TOREUTICA

Enciclopedia dell' Arte Antica (1966)

Vedi TOREUTICA dell'anno: 1966 - 1997

TOREUTICA

E. Simon

Sommario: - A) Premesse: 1. Definizione. - 2. Il materiale. - 3. Testimonianze indirette. - 4. I tipi. - 5. Difficoltà metodologiche. - B) Svolgimento storico: 1. Asia Anteriore ed Egitto (III-II millennio a. C.). - 2. T. minoica e micenea. - 3. T. greca del periodo geometrico. - 4. T. dell'Asia Anteriore alla metà del I millennio a. C. - 5. T. della Scizia e dei dominî scitici. - 6. T. preistorica nelle regioni settentrionali. - 7. T. etrusca. - 8. T. greca del VII e VI sec. a. C. - 9. T. achemenide. - 10. T. greca dell'epoca classica. - 11. T. ellenistica. - 12. T. romana fino al I sec. d. C. - 13. T. romana del II e III sec. d. C. - 14. T. della tarda antichità.

A) Premesse. - 1) Definizione. - La parola greca τορευτική (scil. τέχνη; lat. caelatura, cfr. vol. ii, p. 252 s.) indica l'arte della lavorazione del metallo a sbalzo e a cesello oppure ad incisione. L'artista che eseguiva rilievi in metallo a sbalzo o a cesello era chiamato τορευτής (lat. caelator, cfr. vol. ii, p. 250 ss.) e la sua opera τόρενηα (toreuma anche in lat. ed inoltre caelamen, caelatum). Questi sostantivi derivano dalla radice di τορεύς lo scalpello usato per cesellare; così caelatura viene da caelum = τορεύς. Oltre al cesello che veniva adoperato con l'aiuto di un piccolo martello o di una pietra, esisteva il bulino, usato per le incisioni, a cui bastava la semplice pressione della mano. L'uso dell'uno o dell'altro utensile dipende dal solco che si vuol ottenere sul metallo, profondo o leggero. Nel primo caso si adopera il cesello, nel secondo il bulino. Naturalmente soltanto un occhio esperto ed esercitato può cogliere la differenza; sulle fotografie poi ciò è raramente possibile. Spesso le due tecniche sono abbinate su un medesimo pezzo. Parleremo perciò in generale di lavoro a cesello. Da notare che il termine t. non deriva dal nome dello strumento usato per la lavorazione a sbalzo, un piccolo martello o una pietra, come accade invece per la tecnica dello sphyrèlaton (v.). Infatti per le opere di t. era più importante la seconda fase della lavorazione, la cesellatura, piuttosto che la lavorazione a sbalzo vera e propria. La lavorazione a sbalzo dei rilievi era spesso eseguita per mezzo di una matrice e pertanto era un procedimento meccanico, più volte ripetibile; mentre la successiva lavorazione a τορεύς rappresentava una creazione individuale. Ce ne possono dare un'idea due faretre d'oro tardo-classiche del museo di Leningrado sulle quali sono raffigurate scene mitiche il cui significato è incerto (cfr. B 10). I rilievi ornamentali sono stati eseguiti con la stessa matrice mentre la cesellatura si deve a mani differenti. Questo è anche il caso della scena di battaglia fra Greci e Barbari rappresentata su due foderi di spada d'oro tardo-classici, di cui uno si trova a Leningrado, l'altro a New York (cfr. B 10). Inoltre, le opere più originali, non eseguite in serie, erano ottenute anche senza matrice, lavorando dall'esterno il metallo a cesello sopra un nucleo di pece o di cera, che poi veniva tolto liquefacendolo col calore. Naturalmente ci si potrebbe chiedere se la creazione artistica vera e propria non fosse invece rappresentata dal disegno della composizione del rilievo. Ma spesso questo disegno non era opera del toreuta e ciò non solo in età ellenistica ed in età romana, quando si lavorava spesso con calchi di gesso (v. modello) che riproducevano modelli celebri, ma anche durante il periodo classico. Così Mys, uno dei più famosi toreuti classici, traeva i disegni per le sue opere da quelle del non meno celebre pittore Parrasio (Paus., i, 28, 2). Su una coppa d'argento di Mys era inciso un epigramma che iniziava così: γραμμαι Παρρασίοιο τέχνα Μυός (Athen., xi, p. 782 b). T. e pittura erano dunque strettamente connesse. Perciò assolutamente in carattere con lo spirito di questa tecnica, durante il classicismo del I sec. a. C. (v. pasiteles; pytheas; zopyros), i toreuti riproducevano sulle coppe d'argento capolavori della pittura classica.

Secondo la definizione proposta ci occuperemo dunque in genere soltanto di quelle opere in cui appaiono combinati insieme entrambi i tipi di lavorazione, quella a sbalzo e quella a cesello. Verranno esclusi i rilievi su lamine di metallo che sono ottenuti soltanto a stampo o per mezzo di matrici (v. vol. ii, p. 164 ss.) e così pure gli oggetti in metallo liscio ornati soltanto da incisioni come le fibule (v. vol. iii, p. 639), le ciste del tipo di quelle prenestine (v. vol. ii, p. 696; iii, p. 647) e quasi tutti gli specchi, eccezione fatta per gli specchi con rilievi. (Negli inventari dei tesori dei santuari gli oggetti di metallo liscio sono spesso distinti da quelli a rilievo con l'indicazione λεῖος e ἔκτυπος). La fusione e la "lavorazione a freddo" delle statue di bronzo non rientra nell'ambito vero e proprio della t., come M. Milne ha dimostrato (art. cit. in bibl., p. 398). Perciò citeremo fra le opere ottenute per fusione soltanto quegli esemplari che abbinano la fusione alla tecnica toreutica. Questo fatto, d'altro canto, si verifica spesso, così per esempio nelle monumentali protomi di grifoni della metà del VII sec. a. C. (v. vol. iii, p. 1058) le teste sono fuse mentre i lunghi colli sono lavorati a sbalzo e a incisione. Nei vasi di metallo spesso le pareti sono lavorate a sbalzo, mentre manici, motivi ornamentali da applicare ed altri ornati, sono fusi e poi fissati con chiodi ribattuti, oppure sono saldati.

2) Il materiale. - Il materiale usato di preferenza nell'arte toreutica classica era l'argento, come è testimoniato dagli oggetti rinvenuti e da Plinio (Nat. hist., xxxiii, 154; J. Overbeck, Schriftquellen, n. 2167; v. vol. i, p. 621 ss.). Né è in contrasto con il passo di Plinio il fatto che nelle fonti siano citati anche numerosi esemplari in oro e che parecchi pezzi originali di questo tipo ci siano pervenuti (v. oreficeria). Plinio si meraviglia che la fama dell'arte della t. sia dovuta ad opere d'argento. Per varie ragioni questo metallo divenne il materiale preferito della t.: è più duro dell'oro, perciò è più difficile lavorarlo a sbalzo su una matrice, ma quando ha assunto la forma voluta la conserva meglio. Sull'argento l'incisione e la cesellatura per mezzo del τορεύς possono essere eseguite più nitidamente, dando al disegno un risalto maggiore di quanto non consenta un metallo meno duro come l'oro, ed è proprio questa, la caratteristica di maggior pregio delle opere toreutiche agli occhi del critico antico. Come G. Karo ebbe ad osservare a proposito del materiale rinvenuto nelle tombe a fossa micenee, già in quell'epoca i vasi d'argento erano superiori per qualità a quelli d'oro. Naturalmente, ciò può benissimo dipendere anche da altri fattori, ad esempio dal fatto che in Egitto fino al Medio Regno l'argento era più prezioso dell'oro. Inoltre il più delle volte gli oggetti d'oro delle tombe a fossa micenee facevano parte della suppellettile dei morti e consistevano perciò solo di una lamina d'oro sottile, mentre i vasi d'argento rinvenuti nelle tombe erano veri e proprî vasi d'uso comune nella vita d'ogni giorno. Purtroppo a causa della corrosione i vasi d'argento si ritrovano spesso ridotti in un pessimo stato, al contrario di quelli d'oro. Meglio conservate sono le suppellettili di elettro, una lega d'oro e d'argento che si trova in natura, ma che si otteneva anche artificialmente. Accanto all'argento, all'oro e all'elettro compare anche il bronzo (v. vol. ii, p. 182 ss.) che, a stare alla testimonianza dei rinvenimenti, prende il sopravvento nelle opere di t. nella prima metà del I millennio a. C., sia in Grecia che in Oriente. Nelle fonti antiche i bronzi sono citati molto più di rado che le opere toreutiche d'oro e d'argento (Milne, op. cit., p. 391) e questo dipende dal fatto che le opere toreutiche arcaiche non erano apprezzate dai collezionisti tardi e che inoltre, nella maggior parte dei casi, esse non erano più visibili.

Accanto all'argento, all'oro e al bronzo compaiono a grande distanza anche altri metalli. Caelatura quae auro, argento, aere, ferro opera efficit, scrive Quintiliano (Inst. Orat., ii, 21, 8). La stessa opera poteva presentare una combinazione di varî metalli. Le lamine di rivestimento dei carri da battaglia del "grande tumulo dei carri" di Populonia (museo di Firenze) sono di bronzo sbalzato. Le scene di caccia che vi sono rappresentate sono lavori di intarsio in ferro; infatti in epoca arcaica il ferro era considerato particolarmente prezioso. Il cratere d'argento del re di Lidia, Alyatte, a Delfi aveva una base di ferro. Era opera di Glaukos di Chio, colui che dovrebbe aver inventato l'arte di saldare il ferro (J. Overbeck, Schriftquellen, n. 263-273). Probabilmente il ferro serviva a dare la necessaria stabilità al monumentale cratere. Certamente per lo stesso motivo la base di un altro dono votivo di Delfi, il tripode d'oro di Platea, era modellata in bronzo (Paus., x, 13, 9): è la famosa colonna dei serpenti di Costantinopoli (v. vol. ii, p. 888). La lampada di Atena Poliàs sull'acropoli di Atene, opera di Kallimachos, era d'oro e al di sopra di essa si allargava fino al tetto una palma di bronzo (Paus., i, 26, 6). Sembra invece che per i vasi e le suppellettili di dimensioni normali nell'arte greca non fosse usuale accoppiare il ferro con l'argento o il bronzo con l'oro. Al gusto sicuro dei Greci certo ripugnava nella scelta del materiale accoppiare su un medesimo oggetto due metalli di colore troppo simile. Qualora su un vaso di bronzo di dimensioni normali compaia un secondo metallo, questo è sicuramente l'argento; sui vasi d'argento compare invece l'oro. Di volta in volta dunque la scelta cadeva su una combinazione di metalli di colore contrastante e il metallo più prezioso in tal caso era usato più parsimoniosamente per la decorazione. Così, ad esempio, il cratere di bronzo delle Mènadi, di età classica, ora a Berlino, ha intarsi d'argento e il rhytòn d'argento di Trieste è in parte dorato (cfr. B 10). Si tratta con più precisione di oro laminato, il tipo di doratura maggiormente usato dai Greci (v. vol. iii, 173; ma cfr. più avanti, B 11), mentre in Egitto fin dal Medio Regno è testimoniata anche una specie di doratura a fuoco (ottenuta probabilmente con l'aggiunta di piombo): v. anche metalurgia.

3) Testimonianze indirette. - Sporadicamente vennero definite opere toreutiche anche rilievi non eseguiti in metallo, ad esempio i rilievi corinzî d'argilla (Strabo, viii, 6, 23), coppe di vetro (Marziale, xiv, 94) o di legno (Verg., Ed., iii, 36 ss.). Ma si tratta, come ben dice M. Milne (op. cit., p. 395 s.), di singole opere che per forma e decorazione imitano quelle di metallo. Quanto agli ὀστράκινα τορεύματα di Corinto si tratta probabilmente di calchi di autentiche opere toreutiche, come è stato dimostrato da D. Burr Thompson. Questi calchi costituiscono per noi testimonianze indirette di notevole importanza specialmente per determinate epoche di cui si conservano solo pochi rilievi in metallo. In età arcaica ed in età classica i calchi erano eseguiti per lo più in argilla, in età ellenistica ed in età romana in gesso. Quest'ultimo tipo era chiamato γύψινον; il nome compare in un'iscrizione di un calco in gesso a Princeton. Tramite questi calchi in gesso, che erano usati come modelli per altre opere toreutiche, le composizioni ellenistiche giunsero fino in Afghanistan (v. begram). Mentre questi calchi rispecchiano fedelmente i rilievi di opere toreutiche, qualora per la storia della t. si voglia far ricorso alla produzione delle botteghe dei ceramisti, per esempio al vasellame caleno con rilievi o ai vasi romani in terra sigillata (v.), si imporrà di volta in volta un'accurata e profonda interpretazione del pezzo. Lo stesso va detto a proposito dei vasi neoattici di marmo. Per la verità in alcuni casi si sa con sicurezza dell'esistenza di modelli toreutici; tuttavia il marmo e l'argilla hanno sempre i proprî cànoni. Spesso non si pensa che gli oggetti di ceramica possono sì assumere una forma "metallica", ma che questa forma nasce nell'àmbito di una tradizione propria della ceramica, e soltanto di essa, e che non va necessariamente connessa alla produzione toreutica.

4) I tipi. - Una delle branche principali della t. di tutti i tempi è rappresentata dalla produzione vascolare, dalle piccole coppe e dalle tazze fino ai grandi crateri. Spesso ci sono pervenuti due pezzi che fanno pendant perché le tazze erano fabbricate in coppia. Inoltre esiste vasellame da tavola in cui sono accoppiati quattro esemplari o tre, in corrispondenza all'uso del triclinio. Un'altra branca importante della t. è quella delle armature: elmi, corazze, scudi, schinieri (bracciali e gambiere), foderi di spada, faretre. Anche i rivestimenti in metallo dei carri da battaglia e i frontali e i pettorali per i cavalli fanno parte di questa branca e così le armature di gala e da parata, come quelle tardo-romane trovate a Straubing (v.). E ancora i rivestimenti dei mobili di legno, cassapanche, tavole, troni, di uso comune o religioso. Un esemplare di età classica era la tavola di Kolotes ad Olimpia (Paus., v, 20, 1). Possono rientrare in questo gruppo anche le guarnizioni di metallo delle porte, ma esse fanno parte anche del gruppo seguente quello che comprende gli ornati architettonici di metallo. Questi ultimi hanno avuto una parte importante soprattutto nell'arcaismo greco. Il fenomeno è stato ben messo in luce da studî recenti (R. Hampe, P. Verzone, H. Drerup). Inoltre rientrano nella produzione toreutica svariate suppellettili ed oggetti ornamentali come specchi con rilievi, strumenti musicali, canestri, cinture, diademi ed altri ancora. Ne esulano invece, a nostro avviso, i gioielli, orecchini, catene e collane. Poiché era costume consacrare alle divinità quasi tutte le suppellettili e gli oggetti usati nella vita terrena, è stato possibile rinvenire nei grandi santuarî esemplari appartenenti a tutti i tipi or ora citati. Molti pezzi sono stati recuperati durante gli scavi; alcuni di questi li aveva veduti ancora Pausania nel II sec. d. C.; ma quanto enorme fosse in origine il loro numero è documentato dagli inventarî dei tesori dei santuarî (ad esempio Delo: C.I.G., xi; Atene, Acropoli: C.I.G.2, ii-iii). Questi inventarî sono fonti inesauribili per gli studî archeologici e particolarmente nel nostro caso rappresentano la fonte più importante per la conoscenza dei tipi e della varietà della produzione toreutica. Oltre alle suppellettili d'uso comune esisteva un particolare gruppo di doni votivi destinato specificamente a tale uso. A questo gruppo appartengono in Grecia i grandi crateri del VII sec. con protomi di grifi, leoni o serpenti. La palma di bronzo, con rane e bisce d'acqua appollaiate sulle radici, che si trovava nel tesoro dei Corinzî a Delfi (Plut., Moralia, 399 s.) o il tripode di Platea erano esemplari fuori dell'ordinario. Infine rientra nell'ambito della t. anche la decorazione a rilievo delle statue votive e delle statue di divinità, come quella dell'Atena Parthènos di Fidia.

