Torquato Tasso: Poesie - Introduzione

I Classici Ricciardi: Introduzioni (1952)

Torquato Tasso: Poesie - Introduzione

Francesco Flora

Alla poesia di Torquato Tasso, qualunque genere abbia egli trattato, dalle rime d'amore o di vario tema al canto pastorale dimesso, fino a quei madrigali che sembrano esalare la lor musica come le erbe dei campi la loro essenza: dalla grave epopea di spiriti eroici e tragici al canto severo e sacro che dice la creazione del mondo, consentirono tutte le Muse e le Grazie. E se una poesia vi fu mai di linfe musicali, e nell'antico significato liriche, questa si riscontra necessaria nel Tasso, per un dono che egli alimentò perennemente nella tradizione dei grandi scrittori toscani e degli antichi, sempre in essa scegliendo e ordinando il suo linguaggio e il suo tono, come è privilegio degli uguali e non degli imitatori. E sempre lo approfondì con vaste conoscenze di teorie filosofiche e di varia umanità.

Perciò il Tasso fu originale poeta anche nelle cose che di lui si dicono minori, e basterebbero a far maggiore chi soltanto quelle avesse scritto: dalle Rime al Mondo creato. Le prime gli assicurerebbero un alto luogo tra i lirici: il Mondo creato ha momenti di così alta fantasia cosmica che, se egli avesse lasciato soltanto questo poema un po' stanco, sarebbe pur da collocare accanto a Lucrezio.

Ma diventa errore di gusto e di giudizio voler contrapporre alla Gerusalemme liberata. in cui il Tasso toccò il più alto e pieno grado della sua poesia, le altre sue opere, compresa quell'Aminta che apparve ed è un prodigio, o quella canzone al Metauro che stupisce per l'intensità del tono.

Ciò mostrerà io credo per analogia diretta un succinto discorso sul poema, con qualche raffronto tra la lezione che si chiamò Liberata e l'altra che si chiamò Conquistata.

La prima idea del poema gli nacque forse nelle vaghe ambizioni dell'infanzia; ma a quindici anni egli componeva già il Libro primo del Gierusalemme. L'opera non venne allora continuata, ma l'idea lavorò nella memoria poetica del Tasso perché necessaria, non casuale, fin quando non si farà irresistibile ispirazione, e vorrà tradursi velocemente nelle forme vocali dell'ottava che erano ormai il metro narrativo rituale. Egli però le sentiva inarcate su un tono grave e fulgido, di cui la tradizione che s'era conchiusa nell'Ariosto, non poteva offrirgli intero modello. E in quel suo tono egli avvertiva la confluenza dell'esemplare dantesco nel «grave» e di quello petrarchesco nel «soave», ma trascritti in quella stanza di otto versi a cui recava un suo influsso perfino l'endecasillabo sostenuto benché prosaico dell'Italia liberata dai Gotti. Direi che da Bernardo Tasso suo padre egli derivava piuttosto alcune volute delle odi che non l'ottava dell'Amadigi o del Floridànte.

A quel primo libro del Gierusalemme in cui non si appagava la ricerca del poeta, seguì, quasi più agevole compromesso all'ansia precoce di comporre e dare alle stampe un poema, il Rinaldo che appariva prima che il Tassino (come lo chiamarono per distinguerlo dal padre) avesse compiuto i diciannove anni, ed era più ligio alla tonalità consueta, pur con qualche personale movenza. E intanto scriveva rime amorose, ove nel lume e nel suono del Petrarca e dei nuovi petrarchisti come il Casa, palpita già il patetico tassesco, quel modulare e armonizzare e inflettere che sono l'originalità d'ogni vero poeta. Anche studiava poeti e filosofi, sempre con prevalente animo poetico: e ne nasceranno, tra l'altro, i Discorsi dell'arte poetica, scritti, come egli dichiarò, quando aveva iniziata la Gerusalemme e lasciatola dopo i primi canti, discorsi che sono il preannunzio teorico e autobiografico del suo poema, di autobiografia tutta indiretta e segreta, ma ben palese a chi sappia penetrare in quelle pagine vivide e allusive. E avverrà più tardi che rielaborando quei discorsi i quali, accresciuti, diventeranno «del poema eroico», il Tasso che ha già compiuto la Gerusalemme, giustifichi, con altra e non meno segreta forma di autobiografia, l'opera propria.

Ma il poema di Goffredo o della Gerusalemme liberata, ripreso con impeto e con fuoco, era da dirsi già compiuto nell'aprile del 1575, pur con tutte le varianti che recava ai margini. Ne dava egli notizia a Scipione Gonzaga: «dopo una fastidiosa quartana, sono ora per la Dio grazia assai sano, e dopo lunghe vigilie ho condotto finalmente al fine il poema di Goffredo». (E tuttavia, pur mentre componeva il poema, non tralasciava di scrivere rime e prose, e perfino l'Aminta, e di iniziare il Galealto re di Norvegia donde maturerà la tragedia II Re Torrismondo.)

Se in Torquato Tasso, o anzi nella tonalità poetica nuova che prende il suo nome, confluì (meglio che in poeti a lui precedenti), accanto all'esemplare petrarchesco e dei classici cari all'educazione umanistica, il severo modello di Dante, ciò avvenne principalmente nel poema, che accogliendo passioni amorose e vicende eroiche le subordina e rinnova in un grave tema sacro, ove il poeta esprime la lotta stessa del vivere umano sottoposto alle contrastanti forze del cielo e dell'abisso, angeliche e demoniache. E il tema fu il riscatto del sepolcro di Cristo, per opera di cavalieri crociati: un'impresa storica, quale secondo la poetica del Tasso doveva fondamentalmente essere (o non avrebbe avuta dignità e autorità per diventar materia di poema eroico), iscritta in un «meraviglioso» foggiato come «verosimile» sul sovrannaturale della fede cristiana, che crede nei veri miracoli del Cielo e nei falsi miracoli dell'Inferno, e accetta la presenza di una magia naturale e di una magia demoniaca. Così l'opera delle forze del male assume i sembianti e gli andamenti delle passioni terrene, le soavissime attrazioni della bellezza negli amori, tra le gioie di tutti i sensi, atte a sviare le creature dalla missione che le rende umane e le salva dal vivere come bruti.

Così il Tasso, con una spontanea forma di coincidenza lirica tra il sovrannaturale demonico e le passioni umane, ha potuto conferire il senso del meraviglioso non più all'irreale (sia pure fondato sulle credenze della fede religiosa) ma al reale della vita: facendo a un tempo della bellezza e dell'amore terreni una metafora del sovrannaturale.

Quando Armida è vinta nelle sue arti d'incantesimo, vuol provare « se vaga - e supplice beltà sia miglior maga ». La bellezza è forza cosmica d'amore, e Armida si move ad usarla perché la donna innamorata è in lei più forte della maga avvezza nel suo cuore a ridere delle cupide turbe che la vagheggiano: e le arti d'amore che ella aveva adoperate come maga vogliono ormai diventare spontanea virtù della sua femminilità. Vero è che Armida ebbe sempre in sé la certezza di poter avvalersi delle sue doti femminili:

e far con gli atti dolci e co

più che con l'arti lor Circe o Medea,

e in voce di sirena a i suoi concenti

addormentar le più svegliate menti.

La profondità degli opposti sentimenti che chiedono di farsi luce in una raggiunta armonia svela nel Tasso una maniera intimamente religiosa di sentire la realtà. E a un punto il suo sentimento purificato della tragedia è simile a quello che egli racconta di Solimano nel canto ventesimo, quando con animo dolente e presago di lutto quel re pagano guarda dall'alto della torre la fera tenzone tra i pagani e i cristiani vittoriosi e, innanzi di affrontare la morte per l'ultima difesa, sente la tragedia del vivere umano:

mirò, quasi in teatro od in agone,

l'aspra tragedia de lo stato umano,

i vari assalti e il fero orror di morte,

e i gran giochi del caso e de la sorte.

Non per nulla il Tasso patì nell'intimo della sua coscienza un dramma religioso, e della crisi dello spirito umano che seguì al Rinascimento, e che con parole sbrigative è detta della Controriforma o del Concilio di Trento, fu, dentro di sé, la vittima forse più illustre. E chi legge con la dovuta attenzione la lunga lettera che indirizzò a Scipione Gonzaga nell'aprile del 1579, degna di alcune pagine delle Confessioni di Agostino, dalle quali trae spontanee movenze, troverà una penetrante guida a intendere la severità del dramma religioso che si adombra nella Gerusalemme. in quel contrasto tra il bene che spesso è doloroso e il male che spesso ha faccia lusinghiera: in quel senso tragico da cui è percorso tutto il poema nella lotta tra gli amori e la pietà della fede, tra gli incanti adescatori di magie demoniche e quelli tutti interiori del cielo cristiano, ispirati al dovere.

Del resto, anche per altri aspetti, il Tasso in quella medesima lettera al Gonzaga dipinse se stesso personaggio tragico: «…e come ingiusto contra me stesso (se contra a se medesimi si può commettere ingiustizia) sono trattato, e sono scacciato dalla cittadinanza non di Napoli o di Ferrara ma del mondo tutto, sì che a me solo non è lecito dire ciò che a tutti è lecito, cioè d'esser cittadino de la terra: escluso non solo da le leggi civili ma da quelle de le genti e de la natura e d'Iddio». Sono parole ch'egli scriveva al tempo della prigionia, ma rispecchiano quel motivo del suo sentirsi «escluso», che si ritrova anche nella canzone al Metauro e che non riguarda solamente quell'atroce periodo. Esse formano l'immagine di un personaggio eroico, perseguitato dalla sorte, dagli eventi, dai singoli uomini. Di questo personaggio egli fece per molte figure lo stesso viso.

