andò di nuovo a Ferrara, miraggio per lui di lusso e di gloria; vero "peregrino errante", ne ripartì dopo poco e si recò in varie città; vi ritornò nel febbraio 1579, mentre la corte era in festa per le terze nozze di Alfonso con Margherita
La polemica, che includeva la questione se T. fosse superiore ad
L'"Aminta" e la "Gerusalemme liberata". - Elegantissimo gioco poetico è l'Aminta: nel suo genere, perfetto; appunto per l'eleganza e la perfezione, che la Gerusalemme liberata è ben lontana dal raggiungere, la favola pastorale piacque sempre soprattutto ai raffinati, mentre il poema restò per secoli una delle opere poetiche più largamente popolari della letteratura italiana. Anche se non lo sapessimo per via storica, la stessa bella favola dell'Aminta sarebbe là a dirci che essa fu creata per un'ora di spirituale godimento di una brigata sceltissima, colta e omogenea; che fu opera di getto, tanto salda è la sua costruzione, tanto armoniche le sue proporzioni, tanto il suo tono resta caldo e fermo dal primo all'ultimo verso. Il poeta e i suoi ascoltatori non guardano al mondo pastorale con un sorriso di superiorità distaccata, ma neppure, e tanto meno, con ingenuità e abbandono fantastico. Esso è un dato intellettuale, una convenzione leggera. Lo stesso carattere arbitrario di alcune situazioni, l'illogicità di alcuni trapassi, il sapiente intarsio delle reminiscenze letterarie rendono più gradevole il gioco accentuando il carattere squisitamente artificiale della favola. Qua e là persino qualche venatura comica (le uniche, forse, in T.); e più di un guizzo di sensualità repressa e calda; ma tutto ciò appena accennato. L'Aminta non è un dramma: le situazioni drammatiche, che, conformemente alle convinzioni teoriche del poeta, sono più narrate che rappresentate, sono temperate di grazia, addolcite dal lieto fine dell'amore di Aminta per Silvia, un lieto fine pressoché isolato nell'opera di T., che è presentito sin dal principio.
Tutt'altra cosa la Gerusalemme liberata. Sincera fu la religiosità del T. uomo, ma egli sentì Dio sempre come desiderio, non come possesso; tuttavia non osò cantare il suo slancio spesso vano, la freddezza del dubbio. Invece, volle persuadere sé stesso, prima degli altri, di possedere quel che non aveva: sicché, se non sono da negare assolutamente nella Gerusalemme liberata gli spiriti religiosi, è necessario ammettere che la religione vi si riduce spesso a splendore di riti, diventa formalismo esteriore, o si trasforma in superstizione. Mentre l'Aminta era schietta apologia della naturalità dell'istinto contro tutte le costrizioni, il poema ostenta la moralità più rigida, ma si avverte che T. non ha acquistato, e non acquisterà mai, una salda coscienza morale. T. è un poeta sensuale, e la sua sensualità si esaspera nella costrizione, ed è torbida ed estenuante; e le sta sopra assiduamente l'ombra della morte e del dolore: anticipazione romantica, nella quale T. raggiunge spesso i vertici dell'alta poesia. Come li raggiunge nel dar forma e vita a un motivo che gli è caratteristico: il destino in agguato. I suoi personaggi artisticamente più persuasivi sono appunto quelli che si confrontano con un destino fosco, della cui ineluttabilità sono ben consci. E sono gli amanti sprezzati o ignorati, disperati o persi dietro un sogno: Olindo o Erminia,
Una grande stanchezza incombe su T.; nel poema che narra tante morti, la morte non è mai rappresentata come qualcosa di desiderabile. La poesia invece o sbocca nel vagheggiamento di un mondo idilliaco, lontano dalle "inique corti", cioè lontano da quel mondo che era per T. il suo proprio, quello dove soltanto poteva vivere la sua vita in pienezza di godimento e di gloria; o si rifugia nel desiderio della quiete, dell'annichilimento, del "non pensare": supremo desiderio del "peregrino errante", che è anch'esso un presentimento della poesia moderna. Dalle moderne esperienze poetiche risulta altresì illuminato un altro dei caratteri della poesia tassesca, rilevato già dai primi critici, la scarsa concretezza fantastica; quella di T. è una poesia sfumata, fluttuante, che non plasma figure rigorosamente coerenti, non situazioni di plastica evidenza: carattere anche questo che anticipa da lontano esperienze romantiche e anzi decadenti. Torquato è ravvisabile in Olindo e in Tancredi, come lo si può riconoscere in Sveno o in Rinaldo o in Solimano: insegue, nelle vesti di quelli, il suo sogno d'amore impossibile; si esalta, opera, muore con questi per il sogno di una gloria impossibile. Un anelito verso l'altezza; un desiderio di primato assoluto; il tentativo di trascendere