5) Difficoltà metodologiche. - Nonostante l'enorme farragine di lavori preliminari, manca una storia sistematica della t. antica. La nostra breve esposizione non può colmare la lacuna. Le difficoltà sono insite nell'argomento stesso. Non v'è località che ci offra una serie continua attraverso i secoli di opere toreutiche, cosa che invece accade per la ceramica. Il coccio si conserva per millennî, anche se ridotto in frantumi. Gli oggetti di metallo, dato il materiale di cui sono fatti, sono più preziosi. Per questo sono elencati negli inventarî dei tesori dei santuarî anche quando sono deteriorati. Preda allettante per i ladri, essi venivano trafugati anche dai templi e dalle tombe e fusi più e più volte. Mentre frammenti di coccio si trovano in tutti i luoghi di scavo, il ritrovamento di opere toreutiche è sempre dovuto al caso. Se ne trovano: a) in tombe che dall'antichità in poi non siano state violate; b) sotterrate nel terreno di proprietà dei santuarî (v. bothros); c) nei tesori sepolti in tempi di crisi (v. tesori); d) quando si siano verificate distruzioni repentine come la catastrofe di Troia II o la scomparsa delle città campane nel 79 d. C., che ci ha permesso di recuperare servizî interi di vasellame d'argento (v. pompei). Oltre alle difficoltà di cronologia esiste il problema ben più complesso della provenienza. Gli oggetti di metallo venivano trasportati a grandi distanze; perciò raramente il luogo di rinvenimento coincide col centro di produzione. Basti ricordare i lavori toreutici orientali della Grecia e dell'Etruria, i vasi sassànidi d'argento rinvenuti negli Urali (v. vol. iv, p. 213-215) o il cratere di Vix (cfr. B 8). Va inoltre tenuto presente che le notizie che gli antichi ci forniscono sulla t. sono piuttosto scarse (elencate da J. Overbeck, Schriftquellen, nn. 263-305; 2167-2205). Le uniche osservazioni coerenti sullo sviluppo della t. che ci siano giunte dall'antichità sono quelle di Plinio (Nat. hist., xxxii, 154-157). Alcuni toreuti famosi sono citati da Ateneo (xi, p. 782 b); ma ambedue gli autori ricordano soltanto gli artisti che hanno creato coppe d'argento con decorazione figurata, perché questo era il tipo che incontrava il gusto dei collezionisti romani. È senz'altro evidente quanto il criterio che ha presieduto a questa selezione classicistica sia arbitrario ed esclusivo.

B) Panorama storico. - 1) T. dell'Asia Anteriore e dell'Egitto nel III e nel II millennio a. C. - La storia della t. inizia nella Mesopotamia con gli oggetti rinvenuti nelle tombe reali di Ur (XXVII sec. a. C.). Difficilmente le suppellettili d'oro della tomba di Meskalamdug verranno superate per qualità nelle epoche successive. Ricorderemo un elmo a forma di parrucca d'oro. È fatto di una robusta lamina d'oro sbalzata con una crocchia contornata da una treccia, il diadema e le orecchie che sono però lavorati a parte. Lo stesso dicasi per le coppe e le tazze d'oro le cui scanalature longitudinali sono eseguite con la stessa precisione delle scanalature doriche. Le nervature verticali sono sbalzate e collegate orizzontalmente sull'orlo e sul piede da linee ad incisione che per lo più formano un disegno a zig-zag. Fra i rilievi toreutici più antichi va annoverato il fregio architettonico in rame di Tell Ubaid (v. vol. iv, p. 1057). Caratteristiche del periodo protodinastico sono anche le arpe con la fronte ornata da teste di toro in oro sbalzato (v. vol. Iv, p. 1059). Le parti laterali dell'arpa sono ornate da intarsi colorati (lapislazzuli, conchiglie, pietre rosse). Opere siffatte, dove i metalli nobili erano abbinati ad intarsi di materiale diverso, sono frequenti in tutte le epoche in Oriente; non così in Grecia.

Nell'Anatolia la lavorazione a sbalzo era nota fin dal III millennio, come è testimoniato dal grande tesoro di Troia II scoperto dallo Schliemann (Tesoro A). Un grande piatto di rame che fa parte di questo tesoro è stato definito (da K. Bittel) come padella in seguito a recenti rinvenimenti di esemplari dello stesso tipo, ma forniti di un lungo manico. L'omphalòs al centro è un motivo ripreso probabilmente dalle coeve coppe anatoliche con omphalòs, una forma vascolare che accompagna lo sviluppo della t. dagli inizî alla tarda antichità. Però i vasi troiani di rame e d'oro sono lavorati soltanto a sbalzo. Anche i motivi geometrici (ad esempio nervature, mezzelune, motivi "a spina di pesce", cerchi) dei vasi d'oro dell'Anàtolia centrale (Alaça) sono eseguiti esclusivamente a sbalzo e così i realistici serpenti di un vaso d'argento da Alaça che per forma, è affine alle "teiere" troiane di rame.

In Egitto, subito dopo l'inizio dell'èra storica, nel tardo IV millennio a. C., compaiono i primi vasi lavorati a sbalzo. L'arte del cesello risale addirittura all'epoca preistorica in Egitto. Potrebbe essere dovuto al caso il fatto che l'unione delle due tecniche sia documentata relativamente tardi. Il primo esemplare è la coppa d'oro che il faraone Thutmosis III regalò al suo generale Dehute (circa 1460 a. C., Louvre): attorno ad una rosetta centrale nuotano sei pesci, il tutto è incorniciato da una fascia di fiori di loto. La coppa ci dà un'idea di quanto qualitativamente pregevoli dovessero essere questi lavori di t. di cui si conservano soltanto le riproduzioni dipinte, ad esempio nelle tombe reali di Tebe. Un dipinto della tomba di Rechmire (circa 1450 a. C.) rappresenta la bottega di un toreuta.

Fra il vasellame da tavola sbalzato e cesellato della XIX dinastia (XIII sec. a. C.), proveniente da Bubastis, si notano tipi rimasti per lungo tempo usuali in Egitto: tre brocche con imboccatura rotonda e collo tozzo e corto, di cui due d'oro e una d'argento. Quelle d'oro hanno un'ansa ad anello, quella d'argento, particolarmente bella, ha come manico la figura di una capra in oro. Le zampe anteriori dell'animale si allungano sul collo della brocca e la testa poggia sull'orlo del vaso che è rivestito in oro. Dello stesso tesoro fanno inoltre parte un calice d'oro a forma di fiore di loto (i petali sono cesellati) e una coppa conica d'argento con omphalòs, con un rilievo a cesello e un'ansa mobile a forma di anello. Gli stessi tipi sono stati ritrovati nelle tombe reali inviolate di Tanis (1000 a. C. circa): una brocca d'oro del tipo descritto più sopra, coppe con ansa mobile e un calice a forma di fiore di loto. Mentre questi vasi sono cesellati, altri si distinguono esclusivamente per la preziosità del materiale adoperato e per la squisitezza del modellato. Così ad esempio una coppa d'oro non ha che un unico motivo ornamentale: l'attaccatura del manico ha la forma di un fiore, Una bottiglia d'oro ha la sola imboccatura ornata da un fiore di loto eseguito ad incisione.

Il pezzo più interessante di Tanis è una brocca per libagioni con un beccuccio sottile e il cartiglio del faraone Amosis (circa 1550 a. C.) eseguito a cesello. Il vaso era dunque già vecchio di mezzo millennio quando fu portato nella tomba di Tanis. Tutto questo materiale più propriamente egiziano è per qualità di gran lunga superiore alle coppe siriano-fenicie egittizzanti dell'VIII-VII sec. con la loro decorazione minuta. Il papiro Harris ci può dare un'idea della considerevole vastità della produzione toreutica egiziana del tardo II millennio. Questo ricco inventario testimonia che ad esempio la lussuosa "pompa" di Tolomeo Filadelfo (Athen., v, p. 196 ss., cfr. sotto B 11), con tutto il suo sfarzo di suppellettili preziose e di vasellame di gran pregio, altro non era che un'imitazione del fasto dei faraoni.

2) T. minoica e micenea (v. anche vol. v, p. 42 ss.). - Le suppellettili più ricche provengono dai due recinti delle tombe a fossa di Micene, soprattutto da quello scoperto dallo Schliemann (seconda metà del XVI sec. a. C.). Gli oggetti di metallo si possono dividere in tre gruppi: a) grandi vasi d'uso comune di rame; b) vasellame prezioso di metallo nobile che apparteneva personalmente al defunto: coppe slanciate, tazze piatte, calici dal piede alto e brocche; c) oggetti di lamina d'oro sottile fabbricati appositamente per il culto dei morti come maschere (v.), ornamenti ed altre suppellettili funebri. I grandi crateri e le grandi brocche di rame sono ottenuti da una grossa lamina lavorata a sbalzo, le anse sono di metallo fuso e battuto. Questi vasi, privi di decorazione e che perciò non fanno parte della t., sono improntati ai medesimi principî formali dei vasi di metallo prezioso o d'argilla. Caratteristica comune è la forte rastremazione verso il basso, usuale sia nelle brocche e nelle idrie che nelle numerose coppe con piede. La spiccata sensibilità per la forma, propria dell'epoca, investe anche i dettagli: le anse a forma di nastro larghe all'inizio si assottigliano man mano per terminare a punta. Per i vasi di metallo prezioso esiste anche un secondo tipo di manico, l'"ansa di Vafiò", così detta dai manici delle due tazze d'oro provenienti dalla tomba a cupola di Vafiò in Laconia (1500 a. C. circa: v. vol. v, p. 84). Si tratta sempre di un'ansa a nastro che termina a punta, ma al centro essa è interrotta da una specie di rocchetto. Questo tipo di ansa è particolarmente maneggevole. Sia per stile che per tema le due tazze di Vafiò risultano essere di importazione cretese. Esse fanno parte dei capolavori della t. di tutti i tempi. La forma spoglia- pareti dritte e fondo liscio- è quella stessa delle coppe di Kamares d'argilla (1800 a. C. circa); i due fregi a struttura parallela sono stati creati senza dubbio da uno stesso maestro, mentre probabilmente l'esecuzione è dovuta alla mano di due toreuti diversi. L'affinità stilistica con gli affreschi del Minoico Medio è così stretta che l'artista che ha ideato i fregi va individuato fra i pittori cretesi. Questo è anche il caso di un altro capolavoro della t. cretese micenea: la tazza d'oro con polipi di Dendra-Midea (v. vol. iv, p. 1123). La collaborazione fra pittori e toreuti, caratteristica dell'età classica (cfr. sopra A I), esisteva dunque già in età minoica. Le coppe di forma affine trovate nelle tombe a fossa di Micene presentano una decorazione esclusivamente geometrica: nervature orizzontali, spirali, "arcate", rami stilizzati. Un fregio figurato, paragonabile per qualità a quelli delle tazze di Vafiò, compare sui frammenti di un vaso conico d'argento della IV tomba a fossa: è il famoso assedio di una città (v. vol. iv, p. 1113). Le sue "scene di massa" vivaci e movimentate ricordano da presso un gruppo di "affreschi-miniaturistici" di Cnosso. È un'altra prova dell'interdipendenza fra pittura e toreutica, a cui abbiamo accennato. L'orlo del vaso è rivestito di una lamina d'oro come quello della brocca egiziana di cui sopra; a destra e a sinistra del manico sono applicati piccoli scudi d'oro a forma di otto. Oltre a questo rhytòn conico furono rinvenuti nella IV tomba a fossa altri tre rhytà a forma di animale,- il tipo preferito della t. fino alle epoche più tarde -: a) un vaso a forma di cervo fatto di una lega di piombo ed argento, considerato a buon diritto frutto di importazione dall'Oriente; b) una testa di toro ottenuta a sbalzo da un'unica grossa lamina d'argento. Le orecchie di bronzo lavorate a parte, sono applicate ed esternamente sono rivestite d'argento, internamente d'oro. Anche le froge sono rivestite in oro e sulla fronte è fissata una rosetta d'oro. Le corna sono in lamina d'oro ed è probabile che originariamente avessero un'anima di legno. L'usanza di rivestire d'oro le corna dei bovini portati al sacrificio è nota dai poemi omerici (cfr. ad esempio Od., iii, 425 ss.). Stilisticamente molto affine è un rhytòn a testa di toro di steatite del Piccolo Palazzo di Cnosso; c) una testa di leone ottenuta a sbalzo da una grossa lamina d'oro. Rigorosamente stilizzata, a mo' di maschera, è di una potenza indicibile. Contrariamente alla testa di toro potrebbe essere un'opera micenea del continente. La testa infatti è strutturata per superfici piane che, incontrandosi, formano spigoli acuti: un tipo di composizione inconcepibile in un'opera minoica. Di forma completamente diversa è infatti la testa in pietra di una leonessa proveniente da Cnosso che pure è della stessa epoca (vol. v, fig. 99). Stilisticamente affini sono invece le maschere (v.) d'oro e di elettro trovate nei due recinti delle tombe a pozzo. La loro severa solennità non trova confronti a Creta. Proprio questi ultimi pezzi che abbiamo citati testimoniano che la t. micenea, al di là di ogni dipendenza dall'arte minoica, ha sviluppato tendenze artistiche proprie. Alcuni vasi di metallo tradiscono influssi provenienti dalle regioni settentrionali, ad esempio un grande cratere di rame il cui profilo presenta un'accentuata strozzatura. Come giustamente osservò G. Karo si tratta di una forma estranea all'ambiente egeo. Molto simile è il profilo di un kàntharos d'oro che proviene anch'esso dalle tombe a fossa. La forma di questa coppa con i due manici arditamente slanciati, che nell'arte greca ebbe uno splendido sviluppo, ha dei precedenti nella ceramica egea. A questo punto va ricordato nell'ambito dell'arte della lavorazione dei metalli il kàntharos d'argento del tesoro di Tòd nell'Alto Egitto. Il tesoro fu dedicato in occasione della posa della prima pietra di una costruzione ed è datato con sicurezza per la presenza del "cartiglio" del faraone Amenemhet II della XII dinastia (circa 1900 a. C.). Consta di quattro scrigni di rame pieni di gemme e di gioielli d'oro e di 153 vasi d'argento lavorati a sbalzo (non cesellati), per lo più tazze piatte, ornate di nervature, con o senza anse, per forma molto affini alla ceramica dello stile di Kamares. Questi vasi sono assolutamente privi di caratteri egiziani e vennero, a buon diritto, considerati (F. Chapoutier) d'importazione egea. Bisognerà pensare a Creta, tanto più che per il regno di Amenemhet II sono testimoniati in Egitto anche ornamenti d'oro provenienti da Creta. La mummia della figlia di questo faraone portava ornamenti cretesi eseguiti nella tecnica della granulazione. È notevole che questo vasellame così antico presenti già entrambe le forme di anse sopra citate: le anse a nastro e le anse del tipo di Vafiò. Il kàntharos d'argento di Tod ha un profilo più morbido rispetto a quello d'oro di Micene. L'accentuata strozzatura del vaso più tardo è tipicamente micenea. Citeremo infine ancora alcuni tipi particolari delle tombe a fossa di Micene: le anse figurate, così frequenti in seguito, compaiono già in un calice d'oro dall'alto piede. Entrambi i manici assumono in alto la forma slanciata della testa di un cane da caccia che morde l'orlo del vaso. Sui manici del tipo di Vafiò della famosa Coppa di Nestore, un vaso d'oro trovato nella IV tomba a fossa, sono appollaiate due colombe (v. vol. iv, p. 1114). Il tipo risente forse di un'influenza egiziana, tanto più che in Egitto i vasi a forma di calice sono molto frequenti ed è nota anche l'ansa figurata. Ma in complesso questa coppa singolare con i manici traforati va considerata un esemplare semibarbaro unico nel suo genere.