E in quel tema sacro, così vicino al perplesso animo di un poeta che non fu mai ateo ma dubitò che il mondo fosse ab aeterno e perciò non creato dal Dio personale, e volle appagarsi in una fede assoluta, e si accusò delle sue colpe per interno timore e non già per tema dell'Inquisizione alla quale volontario si confessò, lo svolgimento dei cicli cavallereschi della poesia universale si coronava in una gesta spiegatamente religiosa. La cavalleria che protesse gli innocenti e sopra tutto le donne e ne fece una scala al cielo (chi certe avventure lascive consideri soltanto deviazioni dell'umana fragilità), la cavalleria che sostenne già la gran lotta tra i Mori e Carlo con l'esercito dei suoi paladini, compie ora la più pia delle imprese a riscatto del sepolcro di Cristo dagli infedeli. E cavaliere supremo è colui che, sentendo le dolci lusinghe della vita e tutti gli affetti terreni, saprà in fine sacrificarli per l'ideale religioso.

E come non avvertire in ogni piega del verso del Tasso la severità dei contrasti ? in ogni sua antitesi (che non è, tranne rari casi, il concettino di meccanica bravura a cui si dedicheranno i secentisti) la densità delle parole attinte a una sorgiva profonda e dolente?

Di questo dramma il tema sacro della Gerusalemme è l'immagine ove l'animo del poeta meglio si equilibra e trova un riposo di armonia, pur con qualche trepido oscillare, ma spesso con la serenità di una quieta preghiera.

Troppe volte è stato detto che il tema di simile epopea non poteva esser genuino, perché nessuno nell'età del Tasso (e ciò del resto è storicamente non vero) poteva credere a una nuova crociata, quale egli, adulando Alfonso d'Este, augurava. Quasi che le credenze dei poeti si possano accertare in altra sede che non sia quella della loro poesia e cioè in altro documento che non sia la loro coerenza lirica. E il Tasso ha ben creduto alla crociata nel regno della sua poesia, quanto il padre Dante nella Commedia credette di compiere il viaggio per i regni dell'inferno e del paradiso: quanto un Manzoni credette nella favola secentesca (un tempo ch'egli non poteva aver vissuto) di Renzo e Lucia. Ma quando mai i poeti cantarono il reale senza trasfigurarlo? Il mondo ch'era intorno al Tasso, la corte e ogni altra società, e le figure nei lor paesi, ad ora ad ora si tramutavano in cavalleresche visioni di remoti guerrieri e donne e amori, nobilitati per adesione o contrasto dalla presenza religiosa della crociata, che rendeva sacra anche la guerra: ed eran le figure del suo desiderio che viveva miti passati e creava i futuri. Perfino il principe a cui il poema è dedicato diventava nella fantasia un eroe, il magnanimo Alfonso che guida una novella crociata: la poesia purificava finanche l'adulazione di corte. La verità di quell'armonia artistica a cui l'animo del Tasso tendeva come al suo polo, diventava più vera della cronaca che intorno poteva gracidare con piccoli uomini e piccole miserie di corte. La misura del poeta era favolosa, come di colui che dopo aver letto l'Iliade vedeva gli uomini tutti cresciuti di un cubito. Con l'animo riflesso o politico o morale, uscito il Tasso dalla sua sfera lirica, avrebbe dissolto nell'analisi di storia e logica e azione e grammatica tutto il suo mondo poetico: con l'animo lirico lo rendeva incorruttibilmente vero e perenne di là da certo spazio e tempo, in un ordine in cui il mondo terrestre è soltanto una memoria. Può il musicista, di là dalla presenza della sua sfera sonora e ritmica, in cui tutto è desiderio e larva del tempo caduto o venturo, credere nella realtà logica e pratica d'un adagio o di un andante? Ecco una domanda che contiene in sé la risposta, e dovrebbe imbarazzare coloro che indagano con disperato equivoco se un poeta poteva oppur no credere alla realtà di eventi e di figure ch'egli elevava a canto.

Accusato di «imbrattare istoria pia» secondo le parole dell'Infarinato, il Tasso non mutò veramente nella rielaborazione del poema i luoghi che potevano sembrar licenziosi, quali sono certi momenti dell'amore di Armida o certi inviti al piacere che egli concepì come rappresentazione delle forze del male; ma cambiò qualche sentenza che poteva generar equivoci di pura materia religiosa. Se il male non assumesse tutte le forme più gentili e seducenti della vita terrestre nella sua attrazione d'abisso, quale lotta si svolgerebbe dal centro del poema? e da quale incanto sarebbero sviati i fedeli di Cristo? Il Tasso sentiva la lotta di forze positive, e contrappose a un prologo in cielo un prologo nel concilio infernale, donde si svolge tutta la macchina del poema.

Materia tragica son gli amori per il Tasso, com'egli asserì. E qui a renderli tali è l'uso magico che le forze demoniche ne fanno contro gli eroi cristiani principalmente per trarli ad amori verso le donne pagane e allontanarli dal loro ufficio di liberare il sepolcro di Cristo. E in quel contrasto tra le dolci forze carnali e il dovere obliato s'insinua spesso il patetico della voce tassiana.

Tragico è l'inappagato amore di Erminia per Tancredi. Tragico l'amore di Rinaldo per Armida ch'egli crede donna ed è maga: tragico l'amor di lei per Rinaldo quando la forza genuina della sua femminilità sopravvanza anche quella demonica della maga. Ma tragico su tutti è l'amore di Tancredi per Clorinda, eroina pagana, poiché un destino più grave dell'antico fato vuol che involontario egli uccida la donna amata. E se le forze celesti vincono alfine e Clorinda morrà cristiana e Tancredi continuerà la lotta da cui l'amore poteva sviarlo, non questo può mutare il senso tragico delle cose. Anche gli altri amori, più direttamente suscitati per trarre a rovina l'impresa cristiana, si conchiudono con la vittoria della fede.

E con quale arte è condotta ognuna di queste tragedie! quella, poniamo, di Clorinda e Tancredi, sulla quale conviene alquanto indugiare, anche come esempio della composizione tassesca, piena di corrispondenze tematiche, sempre destate da necessità poetica.

Guerriera che fu allattata da una tigre e si cibò di midolla di leoni è Clorinda, e tuttavia donna dolcissima: e sotto la corazza ella ha veste trapunta d'oro che tenera e leve la stringe. Guerriera e donna, si commuove alla sorte di Sofronia e Olindo: e donna si rivela in certi stupori, in certo levar d'occhi, in certi improvvisi sbigottimenti della morte che come guerriera non teme: e donna si svelerà accorata e serena, quando invocherà da Tancredi il battesimo e dirà: «Amico, hai vinto».

Già il poeta considera infausto annunzio che Clorinda, per recarsi di notte a incendiare le macchine cristiane, vesta spoglie rugginose e nere, invece delle sue inteste d'argento e dell'elmo adorno e dell'armi altere: la fatalità che preme su di lei è espressa anche dallo sgomento del suo fido Arsete che in un presentimento oscuro la supplica di rinunziare all'impresa, e trovandola ritrosa non esita a svelarle che ella è nata da madre cristiana. Ostinata è Clorinda innanzi a quel servo affettuoso; ma lo ascolta e «inalza attenta il ciglio»: più tardi il poeta dirà che ella pensa e teme. Così ella conosce di esser figlia di Senapo imperatore d'Etiopia e della pia sposa di lui, geloso sì da volerla nascondere anche agli occhi del cielo. Bruna è quella donna, ma Clorinda nasce bianca: e la madre temendo che il marito creda la bimba frutto di altro amore, la affida ad Arsete, lo prega di battezzarla, invoca in una dolce preghiera che la figliuola abbia l'onestà, non la fortuna, della madre.

Qui tacque: e 'l cor le si rinchiuse e strinse,

e di pallida morte si dipinse.

Clorinda è turbata da quel racconto, ma seguirà la sua via. E quel servo che insieme le fu padre, incalza per distoglierla dall'impresa, e le racconta come un guerriero celeste, la cui immagine era venerata dalla madre di lei, gli è apparso in sogno per dirgli che ornai Clorinda muterà vita e sorte:

ed ella pensa e teme,

ché un altro simil sogno il cor le preme.

Poi rasserena il volto: continuerà nella fede che ora le par vera: non è lecito a un cuore magnanimo abbandonare l'impresa:

non se la morte nel più fier sembiante

che sgomenti i mortali avessi inante.

E qui la parola « morte » aggiunge un color funebre ai suoi pensieri. Ed ella «consola» il fido servitore piangente: che è particolare di dolce tenerezza femminile nella intrepida guerriera. Ma il dubbio è entrato nel suo animo, e già il poeta prepara così la trama della conversione finale di Clorinda. E se forze celesti, quelle invocate dalla madre di lei, son presenti nell'epilogo della sua conversione, esse hanno agito per le vie dell'umana psicologia. L'imminenza della morte è rivelatrice di verità, e la memoria materna dal racconto del fido servo illumina l'agonia di Clorinda e le suggerisce le estreme parole e la domanda del battesimo. Così dalla morte della madre cristiana alla morte della figlia che nel punto del trapasso ritrova la fede materna, la parabola è compiuta. Anche in quel medesimo punto l'ignota parabola d'amore. Clorinda, amata dal guerriero che l'ha tratta a morte, s'accorgerà di quell'amore nel punto stesso di morire, e lui chiamerà: «Amico». Così ella conosce l'amore e la morte nel medesimo estremo d'agonia: e l'invenzione poetica di questo rapporto di amore e morte è tra le più alte e patetiche della poesia universale. Avverrà anzi che l'amor vero di Clorinda si annunzi soltanto dopo la morte di lei in un sogno dell'innamorato cavaliere. Ma egli ha pur avuto l'ufficio più altamente amoroso di schiuderle col battesimo la vita immortale.

Parole dai suoni forti e parole molli, le prime ad esprimere il senso guerriero e le altre il senso femminile di Clorinda, si alternano: così l'orribile tigre diventa mansueta e materna, e con la lingua fa vezzi a Clorinda bambina, e costei ride e la accarezza:

ed ischerzando seco, al fero muso

la pargoletta man secura stendi.

Paesaggio notturno s'addice a quella luttuosa tragedia d'amore e di morte in cui Tancredi ucciderà ignaro la donna amata: e il poeta invocherà la notte che nell'oblio chiuse fatto sì grande: alla vicenda che sta per cantare egli addice anche una sua vocalità notturna, quasi di diffuso incubo, che reca appunto figure e suoni notturni. E bellezza di poetico contrasto è poi l'apparire del primo albore sui due che ciecamente hanno combattuto nella notte (e anche questa lotta sotto scuro cielo è una oscurità dell'anima): una trepida pietà infonde il poeta a quella luce nuova e al languore dell'ultima stella:

Già de l'ultima stella il raggio langue

al primo albor ch'è in oriente acceso.