la realtà, la meschina vita quotidiana; il bisogno di spezzare le catene, di seguire l'istinto imperioso contro ogni legge; la coscienza dell'impossibilità di tutto ciò; l'evasione nello spettacolo coreografico, nell'idillio, nel fantasticare la bella avventura in paesi lontani, nell'immaginarsi protagonista di sovrumane prodezze; il ripiegarsi per piangere di sé stesso con femmineo accoramento; l'ombra della morte su tutto: questo canta l'autobiografica Gerusalemme liberata. La stupenda poesia di Ariosto non poteva avere storicamente sviluppo; era il frutto saporoso e ultimo di una civiltà e di una sensibilità poetica al loro tramonto; e infatti al di là di essa non vi fu che Tassoni, che rinnegò fino a beffarlo
Il Rinaldo è già un compromesso; la sua azione è unica, ma solo "per quanto i presenti tempi comportano"; obbedisce ai precetti aristotelici, ma solo a quelli "i quali non togliono diletto". Allo stesso modo, il poeta canta, e sono gli accenti più persuasivi del poema, la bellezza del corpo umano, la sensualità irrompente e irrefrenabile o ripiegantesi in languore, il lusso stupendo delle feste cortigiane: e premette a tutto ciò spiegazioni allegoriche. Ma la freschezza e l'impeto fanno del poema la cosa migliore che T. ci abbia lasciato se si escludono l'Aminta e la Gerusalemme liberata, dei quali anticipa motivi e movenze.
Per le sue numerosissime liriche encomiastiche, amorose e religiose, il poeta partì dall'ammirazione piena per il letteratissimo monsignor Della Casa, suo autore prediletto di gioventù; nella massima parte esse non testimoniano altro che la sua bravura di esperto artefice di versi. Poesia culta quanto altra mai, tutta la lirica di T.: la parte più viva di essa è nel vagheggiamento cupido o sereno della bellezza femminile, nella sapiente ingenuità dei madrigali, nell'abbandono melico, infine in quel caratteristico procedere per interrogazioni trepide o esclamazioni sbigottite, nelle quali il poeta esprime la sua angosciata meraviglia che il mondo sia così diverso da quello splendido e facile che egli si ostina a sognare sin quasi alla vigilia della morte.
Il giovane T. aveva lasciata incompiuta la tragedia di Galealto; la riprese e completò negli ultimi anni (mutandone il titolo in Re Torrismondo), desideroso di cimentarsi anche nell'altro grande genere di poesia; ma è freddo e impacciato, anche se il tema fondamentale è sempre quello che, dal Rinaldo in poi, lo aveva ispirato, il conflitto degli istinti con la regola: qui, con la legge dell'amicizia che Torrismondo viola, possedendo la donna destinata al suo amico Germondo. Quando poi si scopre essere quella donna, Alvida, sua sorella, l'orrore dell'incesto non è sentito dai due protagonisti, che si uccidono l'una perché si crede abbandonata, l'altro perché non può più vivere senza di lei. L'infelicità di Torrismondo non consiste, come nei Greci che T. imitava, nell'aver trasgredito alla legge morale, ma nel non poter godere della sua felicità: delusione di edonista, non rimorso di uomo morale. La Gerusalemme conquistata è il documento supremo e penoso dello sforzo tassesco di conciliazione. Soppressi gli episodî di Olindo e Sofronia, di Erminia tra i pastori, ecc., nei quali meglio nella Gerusalemme liberata si era espresso, maggior posto è lasciato alla religione formale, all'allegoria, all'imitazione omerica e virgiliana; tutto è levigato da un freddo processo di razionalizzazione e di regolarizzazione.
Quanto più T. procede negli anni, quanto più la vita gli nega quello che ha aspettato, quanto più aspre si fanno le sue traversie e gli si palesa l'impossibilità di trovare quaggiù un approdo, tanto più si volge a Dio. Ma la sua religiosità resta sempre quel che era nella Gerusalemme liberata: bisogno, non sentimento e possesso di Dio. Egli passa dallo scetticismo sereno e areligioso dell'Aminta alla Liberata, al formalismo della Conquistata, ai molti componimenti religiosi degli ultimi anni, al Monte Oliveto, al Mondo creato, un De rerum natura cattolico; ma le "cangiate rime" si fanno sempre più letterarie e fredde; e solo le avviva il senso sempre più desolato della caducità di tutte le cose. L'unica raccolta completa delle Opere di T. è quella curata da
La leggenda degli infelici amori di T. con Eleonora d'Este ispirò varî scrittori del 18° e 19° secolo, che videro in T. il prototipo del poeta solitario, infelicemente innamorato, vittima dell'ambiente in cui è costretto a vivere, incompreso e deriso dai potenti, oggetto di invidia: il prototipo dell'artista che, per essere tale, non può non essere infelice. Sul tema del T. scrissero