Accanto alla decorazione a sbalzo i vasi micenei presentano talora anche il tipo della lavorazione ad agemina, usata soprattutto per i pugnali. Si ricordino soltanto la tazza d'argento che ha per fregio una serie di teste maschili in oro e niello (v. vol. v, p. 87) e la bella coppa dall'alto piede di elettro con motivi vegetali ad agemina. Anche le minuziose descrizioni di opere di t. delle tavolette d'argilla, note ormai grazie alla decifrazione della lineare B, stanno a testimoniare che gli stessi proprietari degli oggetti facevano bene attenzione sia al materiale adoperato sia alle particolarità della tecnica.

3) La t. greca del periodo geometrico. - Come nella ceramica così anche nell'arte della lavorazione dei metalli è possibile constatare, particolarmente per determinati tipi vascolari, una continuità tra l'età micenea e quella geometrica. Per il tipo di kàntharos ciò è attestato dal pezzo più importante del tesoro di Valcitran al museo di Sofia (VIII sec. a. C.), un enorme kàntharos che è per la Tracia, suo presumibile luogo d'origine, la testimonianza più importante di questa forma vascolare. Anche la forma più frequente dei vasi geometrici di metallo, il cratere a tre piedi, risale al periodo miceneo. Dalle tombe a fossa di Micene proviene un cratere di rame liscio, con beccuccio e tre piedi a forma di nastro. La famosa tavoletta del tripode (v. vol. v, p. 88 ss.) di Pilo descrive crateri a tre piedi con due caratteristiche scanalature lungo l'orlo superiore. Un cratere a tre piedi di bronzo di Micene ed un vaso simile, acquisto recente del museo di Berlino, appartengono alla fase di transizione che precede il Protogeometrico. Questi esemplari sono privi di decorazione, i crateri sono eseguiti a sbalzo ed i piedi sono fusi. I tripodi del Geometrico, la maggior parte dei quali è stata rinvenuta ad Olimpia, hanno piedi ed anse riccamente decorati. Fu già A. Furtwängler a raggrupparli in tre tipi diversi per forma e tecnica. Soltanto un gruppo, quello con piedi ed anse rivestite di lamine di bronzo sbalzate ed incise, rientra a rigor di termini nella toreutica. Una troppo rigorosa suddivisione però rasenterebbe la pedanteria, poiché gli elementi della decorazione non si distinguono da quelli degli altri tipi dove i piedi sono spesso fusi al crogiuolo entro forme aperte. Severi motivi ornamentali, geometrici puri, compaiono qua e là con un ricco numero di varianti (v. tripode). Nonostante la ricchezza dei motivi figurati della t. orientale (cfr. B 4), i toreuti greci del periodo geometrico rimasero fedeli generalmente ai motivi astratti. Fanno eccezione le fasce in oro, provenienti da tombe del Geometrico (recentemente studiate da D. Ohly). Ma la loro decorazione è ottenuta esclusivamente a stampo, poiché la lamina d'oro è troppo sottile per essere incisa. Le scene con animali che vi sono rappresentate si ispirano probabilmente a modelli orientali. Questo è anche il caso del celebre gruppo di scudi cretesi della grotta del Monte Ida. Questi scudi, lavorati a sbalzo e a cesello, a stare alla descrizione di E. Kunze, sono autentiche opere di t.; sono ornati ciascuno da un motivo centrale a rilievo a forma di rosetta, di testa di leone o di omphalòs. I fregi concentrici che corrono tutt'attorno sono popolati di animali, di esseri favolosi, di demoni e di divinità. Le figure umane e quelle degli animali sono stilizzate secondo uno stile così diverso da quello greco geometrico, che viene da chiedersi se questi scudi non siano piuttosto frutto di importazione dall'Oriente o, comunque, non siano stati prodotti da una bottega orientale trapiantatasi a Creta. Anche ammettendo con il Kunze che si tratti di una produzione cretese indigena, questi scudi dalle caratteristiche orientali rappresentano sempre un gruppo a sé nell'ambito della t. greca arcaica. Essi risalgono pressappoco alla stessa epoca della descrizione omerica dello scudo di Achille (Il., xviii, 474 ss.). E significativo che Teti, entrando nella fucina di Efesto, lo trovi intento alla lavorazione di tripodi (Il., xviii, 369 ss.) La descrizione della lavorazione è a tal punto particolareggiata, che il poeta deve aver assistito di persona al lavoro di un'officina. Ad Itaca sono stati effettivamente rinvenuti tripodi del Geometrico con ruote identiche a quelle che Efesto sta montando sui tripodi nella scena citata. L'usanza di montare ruote su supporti metallici è ancora più antica ed è testimoniata già da alcuni piedistalli ciprioti di bronzo della fine del II millennio (uno a Berlino, da Enkomi, con quattro ruote a sei raggi). Cipro, l'isola del rame, era già rinomata nel II e nel I millennio per le sue suppellettili di bronzo. Basi quadrangolari e tripodi a colonnette venivano esportati da Cipro in tutto il mondo antico. In essi sopravvissero fino all'età arcaica alcune caratteristiche del Miceneo.

4) La t. dell'Asia Anteriore nella prima metà del I millennio a. C. - Mentre l'arte protogeometrica e geometrica dei Greci abbandonava i motivi figurati, l'arte conservatrice dell'Egitto e dell'Oriente continuò la tradizione figurativa del II millennio. Nell'Anatolia, dopo la caduta di Troia e la scomparsa dell'impero hittita, furono i piccoli stati tardo-hittiti, il potente regno di Urartu nell'Armenia ed infine Gordion, capitale della Frigia, a raccogliere la ricca eredità della t. orientale. Nella Mesopotamia settentrionale il nuovo regno assiro, con capitale Ninive, estese i suoi influssi politici e artistici fino all'Urartu, alla Siria e a Cipro. Quella che generalmente viene definita arte siriana di quell'epoca è un misto di elementi egiziani, assiri, aramaici, tardo-hittiti e fenici, l'arte insomma di una koinè medio-orientale. A questo periodo appartengono gli splendidi tesori rinvenuti recentemente nell' Iran ad Amlach e i bronzi del Luristan (v.), a proposito dei quali si è parlato con una certa fondatezza dei Cimmeri. Date queste premesse è comprensibile perché i numerosi esemplari importati dalle regioni orientali e rinvenuti in Grecia ed in Etruria, vengano per lo più definiti semplicemente "orientali". Tuttavia alcuni centri si distinguono particolarmente nella produzione toreutica.

Accanto all'Egitto il maggior centro di irradiazione di influssi artistici fu indubbiamente l'Assiria. La famosa porta di bronzo di Balawat i cui fregi, lavorati a sbalzo, raccontano le spedizioni del re Salmanassar III (858-824 a. C.) è un esempio della t. assira di quell'epoca (v. vol. iv, p. 1078). Fra i vasi di metallo si ricordi la situla di bronzo con testa di leone lavorata a sbalzo e a bulino, recentemente scoperta a Gordion. R. S. Young ne indicò a ragione la provenienza assira unitamente a quella di un'altra situla con testa d'ariete trovata nello stesso luogo (ultimo venticinquennio dell'VIII sec. a. C.). Entrambi i vasi dovevano essere di uso corrente poiché, come ad esempio le tazze di Vafiò, sono lisci internamente.

L'arte del bronzo di Urartu (v.), che raggiunse un alto livello, è fortemente influenzata da motivi assiri; ciò malgrado è stato possibile raggruppare sotto il profilo stilistico un'intera serie di opere tipicamente urartaiche. Il primo esemplare della serie fu un cratere di bronzo con applicato un motivo di tori, lavorato a getto (Ankara). Poi entrarono a far parte del gruppo altri ornati da applicare, a forma di toro e di "sirene" provenienti da Toprakkale. A questi lavori a fusione si aggiunsero scudi in bronzo eseguiti a sbalzo e a cesello con leoni in marcia (Londra), provenienti dallo stesso luogo di scavo ed inoltre un pendaglio rotondo d'oro con due figure femminili, una in trono e l'altra in piedi (Berlino). È evidente in queste opere lo sviluppo artistico avvenuto fra l'VIII e il VII sec., quando la t. di Urartu raggiunse la sua massima fioritura. Fra i capolavori si ricordino il candelabro in bronzo fuso, ora ad Erlangen (già considerato assiro da L. Curtius), che rappresenta una giovane donna con un sostegno floreale sul capo, ritta su una base a tre piedi, ognuno dei quali ha la forma di una testa d'oca dal cui becco sporge un piede di toro. Per quanto questa combinazione possa sembrare bizzarra, pure nel suo insieme la composizione risulta artisticamente convincente. All'ambito della t. di Urartu appartengono sicuramente i frammenti di trono del Louvre e del British Museum, un toro alato con testa umana (il volto e parte delle penne erano di materiale diverso, eseguiti ad intarsio) ed anche due dee con le vesti finemente cesellate che stanno ritte su leoni con corna, senza contare gli elmi e le suppelletti (Leningrado) provenienti dagli scavi di Karmir Biur presso Erevan.

Fra gli ornati da applicare, a forma di toro e di sirene di Urartu, si può individuare un gruppo della Siria settentrionale, egualmente databile fra il 730 e il 650 a. C. Certamente entrambi i gruppi risalgono a modelli assiri per noi perduti.

Anche le basi coniche dei crateri del VII sec. rinvenute in Etruria e ad Olimpia erano importate dalla Siria settentrionale. È opinione controversa se contemporaneamente gli Etruschi ed i Greci abbiano importato dall'Oriente anche i crateri con protomi di grifoni o di leoni. Uno degli specialisti in materia (U. Jantzen) è dell'opinione che tutte le protomi con leoni o grifoni che conosciamo siano di origine puramente greca; altri invece (P. Amandry ed E. Akurgal) propendono per l'origine orientale, quantunque finora protomi arcaiche di questo tipo non siano state rinvenute in Oriente. Naturalmente ciò potrebbe essere solo dovuto al caso, poiché i luoghi di scavo in Oriente sono stati più volte depredati. Ma la mancanza di crateri con protomi nelle tombe inviolate di Gordion dà da pensare. Gli stessi Greci definivano "argivi" i crateri con grifoni (Herodot., iv, 152), certamente non per nazionalismo spicciolo. Lo sviluppo stilistico che mostrano le protomi conservate può senz'altro essere inquadrato in quello dell'arte greca del VII secolo. Un'ansa da applicare, con grifoni, rinvenuta ad Olimpia (museo di Atene), originaria secondo l'Akurgal dell'Urartu, è completamente diversa come tipo dalle protomi di grifo. Le coppe piatte di bronzo e di argento, cesellate ed ornate con rilievi figurati, rinvenute in molte regioni del mondo antico, sono probabilmente di produzione fenicia o della Siria settentrionale. Molte sono state rinvenute a Cipro dove forse esistevano anche botteghe che le producevano. Su queste tazze sono raffigurati gesta di re e divinità, animali favolosi, alberi della vita, ecc. ed il loro stile è talora fortemente assiro, talora egiziano. I motivi vegetali che compaiono su queste tazze hanno sicuramente influenzato la pittura vascolare protocorinzia. I vasai ateniesi del Geometrico tardo imitarono queste tazze e la loro decorazione che si trovava per lo più all'interno.

I più antichi esemplari di questo gruppo sono quelli rinvenuti a Nimrud e ad Olimpia. Essi presentano, contrariamente alle tazze più tarde con i loro fregi a disegno minuto, un tipo di rilievo ornamentale a grandi tratti, ma finemente cesellato: su una di queste tazze compaiono scene di caccia al leone e su un'altra, forse bottino di guerra di Assurnasirpal II, quattro teste simbolo dei quattro punti cardinali (IX sec. a. C.). Il tipo compare già nella seconda metà del II millennio: una tazza d'oro di Ugarit (Aleppo, museo) con tre fregi figurati sulla parete esterna.

In Frigia l'arte della lavorazione del metallo (VIII-VI sec.) presenta spiccate caratteristiche locali. Per la verità i Frigi importavano molti oggetti di bronzo (nel grande tumulo di Gordion, recentemente scavato, sono stati rinvenuti alcuni crateri di Urartu e le situle assire di cui sopra), ma non li imitavano. I vasi di metallo di loro produzione sono massicci e semplici, quasi privi di decorazione, notevoli solo per la forma. Eccezione fatta per le numerose tazze di bronzo con omphalòs, essi non rientrano nell'ambito vero e proprio della toreutica. Antichi tipi anatolici sembrano rivivere nelle brocche dal lungo beccuccio laterale. I confronti si possono istituire con i tipi della ceramica frigia. Tipicamente frigie sono le tazze di bronzo a due anse. Queste tazze sono montate su rotelle mobili, fissate alla parete esterna per mezzo di listelli orizzontali e verticali. Questo tipo di tazza era adibito ad usi cultuali come è testimoniato da una statuetta in avorio di Efeso. Vasi e fibule frigi in bronzo erano articoli commerciali molto comuni. Se ne sono rinvenuti varî esemplari sia in Grecia che in Etruria. Nei recenti scavi del tumulo di Gordion (v.) è stata fatta una sorprendente scoperta: sono stati riportati alla luce ben 170 vasi di bronzo grandi e piccoli. Il fatto strano è che in questa tomba reale inviolata non sono stati trovati né oggetti d'oro né d'argento. Forse il re, come pensano alcuni, venne sepolto in modo povero durante l'invasione dei Cimmeri? Ciò però sarebbe in contrasto con la generale sontuosità della sepoltura. Forse a quei tempi l'oro era "tabù" in Frigia: si pensi alla leggenda di Mida, re dei Frigi, che giunse ad odiare l'oro (Ovid., Met., ii, 128 ss.) e a causa della sua cupidigia dovette purificarsi nel fiume Paktolos. La tomba di Mida doveva essere come il grande tumulo di Gordion.

Fra le opere più pregiate della t. orientale vanno annoverati gli esemplari iranici dell'inizio del I millenmo. Si ricorda la coppa d'oro di Kalār Dasht (v. vol. iv, p. 195) con tre leoni in marcia le cui teste a tutto tondo sono viste frontalmente. La composizione va considerata una creazione indigena dell'Iran; essa si incontra ancora, più tardi su una base di Persepoli. In quest'ultima, dei tre leoni che sporgono in fuori le teste ruggenti si è conservato soltanto il nucleo di bronzo. I leoni erano rivestiti di oro laminato come si vede dalle scanalature sui dorsi e sulle zampe. Un rhytòn di bronzo a forma di testa di capra selvatica, proveniente dall'Iran nord-occidentale (Teheran, collezione privata), è eseguito a sbalzo e finemente cesellato. Mentre le corna sono realisticamente scanalate, i peli sono stilizzati in una fascia intrecciata. Tra le corna è inciso l'albero della vita con uccellini fra i rami e fiancheggiato da due stambecchi. Gli occhi e le sopracciglia erano ottenuti con un intarsio di materiale diverso. Il vaso ha un secondo rivestimento all'interno, come le situle assire citate più sopra, ma lo stile in cui è eseguito non è assiro, né lo si può definire con precisione fino a questo momento. Forse il materiale rinvenuto ad Amlach, non ancora pubblicato, potrà gettar luce su questo problema. Della medesima qualità sono i frammenti di una grande tazza sbalzata e cesellata in oro massiccio, rinvenuta di recente ad Hasaniu (Iran). Questa tazza è completamente ricoperta da scene mitologiche. (Per la t. achemènide, che non rientra nel periodo trattato in questo paragrafo, v. sotto B 9).