Claudio Monteverdi, a mio avviso, nella musica del Combattimento di Tancredi e Clorinda ha poeticamente illuminato il sentire del Tasso, quella che ho detto vocalità notturna, e la sua musica può essere assunta da noi, in altra sede, come un suggerimento della verità critica.

Il poeta crea dunque l'aura e il paesaggio d'ombra per la tragedia di Clorinda e Tancredi, che è la più profonda del poema: principalmente crea il senso interiore di una fatalità che le cose sembrano interpretare come simboli in una arcana attesa.

Il tema di Clorinda ha i suoi ricorsi ideativi di figura e di suono in parecchi motivi. Dapprima quelli della fonte, presso la quale Tancredi la vide nel primo incontro, e della fonte a cui, dopo averla inconsapevolmente ferita a morte, egli attingerà l'acqua per battezzarla. Poi i motivi della notte. Infine quelli della morte.

E già ad Arsete, il sogno premonitore di eventi luttuosi per Clorinda, si offrì nell'alta quiete «simile a la morte». Il celeste guerriero gli ha detto in sogno: « l'ora s'appressa - che dèe cangiar Clorinda e vita e sorte », preannunzio di quei due versi che ne saranno l'eco:

Ma ecco ornai l'ora fatale è giunta

che

E alla morte della madre che invocò innanzi di morire il battesimo della figliuola, risponde la morte cristiana di Clorinda. Tragico sarà ancora una volta l'amore di Tancredi verso la donna ch'egli stesso ha ucciso, quando per la magia demonica gli parrà nella selva incantata udirne la voce dall'albero ferito.

E questo è uno spontaneo rispondersi di motivi conduttori, specie di ideali rime, che creano il procedimento sinfonico dell'arte tassesca, assai somigliante al procedere dantesco.

Osservare alcuni modi di uno stile, che tutti concorrono ad una sintesi tonale in cui consiste l'originalità di un tanto poeta, è per noi una maniera di riprendere, con nuovi spiriti, le controversie di adesione e di ripudio che la Gerusalemme.destò al suo apparire; ma si vedrà poi che nessun elemento particolare di contenuto o di forma, di lessico o di sintassi può valer per se stesso, e sempre in certa maniera vuol richiamare tutti gli altri, senza i quali il suo stesso carattere rimarrebbe ineffabile.

Innanzi tutto il Tasso pareva spontaneamente rimescolare tutti i generi che la puntigliosa casistica letteraria cinquecentesca aveva ordinati, e tutti farli tributari del genere lirico, sì da infondere alla vecchia ottava narrativa una frequenza di modi patetici e musicali che non s'era mai avuta in tal grado, ed era stata rarissima nell'Ariosto. E la gravità dei modi tragici, come di un organo austero e dolente ove è pure una dolcezza pia, sostiene il canto dell'ottava tassesca nella vicenda di affetti eroici in cui più s'addensa l'epicità o il vago mito della sua essenza. Nella lode o nel ripudio della Gerusalemme agisce, sebbene non palese alla spiegata coscienza critica, lo stupore per questa novità tonale. D'altra parte rientrava nella poesia una forza di pensiero, che movendo dalla filosofia e dalla teologia s'era convertito nel sentire stesso e nell'immaginare del poeta, né tanto per quelle esplicite sentenze che i posteri avrebbero trascelte e usate come proverbio, quanto per la composizione stessa delle metafore e delle antitesi in cui spesso si riflette l'idea del contrasto originario tra il bene e il male, la verità e il suo opposto. E questo adulto pensare che traspariva nelle modulazioni e nelle figurazioni del canto, doveva creare il sospetto e le diffidenze di chi era avvezzo a una più scoperta poesia, quella conversevole del divino Ariosto, di lealtà sicura e provatissima, senza ambagi di pericolosi impegni filosofici, sia pure trasmutati in musicali immagini.

E certo, pur in opposizione tra loro, le controversie testimoniavano la presenza irrecusabile di una originalità che agli uni parve un acquisto e agli altri una perdita. L'acrimonia a cui talora si giunse può certamente spiacere, ma aguzzava gli ingegni a spiritosi motivi: ed è da dire, che pur tra gli eccessi, la ragione prima dell'una o dell'altra posizione polemica era del tutto genuina.

Non mancarono equivoci nella contesa della Crusca e del Tasso, e principalmente quello derivato dall'aver Cammillo Pellegrino nel suo dialogo II Caraffa ovvero dell'epica poesia posto il malaugurato confronto tra l'Ariosto e il Tasso, dando a quest'ultimo la palma della poesia eroica. Eppure anche quel parallelo, dai termini così impropri e fallaci (perché ogni poesia è per se stessa incomparabile), significava la presenza di un'onda e di una voce nuova nella storia della poesia. La Crusca si trovò a difendere l'Ariosto contro il Tasso, e veramente fu piuttosto sollecita di accusare con accademica perseveranza il nuovo poeta, soprattutto in fatto di elocuzione; ma non esitò finanche ad affermare «ch'e' copiò una storia già scritta e pubblicata da più d'un autore», il contrario dell'accusa che altri gli fece di non rispettare abbastanza la storia.

Anche accusò il poema di lascivia, giungendo per malignità a osservazioni sottili. Così di Rinaldo che ritrova Armida, dopo averla abbandonata nel castello, e promette d'esser suo cavaliere, quanto concede la guerra e con l'onor la fede, la Crusca argomenta l'animo ancor lascivo dal verso:

in cui pudica la pietà sfavilla.

E noi veramente sentiamo in quel verso l'umanità di Rinaldo verso la donna ch'egli non può non amare, l'umanità malinconica e cavalleresca del Tasso. Ma indirettamente l'Infarinato aveva avvertita la ricchezza di tacite allusioni in quella pudica pietà che sfavilla d'amore.

E l'Infarinato dichiarava: «Il Goffredo esser quasi per tutto non magnifico ma scabroso, non poco chiaro ma sepolto nella scurezza: in niun luogo con energia: in niun luogo con dileticamento non che con sollevamento di passioni: in niun luogo senza fatica, senza noia e senza difetto».

Il Tasso che fa professione di magnifico e di gravissimo, ha secondo la Crusca modi e versi bassi quanto alle voci e al suono: e l'Infarinato ne cita parecchi come:

Dell'opere notturne era qualcuna.

Terra di biade e d'animai ferace.

E di fosse profonde e di trincere.

Mesce lode e rampogne e pene e premi.

E da' vagheggiatori ella s'invola.

E noi non s'intende dove sia la bassezza o il languore di simili versi. Dell'ultimo, anzi, la Crusca dice che è tolto in parte dalla Beca e dalla Nencia. Cita poi

Ma perché più v'indugio? itene o miei,

e commenta: «Con l'indugiare in attivo significare, ch'è in tutto sua creatura». E aspro e saltellante vien detto in genere il verso del Tasso.

Aveva scritto il Pellegrino che il Tasso «per dimostrarsi maestro nelle maggiori difficultà di poesia, in quanto appartiene alla locuzione fa sempre scelta di parole gravissime di sentimento, e pur che sieno significanti, non ha riguardo che sieno latine, nuove o composte»: «adopra gli aggiunti con si raro giudizio che diffidi cosa è trovarne in tutto il suo poema un solo ozioso».

E la Crusca ironizza: «Bel linguaggio, così almeno sarà egli stato autore d'una nuova foggia di scrivere». E reca poi esempi di aggiunti a suo credere oziosi, come

Pensa tra la penuria e tra 'l difetto,

ove penuria e difetto sarebbero la stessa cosa: ed è chiaro che non sono.

La Crusca si appunta contro epiteti che sarebbero improprii: breve invece di picciolo, e guardingo per avvertito :

E tacito e guardingo al rischio ignoto,

che, sia detto con pace della Crusca, è mirabilmente espressivo.

E continua biasimando pietoso per pio, mattutino, fabbro, pascere il digiuno per satollarsi, empire il difetto per supplire al difetto, maravigliando per ammirando (e si tratta invece di intendere maravigliandosi), reca per porta, imperi per comandamenti, accoglienze per dimostrarne, vendemmiare e mietere a chi che sia, aurata (che ad avviso della Crusca significa indorata) per aurea.

Giungeva la Crusca a togliere la pausa e lo spazio tra l'una e l'altra parola del Tasso per farne intendere i cattivi suoni, e appiastricciando per suo conto i vocaboli asseriva che così li univa il Tasso: «buona parte delle parole paiono appiastricciate insieme, e duo o tre di loro ci sembrano spesso una sola di niuno o lontanissimo sentimento di ciò che si aspettava dalla continuazion del concetto». Ed ecco un elenco dell'Infarinato donde trarrò qualche esempio: checcanuto, ordegni, mantremante, impastacani, vibrei, rischiognoto, crinchincima, tombeccuna, incultavene; ed intendeva: che canuto, or degni, man tremante, in pasto a' cani, vibr'ei, rischio ignoto, crin ch'in cuna, tomba e cuna, inculte avene. Non era un procedimento leale, ma è vero che una franca e spregiudicata maniera di comporre i suoni si avvertiva nel Tasso, una specie di spontanea riforma musicale nel seno della poesia, che doveva turbar la Crusca, intenta a biasimare, più che altro, l'uso continuo di quei modi.

Non latine ma pedantesche e fidenziane eran per la Crusca le voci del Tasso. «Se nel Goffredo fosser cento voci straniere si salverebbero per questa via [lasciando per brevità le preposizioni]: ma il fatto sta che straniere son la più parte: straniere diciamo secondo lui, perciocché queste che qui si chiaman latine non son parole d'alcuna lingua, onde di quelle lingue, cioè parole straniere, non possono essere di che intese Aristotile per aggrandimento della favella dell'epopeia: né anche le lombarde, le quali per la più parte non sono parole ma barbarismi della medesima lingua. Pellegrine sarebbono le francesche, le spagnuole e anche le latine pure e le greche. A picciol numero adunque si ristringono nel Goffredo le parole e i modi di questa lingua, perché chi ne levasse, oltre alle dette pedantesche e lombarde, alcuni particolari che vi si trovano in ogni stanza, siccome serpere, torreggiare, scuotere, riscuotere, precipitare, la guarda, breve, trattar l'armi, mattutina, notturna, vetusto, ahi, capitano, legge il cenno, vide e vinse, augusto, diadema, lance per bilance, fora, ostile, mercare e susurrare, comeché anche buona parte di queste ripor si possano tra le primiere, leggier fatica si prenderebbe chiunque del rimanente formar volesse uno stratto».

Non era diffìcile mostrare, ad esempio, che le voci censurate come pedantesche son latine, e anzi, come il Pellegrino scrisse, nostrali e usate anche dai toscani: finanche la voce bombo, che il Tasso usò, è derivata secondo ragione dal latino: e indugiare, in senso attivo, si trova anche in Dante e nel Boccaccio, sebbene l'Infarinato recalcitrasse affermando che si trattava di un neutro che sottintendeva altro verbo attivo. Il Tasso, come più volte fece, avrebbe potuto rintracciare tutte le sue parole negli scrittori precedenti e magari nei tre maggiori toscani. Come lettore di produttiva memoria, il Tasso era forse anche più dotto dei suoi critici in fatto di testi, e lo mostrano le sue annotazioni; ma egli aveva scelto anche nel linguaggio dei grandi toscani ciò che secondava la propria novità espressiva e tonale, e non esitava a rimescolarlo con le voci e i modi più recenti d'ogni provenienza, purché significanti e bene adatti al suo respiro musicale, o tornando a forme più latine, magari desuete.

Aveva bisogno di crearsi il suo stile alto, grave, severo, o, come si diceva, magnifico; e pur nutrito d'ogni virtù tradizionale, univa nell'epopea modi e parole d'ogni genere poetico, dal tragico fino al lirico, e ne accoglieva dall'uso presente di professioni ed arti, come quella parola «capitano» che soltanto l'audacia e l'autorità di un uomo di genio poteva allora far risonare nel primo verso del poema. Nasceva un cantar nuovo, che forse rapiva anche gli avversari in quanto seguissero l'onda poetica, ma doveva turbare i loro sonni scolastici e irritare la loro riflessa erudizione. La Crusca aveva ben ragione di reagire, sopra tutto per la lingua, perché veramente col Tasso si generava un nuovo tono poetico, a cui l'Accademia, custode di nette tradizioni linguistiche, non era preparata: e il frullone impazziva, e il Vocabolario, che doveva nascere alcuni anni dopo, rischiava di non poter essere neppure concepito.

Entravano nella lingua, con libertà nativa a un tempo e riflessa (la riflessione assorbita e rifatta spontaneità), modi sintattici e lessicali antichi e moderni d'ogni specie italiana. Anch'egli chiamava toscana la lingua italiana; ma di Dante, del Petrarca e del Boccaccio scelse come abbiam detto e adottò i modi che più gli si addicevano sicché non parve più toscano alla Crusca l'impasto che ne nasceva, e per verità non era. E ormai accanto ai grandi scrittori toscani c'erano i grandi scrittori d'altre regioni: il Tasso parve riassumere in sé le linfe e gli umori di tutti costoro al punto risolutivo, e nel tempo stesso maturare il frutto della grande tradizione toscana. Col Tasso comincia una più liberale lingua italiana che il Seicento sveltirà: liberale nei toni gravi, liberale in quel parlato che dall'Aminta passerà pur mediante il filtro metastasiano nell'ode leopardiana.

Il linguaggio del Tasso ha tutti i pregi che come difetti gli furono addebitati dalla Crusca: ed ha un impeto gioioso che tuttavia si esprime nella mesta voluttà del canto.

Due versi del poeta medesimo potrebbero addirsi alla sua arte, così spontanea e così ricca dei richiami dell'arte precedente: quelli in cui del giardino di Armida egli disse:

Di natura arte par che per diletto

l'imitatrice sua scherzando imiti,

ove la natura imita a sua volta l'arte che è sua imitatrice. Mentre è qui già posto quel paradosso che fu caro a qualche scrittore dell'estremo ottocento, della natura imitatrice dell'arte, è anche indicato uno stimolo che aiuterà a intendere l'arte del Tasso: la sintesi che egli attuò di una severa disciplina nelle arti del dire e di una spontaneità tutta ispirata e naturale, ove assai spesso la spontaneità imita l'arte e l'arte imita la spontaneità.

Quella sua virtù di sommuovere tutte le parole e proposizioni dando ad esse un altro rilievo e suono, nel procedimento armonico della sua melodia sovrana, si manifesterà magari in minime cose: qui nel conferire a verbi consacrati solitamente come intransitivi un valore d'azione o viceversa (Ma perché più v'indugio? in significato attivo, maravigliando per maravigliandosi), qui in certe alterazioni del genere (nuvoli), qui nel congiungere una particella a un vocabolo per dargli opposto significato (insepolte), qui nel valersi della negazione allusiva e più lenta invece del verbo diretto:

Non si destò sin che garrir gli augelli

non sentì lieti, e salutar gli albori.

ove non adoperando la forma spiegata («si destò, sentì») il poeta allontana il racconto in una più vaga favola.

E forme come « ascendere un cavallo », « trattar l'arme », « empire il difetto», biasimate dalla Crusca, si scostano dall'intelligenza popolare (per usar le parole di Malatesta Porta), ma con ragione poetica di tono: e il Porta appunto poneva in rilievo la «sceglitura delle voci» e gli «aggiunti»: e «insomma in tutto ciò che ad eroico e sovrano poema era convenevole, mirabilmente il Tasso adoperò, e tutto conseguì », al punto di aver «tolta la speranza a tutt'altri di più avanzarsi, anzi di pure andar lui del pari».

Vi son parole tematiche nel Tasso: e intendo le più spontanee al suo eletto lessico interiore. E già in recenti studi furono sapientemente poste in rilievo alcune voci frequenti delle sue ottave: ignoto, incognito, inconosciuto, infinito, innumerabile, immenso, ruina, solitudine, ermo, solitario, solingo, deserto, antico (nude solitudini, ignoti abitatori, ignote isole, ignoto polo, immense solitudini d'arene, del cielo i campi immensi, amore antico, antica selva) ecc.

Certo vi son casi in cui alcune tra queste parole che ho dette tematiche, come alto, almo, grande (alte porte, alte fiamme, alte selve, alte vittorie, alto desio, alti pensieri, alte memorie, gran caso, gran pensier, gran regno, grandi eroi), sono piuttosto un'abitudine letteraria che una urgenza espressiva e tonale: e spesso hanno l'ufficio del colore neutro per far meglio rilevare altre voci.

Ma altre parole tematiche, oltre parecchie di quelle che son già citate innanzi, hanno un valore tonale nello stile del Tasso: adorno (nome adorno, detti adorni, teatro adorno, e perfino: adorno male), altero (altero capo, altera forma, altera mensa, genti altere, «e quanto è in lei d'altero e di gentile»), atro (atro sangue, atra foresta, atra caverna, atre faville), avaro (e dirà dello sguardo studiatamente schivo di Armida: «stassi l'avaro sguardo in sé raccolto»), dubbio (come sostantivo e più come aggettivo: dubbio cor, dubbia l'aurora), notturno (nei più vaghi e inusitati modi : notturni gli eroi che circospetti muovono nella notte, notturni i fatti non conosciuti), nudo, ignudo (dalle nude solitudini alla chioma nuda al vento), orrido, orribile (orrida maestà di Plutone, orribil forme, orribil chiostro), orrore (insino ai luminosi orrori), povero (sotto povero ciel), suono (nelle più varie accezioni), segreto, tacito (sino alle tacite colpe). Sopra tutte le voci prevale il vocabolo fero. Credo che, di là da una ricerca statistica, se alcuno mi chiedesse la parola dominante nel Tasso, risponderei, appunto, la parola fero. con quel suo senso di ferità guerriera e selvaggia e di alterezza morale (fero aspetto, fera bocca, fere mani, fero avviso, feri colpi, fero mostro, caso fero, audace e fero, fero trace, fero Sveno, fero Argante, fero orror di morte). E si potrebbe continuare a lungo.

E quali eleganze nell'uso dei verbi: se dica di Armida, ad esempio:

Ella d'un parlar dolce e d'un bel riso

temprava altrui cibo mortale e rio.

Ove il verbo temprava è tolto alle voci della tecnica musicale più che d'altra parte. Ed è il verbo stesso che serve a indicare il canto degli uccelli nel giardino di Armida, come essi armonizzino e accordino le loro note con l'aura (la music'ora) che fa garrire le foglie e le onde:

Vezzosi augelli in fra le verdi fronde

temprano a prova lascivette note.

E quali eleganze nell'uso dei casi: se, ad esempio, egli dica:

Solo a Rambaldo il persuade,

adoperando non il moderno nostro accusativo ma il dativo latino.

Talvolta trae partito dalla parola che ha significato ambivalente, come quando nella Conquistata i guerrieri stupefatti, nella spelonca del mago naturale chiedono:

e di quel che veggiam, qual sogno ed ombra,

dotti ci rendi, e lo stupor disgombra.

E qui «ombra» non dice soltanto oscurità e diminuita presenza di luce, ma fantasma, larva di anima sciolta dal corpo e perciò non reale: e quei sensi diversi son come strati che traspaiono nella parola.

La gravitazione di suoni così giovani, la velocità dei contrapposti e delle rispondenze, hanno l'assertiva necessità delle cose di natura, e tuttavia sono studiate in prezioso artificio. Così, ad esempio, quando di Erminia che fugge e va errando per la notte, il poeta dice:

non udendo o vedendo altro d'intorno

che le lagrime sue, che le sue strida.

par che, in una rispondenza di spole incrociate, al vedere rispondano le strida e all'udire le lagrime, e ne nasce una vaghezza attonita proprio per l'interferenza del senso fonico e di quello visivo; ma nulla è casuale e tutto è governato da un'arte sapientissima.