5) La t. della Scizia e dei dominî scitici (v. anche scitica, arte). - Come sappiamo da Erodoto (4, 1) gli Sciti dominarono per 28 anni il territorio dei Medi. Questa testimonianza ha trovato conferma in campo archeologico per la recente scoperta della tomba di un principe scita presso Ziwiye, nel Kurdistan. Le suppellettili d'oro di questa tomba della fine del VII sec., d'eccezionale ricchezza, sono soltanto in parte di origine scitica. Si tratta di oggetti decorati con figure di animali eseguite nel caratteristico stile della Scizia, già noto dal materiale scavato nella Russia meridionale (museo di Leningrado): cervi sdraiati dalle corna lunghe quanto il corpo, felini, lepri rannicchiate. Dalla loro stilizzazione si deduce chiaramente che questi motivi non sono stati creati nell'ambito della t., ma provengono dalle sculture intagliate nel legno. Rilievi intagliati nel legno e nell'osso, quali realmente si sono conservati, sono riprodotti qui in oro: una tecnica che gli Sciti appresero durante l'occupazione della Media e nelle loro spedizioni fin nel lontano Egitto e che ben presto fu largamente applicata. Le figure degli animali, eseguite anche come rifiniture da applicare a sé stanti, hanno un solo lato lavorato a rilievo, come le figurine di bronzo del Luristan, per altro molto affini. Ben presto però la tendenza alla decorazione piatta porta alla totale scomparsa delle forme plastiche. Nella tomba di Ziwiye sono stati rinvenuti oltre a quelli scitici, anche esemplari d'oro assiri o iranici, ad esempio protomi di leoni e di grifi originariamente fissate su crateri. Contrariamente ai crateri greci con protomi di grifi qui sono raffigurate, seppure molto rudimentalmente, anche le zampe anteriori. La scoperta della tomba di Ziwiye fa luce anche su un altro tesoro, anch'esso presumibilmente di origine scitica, il tesoro di Vettersfelde nel Brandenburgo (circà 500 a. C., Musei di Berlino). A. Furtwängler lo ritenne di fattura greca su commissione di signori sciti, altri sostennero decisamente l'origine scitica. Si tentò anche di ricostruire lo sviluppo della t. scitica che originariamente sarebbe stata "piuttosto naturalistica", per passare poi allo stile animalistico (v.) astratto. Ma la scoperta della tomba di Ziwiye mina alle basi una ricostruzione del genere, perché pur essendo di un secolo esatto più antica del tesoro di Vettersfelde, contiene già esemplari eseguiti in questo tipico stile animalistico. I rilievi con figure di animali, eseguite a sbalzo e a cesello, delle piastre ornamentali del fodero di un pugnale e del pesce di Vettersfelde risentono fortemente di influenze ionico-orientali, cosa mai riscontrata in maniera tanto evidente nella t. scitica. Le forme, è vero, nel complesso non sono greche: le piastre si possono paragonare soprattutto ai pugnali scitici della Russia meridionale; ma il tipo della decorazione è greco. L'aquila poggiata ad ali spiegate sulla coda del pesce ha i suoi paralleli più diretti nelle idrie di Caere e il dio marino si incontra assai spesso nell'arte ionica arcaica. La tendenza a ricoprire il corpo degli animali con ibridi motivi figurati ricompare di nuovo nella figura di un cervo, un esemplare scitico di Kul Oba (Leningrado) e anche su monumenti etruschi. Il pesce, la cui testa è modellata a somiglianza delle protomi di grifi greche, non poteva certamente, dato il suo peso (gr. 609), essere il distintivo di uno scudo come un tempo si pensava. È invece molto probabilmente un dono votivo. Anche nella fase tarda del suo sviluppo, lo stile scitico rimane nettamente distinto da quello greco. Nel IV sec. a. C. molte botteghe greche producevano oggetti da esportare nella Russia meridionale, dove infatti sono stati rinvenuti alcuni dei più splendidi esemplari della t. classica (cfr. sotto B 10).

6) La t. preistorica nelle regioni settentrionali. - Nelle regioni settentrionali durante l'Età del Bronzo predomina la tecnica della fusione, la lavorazione a sbalzo e quella ad incisione sono usate solo raramente. Sul famoso carro solare di Trundholm (Copenaghen) del II periodo dell'Età del Bronzo, la decorazione (spirali, cerchi concentrici) del grosso disco di bronzo è eseguita col punteruolo e traspare anche sul sottile disco d'oro applicatovi sopra a pressione, le cui rifiniture sono eseguite con uno spillone acuminato. I delicatissimi motivi ornamentali degli oggetti conici di lamina d'oro, che risalgono all'epoca dei Campi di Urne dell'Europa centrale (circa 1000 a. C.), sono ottenuti con l'aiuto di stampi, lavorando l'oggetto a sbalzo dall'interno. Uno di questi coni fu rinvenuto presso Poitiers (Museo del Louvre), uno nel Palatinato renano (museo di Speyer) ed un altro recentemente presso Norimberga. Su quest'ultimo, oltre ai motivi astratti a cerchi e bugnature, compaiono anche ruote ad otto raggi ed una serie di occhi. Recentemente è stata avanzata l'ipotesi, peraltro persuasiva, che questi oggetti servissero da coronamento probabilmente ad oggetti cultuali.

Gli otto boccali d'oro rinvenuti nello scavo di Eberswalde presso Berlino, presentano un tipo di lavorazione affine, eseguita a sbalzo con l'aiuto di stampi. Sei di questi sono eseguiti a coppia, giacché presentano gli stessi motivi. Affine per tecnica e per stile è anche una serie di vasi d'oro della Danimarca. Mentre questi esemplari nordici si differenziano sensibilmente dalla produzione mediterranea dell'epoca, il tesoro di Velem-Szentvid in Ungheria si pone stilisticamente a mezzo fra i due ambiti artistici. Soltanto due esemplari nordici isolati, un vaso d'oro a scanalature trasversali di Cornwall (Londra) e la coppa d'oro recentemente rinvenuta a Fritzdorf (Bonn), presentano una certa affinità con i vasi delle tombe a pozzo di Micene per il tipo delle anse e per il profilo del corpo del vaso.

La decorazione più frequente delle suppellettili di bronzo del periodo di Hallstatt (v.) consta di grandi e piccole bugne impresse con uno stampo. Persino fasce sottili o motivi figurati come ruote o uccelli sono rappresentati non già mediante linee incise, ma da tante minuscole bugnature allineate. Anche le suppellettili della tomba di Klein-Klein sono eseguite in una tecnica a bugne del genere. Ciò spiega perché le opere di bronzo della civiltà di Hallstatt siano raramente lavorate ad incisione. Dove compare la tecnica dell'incisione si nota contemporaneamente anche l'influsso di modelli mediterranei, come ad esempio nei leoni e nei cervi raffigurati sulle lamine che ornavano i cinturoni o, con evidenza anche maggiore, in quelli dei coperchi delle urne del tipo rinvenuto nelle tombe di Hallstatt n. 696, i cui leoni sono stati giustamente paragonati ai leoni di stile corinzio della fase di transizione. Le opere toreutiche più importanti di quel periodo sono le situle di bronzo lavorate a sbalzo ed a incisione, il cui ambito di diffusione si estende dalle pendici nord-orientali dell'Appennino (Bologna, Este) al di là delle Alpi orientali fino alla Jugoslavia settentrionale (v. situla). Esse sono ornate di volta in volta con più fregi in cui compaiono animali, esseri favolosi, guerrieri e scene della vita reale. Sono indiscutibili gli influssi dei modelli etruschi e fenici anche se fusi in uno stile unitario e caratteristico. Questo è più o meno il caso della produzione toreutica celtica ad alto livello artistico del periodo di La Tène (v.). Varî elementi di questa t. si conservano fino al periodo romano ed influirono sull'arte provinciale romana. Si pensi ai grandi "boccali" (ted. Humpen) gallici del tesoro di argenterie di Hildesheim (v.) con i loro caratteristici fregi rozzamente incisi.

Uno splendido esemplare dalla forma singolare è il grande cratere d'argento di Gundestrup (Copenaghen, Museo Naz.). Il grande cratere emisferico (v. celtica, arte) è ornato internamente ed esternamente da lamine con rilievi figurati lavorati a sbalzo e ad incisione: divinità rappresentate per intero o a mezzo busto, scene mitologiche, come ad esempio Eracle in lotta con il leone, animali, guerrieri, scene di sacrificio. I temi e lo stile tradiscono ovviamente l'influsso gallico-romano; la datazione è incerta (probabilmente I sec. d. C.).

7) La t. etrusca. - La t. etrusca nasce nel corso del VII sec. a. C. e raggiunge il suo massimo splendore nell'ultimo ventennio del VI secolo. Rinvenimenti non recenti e di una certa importanza sono quelli delle tombe di Vetulonia (museo di Firenze), della tomba Regolini-Galassi a Caere (Musei Vaticani) e anche quelli delle tombe Bernardini e Barberini a Preneste (Roma, Museo di Villa Giulia). La decorazione puramente geometrica degli scudi di bronzo del tipo Regolini-Galassi, eredità del periodo villanoviano, è impressa con uno stampo nella lamina. Data la completa assenza di motivi eseguiti ad incisione, questi scudi non rientrano nell'ambito della t. propriamente detta. Di t. si può parlare invece a proposito di alcune opere in cui è inequivocabile l'influsso dell'Oriente: una bacinella di bronzo con tre piedi, della tomba Barberini, con sei "sirene" frontali dalle ali molto stilizzate, rannicchiate su teste di toro ed intercalate da un motivo di alberi. Nel Ceramico ad Atene sono stati ritrovati frammenti della copia greca di una bacinella orientale molto simile a quella or ora citata. La tendenza a copiare modelli orientali nacque in Grecia ed in Etruria nel VII sec. a. C. in seguito all'enorme numero di esemplari che venivano importati dall'Oriente. Gli Etruschi importavano anche opere della t. greca, ad esempio protomi di grifi e di leoni per i grandi lebeti. Nel corso del VI sec. l'industria del bronzo dell'Etruria raggiunse una posizione di predominio nel mondo antico. Particolarmente richieste erano alcune suppellettili come i candelabri o alcuni vasi come le brocche a becco, di bronzo, che venivano esportate fin nelle lontane regioni del N dove continuarono ad essere imitate per lungo tempo. Certamente i bronzi etruschi arcaici vennero superati da quelli greci per qualità artistica, ma quanto a tecnica non ebbero rivali. La fama della Τυῤῥηνικὴ ἐργασία giunse lontano, oltre i confini dell'Etruria. Veramente si tratta per lo più di suppellettili di bronzo fuso, ma s'incontrano anche opere toreutiche di prim'ordine come il carro di bronzo di Monteleone di Spoleto (museo di New York), i frammenti di carri di bronzo e i rilievi di bronzo e d'argento di Castel San Mariano (musei di Perugia, Monaco, Londra), inoltre i tre famosi tripodi Loeb, trovati in una camera sepolcrale a S di Perugia (museo di Monaco). I rilievi riccamente sbalzati e cesellati del carro di Monteleone (v. vol. v, p. 168) erano montati su un'armatura di legno di noce. A. Furtwängler definì questo carro, e a buon diritto, uno dei più importanti capolavori toreutici che ci siano pervenuti. Grazie alle tazze attiche rinvenute contemporaneamente al carro, è possibile datarlo all'incirca verso il 540. Sul rivestimento bronzeo del carro di Perugia è rappresentato Eracle in lotta con le Amazzoni (non con Cicno come si è erroneamente creduto finora). Un dettaglio della battaglia con le Amazzoni è rappresentato anche su un rilievo d'argento che proviene dallo stesso luogo di scavo, ora al British Museum (v. vol. iii, p. 479).

Inizialmente queste opere vennero considerate greche, ma in seguito è risultato che sono di produzione etrusca. Però, nonostante le ricerche di P. J. Riis, si è ancora incerti da quale officina etrusca provengano. Questo è anche il caso di un gruppo di bronzi, stilisticamente molto affini fra loro, che K. A. Neugebauer cercò di localizzare a Vulci. Convincente l'ipotesi di L. Banti sulla provenienza da Caere dei tripodi Loeb, che risalirebbero all'ultimo ventennio del VI secolo. Questa bottega ceretana aveva raggiunto un così alto livello tecnico nell'arte della t., che perfino le protomi di leoni o di sfingi applicate ai lebeti erano eseguite a sbalzo e non a fusione come quelle dei crateri di Capua. Gli spazi intermedî fra i sostegni dei crateri Loeb sono decorati da rilievi di bronzo in cui sono raffigurate varie scene mitologiche. Questa forma del tripode "chiuso" tipicamente etrusca, usata per i crateri e per i candelabri, si perpetuò nei candelabri di bronzo e di marmo, fino all'età imperiale. Verso la fine del periodo arcaico, probabilmente per influsso egiziano, vennero creati i primi specchi a decorazione figurata con manico. La maggior parte di essi è lavorata ad incisione ma alcuni, i più belli, sono ornati da rilievi. In età classica e in quella ellenistica, sia per gli specchi che per le ciste; la lavorazione del bronzo a fusione e la tecnica dell'incisione su metallo liscio sostituiranno quasi completamente l'antica tecnica toreutica (v. cista; specchio).

8) La t. greca del VII e VI sec. a. C. - Durante la fase di transizione dal periodo geometrico a quello orientalizzante si sviluppa in Grecia un nuovo tipo di cratere. Il cratere a tre piedi, come dono votivo, è sostituito man mano da crateri con basi coniche. Una forma composita, non conservataci in metallo, è rappresentata dai crateri protoattici in argilla dell'Università di Magonza, crateri che hanno già basi coniche pur conservando ancora le anse a forma di anello dei crateri a tripode. Non sono state rinvenute basi greche di metallo di questo tipo, ma soltanto esemplari di origine orientale. Anche le decorazioni figurate applicate ai crateri sono per lo più originarie dell'Urartu o della Siria settentrionale; esiste però anche un piccolo gruppo di imitazioni greche. Secondo alcuni archeologi una parte delle protomi applicate ai bordi dei crateri, in particolare quelle più antiche, sarebbero orientali, ma U. Jantzen le considera, e a ragione, greche (cfr. sopra B 4). I crateri con grifi sono stati rinvenuti nelle tombe etrusche più antiche e nei santuarî greci come Olimpia, Argo e Samo. A Samo è testimoniata l'esistenza di una bottega che produceva protomi di grifi. Gli esemplari più antichi, che risalgono all'inizio del VII sec., sono lavorati a sbalzo, ma ben presto a questi succedono protomi eseguite a fusione. Intorno alla metà del VII sec. si nota un tipo di lavorazione che abbina la tecnica a sbalzo con quella a fusione su un medesimo pezzo, ma i lunghi colli dei grifi sono eseguiti sempre esclusivamente a sbalzo. Una branca importante della t. arcaica è costituita dalla decorazione architettonica. Così, ad esempio il tempio di Atena Chaihioikos a Sparta era chiamato così per i rilievi in bronzo che lo decoravano. La lamina di bronzo su cui è raffigurata la femmina di un grifo in atto di allattare il suo piccolo, rinvenuta ad Olimpia, era probabilmente il rivestimento di una metopa (v. vol. iii, p. 1057). Altre lamine di formato minore rinvenute ad Olimpia dovevano essere rivestimenti di suppellettili o di mobili. Si ricordino soltanto la magnifica lamina con Ceneo (v. vol. ii, p. 469) e le lamine recentemente rinvenute con scene tratte da varî miti. D'alto pregio è una lamina che rivestiva probabilmente il piede di un tripode, rinvenuta ad Argo (Atene, Museo Naz.), sulla quale tra l'altro è rappresentata la morte di Cassandra. (Sul piede di un tripode al Metropolitan Museum di New York, sono raffigurati ad incisione il ratto di Teti e Bellerofonte con la chimera: è assai dubbio se le scene siano state eseguite nell'antichità, solo il bronzo è probabilmente antico). Non è stato ancora pubblicato un pettorale di Olimpia con scene figurate a rilievo, la più antica corazza con rilievi che ci sia pervenuta. Su un ben noto schienale di corazza, che tempo addietro faceva parte di una collezione privata di Zante (v. vol. ii, p. 821), è raffigurata ad incisione una scena mitologica. Fra i lavori in oro della t. arcaica si ricordi la phiàle dei Kypselidi di Olimpia (v. vol. iv, p. 431) che ricorda più i tipi egiziani che non quelli greci.