La natura così spontanea nel Tasso non è mai di una greggia immediatezza, sebbene serbi nell'arte così esperta di lui la memoria dell'impeto primo: quasi come l'Egeo che egli evoca, già scosso e rivolto dal Noto o dall'Aquilone, non si accheta quando il soffio smisurato di quei venti è finito,

ma

ritien de l'onde anco agitate e grosse.

Talora gli basta sostituire alla parola più esatta una voce affine che però si adoperi principalmente per un altro ordine di cose o persone. Così «pelle» si dice dell'uomo e «scorza» dell'albero; ma dei colpi amorosi di Armida nel campo cristiano, il Tasso dirà ch'essi a Rinaldo

più lenti

non hanno il petto oltra la scorza inciso.

E la parola «scorza» allontanandosi dalla immediatezza che avrebbe la parola «pelle», troppo svelata e scoperta, crea, anche col suono, una spontanea eppur preziosa metafora.

Rari poeti ebbero tanta densità nel concentrare in una stanza o nelle sue varie articolazioni, per periodi estremamente agili e vari, con figure minori o con particolari rilievi timbrici o con insolite virtù ritmiche, una serie di idee, talvolta con i loro contrapposti :

Or mi farebbe la pietà men pio,

s'anzi il suo dritto io non rendessi a Dio.

(E nella Conquistata «rendessi» diventa «solvessi».) Così gli avviene di congiungere un aggettivo e un sostantivo contrastanti, giungendo ad attonite delicature, che hanno tuttavia l'evidenza di un fatto di natura, come quella che nella Conquistata.farà dire ad Erminia, pensando ella a Tancredi: il nostro adorno male.

Altre volte con elegante vaghezza trasporta in un aggettivo il sostantivo, come quando a proposito di Clorinda dice: «la pargoletta man» (un'espressione che si ritrova nell’Aminta), ove l'immagine della bambina è addetta alla sua mano, con l'efficacia che si può riscontrare per contrasto se uno dica «piccoletta mano» perdendo la gentilezza e a un tempo l'esattezza dell'espressione tassesca.

Così quando egli scriva:

Escoti notturni e piani

non inventa l'aggettivo « notturno » ove è trasportato il sostantivo della notte, ma se ne avvale con nuovo accento riferendolo a persone: e stabilisce un'ombra di diverso colore nel buio della notte: aduna poi le idee concomitanti di cautela e di insidia che la voce « piani » spiegherà come senso del movimento e come assenza di rumore.

Per una superiore sprezzatura musicale, o anzi per più aperto sentire musicale, il Tasso non considera dissonanti alcuni accordi verbali che il tempo suo non aveva voluto accettare, benché proprio da quell'età cominci nella musica (ed è forma parallela alla spregiudicatezza fonica del Tasso nell'ambito delle parole) un riscatto di suoni ch'erano arbitrariamente reietti dalle ferrate regole della scuola.

Avverti talora certe durezze espressive, incagli verbali che proprio da quell'intoppo traggono la loro forza:

prima che

Ed è ben raro gli avvenga di cadere in fortuiti incontri o involontarie allitterazioni, come una volta «al sommo vassi, disse». Si potrebbe anzi, dalle sue sempre vigili allitterazioni, cavare in anticipo sui moderni una teoria del musicismo verbale.

Con una inflessione della voce, il Tasso riesce a sollevare in una sfera poetica anche la più ritrosa materia. Felicità di certi versi nascenti sulla geografìa, come quelli riguardanti il Nilo che porta per grandi e piccole foci le sue acque al mare, tributo di celesti umori. E tacerò il viaggio tutto poetico alle Isole della Fortuna, per ignoto mare, con quella ideale topografia che ha l'evidenza del vero e il desiderio profetico del futuro. Talvolta parrebbe che egli modulasse la luce, se, ad esempio, descriva il colore delle piume intorno al collo della colomba, seguendo il moto che imita d'attimo in attimo un diverso lume: e l'ottava ha la levità della tacita luce che vien cangiando:

Così piuma talor che di gentile

amorosa colomba il collo cinge,

mai non si scorge a se stessa simile,

ma in diversi colori al sol si tinge:

or d'accesi rubin sembra un monile,

or di verdi smeraldi il lume finge,

or insieme gli mesce, e varia e vaga

in cento modo i riguardanti appaga.

Che direi dei temi patetici o naturali che più lo attraggono? Le notti, le albe, il solare meriggio? e quel richiamo della selva, in cui tra l'altro si concentra quel motivo georgico che contrappose lo stato di natura alla civiltà corrotta delle corti: la selva della fuga di Erminia, la selva incantata e quella del regno di Armida. E poi sorgenti, ruscelli, fiumi, fontane: le chiare e lucide acque che sgorgano dal vivo sasso e diventano rivo che volge «lo strepitoso piè tra verdi sponde», sino alla fonte del riso e al rio delle false sirene, tutti richiamati per un rapporto quasi perenne tra la sete e l'acqua, la luce delle acque e l'immagine della loro freschezza. Ma se egli dice « viva fiamma » per una delle fonti che popolano (assai più che la Liberata) la Conquistata. questa immagine della luce dell'acqua è generata dall'ardore della sete : come quelle in cui si dice la siccità sull'assenza delle acque (che però diventa una presenza di memoria); o la gran tempesta e pioggia che dà fine all'arsura: una poesia che dal Tasso tornò nel Manzoni antitassiano quando questi descrisse la pioggia che dissipa la peste, e tornò nella leopardiana Quiete dopo la tempesta finanche nelle rime.

Più intensa è così la voce del Tasso se i temi silvari e fluviali si fondono in una immagine sola:

e parie voce udir tra l'acqua e i rami.

Quella voce che trapassa tra il suono delle acque e il suono che il vento trae dagli alberi ma anche dall'onda del rivo («e con l'onda scherzar l'aura e co' fiori»), è qui direttamente accostata all'acqua e alle fronde in un modo visivo in cui è memoria dell'immagine sonora, e se ne crea uno stupefatto incanto. E chi scorderà - più svolta nella Conquistata - la fonte delle fonti nel grembo della terra, con quello stroscio di acque e di selve che ha l'ufficio luminoso dell'assente luce: e poi l'origine delle gemme tra i metalli, nel seno oscuro della terra, che è chiusa nell'Oceano, vecchio padre delle cose:

L'Oceàn chiude in sé la terra aprica,

e 'n grembo siede a lui chi detta è madre.

L'oceano produce e nutrica di umore le fonti rilucenti della terra e quelle adre dell'inferno, e avvien ch'ei serbi gli ammali, le piante, i fiori e le erbe. E qui il tema delle acque così ferace nel Tasso diventa il mito delle acque.

Il poeta che inarcava la poesia a tanta gravità di stile eroico, era pur quello che nell'Aminta o nel danzante e musicalissimo Amor fuggitivo o in certe rime, di là dalla sorrisa galanteria di alcuni madrigali, aveva sollevato alla regione poetica il «parlato», per felice inflessione di accenti e pause bene spaziati, come forse nessun altro ha poi fatto in egual grado: e dove l'attrazione delle singole parole tra loro è governato da un sorridente gusto che scopre e ordina la musica del comune dialogo. (Ricordate

quando lei tenerella, io tenerello,

l'aggettivo che il Leopardi assegnerà a Silvia, togliendo anche questo nome poetico, al pari di Nerina, dall'Aminta del Tasso). Si sa che i contemporanei, e tra costoro il Guarini che forse non voleva riconoscere il tributo del suo Pastor fido al più giovane Tasso, vollero trovare nella elocuzione dell’Aminta l'influsso della Carnee dello Speroni; ma il dramma dello Speroni è prosa in versi, e l’Aminta solleva a poesia la parlata quotidiana.

Il linguaggio poetico della Gerusalemme è passato, pur con intonazione più dimessa che la musica poi rialzava, nel melodramma del Metastasio prima, del Goldoni e poi dei librettisti ottocenteschi, e alcuno udendo una frase popolare del Trovatore verdiano ne riconoscerà la fonte nella minaccia di Argante alle squadre cristiane accorse per domare l'incendio delle macchine belliche da lui e da Clorinda suscitato: Io spegnerò quel foco - co 'l vostro sangue.

Eppure qua e là si avverte nel Tasso della Gerusalemme un umore quasi sorridente, che può consentire al poeta distaccati indugi sui particolari descrittivi. Pensate, ad esempio, Armida che piange nel campo cristiano ove è andata a tessere la frode che priverà di molti cavalieri l'esercito di Goffredo. Il poeta la descrive con golosa insistenza. Le « nascenti lagrime » son come ai raggi del sole cristallo e perle: da un'immagine di pianto il poeta passa a un'immagine di alba che illumina questa luce di magiche e non vere lagrime sulle guance di Armida:

parean vermigli insieme e bianchi fiori,

se pur gli irriga un rugiadoso nembo

quando su l'apparir de' primi albori

spiegano a l'aure liete il chiuso grembo:

e l'alba che li mira e se n'appaga,

d'adornarsene il crin diventa vaga.

L'immagine dell'alba desta l'immagine dei fiori sui quali la rugiada è caduta e s'è illuminata: bianco è il colore del volto, incarnato alle gote. Le idee poetiche si moltiplicano: «primi albori», «chiuso grembo», «aure liete», che al senso del lieve vento uniscono quello della luce: infine l'alba personificata in forma novella pur nel ricordo dell'antico mito della Dea che apriva il giorno. Così il mito sempre nascosto nelle parole « Alba » o « Aurora » riappare in una rinverdita gioventù. Sembrerà eccessivo l'indugio del poeta sui particolari. Ma egli non ignora la finzione di Armida, e può fermarsi a descriverla e quasi distrarsi nelle idee accessorie. Giungerà a momenti di una superiore, sorridente ironia lirica; come quando di Armida, che è donna giovinetta e parla in un campo di guerrieri, dice quasi sorvolando:

seco mill'alme semplicette astringe.

I guerrieri son diventati anime semplicette innanzi ad una donna inerme e al suo «finto dolore».

C'è anche un «barocco» tassesco e si attua per gradi vari, dal contrapposto felice (i luminosi orrori nelle fonti della Conquistata) ai concettini che possono apparir giochi di bravura. Il più delle volte il «barocco» tassesco, pur se arricciola fregi al verso e crea antitesi, è così ricco di allusione lirica (talvolta perfino di quell'umore sorridente a cui abbiamo accennato) che, a leggerlo come si leggono le cose del Seicento, il secolo che lo imitò gonfiandolo, si corre il pericolo di falsarlo interamente. Barocca dirà alcuno la descrizione della chioma femminile nel canto quarto della Liberata. una chioma ora avvolta nel velo ed ora scoperta, paragonata al sole, che, rasserenatosi un cielo nuvoloso, ora traspare da una nube,

or da la nube uscendo i raggi intorno

più chiari spiega e ne raddoppia il giorno.

Ma questo raddoppiarsi della luce, specie nell'uso della parola «giorno», è di stupenda efficacia e nulla sacrifica a un proposito di bravura.

E se parlando di Senapo che arde d'amore per la moglie e ne è fieramente geloso, il Tasso dice che

de l'amore al foco

ben de la gelosia s'agguaglia il gielo,

il barocco di questo concetto è ancora innocente, perché spontaneamente unisce le cose contrastanti, per virtù di analogie che sono ormai consumatissime nel comune linguaggio.

Ma il Tasso in certi casi non evita il pericolo del concettismo. Ecco le stille del pianto di Armida operare «effetto di foco»; né basta:

Oh miracol d'Amor, che le faville

tragge dal pianto e i cor ne l'acqua accende!

E qui c'è senza dubbio un eccesso, sebbene anch'esso si attenui se riferito a quell'ironia lirica sorridente con la quale egli qui racconta una finzione d'amore che troverà credito nei semplicetti guerrieri.

La Liberata è un poema giovane e libero, veloce nella sostanza e nello stile, un poema nato per vocazione: di qui la sua unità spontanea ed essenziale, che si può dir perfetta, in quanto fa tutt'uno con la necessità dell'ispirazione. Questa unità, bisogna pur dirlo, ha in sé tanto vigore creativo ch'essa non si perderà neppure nella più ampia e diseguale Conquistata.

Allo stesso modo, è vero che il Tasso tende nella Conquistata.a meglio ricondurre l'invenzione e lo stile alle regole aristoteliche, e in genere l'elocuzione, con un passo indietro, adeguare ad esemplari del primo cinquecento bembista e casiano (obbedendo ad una mania di persecuzione verso se stesso ben più che alle critiche altrui, che in fondo ripudiò oppure accolse come fatti marginali); ma l'impeto del primo poema era irresistibile, e la sua essenza era tanto indelebile da restare anche dove questo o quel particolare veniva mutato, e poteva ancora ispirare qua e là una nuova poesia. E ancora, per altra accezione, viene in mente il citato paragone dell'Egeo e dei venti: le onde continuano a scuotersi e rivolgersi pur quando il soffio di Noto o di Aquilone è cessato. La Conquistata è pur sempre il primo poema, fatto un po' più freddo e all'esterno più saggio.

Certo il poema riformato non sa tener fede alla impavida baldanza della Liberata. e simbolo di questa diminuita sicurezza è proprio il fatto che il «capitano» torna ad essere nella protasi della Conquistata il « cavaliere » (il cavalier sovrano) con la parola stessa dei poemi cavallereschi. Vero è che più innanzi il «capitano» riappare. È sottentrato in lui, frequentemente, un certo rigore intellettualistico, e allora la sua parola è mortificata, invecchiata, scaduta. Pedantesche diventano molte correzioni. Quella moderna lingua poetica, che egli aveva data al Cinquecento, così ricca di antiche linfe e di nuove, sì da scrivere così «capitano» come «absorto», era in parte sacrificata. Anche i concettini, di origine intellettualistica, qui si fanno più crudi, fin dalla protasi ove al poeta il pontefice deve disserrare le porte del cielo e il nipote di lui, Cinzio, le porte di Elicona.

Il nuovo poema cresce di quattro libri sui venti canti della Liberata, ma in ogni libro la materia del canto corrispondente si fa più lenta e il racconto si diluisce. Nel proposito di meglio adeguarsi alla storia negli episodi e fino nei nomi, il Tasso sopprime dalla nuova favola l'episodio così ispirato di Sofronia e Olindo, muta il nome di Erminia in Nicea e cancella le ottave che cantano della fanciulla regale tra i pastori. E le parole dolci e gravi in cui il pastore che fu un tempo giardiniere alla corte loda la vita agreste e silvare, e alla più alta società contrappone l'idillico mondo più vicino alla natura, sono abolite: una delle più grandi liriche pastorali che la poesia conosca, è perduta nel nuovo poema. Ed è perduta quella specie di idea platonica della georgica, che il poeta descrive concentrando in una piccola campagna la selva e il giardino con pecore, capri, cervi, uccelli e la vicinanza del fiume in cui, come in un aquario, guizzano i pesci. Ed è perduto quel contrapposto poetico che il Tasso ha rappresentato ponendo una donna delle corti nella veste dei pastori. Si vedrà tuttavia che in quel libro corrispondente, a ristabilire la proporzione tonale, il Tasso aggiunse, per il viaggio di Tancredi, la descrizione delle sette fonti.

Si è detto che Erminia diventa Nicea: il nome stesso non ha più quel senso di autentico che sempre si riscontra nelle narrazioni e nei drammi e nelle liriche giunti all'arte. Don Chisciotte, Don Abbondio, Silvia dell'Aminta e Silvia dell'ode leopardiana hanno suono autentico: certi nomi e cognomi di commedie sembrano fittizi, falsi come in un passaporto di frodo: e son quelli di opere che non hanno veramente resa oggettiva la loro materia. Nell'accostamento delle sillabe c'è sempre una ragione, ma talvolta essa è provvidenziale e talvolta è finta.

Nella Conquistata spesso una critica di origine più o meno letteraria si arroga di trasferirsi nella sfera, nel cuore, dell'intuizione poetica e vuol ragionarla.

E l'immagine che vive nell'alone della sua luce e a un tempo del suo segreto allusivo, vuol esser qui spiegata, con apposizioni e note nel corso dell'ottava, del verso, dell'emistichio. Ecco alcuni esempi.

Dell'angelo che è messaggero a Goffredo il Tasso aveva detto:

tra giovene e fanciullo età confine

prese, ed ornò di raggi il biondo crine.

Corresse invece nella Conquistata.

prese, e di rai fece il diadema al crine.

E qui la precisione descrittiva è una forma di spiegazione dell'immagine, e la poesia se ne svapora: il poeta ha qui descritto quel che prima aveva rappresentato.

Il geloso Senapo pone la moglie in chiuso loco:

vorria celarla a i tanti occhi del cielo.

Ma nella Conquistata. ove Senapo si chiama David, «celarla» diventa «coprirla» che è più ragionato, e meno efficace.

La madre di Clorinda pregando il celeste guerriero affinché protegga la figliuola dice:

s'accesi ne' tuo' altari umil facella.

Nella Conquistata. duplicando l'immagine senza vantaggio:

se t'accesi giammai lampa o facella.

Aveva scritto il poeta:

al sonno invita

l'ombra ornai fatta più tacita e bruna.

Corresse nella Conquistata il secondo verso:

l'ombra che involve il ciel tacita e bruna

e qui si guadagna l'immagine dell'ombra che involve il cielo, ma si perde quell'accrescimento d'ombra e di silenzio ch'era nel verso della Liberata. Aveva scritto:

e chiusa

è poi la porta, e sol Clorinda esclusa.

Corregge nella Conquistata per esterna sollecitudine di verosimiglianza: «ond'è Clorinda esclusa» e aggiunge «Con pochi esclusa fu»: e questa menzione degli altri esclusi attenua la grandezza del tema in cui si iscrive la figura di Clorinda.

Aveva fatto dire da Arsete a Clorinda:

e preso in picciol borgo al fin soggiorno,

celatamente ivi nutrir ti fei.

Ma nella Conquistata muta il primo verso:

e 'n picciol borgo, quasi in bel soggiorno,

e con l'aggiunta estranea o per lo meno non richiesta, sciupa la netta semplicità dell'immagine.

Aveva scritto di Erminia che si sveglia all'alba:

Non si destò sin che garrir gli augelli

non sentì lieti.

Corresse nella Conquistata: «non udio lieti», e invecchiò il suo linguaggio facendolo meglio aderire alle forme consacrate della terza persona del perfetto, quali il Cinquecento predilesse in poesia (udio, come poteo, feo ecc.).

Aveva scritto di Erminia fuggitiva:

non udendo e vedendo altro d'intorno

che le lagrime sue, che le sue strida.

Corresse nella Conquistata il secondo verso:

che 'l proprio pianto e le dolenti strida.

E qui il «proprio pianto» dice meno delle «lagrime», e l'aggettivo « dolenti », aggiunto a « strida », è appositivo ed esplicativo piuttosto che poetico.

Il verso

e con l'onda scherzar l'aura e co i fiori

diventa nella Conquistata.

e spirar l'aura fra l'erbette e i fiori.

Verso non brutto, per sé, ma ove s'è perduto per ragionevolezza esteriore l'incanto di quell'aura che scherza con l'onda.

Aveva scritto il paragone dei cavalieri che « riedono stanchi » e dei cani che dopo lunga e faticosa caccia «tornansi mesti ed anelanti»; ove quella mestizia che s'addice ad uomo vien riferita ad animali affaticati e delusi, con tenera simpatia. Nella Conquistata la parola «mesti» diventa ragionativa e si muta in «stanchi»; e perché è la stessa che il poeta aveva adoperata nell'altro termine del paragone, egli scriverà in suo luogo « lassi ».

Perfino quando la correzione ha qualche vantaggio di chiarezza espressiva, come se al « parie voce udir » il poeta sostituisce «le par», qualcosa torna a scapito: e, poniamo, l'aver perduto l'abbrivo dell'accento secondo (che qui passa alla terza sillaba).

Dice di Erminia nella Liberata.

ch'ai fin da gli occhi altrui pur si dilegua,

ed è soverchio ornai ch'altri la segua.