Nel VI sec. nella madrepatria greca erano famose per la loro produzione toreutica soprattutto due città: Corinto e Sparta. Grazie agli scavi possiamo farci un'idea della t. arcaica di Corinto. In un pozzo di Perachora furono rinvenute 200 phyàlai di bronzo. Fra le ricche suppellettili di bronzo delle tombe di Trebenište, H. Payne riconobbe alcuni esemplari corinzî. Però i pezzi più importanti rinvenuti in quelle tombe, i grandi crateri a volute con figure applicate sul collo del vaso, sono probabilmente laconici. Questo è il risultato al quale si pervenne (soprattutto grazie ai saggi di A. Rumpf) nell'accesa polemica sorta attorno ad un'opera toreutica d'eccezione: il cratere di bronzo di Vix (museo di Châtillon sur Seine). Questo cratere trovato nel tumulo di una principessa celtica è il più grande vaso di metallo dell'antichità che ci sia pervenuto (altezza m 1,64; diametro massimo m 1,27; peso kg 208; capienza l. 1.120). Le pareti sono ottenute a sbalzo da un'unica lamina di bronzo, il piede a campana ed il collo sono eseguiti separatamente, sempre a sbalzo, e poi applicati (v. vix). La tomba è databile al 530-20. Oltre a questi grandi crateri a volute, provengono dalle botteghe spartane anche idrie di bronzo. Il più bell'esemplare di questo tipo si trova nella collezione dell'Università di Magonza. Di questo vaso, che era eseguito a sbalzo, rimangono un'ansa verticale con rotelle ed una testa femminile, entrambe lavorate a fusione, e l'orlo del vaso. Tutt'attorno all'orlo è incisa la parola Telesstas forse il nome di un celebre toreuta spartano che ci è noto dalle fonti antiche. Quest'opera, dell'inizio del VI sec., è la prima di un'intera serie di idrie di bronzo di tipo affine. La struttura inizialmente semplice dell'ansa assume, durante il corso del VI sec., forme sempre più varie. Così, ad esempio, alla testa femminile si aggiungono arieti sdraiati. Sei idrie, un tempo colme di miele, provenienti dal santuario sotterraneo di Paestum (v.), databili all'incirca attorno al 520-10 grazie ad un'anfora attica rinvenuta nel medesimo scavo, testimoniano la ricchezza e la fantasia delle forme delle anse del tardo arcaismo. V'è ad esempio tra esse uno splendido esemplare con un'ansa verticale a forma di leone. Anche se queste idrie di Paestum tradiscono ancora un influsso della t. laconica, non sono più di produzione spartana. Si può pensare invece a Taranto, colonia di Sparta. Alla fine dell'età arcaica, dopo la scomparsa delle botteghe laconiche, questa città ha raccolto la ricca eredità della lavorazione dei metalli della madrepatria, conservandone la tradizione fino in età romana.

9) La t. achemènide. - Basta pensare all'immensa ricchezza dei re di Persia descritta dagli storici greci e che Alessandro poté constatare di persona a Susa, a Ecbatana e a Persepoli, per postulare a priori l'esistenza di innumerevoli opere toreutiche eseguite in metalli preziosi. Numerosi sono anche i pezzi giunti sino a noi. La t. achemènide dette un particolare impulso alla t. ellenistica, fornendo ai Greci un esempio di lusso e di tesaurizzazione. Questa t., che raggiunse un alto livello artistico sotto la dinastia degli Achemènidi (550-330 a. C.), è stata l'oggetto di studî approfonditi proprio recentemente, dopo le grandi esposizioni di arte iranica a Parigi e a Roma. Punto di partenza furono i rilievi del Palazzo di Persepoli con i portatori di tributi, un'intera fila è raffigurata con in mano opere di t. per il Gran Re. I vasi raffigurati sui rilievi hanno effettivamente forme del tutto simili a quelle di alcuni esemplari in metallo prezioso a noi noti, come ad esempio la brocca a forma di anfora con due animali per anse; una delle anse è forata in modo da poter versare il contenuto. Vi sono inoltre anfore con anse piene, ma con due fori sul fondo. Vasi di questo tipo erano usati, come l'anfora di Panagjurište (v.), come "doppi rhytà " (v. oltre). Sembra che in Persia anfore di questo tipo fossero preferibilmente di argento, mentre i rhytà a forma di animale (v. rhytòn) erano per lo più d'oro. Si ricordi soltanto il rhytòn con protome da Ecbatana (a Teheran): il vaso a forma di corno molto slanciato si trasforma sul davanti in un leone alato e ruggente. Il corpo del rhytòn è movimentato da quelle scanalature trasversali così caratteristiche della scultura achemènide in pietra. Sotto il labbro del vaso corre un motivo che si incontra assai spesso nell'arte persiana: fiori di loto e palmette intrecciati. Il tipo ricorda in molti particolari l'arte greca del tardo arcaismo, ma qui l'arcaismo non fu superato come in Grecia e si conservò nell'arte ufficiale fino ai tempi di Alessandro. Si tratta di un'arte di corte vera e propria. Fra le più belle opere della t. achemènide vanno annoverati i piatti d'oro e d'argento con al centro scene figurate: due stambecchi araldici con le corna intrecciate (Ginevra, collezione privata), un'aquila in volo, un toro alato (New York, collezione privata), una scena di lotta fra un leone ed un toro (Teheran, collezione privata). Le due anse di vaso a forma di stambecco alato (Louvre e Berlino) appartengono ad un capolavoro della prima metà del IV secolo. Questi stambecchi massicci e lavorati a fusione erano parzialmente rivestiti di lamine dorate ed hanno le zampe posteriori poggiate su maschere di satiri. Il vaso sbalzato di cui facevano parte era forse un "doppio rhytòn" d'argento a forma di anfora, un tipo affine ad un'anfora di una collezione privata che si è conservata integra. I retaggi della t. achemènide, che furono raccolti dall'arte dell'ellenismo, riaffiorano ancora in età imperiale romana. Nella tarda antichità i sovrani sassanidi tornarono volutamente alle forme achemènidi (v. sassanide, arte).

10) La t. greca dell'epoca classica. - Il V e il IV sec. a. C., furono anche l'epoca "classica" della t. greca, dove per classica si intende "storicamente attiva, esemplare". I Romani furono grandi collezionisti del vasellame prezioso dell'età classica e ne fecero anche fare innumerevoli copie. Corinto e Taranto erano considerati i centri classici della lavorazione artistica dei metalli. In entrambe le città esisteva una tradizione artigiana che aveva le sue origini in età arcaica. Può sembrare che Atene passi in seconda linea rispetto a queste città; ciò è dovuto a particolari motivi. Ad Atene non esisteva una grande tradizione toreutica, ma la genialità dei suoi grandi artisti portò la t. a superare di gran lunga i confini dell'artigianato. Così ad esempio la decorazione dell'elmo, dello scudo, dei sandali e della base della statua d'avorio e d'oro dell'Athena Parthènos di Fidia sono opere toreutiche. Probabilmente tutte queste parti della statua ornate di rilievi figurati erano d'argento sbalzato, rivestito di una lamina dorata. Anche la statua di Zeus ad Olimpia doveva essere decorata in modo simile. Ma l'effetto era quello di uno scintillio variopinto, perché ai rilievi si aggiungevano intarsî di pietre, come dice Pausania (v, ii, 2), e di vetri cangianti, come è provato dagli scavi della bottega di Fidia ad Olimpia. Tutto ciò è sconosciuto alle opere della t. greca. Vien da pensare alla t. orientale (cfr. sopra B 1) alla quale Fidia potrebbe essersi volutamente ispirato.

Delle parti propriamente toreutiche dell'Athena Parthènos ci sono pervenute copie in marmo, di formato ridotto, dello scudo e dello zoccolo e anche copie di marmo in grandezza naturale di singoli guerrieri e di alcuni gruppi dell'Amazzonomachia raffigurata sullo scudo. Con grande probabilità il medaglione d'argento dorato di Galaxidi può essere considerato una copia della nascita di Afrodite raffigurata sulla base della statua di Zeus. Discutibile invece l'ipotesi di E. Buschor che vorrebbe vedere nella Medusa Rondanini una copia dell'emblema d'oro collocato al centro dello scudo della Parthènos. Come C. Blümel ha ben dimostrato, le copie delle opere toreutiche di Fidia si differenziano singolarmente dai coevi rilievi in marmo, ad esempio dal fregio del Partenone. A causa del gran numero di opere toreutiche con cui erano decorati i suoi capolavori, Fidia venne definito dai tardi storici dell'arte colui che "aveva scoperto ed inseguato" l'arte della toreutica (Plin., Nat. hist., xxxiv, 54 = J. Overbeck, Schriftquellen, n. 782). Nel passo citato, Plinio continua dicendo che con Policleto la t. si perfezionò fino a raggiungere i supremi vertici dell'arte. Il passo si riferisce probabilmente alla statua d'oro e d'avorio di Hera ad Argo. Purtroppo non si è conservato quasi nulla di questo capolavoro, perciò sono vane le notizie delle fonti ai fini di ricostruirne l'immagine. In minima misura potrebbe compensarci della perdita il modellato estremamente raffinato e naturale dei capelli conservatosi in alcune buone copie di opere policletee. La t. assurta a nuova dignità per merito di Fidia e Policleto, suscitò un rinnovato interesse negli artisti della nuova generazione. Così ad esempio Agorakritos mise in mano alla statua cultuale di marmo della Nemesi di Ramnunte una phyàle probabilmente d'oro sulla quale erano raffigurati Etiopi (Paus., i, 33, 3). Probabilmente la phyàle di Panagjurište ne è una copia (v. oltre). Le Cariatidi del pronao dell'Eretteo reggevano phyàlai romane in marmo ornate di ghiande, come si può vedere dalle copie romane in marmo. Possono darci un'idea degli equivalenti di metallo le phyàlai d'oro decorate con ghiande di cui possediamo splendidi esemplari a partire dall'età arcaica fino all' ellenismo. Anche Kallimachos era famoso come toreuta: la palma di bronzo con la lampada d'oro dell'Eretteo era opera sua (Paus., i, 26, 7). Non è sicuro, invece, se gli originali delle Menadi Danzanti, che si fanno risalire a Kallimachos e che conosciamo dalle copie neoattiche, fossero rilievi di bronzo. Secondo Vitruvio (iv, 1, 10) gli Ateniesi avevano dato a Kallimachos il soprannome di Katatexìtechnos per "l'elegante raffinatezza delle sue opere in marmo" (propter elegantiam et subtilitatem artis marmoreae). Sembra dunque piuttosto che Kallimachos abbia tradotto in marmo la subtilitas della lavorazione toreutica ed in effetti la decorazione dell'Eretteo potrebbe esserne una prova. Anche le branche più propriamente artigianali della lavorazione dei metalli, come ad esempio la produzione di armi e di vasi, parteciparono allo sviluppo della t. dell'età classica. Sulle paragnatidi di un elmo attico coevo al Partenone, che ci sono note da una copia in argilla, sono raffigurati Afrodite ed Eros in una composizione che si fa risalire a Fidia (vol. iii fig. 525). Mentre la decorazione dei vasi di bronzo era, fin dal periodo arcaico, eseguita esclusivamente a fusione, ora un gruppo di idrie di bronzo, che sono fra gli esemplari più belli, presenta un tipo di decorazione applicata, eseguita a sbalzo e ad incisione. L'esemplare più antico è un'idria (ora a New York), dell'ultimo venticinquennio del V secolo. Alla sua ansa verticale è applicato il calice di un fiore d'acanto con al centro una Nike a cavallo di un cervo; si tratta forse di una copia del motivo ornamentale della corona della Nemesi di Agorakritos. I dettagli sono ad intarsio d'argento sul tipo del cratere di bronzo delle Mènadi (Berlino). Forse entrambe le opere provengono da una bottega attica.

Nel IV sec. compaiono gli ornati da applicare, lavorati a sbalzo, con Dioniso e Arianna o un satiro con Eros, Borea e Orizia, Zefiro ed Iride. Temi e composizioni del genere si ritrovano nei rilievi degli specchi a cerniera, il tipo più recente di specchio dopo quelli a piede e quelli con il manico, diffusosi nell'ultimo ventennio del V secolo. I centri di produzione sembra siano stati Corinto, Calcide, Atene, Taranto e varie città ioniche. Fra gli esemplari di pregio singolare vanno citati gli specchi a cerniera corinzî, con le grandi teste femminili che dovrebbero in un certo senso raffigurare, idealizzandola, la bellezza dell'immagine riflessa della proprietaria. Il più bell'esempio della t. classica di Taranto è un rhytòn d'argento a Trieste: la testa di un cerbiatto al quale stanno spuntando appena appena le corna. La scena mitologica che si trova sotto l'imboccatura rappresenta probabilmente Borea ed Orizia con ai lati Eretteo ed Atena. L'influsso di Atene si avverte più nel tema che non nello stile. Alla produzione tarantina venne attribuito anche un rhytòn a forma di testa di toro, proveniente da Kul Oba. I rinvenimenti più ingenti di opere della t. greca del IV sec. a. C. si sono avuti nella Russia meridionale. Ne fanno parte le faretre ed i foderi d'oro di spada citati più sopra (A 1). Il pezzo più pregevole è un vaso d'argento di Nikopol (museo di Leningrado), una specie di rhytòn a forma di anfora panatenaica (vol. iv, fig. 644). Sulla parte inferiore sono applicate teste di leoni e di cavallucci marini alati dalle cui bocche il liquido doveva uscire a zampillo. La parte centrale del vaso è ornata da viticci d'acanto splendidamente lavorati a sbalzo ed a cesello. Qua e là fra i viticci si dondolano colombe, l'uccello sacro ad Afrodite. Forse questo stesso vaso era adoperato nel culto della dea. Lungo il bordo superiore del vaso corre un fregio con scene realistiche tratte dalla vita dei cavalieri sciti. Nella zona dei manici sono applicati gruppi di animali in lotta con grifi. L'influenza di esemplari di questo tipo che, come i "vasi di Kerč" sono probabilmente di produzione ateniese, giunge fino al grande cratere del tesoro di argenteria di Hildesheim e ai viticci dell'Ara Pacis. Dai tumuli traci dell'odierna Bulgaria proviene un'intera serie di opere toreutiche, ad esempio una tazza d'argento, certamente attica, del 400 a. C. circa (Sofia). La scena incisa all'interno raffigura Selene che cavalca sulle onde. A Panagjurište (v.), presso Plovdiv (Filippopoli), è stato ritrovato un gruppo di vasi d'oro. Si tratta di tre rhytà a forma di testa di animale (due di cervo, uno di pecora), tre rhytà a forma di testa femminile, un "doppio rhytòn" a forma di anfora con centauri per manici e con due fori sul fondo, un rhytòn con protome di capra, una phyàle con tre file di teste di negri ed una di ghiande. Quest'ultimo esemplare ci può dare un'idea del tipo delle sei ϕιάλαι Αἰϑιοπίδες dell'Atena dell'Acropoli, citate in un documento della tesoreria del 368-67 a. C. (I.G2., ii-iii, 1425, 25). Risalgono al periodo di Alessandro il Grande e provengono probabilmente dalla stessa Tracia, famosa per le sue miniere d'oro.