Nella Conquistata non c'è che un mutamento minimo al principio del secondo verso:

ond'è soverchio ornai ch'altri la segua.

Piccola variante; ma esplicativa, ragionativa, per dir che, essendosi Nicea dileguata, per questo motivo (ond'è), diventa soverchio che altri la segua.

Nella Liberata Arsete racconta un suo sogno che prediceva sciagura a Clorinda:

ed ella pensa e teme,

che un altro simil sogno il cor le preme.

È un cenno vaghissimo che suggerisce tutto quello che non dice; ma nella Conquistata il sogno è raccontato per sette stanze, qua e là felici (né dico non potessero diventare un rapporto poetico), pur nell'insieme più volute dalla riflessione critica che dalla riflessione lirica e cioè dalla coerenza del tono.

Così ancora, poco più innanzi, Clorinda si allontana per quella sua impresa dopo aver consolato, ella, il vecchio Arsete che piangeva, e con Argante riceve da Ismeno quel che è necessario all'incendio delle macchine cristiane, tra l'altro gli «ascosi lumi» in cavo rame. Nella Conquistata armi e ordegni di Ismeno sono descritti per quattro ottave.

Aveva scritto:

Amico, hai vinto: io ti perdon . . . perdona

ove in quel perdon tronco a dispetto della regola grammaticale puoi avvertire il sentimento attonito della donna morente che con rotta voce concede e domanda perdono: un verso che obbedisce ad una intima legge espressiva e tocca una magia verbale che non può essere mutata per capriccio di regolisti avvezzi a isolare consonanti e vocali.

Corresse:

Amico, hai vinto; e perdon 'io, perdona.

Così le regole, con quella permessa elisione innanzi a vocale, furono salve. Ma la correzione è poeticamente sorda.

E tuttavia si osserverà che il Tasso, sempre gran letterato, in questo verso riformato ha aggiunto, dopo «hai vinto», la congiunzione e, che ha quasi il valore di avverbio: uno spessore vocale che rallenta la frase affinché non precipiti su quel «perdon'io», e in questo modo lo attenua.

Forse non è inopportuno riaffermare in questo luogo che, non ostante il proposito di ovviare agli appunti della critica, e, poniamo, a quelli contro i latinismi, il Tasso continuò ad obbedire bene spesso al suo genio e magari al suo capriccio, e le correzioni o la loro assenza hanno talvolta una provvidenziale incoerenza. E convien ripetere che la Conquistata è pur sempre un grande poema, perché nessuna forza umana o follia avrebbe potuto distruggere la cosmica ispirazione a cui era congiunta. Perciò anche nella Conquistata. dove meno si aspetterebbero, magari in una rassegna dell'esercito, possono apparire versi miracolosi:

e

Ma assai più che singole immagini o spoglie di versi c'è da ritrovare nel rinnovato poema, per aggiungerlo idealmente alla poesia della Liberata.

Le parti belle della Conquistata sono sempre quelle che movono da una invenzione e non da una correzione critica: quelle in cui il Tasso obbedisce alla continuazione e perfettibilità del moto poetico che lo aveva ispirato alla Gerusalemme. E quando il Tasso inventa da capo, per quella ispirazione e non per suggerimenti di esteriore euritmia, di ragioni storiche, moralistiche, e magari sintattiche e lessicali, c'è nella Conquistata.molta poesia da riscattare.

Così l'approfondirsi del motivo della morte che grava su Clorinda, quand'ella, esclusa dalla porta e inseguita da Tancredi, deve accogliere la sfida fatale:

e di sua morte udiva il messo

che féa d'arme sonar la via profonda.

E, ancora, è un acquisto poetico la visione della fontana del drago, e del cipresso e della palma, che si fanno immagini funebri in lei per intima virtù lirica, senza che il poeta aggiunga spiegazioni : esse sono implicite nel palpitare stesso della parola che genera una situazione poetica.

Quanto Argante guadagni nella Conquistata, divenendo più duttile e umano, accennai alcuni anni fa. Argante si direbbe che nella Liberata sia il guerriero che combatte per combattere, chi eccettui la sua immane tristezza quando pensa alla sua città caduta: ma nella Conquistata viene approfondito anche il suo ideale guerresco, che vuol esser degno degli avi antichi.

Qui Argante serba quella selvaggia grandezza che nella Liberata si rivela principalmente al punto della sua morte; ma si arricchisce di umanità, specie per la scena di origine omerica in cui, prima di andare al duello mortale con Tancredi, dice il suo addio alla moglie Lugeria e al piccolo figliuolo. E se questo passo aggiunto dovesse venir considerato soltanto come una libera traduzione dall’Iliade, il Tasso vi si rivela esemplarmente adatto per grandezza di senso poetico.

Tacito rimirando il fero padre,

come soleva, al pargoletto arrise,

ove è detto con eleganza non il sorridere ma tutto l'atteggiarsi del guerriero verso il figliuolo che sempre aveva la virtù di trastullare il dolore del padre. E questo eroe che si turba alle preghiere della moglie, dice non più le aspre parole d'altri suoi momenti: ma la invita a non affliggersi di quel dubbio stato: e c'è nel suo addio, non detto eppur alluso, il presentimento della morte:

ch'io non andrò pria che 'l prefigga il fato

per man de' miei nemici a morte oscura;

ma contra il ciel non ha riparo e schermo

il vile o 'l forte, e

Il modello omerico è ben trasparente in molti tratti, nel pianto di Lugeria, nello spavento del fanciullo innanzi alle armi del padre; ma dovunque si avverte la nuova tonalità tassesca, pur se egli traduca:

ed a la cara madre il figlio porse

che l'accogliea ne l'odorato seno.

Nella Conquistata. che pur tende formalmente a castigarsi secondo le forme tradizionali del primo Cinquecento, è anche una poesia nuova, più nuova, sebben rara, di quella stessa della Liberata, per un procedere armonico più che non melodico dell'immagine, come si può vedere nelle grandi ottave delle fonti:

Paion quell'acque liquidi zaffiri,

non turbate da nembi o da procelle;

e luminosi raggi in lor rimiri

percossi lampeggiar de l'auree stelle.

E i torti lor viaggi e i torti giri

da quelle a queste, o pur da queste a quelle,

e con ogni altra più serena imago,

l'errante luna e

Egualmente sinfonica è la descrizione del secondo fonte, al quale l'uomo correrebbe per ammorzar la sete: e il Tasso la traduce in immagini astratte (oggi si direbbe) di luce per i più diversi astri e comete e insieme il sole e la luna: e «peso lucente » ha detto egli l'acqua sul gigante che sostiene la conca, e il peso di quella luce diventa più spiegato:

bench'egti tutto al novo dì s'infiamma

co' rai che sembran quasi accese mete.

Il fonte è del color di viva fiamma,

in cui spiegano i crin varie comete;

e d'ardenti sembianze auree faville

or turbate vi scorgi ed or tranquille.

E non si finirebbe di citare queste ottave che van riscattate alla grande poesia del Tasso.

Il terzo fonte par ch'ai sol s'indori,

come suol ne le nubi arco dipinto;

e questa doratura di tutti i colori, come quella di raggi e ombre che danno e tuttavia prendono il colore dall'oggetto vicino, è assai poetica. Scriverà:

La quinta fonte è del color de l'erba,

un verso che dà il suo colore dominante a tutti gli altri, come la donna leonardesca sul prato è del colore del prato. E a stamparlo isolato apparirebbe una delle più felici poesie essenziali dell'età nostra.

Diversità di maniere liriche (nel senso teorico che proprio il Cinquecento tentò di fissare tra irrequieti e non domiti generi, ricorrendo alla espedienza di imprigionarli negli schemi, come nelle carceri i ribelli) non si avverte quando dal poema epico si passi alla tragedia II Re Torrismondo o al poema del Mondo creato. e neppure quando si giunga alle liriche propriamente dette delle Rime.

Materia epica e materia tragica son tutt'uno nell'animo del Tasso, che, come s'è visto, chiamava tragici anche gli amori : e il linguaggio muta soltanto per i caratteri del dialogo, s'egli tessa la trama del Torrismondo. L'opera appare qua e là greve, ma tocca altezze intense nei cori, specie in quelli del terzo e del quinto atto, che hanno la nuda forza della canzone al Metauro, e son tra le più belle odi del Tasso.

Il Mondo creato. nel sensibile canto della luce al suo primo palpito, e nella nascita del sole e delle stelle, e nel primo sgorgar delle acque, fa pensare la materia stessa di quel libro della Conquistata ove è mostrata l'origine delle fonti e dei metalli. La Genesi trova qui svelata anche la sua poesia segreta, fino alla nascita di Adamo e di Eva. E l'inno che chiude il poema, cantico delle creature, e con esso la preghiera ultima formano, come abbiamo detto di alcuni accenti della Conquistata. una poesia di spiriti anche più nuovi che non fossero quelli della precedente opera del Tasso, per una più stratificata e trasparente armonizzazione verbale e per il severo lume di un pensiero ch'è sentimento ed immagine.

Dell’Aminta, e della sua grazia nel modulare poeticamente il parlato, abbiamo detto innanzi, e così del significato della sua pastorale. Né occorre indugiare sul Rogo amoroso. così adorno e fluente, che sta tra la favola dell’Aminta e la pastorale di Erminia. Quando si passa alle Rime ci si conferma che sonetti, canzoni e finanche ballate e madrigali nascono dalla stessa virtualità musicale di quella sorgiva tassiana che si dispiegò nella Gerusalemme. Il vario carme di gioie e ardori, come il poeta stesso confidò nel sonetto che precede le rime amorose,

poteva agguagliar il suon de l'arme

e de gli eroi la gloria e i casti amori.

Se alcuno legga:

e di nutrire il mal prendea diletto

con l'esca dolce d'un soave errore

o ancora:

In que' begli occhi al fin dolce tremanti.

Solitudini amiche, ombre e silenzi.

Languidetta beltà vinceva Amore.