Sulla phyàle di Panagjurište, come in genere su tutti i vasi di metallo prezioso, è segnato il peso. Il valore netto dell'oggetto era di 100 darici persiani, che corrispondevano a 196 dracme attiche e 1/24. "Tutto questo non può essere altro che la conseguenza di una determinata situazione finanziaria: è il momento in cui lo statere d'oro di Alessandro, del peso di due dracme attiche, diventa la moneta internazionale, il momento in cui, insieme all'impero persiano, scompare anche il darico" (H. A. Cahn). Sia nella stilizzazione delle teste di animali che nella forma dell'anfora si avverte chiaramente l'influsso della t. achemènide (v. sopra B 9); i fregi figurati invece sono puramente greci. È sorprendente il ritorno alle forme stilistiche del classicismo attico del secolo precedente, che informerà del pari la t. dell'età ellenistica.

11) La t. ellenistica. - Recentemente il nostro patrimonio archeologico si è arricchito di un eccezionale esemplare dell'inizio dell'ellenismo: un grande cratere di bronzo a volute della Grecia settentrionale (Derveni, Salonicco, fig. 1051). Il cratere conteneva le ceneri di un defunto. Sul corpo del vaso è eseguito a sbalzo e cesello un fregio che rappresenta un thìasos (menadi, un sileno, Dioniso). Sul collo sono applicate in serie figure di animali eseguite a parte, a sbalzo e ritoccate a bulino; anche alcune parti delle grandi figure eseguite a sbalzo sul corpo del vaso, sono fuse a parte e applicate (mano sinistra del Dioniso, un fodero di spada, un ramo). Due serti, l'uno di edera, l'altro di vite, fusi in argento puro, sono ugualmente applicati sul vaso, sopra e sotto alla baccellatura che orna la spalla; altre lamelle d'argento sono applicate sul kymàtiòn lesbico e dentro gli occhi delle maschere (di Achebo, di Eracle e di Oceano), lavorate a parte anch'esse, che ornano le rotelle delle alte anse, attorno alle quali si snodano dei serpenti. Inoltre, sulla spalla del vaso erano applicate quattro figure sedute (un giovane, due menadi, un satiro con otre) eseguite a tutto tondo in fusione, ritoccate a bulino, di altissima qualità di esecuzione. Il fregio a ovoli della bocca del vaso reca una iscrizione, dalla quale si ricava che il vaso era stato eseguito per un Tessalo. Insieme a questo pezzo straordinario, è stato trovato altro vasellame d'argento, in parte dorato a fuoco, corone d'oro a foglie di olivo e di mirto, frammenti di stoffa e di papiro iscritto, e un grande cratere a vernice nera ornato da un tralcio di vite. È questo cratere senza dubbio il pezzo di più alta qualità che ci sia pervenuto dalla t. classica ed è da lamentarsi che il complesso del ritrovamento non sia ancora stato dettagliatamente pubblicato. Si tratta inoltre del primo esemplare originale di cratere ellenistico in metallo con decorazione figurata, un tipo noto finora soltanto dalle copie neoattiche in marmo. Gli esempî più famosi di tali copie sono il cratere Borghese (Louvre) e le sue repliche che (secondo W. Fuchs), risalgono ad un'opera toreutica originale del 160-150 a. C. circa, e il cratere Medici (Firenze). All'inizio dell'età ellenistica nella pompè di Tolomeo II Filadelfo venne portata in processione una gran quantità di oggetti d'oro e d'argento, armi, altari, bruciaprofumi e vasi, fra i quali ad esempio, due crateri d'oro con fregi figurati, prodotti dell'arte toreutica di Corinto (τετορευμένα ξῷα, Athen., v, p. 199). Non è possibile dire quanti pezzi di questa pompè siano stati eseguiti ad Alessandria stessa. La t. alessandrina, che nel secolo scorso si credeva di conoscere così bene, è per noi ancora un'incognita. Alessandrino è forse un pregevole rilievo di bronzo sul quale sono raffigurati Artemide e due satiri presso un altare (250 a. C. circa). Proviene dal tempio della Agathè Tyche di Delo che va probabilmente identificato con quello di Arsinoe Philàdelphos. Possiamo farci un'idea della t. alessandrina dai calchi di gesso che per la maggior parte sono stati rinvenuti in Egitto (cfr. sopra A 3). Sono rarissimi i casi in cui siano stati rinvenuti contemporaneamente sia l'originale che il calco. Alla decorazione di una coppa d'argento di Ingolstadt (Monaco) corrisponde perfettamente un calco di gesso rinvenuto in Egitto. Questa coppa potrebbe dunque essere un esemplare della t. alessandrina della fase classicista dell'ellenismo tardo. A questa stessa fase risale il materiale della nave che affondò a Mahdia (v.) (Tunisi), e nella cui datazione si deve esser concordi (con W. Fuchs), per quella attorno al 100 a. C. e non già al 50 a. C. (H. Küthmann). Gli oggetti di bronzo trovati sulla nave, merce probabilmente ateniese, costituiscono un terminus importante per la t. ellenistica. Nella seconda metà del II sec. a. C. come per la scultura in marmo così anche per quella in metallo, inizia la fase del classicismo. La t. di Pergamo, un altro grande centro dell' ellenismo, è nota quasi soltanto da riproduzioni in argilla e in marmo. Tutti i tentativi precedentemente fatti per attribuire alla produzione pergamena la tazza d'argento di Atena del tesoro di Hildesheim sono stati definitivamente abbandonati in seguito agli studî di H. Küthmann: la tazza fu sicuramente eseguita in Siria verso la metà del I sec. a. C. In una tomba di Emesa all'incirca dello stesso periodo, sono stati trovati altri esemplari della t. siriaca ellenistica, fra cui un elmo a maschera di un tipo che si trova frequentemente in età imperiale romana (vedi più sotto). Anche il ben noto tesoro d'argento di Taranto è del I e non già del III sec. a. C.

Ben poco s'è conservato del vasellame ellenistico di metallo prezioso. La forma preferita dei boccali era, fin dal III sec. a. C., quella della coppa semisferica senza anse né piede. Non ne abbiamo che riproduzioni economiche in argilla, le cosiddette coppe megaresi ed omeriche (v. megaresi, vasi) che nella forma e nella decorazione a rilievo si rifanno certamente a modelli di metallo. Le prime sono decorate con motivi vegetali, le seconde con scene mitologiche. Anche i vasi d'argento delle tombe 2 e 3 del kurgan Artiuchow (museo di Leningrado), datati nell'ultimo ventennio del II sec. a. C. grazie ad alcuni pezzi rinvenuti nello stesso scavo, fanno parte dell'esiguo numero di vasi di metallo dell'età ellenistica. La loro forma è simile a quella delle coppe megaresi, ma hanno piede e anse. Ogni ansa è formata da due fili d'argento intrecciati con il nodo d'Eracle, un tipo d'ansa noto fin dal IV sec. nella ceramica greca ed etrusca. Alla congiunzione fra il labbro del vaso e l'ansa è applicata una apposita placca per il pollice, un motivo ripetuto poi fino in età imperiale. I precursori diretti di questa placca per il pollice, sono i manici degli skỳphoi dei Cabirî di età classica. Il numero dei pezzi ellenistici è ora accresciuto dal corredo di una tomba presso Novocerkassk (scavi S. I. Kaposcina). Un tratto caratteristico della t. ellenistica è il ritorno a modelli beoti. (Anche alcuni poeti ellenistici, del resto, ponevano il beota Esiodo al di sopra di Omero). Anche la forma del kàntharos ellenistico dal piede alto e snello, come quello del tesoro di Taranto citato più sopra, è una rielaborazione dei kàntharoi classici beoti, di cui possediamo alcuni esemplari in argilla. Ma va senz'altro scartata l'ipotesi che i vasi d'argento del kurgan Artiuchow siano frutto di una successiva rielaborazione di una forma di coppa priva di anse sul tipo di quelle megaresi. Anche l'osservazione che le anse sono state applicate senza tener conto della decorazione della superficie del vaso si dimostra infondata alla luce dello sviluppo generale della toreutica. Le anse erano già applicate allo stesso modo nelle tazze di Vafiò (v. sopra B 2). Il fenomeno va riportato piuttosto ad un sistema di distribuzione del lavoro, tipico dell'antichità a partire dal II millennio fino all'età romana. Un artigiano eseguiva i rilievi, un altro il piede e le anse ed il vaso era pronto per il montaggio. Non sempre durante la lavorazione veniva tenuto conto della bellezza della composizione, così per esempio le belle lamine di rivestimento che provengono da Olimpia (cfr. sopra B 8) sono spesso deturpate dai fori grossolani ed irregolari dei chiodi. Un accenno a questa divisione di compiti si potrebbe ravvisare nelle iscrizioni romane, dove compaiono da un lato i caelatores (v. vol. ii, p. 252), dall'altro gli argentari (v. vol. i, p. 620 ss.). Forse soltanto in casi eccezionali gli stessi toreuti si curavano personalmente di applicare le anse, così ad esempio il toreuta ellenistico Apelles (Athen., xi, p. 488 c = J. Overbeck, Schriftquellen, 422, n. 2191) che tentò di ricostruire la coppa di Nestore (Il., xi, 632 ss.).

Come già i loro predecessori del periodo arcaico, anche i sovrani ellenistici usavano donare ai santuarî greci preziose opere di metallo. Seleuco I, ad esempio, aveva donato al santuario di Didyma uno skỳphos d'argento con una ricca decorazione figurata, uno psyktèr d'argento ed alcuni rhytà d'oro (Dittenberger, Syll. Or., 214). Soltanto uno di questi doni principeschi ci è conservato: un cratere di bronzo rinvenuto ad Anzio nel 1741 (Roma, Palazzo dei Conservatori, diametro cm 43). Il vaso, ornato da scanalature, e da un fregio d'argento di fiori di loto ad intarsio, era stato donato, come dice l'iscrizione incisa sull'orlo del vaso, dal re Mitridate Eupatore agli Eupatoristi del Ginnasio, dunque ad un'associazione dedita al culto dello stesso re. Mitridate era venerato come il novello Dioniso; certamente questo cratere doveva figurare al centro dei festeggiamenti in suo onore.

Il vaso, databile nel 100 a. C. circa, proviene forse da Delo dove è stato scavato un santuario dedicato a Mitridate. In età ellenistica Delo era rinomata per i suoi lavori di bronzo. Basti pensare ai letti di Delo (lecti deliaci) tanto cari ai Romani, lettiere di bronzo con protomi dionisiache sulla testata e spesso ornate anche da intarsi.

Le fonti letterarie ci hanno conservato un'eco dell'abbondante produzione ellenistica di oggetti di lusso in metalli preziosi di cui le testimonianze archeologiche, talvolta di qualità assai alta, sono soltanto un esiguo documento.

Livio è bene informato sugli oggetti di t. pervenuti a Roma con le guerre di conquista, sugli argenti che si trovavano a Roma e ci dà indicazioni preziose su antichi centri di produzione.

A proposito della presa di Taranto (272 a. C.), Livio (xxvii, 16, 7) ricorda che "fu presa una grande quantità d'argento lavorato insieme a 83.000 libbre d'oro" (270 kg.). Nel 197, nel trionfo di T. Quinzio Flaminio dopo la resa di Eretria, "nel primo giorno furono condotte nel corteo trionfale le armi, le statue di bronzo e di marmo; nel secondo, oro ed argento lavorato e non lavorato: 43.270 libbre di argento in lingotti, 270 di argento lavorato; vi erano molti vasi di ogni genere, per lo più lavorati a sbalzo, alcuni con arte eccellente, in più 10 clipei d'argento" (xxxiv, 52, 4 ss.); nel 188, Scipione Asiatico trionfa dopo la presa di Magnesia (Liv., xxxvii, 59, 3 ss.): porta in trionfo 134 simulacri di città, 1.231 denti di elefante, 234 corone d'oro, 1.423 libbre di vasi d'argento tutti sbalzati, 1.023 libbre di vasi d'oro: a proposito della stessa campagna Livio (xxxix, 6, 7) dice anche che da essa i soldati tornati in patria introdussero l'uso dei letti di bronzo. Le cifre riportate da Plinio a proposito del medesimo trionfo non discordano molto con quelle di Livio: 1.300 libbre di vasi d'argento; 1.500 di vasi d'oro.

Nel 188 si ebbe dunque il trasferimento di ingenti quantità d'oro e d'argento a Roma; tuttavia è interessante notare come i metalli preziosi non entrassero nelle case private, rimanendo proprietà dello Stato: nel 172, i legati degli Etoli, ricevuti dal console Catone Elio, mangiarono in piatti di terraglia, e quando, tornati in patria, pensarono di inviare piatti d'argento al console, si videro respingere il dono; si sa infatti che alla morte del console risultò che egli possedeva un solo bicchiere d'argento, dono del genero. Le argenterie "romane" del periodo, a noi pervenute, potrebbero quindi difficilmente riflettere un gusto "romano".

Su crateri, fiale, piatti d'argento portati nel trionfo di Paolo Emilio (168) abbiamo brevi notizie tanto da Livio (xlv, 39, 5 ss.) quanto da Plutarco; per le imprese del 146 contro Cartagine e contro Corinto possiamo contare purtroppo soltanto sulle Periochae di Livio (par. 52), dalle quali abbiamo l'importante notizia della distribuzione ai municipî delle opere d'arte eccedenti. Una imago clipeata di Asdrubale, in argento, è ricordata da Livio tra il bottino d'una campagna in Spagna (probabilmente quella del 206: xxvi, 39, 11i). Plinio (Nat. hist., xxxiii, passim) pone in risalto il rapido arricchimento: Scipione Africano avrebbe lasciato agli eredi solo 32 libbre di vasi d'argento, ma suo fratello l'Allobrogico fu il primo a possederne mille libbre e Livio Druso, tribuno, ne possedeva undicimila.

12) La t. romana del periodo repubblicano e dell'inizio dell'Impero (II sec. a. C. - I sec. d. C.). - Al modesto tenore di vita, tanto decantato dagli scrittori delle epoche successive, dei primi tempi della Repubblica a Roma, subentrò una crescente esigenza di lusso. Ai semplici vasi d'argilla si preferì d'ora in poi il sontuoso vasellame d'argento. Massima ambizione era di possedere l'argentum vetus, antiche suppellettili greche in argento.