E

veggio da presso e

o legga l'invocazione al Tempo

Vecchio ed alato dio, nato col sole,

gli parrà di continuare nella sostanza lirica e stilistica la lettura del poema. E una parentela anche più diretta avvertirà se legga nella canzone al Metauro:

e per solingo calle

notturno io mova e sconosciuto il piede,

che è linguaggio frequentemente incontrato nel poema: o magari nel madrigale «Ecco mormorar l'onde»:

O bella e vaga Aurora, l'aura è tua messaggera...

che subito richiama un passo della Gerusalemme mandato a memoria nelle scuole; o finalmente nel sonetto ove narra il poeta come la donna ch'egli amò giovinetta or vada sposa:

Ma chi la colse non vedrò giamai

ch'ai cor non geli l'anima gelosa.

E si pensa al gelo della gelosia di Senapo, padre di Clorinda, verso la sposa amata.

Né veramente di più patetico languore, pur nella danzante disposizione dei versi alla musica e nella agevolezza del metro più esiguo, sono le ballate e i madrigali, di quanto siano le ottave in cui si cantano gli amori di eroine e di eroi fino all'incantesimo delle ninfe nel rio di Armida, o il cinto e il riso e la voluttà di costei: e dappertutto è quella «dolente armonia» che il poeta evocò nel primo verso d'un suo funebre madrigale. È ancora l'aura lirica della Gerusalemme quella che spira nelle Rime:

e 'l languir sì mi piace

ch'infinito diletto ho nel martire:

la stessa aura, neppur più increspata o trepida, se egli scriva:

Ma resta il male onde morir desio.

La stessa, pur nella modulazione di una voce pronta non a dire ma a cantare sull'accompagnamento di uno strumento, in certe parole iniziali ripetute come si ribattono certe note musicali:

Pianto, soave pianto.

Venti, benigni venti.

Piante, frondose piante.

Chiedi, deh chiedi al canto.

Soavissimo bacio.

Soavissimo canto.

Bacì, susurri e vezzi.

Si potrà soltanto osservare che la ragione autobiografica del canto è più diretta nelle liriche di quanto non sia nella narrativa dell'epica; ma il nostro discorso ha mostrato l'unità della fonte poetica ed è chiaro che qui non si tratta di fermarsi ai titoli esteriori, giacché si parla di poesia e non di cronaca e di stato civile, e la più verace autobiografia del poeta è là dove la sua anima più si mostra nella sua originalità: questo, negli stessi modi che nelle Rime e per una più ampia distesa, avviene in tutta la Gerusalemme ove il poeta si incarna in ogni personaggio e in ogni paese, eroe ed eroina, nunzio celeste o nume tartareo, come è proprio delle nature spiccatamente liriche in cui si innova il mito del diverso e innumerevole e pur sempre unico Proteo.

Vorrei anzi si notasse come nelle Rime la presenza di questo lirico Proteo si riveli anche quando l'occasione di una poesia gli sia fornita dall'istanza di altra persona. Ad essa fulmineamente il poeta si sostituisce. Un rapporto diretto si pone, ad esempio, tra lui e la donna che egli loda ad istanza d'un gentiluomo amico, quando egli canti

le ciglia stellanti,

e la fronte ch'or placida or severa,

or umile or altera,

assicura e spaventa i vaghi amanti.

Dirò di più: sempre il Tasso esprime se stesso anche nella vicenda di un altro. Mandò a Paolo Grillo un sonetto che cominciava

Passa la nave tua che porta il core

e finiva:

tal che già prendi il desiato porto.

Ma nell'edizione ultima, voluta dall'autore, questo sonetto rivelò la persona del Tasso che s'era trasferita in quella di Paolo Grillo: e il poeta mutò la seconda persona nella prima:

Passa la nave mia che porta il core . . .

tal che già prendo il desiato porto.

Anche le Rime. dunque, che a loro volta come il poema hanno più d'una lezione, vogliono essere studiate alla stessa fonte lirica donde scaturì la Gerusalemme. Esse non si librano tutte a quell'altezza, sebbene sia riconoscibile il loro genuino volo tra le rime dei petrarchisti, anche per la gravità che è implicita pur nelle poesie amorose, immagini di una mente nutrita di alti pensieri, sia che cantasse:

Amore alma è del mondo, Amore è mente,

sia che delle stelle dicesse:

Aman forse là suso, o pur son elle

pietose a' nostri affanni, a' nostri pianti?

con parole di cui si ricordò il Leopardi nell'ode Alla Primavera.

*

Son questi, s'io non m'inganno, gli spiriti della poesia di Torquato Tasso: e questo vuol esser soltanto un invito ad approfondirli con generosa attenzione in tutte le opere d'uno dei poeti più grandi che siano nati al mondo dopo Omero e dopo Dante.

Perché siano chiare le allusioni alla vita e alle opere di Torquato Tasso conviene porre qui appresso alcuni dati essenziali. 1544: nasce a Sorrento gli undici di marzo dal poeta Bernardo d'origine bergamasca e da Porzia de' Rossi ch'era del reame di Napoli ma discendeva da famiglia pistoiese. 1550: è a Napoli alle scuole dei gesuiti. 1554: raggiunge il padre a Roma. 1556: muore la madre, senza che il figlio la riveda. 1557: dopo un soggiorno a Bergamo, presso i parenti paterni, Torquato raggiunge Bernardo alla corte di Urbino, ove è compagno di studi di Francesco Maria della Rovere e inizia la sua esperienza delle corti. 1559: a Venezia, aiuta il padre nella stampa dell’Amadigi e compone (probabilmente) il Libro I del Gierusalemme. 1560: è studente di diritto a Padova. Nel periodo veneziano, 1561: amore per la bionda Lucrezia Bendidio. 1562: appare a Venezia il Rinaldo. 1563: frequenta l'università di Bologna. 1564: è costretto a riprender la via di Padova per sottrarsi ad una corona lignea minacciatagli per una sua pasquinata contro professori e studenti; nelle vacanze è a Mantova alla cui corte è passato Bernardo: si innamora di Laura Peperara. 1565: Torquato è assunto al servizio del cardinale Luigi d'Este, a Ferrara, col solo obbligo di scrivere un poema. Vien protetto dalle principesse Leonora e Lucrezia : motivo per i posteri di patetiche narrazioni. Dal 1567 al 1570 probabilmente compone i Discorsi dell'arte poetica. 1569: morte di Bernardo. 1570: Torquato si reca a Parigi, tra i familiari del cardinal Luigi. 1572: entra alla corte del duca Alfonso di Ferrara. 1573: composizione e rappresentazione dell'Aminta; gli viene assegnata la cattedra di geometria e sfera all'università. 1574: è assalito dalla febbre quartana; ma lavora alla Gerusalemme. 1575: il poema è compiuto. Torquato, già frenetico dopo quell'opera di velocissima ispirazione, confida il poema ai revisori che lo dilacerano. 1576: compone l'Allegoria della Gerusalemme. 1577: si accusa di eresia all'Inquisizione. - È segregato nella prigione del castello ducale: riesce a fuggire: move sino a Sorrento: si presenta in veste di pastore alla sorella e le annunzia un pericolo mortale di Torquato: la donna sviene ed egli finalmente si svela. - Corre ora e per l'anno seguente l'Italia, prima a Ferrara, poi a Mantova, Padova, Venezia, Pesaro, Urbino, Torino e ancora a Ferrara. 1579: vien chiuso nell'ospedale di Sant'Anna ove rimarrà sino al 1586, tra farnetico e lavoro di rime, lettere, dialoghi. In quel medesimo '79 esce dapprima a Genova il quarto canto del poema ; poi a Venezia Celio Malespini pubblica i primi dieci canti, il decimosecondo e decimoquarto, con altri frammenti, e li intitola Il Goffredo. 1580: Angelo Ingegneri pubblica a Parma tutti i canti, e intitola il poema Gerusalemme liberata. 1581: esce il testo del poema, a cura di Febo Bona, a Ferrara. 1584: l'Accademia della Crusca infierisce contro la Gerusalemme. Appare l'edizione Osanna della Liberata.a cura di Scipione Gonzaga. 1585: il Tasso scrive l'Apologia. 1586: è liberato dalla prigionia, e compie II Re Torrismondo. 1588: poiché era stato lasciato libero in tutto, si reca a Napoli nel convento di Monte Oliveto: scrive il primo canto di un poema intitolato II Monte Oliveto; scrive anche il Rogo amoroso. E sempre attende alla Conquistata. 1591 : scrive in ottave La genealogia di Casa Gonzaga : stampa la prima parte delle sue Rime. 1592: a Napoli comincia II mondo creato, in ottave. 1593: appare a Roma la Gerusalemme Conquistata. 1594: appaiono a Napoli i sei Discorsi del poema eroico, rifacimento dei tre Discorsi dell'arte poetica. 1595: gli viene preparata dal pontefice l'incoronazione in Campidoglio; ma il poeta che ammalato s'è ritirato nel monastero di Sant'Onofrio, muore il 25 aprile.

Opere: La Gerusalemme liberata, a cura di A. Solerti, Firenze, 18951896; a cura di L. Bonfigli, Bari, 1930; La Gerusalemme conquistata, a cura di L. Bonfigli, Bari, 1934; Rinaldo. a cura di L. Bonfigli, Bari, 1936; Opere minori in versi, a cura di A. Solerti, Bologna, 1891-95 (3 voll.); Rime. a cura di A. Solerti, Bologna, 1898-1902 (4 voll.); Dialoghi, a cura di C. Guasti, Firenze, 1858-59; Prose diverse, a cura di C. Guasti, Firenze, 1875; Lettere, a cura di C. Guasti, Firenze, 18521855; Il mondo creato, ed. critica a cura di G.Petrocchi, Firenze, 1951. Vedi, in fine: Poesie, a cura di F. Flora, Milano, 1934 (contiene la Gerusalemme liberata con le principali varianti della Conquistata, l'Aminta, una vasta scelta dalle Rime. alcuni passi delle altre opere poetiche); Prose, a cura di F. Flora, Milano, 1935 (Discorsi del poema eroico, sette dialoghi, 207 lettere).

Desidero pubblicamente ringraziare il prof. Ettore Mazzali che collaborò con me, in un primo tempo, per rendere più agile la punteggiatura delle opere tassesche, e mi aiutò ad aggiungere qualche nota.

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