Plinio (Nat. hist., xxvi, 139) dichiara che ai suoi tempi l'Uso dei vasi d'argento era talmente diffuso da penetrare persino tra gli utensili di cucina, e sottolinea il capriccio con cui si passava dai vasi Furniani a quelli Graziani e ai Clodiani; Seneca (De tranq. animi, 9) tratteggia le figure dei nuovi ricchi intenti a collezionare vasi d'argento corinzî.

Una fonte assai importante sono le Verrinae di Cicerone, che ci descrivono Verre avido di argenterie, e nello stesso tempo tanto appassionato collezionista da dividere il tempo con gli operai dello stesso opificio da lui impiantato a Siracusa. È poi notevole che fra le attività degli operai di Verre vi fosse quella di montare sui vasi nuovi pezzi tolti a vasi di varia provenienza (Verrinae, [ii, 1-4]).

Cicerone nelle sue orazioni contro Verre si scaglia violentemente contro la passione dei collezionisti romani per le opere della toreutica greca. Quando addirittura non ci si impossessava del vaso o della suppellettile, ci si "accontentava" di asportare la parte di maggior valore, cioè l'ornato toreutico. Così ad esempio si staccavano dalle coppe d'argento gli emblemi a sbalzo. Chi non riusciva a procurarsi gli originali greci, ne faceva fare la copia. Ed anche questa era opera, nella maggior parte dei casi, di artisti greci. Il lavoro veniva eseguito per lo più per mezzo di calchi di gesso, dei quali se ne è conservato un numero considerevole (cfr. sopra A 3). I modelli provenivano da Atene, dall'Oriente ellenistico ed anche dall'Italia meridionale e dalla Sicilia. Taranto rimase fino in età romana uno dei più importanti centri di produzione toreutica. Pasiteles, toreuta e scultore dell'epoca di Pompeo, era nato nella Magna Grecia. Le sue opere non erano soltanto semplici riproduzioni di modelli classici, ma possedevano anche una certa pretesa di originalità. Così per tutta la sua scuola. In questi casi anche opere toreutiche di artisti contemporanei potevano raggiungere un'alta quotazione sul mercato degli oggetti d'arte di allora. Plinio narra di un toreuta, un certo Zopyros, che aveva rappresentato su due skỳphoi, acquistati a prezzo altissimo, gli Areopagiti e il iudicium Orestis (Nat. hist., xxxiii, 156). Poiché questa seconda scena è raffigurata su un kàntharos d'argento rinvenuto ad Anzio (Roma, Palazzo Corsini), si è pensato di ravvisarvi l'opera di Zopyros (v. oreste). Ma l'esecuzione del kàntharos di Anzio non è di livello così alto da spiegare il costo di un milione e duecentomila sesterzi.

La composizione, nota anche da gemme e rilievi in marmo, si fa giustamente risalire ad una pittura classica. Lo stesso dicasi per il fregio di un kàntharos d'argento acquistato alcuni anni fa dal British Museum. Anche qui si tratta della storia di Oreste, ma vi è raffigurata una scena insolita. La chiave della sua interpretazione ce la dà Igino (Fab., 120): Oreste, Ifigenia e Pilade invocano la protezione di Apollo nel santuario del dio sull'isola di Crise. Il re Toante arriva con un servo e chiede al giovane figlio di Agamennone e di Criseide, che essi gli vengano consegnati. Ma compare Criseide e rivela a suo figlio che i supplici sono suoi fratellastri e li salva così dalla persecuzione di Toante. L'esecuzione di questo fregio è di qualità notevolmente superiore alla Coppa Corsini (v. fig. s. v. timanthes e v. zopyros); per la datazione è stata proposta l'età augustea. La stessa scena è documentata nella ceramica aretina.

In molti casi i vasai aretini traevano le loro scene da opere toreutiche originali. Così anche le scene rappresentate sulle coppe d'argento di Hoby (Copenaghen, Museo Naz.) trovano paralleli nella ceramica aretina. Questi due skỳphoi d'argento, firmati da Cheirisophos (v.), rappresentano quanto di meglio ci sia giunto della t. augustea. Alcune parti sono dorate. Le figure di Achille e di Priamo inginocchiato hanno fatto pensare, e a ragione, alla scena in cui compaiono Augusto e Fraate, re dei Parthi. Una coppa d'argento rinvenuta a Meroe, proveniente probabilmente dalla piramide del re Amentabale (Boston), morto nel 25 a. C., rappresenta, secondo C. Vermeule, Augusto che pone fine alle contese fra l'Alto e il Basso Egitto. Sui due skỳphoi di Boscoreale della Collezione Rothschild sono raffigurate scene che ricordano da vicino i rilievi storici: il trionfo di Tiberio ed Augusto in trono a cui si avvicinano Venere e Marte assieme ai barbari assoggettati. Probabilmente si tratta del trionfo celebrato nel 7 a. C. Di conseguenza le due tazze vengono a far parte di quell'esiguo numero di esemplari di età augustea per i quali esiste un terminus post quem. Quanto al resto, per i numerosi tesori d'argento sepolti dall'eruzione del Vesuvio, rinvenuti in Campania, abbiamo soltanto l'anno 79 d. C. come terminus ante quem; ma in molti casi, come per la coppia delle tazze Rothschild, può trattarsi di argentum vetus in uso già da parecchie generazioni. Per Plinio, che scriveva ai tempi dell'eruzione del Vesuvio, tutti i toreuti famosi appartenevano al passato. In effetti il periodo d'oro della t. romana deve essere stato il lasso di tempo fra Pompeo ed Augusto.

Questo è il risultato a cui pervengono anche i minuziosi studi di H. Küthmann, che in primo luogo propongono una datazione alta per i diversi pezzi del tesoro di Hildesheim (v.), una serie di finissimo vasellame da tavola che comprende quasi tutti i tipi vascolari del tardo ellenismo e della prima età imperiale. Sembra che i toreuti di età claudia e di età flavia siano stati invece meno geniali. Le coppe con centauri e con maschere del tesoro di Berthouville sono a buon diritto ritenute dal Küthmann copie di età claudia da originali più antichi di un secolo. Controversa è invece la datazione del kàntharos con maschere trovato a Stevensweert e delle coppe decorate da un motivo di rami ad alto rilievo in uno stile realistico. Anche per questi esemplari saremmo propensi ad una datazione alta, quantunque quelle proposte dal Küthmann ci sembrino in parte troppo alte.

Uno degli esemplari più belli è la coppa d'argento di Alesia le cui pareti sono ricoperte da rami fioriti di mirto, stilisticamente affine tra l'altro ai kàntharoi con rami di ulivo della Casa del Menandro (museo di Napoli) e alle coppe con rami d'alloro di Hildesheim. Riteniamo tipicamente augustea questa decorazione naturalistica a rami recisi. Al contrario, il tipo di decorazione stilizzata a viticci di acanto è strettamente connessa a prototipi ellenistici. Gli esemplari più belli di questo secondo gruppo sono le coppe di tipo "megarese", il grande cratere d'argento del tesoro di Hildesheim e le due coppe del British Museum rinvenute di recente assieme al kàntharos d'argento citato più sopra. Accanto alle coppe e ai crateri di questo tipo, che erano decorati sulla parete esterna, facevano parte del lussuoso vasellame da tavola d'argento dei Romani anche tazze decorate internamente. Questi esemplari si rifacevano del pari a modelli classici ed ellenistici. Plinio parla di un toreuta di nome Antipater che aveva raffigurato al centro di una phyàle un satiro dormiente (Nat. hist., xxxiii, 156; cfr. Anth. Gr., xvi, 248, dove il toreuta è chiamato Diodoros). Il più splendido esemplare di questo gruppo è la tazza di Atena di Hildesheim, probabilmente originaria della Siria ellenistica (v. sopra B 11). Erano diffuse anche le tazze ornate all'interno da medaglioni con busti di personaggi mitologici o con ritratti.

Del primo tipo si ricordino le tazze d'argento con Attis, Cibele ed Herakliskos del tesoro di Hildesheim, del secondo le tazze con realistici busti-ritratto da Boscoreale (Louvre e British Museum). G. M. A. Richter ha recentemente indicato, e a ragione, quali prototipi ellenistici di questo tipo di tazza il medaglione-ritratto di Tolomeo Sotere, di cui si è conservato un calco di gesso, e altri esemplari del genere. Simili per forma e per temi ai medaglioni delle tazze sono le phalerae usate dapprima come ornamento per i cavalli, poi come decorazione per i cavalieri, infine anche per i fanti dell'esercito romano. Si ricordi l'importante rinvenimento di phalerae d'argento sbalzato di Lauersfort del I sec. d. C. (Berlino) ed i quattro esemplari placcati in argento di Xanten, del II sec. d. C. (Londra). Tra le armi con decorazione toreutica della prima età imperiale basta ricordare la "spada di Tiberio" di Magonza (Londra). Fra gli specchi con rilievi, soltanto i due esemplari di Boscoreale di cui uno è firmato da un certo Polygnotos.

Mentre i tipi di vasi e di decorazioni citati più sopra sono caratteristici dell'inizio dell'età imperiale, un tipo nuovo preannunzia la futura tendenza formale: la coppa completamente decorata all'interno da rilievi a sbalzo, l'opera toreutica più notevole della tarda antichità. Ci sono però pervenute solo poche coppe di questo tipo che risalgano a quest'epoca, mentre numerosissime sono quelle ritrovate nell'Antico Oriente (v. sopra B 4).

Citeremo come esempio il piatto d'argento di Aquileia (Vienna): il personaggio principale, un romano nelle vesti di Trittolemo, è stato recentemente identificato con Marco Antonio. L'ipotesi di H. Möbius è convincente. Potremmo in tal modo datare il pezzo a prima del 30 a. C. e considerarne Alessandria quale luogo di origine. È improbabile però che il piatto di Aquileia sia l'originale; si tratta piuttosto di una grossolana imitazione provinciale, forse dell'età di Claudio.

13) La t. romana del II e del III sec. d. C. - Di fronte ai ricchi tesori d'argenteria della prima età imperiale, ben esiguo è il numero dei rinvenimenti importanti di età adrianea ed antonina. Ciò è dovuto sicuramente alla lacunosità della tradizione, poiché il II sec. rappresentò un periodo di prosperità anche per le province e il vasellame prezioso non dovette scarseggiare.

Alcuni vasi del tesoro di Berthouville, che riunisce doni votivi di diverse epoche per il dio Mercurio, risalgono al periodo di cui stiamo trattando. Ad esempio è stata a ragione datata al periodo adrianeo-antonino la phyàle d'argento con una coppia di busti raffiguranti Mercurio e Rosmerta. Ricompare qui ancora una volta il tipo della tazza con busti, ben noto nell'ellenismo e all'inizio dell'età imperiale (v; B 12), che, come risulta dagli inventarî dei tesori dei santuari, era frequentemente usato come dono votivo. Ma la tazza non è assolutamente paragonabile per qualità agli esemplarî più antichi e ciò dipende certo dal fatto che è stata eseguita in provincia. Nelle province romane, soprattutto in Gallia, dovevano esistere in questa epoca molte botteghe di toreuti. Diversi rinvenimenti di vasi di bronzo o d'argento e indirettamente la produzione gallica in terra sigillata (v.) ne testimoniano l'esistenza. Un gruppo a parte è costituito dalle situle di bronzo del tipo Hemmoor, datato da J. Werner tra il 150 e il 250 d. C. (v. romana, arte: Esportazione, A). Si tratta di recipienti dalla forma a campana con uno stretto fregio a rilievo lavorato a sbalzo attorno all'orlo; nel fregio sono raffigurati varî attributi di Dioniso, come maschere e tirsi ed anche scene di caccia o di gruppi di animali resi con molta naturalezza (ad esempio un orso e capre selvatiche; cani da caccia ed un cinghiale; una pantera ed un cervo; un leone ed un toro). Nonostante che gli animali appartengano in parte alla fauna meridionale e nonostante la presenza delle piccole palme stilizzate, si potrà pensare (dissentendo dall'ipotesi di F. Drexel) ad una produzione gallo-romana. Alcuni esemplari sono ageminati in argento e bisogna concludere che siano stati presi a modello fregi toreutici d'argento. Così per esempio una patera d'argento dell'inizio dell'età antonina, trovata a Caubiac (British Museum) ha un fregio molto simile per stile e per tema, ma la lavorazione è più raffinata, consona al materiale adoperato. Comunque anche in quest'esemplare le linee di contorno, eseguite a cesello, sono fortemente marcate. Questa è una caratteristica stilistica propria del periodo antonino, cui corrisponde nelle sculture in marmo la linea di contorno tracciata col trapano corrente. Uno dei rinvenimenti più importanti di vasellame da tavola del II sec. d. C. è il tesoro di Chaource (British Museum). Consta di 39 pezzi di cui 6 di bronzo e gli altri d'argento. Molti di questi vasi sono quasi del tutto lisci, la decorazione è usata con parsimonia, si limita per lo più a piccoli fregi. Si ricordi una situla d'argento di forma affine al tipo Hermoor con attorno all'orlo un fregio di viticci a volute, finemente cesellato, ed inoltre una patera d'argento decorata in modo simile. La differenza fra questo motivo d'acanto ed i fregi augustei dello stesso tipo è quella stessa che intercorre tra i fregi di marmo a viticci di età adrianea e quelli dell'inizio dell'età imperiale: allo stile naturalistico subentra una severa stilizzazione dei motivi decorativi. Ciò va detto anche per i viticci ornamentali raffigurati su una lettiera d'argento dell'importante tesoro di Marengo (v.) che risale all'epoca di Lucio Vero (museo di Torino). Questo esemplare, eseguito con grande accuratezza e probabilmente fabbricato a Roma, presenta un'altra caratteristica stilistica ben nota dalle sculture in marmo dell'età antonina: un rilievo fortemente chiaroscurato. La superficie piatta del fondo è resa opaca da una fitta rete di piccoli punti, mettendo così in risalto la chiara lucentezza argentea dei viticci e della ninfa sdraiata. La stessa tecnica ricompare nella grande fascia d'argento ornata con 13 figure a rilievo del tesoro di Marengo (v. vol. iv, p. 831). Vi sono raffigurati la Triade Capitolina, Posidone ed Anfitrite ed anche una scena con i Dioscuri, di dubbia interpretazione, che potrebbe risalire ad un modello dell'inizio dell'ellenismo. Un'altra fascia d'argento di questo tesoro, ancora più grande, è modellata a forma di corona di spighe. Fanno parte inoltre del tesoro alcuni ornamenti d'argento da applicare, raffiguranti i segni dello Zodiaco, Gemelli, Pesci, Toro, Capricorno; un busto d'argento di Lucio Vero ed altri frammenti di opere toreutiche che, a stare ad una iscrizione rinvenuta nel medesimo scavo, erano dedicati alla Fortuna melior.

In parecchie regioni dell'Impero deve essere esistita una fiorente industria toreutica che produceva le armature da parata dell'esercito romano, gli umboni degli scudi, gli elmi a maschera e i finimenti di bronzo e d'argento per i cavalli. La serie completa di elmi a maschera rinvenuti a Straubing (v.) ha arricchito notevolmente il nostro patrimonio, giacché per l'addietro erano venuti alla luce soltanto esemplari isolati. L'origine ellenistico-siriana di questo tipo è testimoniata dalle maschere trovate nelle tombe di Emesa (cfr. sopra B 11). Le maschere di Straubing (v. anche elmo) sono di due tipi diversi: il tipo "ellenistico-patetico" ed il tipo "romano-sobrio". Sugli emblemi ornamentali ricorre sempre il motivo di Ganimede rapito dall'aquila di Zeus, che è raffigurato anche sull'umbone di Speyer. L'incisione è d'effetto ma l'esecuzione è grossolana; nell'irrigidimento delle forme plastiche si palesa la graduale perdita dell'organicità. Molti tratti di quest'arte militare preannunziano lo stile della tarda antichità.

14) La t. della tarda antichità. - Mentre sono relativamente pochi e spesso di fattura provinciale i tesori di argenterie databili verso la metà dell'Impero che ci siano pervenuti, a partire dal IV sec. possediamo nuovamente grandi tesori ricchi di opere toreutiche ad alto livello. (Si veda l'elenco all'articolo tesori). Del tesoro di Caesaraugusta (Kaiseraugst in Svizzera) si attende ancora una pubblicazione esauriente. Assieme a quest'ultimo sono state rinvenute barre d'argento, medaglie e numerose monete di imperatori da Diocleziano a Costanzo II, che consentono di datare con esattezza alla prima metà del IV sec. a C. gli oggetti rinvenuti. Una parte del vasellame d'argento di questo tesoro è priva di decorazione, ma alcuni esemplari di lusso presentano una ricca decorazione figurata, ad esempio il piatto ottagonale il cui fregio esterno ed il medaglione centrale rappresentano scene della giovinezza di Achille (diametro cm 53). Il piatto è fuso in argento massiccio e le scene sono state poi rielaborate a cesello con tanta e tale accuratezza che fanno l'effetto di rilievi eseguiti a sbalzo. Questa è la tecnica che predomina nella tarda antichità per la lavorazione dell'argento. Sappiamo dall'iscrizione che si trova sul retro (v. pausylyppos) che il piatto è stato fabbricato a Tessalonica (Salonicco).

A giudicare dalla qualità di questo lavoro, Tessalonica deve essere stata un attivo centro di produzione d'argenterie. Altri due esemplari di lusso dello stesso tesoro sono niellati e dorati: il primo è un vassoio rotondo con un medaglione centrale, in cui sono raffigurati una città sul mare ed alcuni Eroti che pescano, e un fregio lungo il bordo con scene di caccia; il secondo è un vassoio rettangolare- una forma che ricorre spesso nella produzione in argento della tarda antichità- con Dioniso, Arianna ed alcuni sileni nella scena centrale e con Eroti che impersonano figure del thiasos dionisiaco negli angoli del ricco bordo arcuato e traforato. Predomina indiscussa la tecnica del cesello che è di una suprema raffinatezza. Eseguito nella stessa tecnica e affine anche stilisticamente è un piatto d'argento, probabilmente di Efeso, che raffigura Artemide che galoppa in groppa al suo cervo (museo di Berlino). La composizione risale ad un modello del 400 a. C. circa. Sia il piatto che la lanx di Corbridge provengono forse da una bottega dell'Asia Minore. Anche la Patera di Parabiago (Milano) rientra nella cerchia di queste opere pur essendo di una lega d'argento e malgrado sia modellata completamente a fusione e solo rifinita con il bulino e lo scalpello (v. allegoria). Opere d'argento di questo tipo erano certamente eseguite su commissione per conto di famiglie nobili che erano rimaste fedeli all'antica religione. Questi oggetti, al pari dei dittici d'avorio, erano spesso usati come apophoreta, doni che le famiglie nobili distribuivano ai loro ospiti in occasione delle feste ufficiali. In una sua lettera Simmaco scrive (Ep., 5, 56 ed. Seeck): Ad te diptychum candidati et apophoretum librarum argenti duarum per hominem tuum misimus. I primi ad adottare questa usanza erano stati gli imperatori ed i consoli, l'esempio più noto è il missorium di Teodosio (v. argento) datato al 388 (Madrid). Stilisticamente affini sono i frammenti del vassoio dell'imperatore di Gross Bodungen (Halle). Mentre questi vassoi sono eseguiti a fusione, il missorium del console Aspar Ardabur (Firenze, Bargello) è lavorato a sbalzo. Lavorata a sbalzo è anche la teca per reliquie d'argento con scene bibliche, di San Nazaro Maggiore (v. milano). La teca è certamente stata eseguita in loco all'epoca di S. Ambrogio. Le pregevoli argenterie del tesoro dell'Esquilino (Londra; Parigi, Petit Palais; Napoli) sono probabilmente opere eseguite a Roma stessa nel medesimo torno di tempo. Si tratta in parte di doni nuziali per il matrimonio tra quel Secundus e quella Proiecta che sono raffigurati sullo scrigno d'argento sbalzato (v. tesori). Poiché Proiecta morì ancor giovane nel 384, è possibile datare approssimativamente il tesoro. Quantunque ambedue i coniugi fossero cristiani, sullo scrigno è raffigurata Venere nella conchiglia attorniata dal suo thiasos marino. Una bella patera d'argento con ansa, dello stesso rinvenimento è modellata a forma di conchiglia con al centro Venere seduta in una posa elegante che si annoda i capelli; due Eroti le volano d'attorno; sul manico è raffigurato Adone, il giovane amato dalla dea.

Il riconoscimento della importanza dei marchi apposti sulle lamine d'argento fra la fine del V sec. e l'inizio del VII ha posto le basi per la classificazione e datazione delle opere del periodo che va da Anastasio (491-518) ad Eraclio (610-641), giacchè il loro classicismo potrebbe trarre in inganno. (Per quanto riguarda le marcature, si veda l'articolo tesori). La maggior parte delle argenterie bizantine proviene dalla Russia meridionale e si trova all'Ermitage di Leningrado; vanno però ricordati anche altri gruppi, particolarmente i due complessi trovati a Cipro. Nella toreutica bizantina sono frequenti le scene della mitologia greca, soprattutto i temi dionisiaci. Le scene bibliche presentano in parte una stretta affinità con i tipi pagani, così ad esempio le scene della vita di David rappresentate su una serie di piatti d'argento di Cipro (v.), lavorati a sbalzo (New York; con timbri di controllo dell'imperatore Eraclio 610-641): la scena della consacrazione di David (v. vol. ii, p. 643) è paragonabile a quella di Trittolemo nel grande rilievo eleusino. Su un altro piatto, David prega in ginocchio su un leone, come Nike o Mithra sul toro. Si è pensato che i motivi compositivi delle scene risalgano ad un salterio bizantino. L'interdipendenza tra la t. e la pittura, da noi già constatata per l'epoca cretese-micenea, per l'epoca classica greca e per il classicismo romano, si può dunque riscontrare ancora nell'arte proto-bizantina.

Monumenti considerati. - B: 1. Parrucca d'oro di Ur (Bagdad): C. L. Woolley, Ur Excavations II, 1934, tav. 150; E. Strommenger-M. Hirmer, Mesopotamien, 1962, tav. XV. Tesoro di Troia: M. Ebert, Reallexikon, XIII, 1929, p. 442 ss., s. v. Troia, tavv. 68-71. Tazza con omphalòs: H. Schmidt- H. Schuliemann, Sammlung trojanischer Altertümer, 1902, p. 225, n. 5817. Vasi d'oro di Alaca: E. Akurgal-M. Hirmer, Die Kunst der Hethirter, 1961, tavv. 14-17. Tazza di Dehute (Louvre): G. Möller, Die Metallkunst der alten Ägyprer, 1924, tav. 36. Affreschi con toreuti: G. Möller, op. cir., tav. 45. Vasi di Bubastis: E. Vernier, Cat. Gén. Musée du Caire, Bijoux et Orfèvreries, 1927, p. 414 ss., nn. 53259 53263, tavv. 104-106. La brocca con ansa a forma di capra: E. Vernier, op. cit, tavv 105; G. Möller, op. cit., tav. 34, edizione non riveduta. Vasi di Tanis: P. Montet, La Nécropole Royale de Tanis, II, 1954, tavv. 5456; 65-71. Il vaso da libagione anche nel catalogo dell'esposizione, 5000 anni d'Arte Egiziana Essen 1961, n. 195.

2. Calici con piede slanciato: Sp. Marinatos-M. Hirmer, Kreta und das mykenische Hellas, 1959, tav. 186 s. Tazze piatte: idd., op,. cit., tav. 196 s. Rhytòn conico idd, op, cit., tav. 174. Vaso a forma di cervo: idd., op. cit., tav. 177. Rhytòn a testa di toro: idd., op. cit., tav. 175. Testa di toro in steatite di Creta. idd., op. cit., tav, 98. Testa di leone: idd., op. cit., tav. 176 e XXXIX. Testa di leonessa di pietra, cretese: idd., op. cit., tav. 99; G. Becatti, Oreficerie antiche, 1955, tav. 7. Maschere di elettro: Sp. Marinatos-M. Hirmer, op. cit., tav. 162-167; G. Becatti, op. cit., tav. 15. Kàntharos: Sp. Marinatos-M. Hirmer, op. cit., tav. 192. Grande cratere di rame: G. Karo, Die Schachtgräber, tav. 161. Kàntharos di Tōd: F. Bisson de la Roque, G. Contenau, F. Chapoutier, Le Trésor de Töd, Cairo 1953, tav. 17. Confronto con i rinvenimenti micenei: ibid., p. 21-35. Gioielli cretesi della figlia di Amenemhet II: G. Möller, Metallkunst, tav. 12. Coppa con anse a testa di cane: Sp. Marinatos-M. Hirmer, op. cit., tav. 189. Coppe di elettro: idd., op. cir., tav. 186.

3. Tesoro di oggetti d'oro di Valcitran: M. Ebert, Reallexik., XIV, 1929, p. 227 s., tav. 53 s.; V. Mikov, Le trésor de Valcitran, 1958. Tripode di bronzo di Micene: F. Willemsen, Dreifusskessel von Olympia, 1957, tav. 1. Tripode di Berlino Ovest: Kunstwerke der Antike, Auktion, XXII, Basilea 1961, n. 52, tav. 15. Tripodi di Olimpia: F. Willemsen, op. cit. Fasce d'oro: D. Ohly, Griechische Goldbleche des 8. Ihs. e. Chr., 1953; G. Becatti, Oreficerie Antiche, tav. 26 S. Scudi cretesi: E. Kunze, Kretische Bronzereliefs, 1931. Tripodi con ruote da Itaca: S. Benton, in Ann. Brit. School Athens, xxxv, 1934-35, p. 56 ss., tavv. 15. Basi e tripodi a colonnette ciprioti: H. Th. Bossert, Altsyrien, 1951, tav. 283; 296-301.

4. Situla assira. con testa di leone: Am. Journ. Arch., LXII, 1958, p. 152. Cratere con tori applicati dell'Armenia: E. Akurgal, Die Kunst Anatoliens, 1961, p. 50, tav. 30. "Sirene" e applicazioni a forma di toro: id., op. cit., p. 39, fig. 17 ss. Scudi di bronzo: id., op. cit., p. 37, fig. 14 ss.; p. 302, fig. 6-8. Medaglione d'oro: id., op. cit., p. 38, fig. 16. Candelabro di Erlangen: L. Curtius, in Münch. Jahrb., 1913, p. 1 ss.; E. Akurgal, op. cit., p. 303, fig. ii. Frammenti di trono: E. Curtius, op. cit., p. 3, fig. 3; E. Akurgal, op. cit., p. 33 s., fig. 8-11. Basi coniche, probabilmente della Siria settentrionale: cit., p. 57 s., fig. 35 s. Applicazioni urartaiche a forma di grifoni da Olimpia: id., Urartaische Kunst, in Anatolia, IV, 1959, tav. 30 s. Tazze di bronzo e d'argento della Siria settentrionale e della Fenicia: H. Th. Bossert, Altsyrien, 1951, tavv. 308-312 (da Cipro); tav. 805 (dalla Palestina); tavv. 803-5 (da Olimpia e Nimrud). Coppe d'oro di Ugarit: C. Schaeffer, Ugaritica II, 1949, p. 1 ss.; E. Strommenger-M. Hirmer, Mesopotamien, 1962, tav. 176 ss. Lavori in metallo della Frigia: Catalogo: Kunst und Kultur der Hethiter, Darmstadt 1961, n. 196 s.; E. Akurgal, op. cit., p. 100 ss.; U. Jantzen, Phrygische Fibeln (Festschrift F. Matz), 1962, pp. 39-43, tavv. 8-11. Statuina d'avorio di una sacerdotessa con coppa frigia: E. Akurgal, op. cit., p. 206 ss., tav. 16o s. Base con leoni di Persepoli: F. Schmidt, Treasury of Persepolis, 1939, p. 50, fig. 45; Hesperia, XIII, 1944, p. 18o, fig. S. Rythòn di Teheran con testa di capra selvatica: Catalogo: 7000 Jahre Kunst im Iran, Essen 1962; precedentemente al Petit Palais di Parigi 1961, n. 133 con fig. Coppa di Hasanlu: ibid., n. 24 con fig. Rinvenimenti di Amlach (tazze d'argento, coppe d'oro, ecc.), ibid., n. 33 ss. Bronzi del Luristan: ibid., n. 85 ss.

5. Tesoro di Ziwiye: ibid., nn. 93-114 con fig. Teste di leoni e di grifoni: ibid., n. 229-232. T. scitica della Russia meridionale: E. H. Minns, Scythian and Greeks, 1913, passim. Tesoro di oggetti d'oro di Vettersfelde: id., op. cit., p. 236 s. Il pesce: A. Greifenhagen, Antike Kunstwerke, 1960, fig. 89; 95; G. Becatti, Oreficerie Antiche, p. 205, n. 449, tav. 126. Pugnali scitici: M. Ebert, Reallexikon, XIV, 1929, p. 156 ss., tav. 45. Arỳballos scitico: H. E. Minns, op. cit., p. 234, fig. 141.

6. Il carro del sole: M. Ebert, Reallexikan, XIII, 1929, p. 451 s., tav. 76, s. v. Trundholm. Conî d'oro: G. Raschke, in Germania, XXXII, 1954, p. 1-6, tav. 1-5. Tesoro d'oro di Eberswalde: M. Ebert, Reallex., III, 1925, p. 45 s., tav. 4 s. Vasi d'oro danesi dello stesso tipo: H. C. Broholm, in Acta Archaeologica, XIX, 1948, p. 189 ss. Tesoro d'oggetti d'oro dell'Ungheria: A. Mozzolics, Der Goldfund von Velem-Szentvid, 1950. Coppe d'oro di Cornwall e Fritzdorf: R. v. Uslar, in Germania, XXXIII, 1955, p. 319-323, tav. 29-32. Coperchi di urne di Hallstatt e confronto con modelli corinzî: O. H. Frey, in Germania, XL, 1962, p. 70 ss., tav. 15. Coperchi di urne della tomba di Hallstatt, n. 696: W. Kromer, Dos Gräberfeld von Hallstatt, 1959, tav. 126. Tomba di Klein-Klein: W. Schimdt, in Prähist. Zeitschrift, XXIV, 1933, p. 219 ss. Situle delle regioni delle Alpi orientali: O. H. Frey, op. cit., p. 56 ss., fig. 1 ss. Opere galliche nel tesoro di argenterie di Hildesheim: E. Pernice-F. Winter, Der Hildesheimer Silberfund, 1901, p. 30 ss., tav. 8; p. 47 s., tav. 23; H. Kuthmann, Beitrage zur spathellenistischen und frürömischen T., 1959, p. 64 ss. (in cui l'origine gallica viene a torto messa in dubbio).

7. Scudi della tomba Regolini-Galassi (Vaticano): Museo Gregoriano Etrusco, I, tav. 9-11. Tombe Bernardini e Barberini: C. D. Curtius, in Mem. Amer. Academy, Rome, III, 1919, p. 9-90; V, 1925, p. 9-52. Bacinella di bronzo della tomba Barberini: id., op. cit., n. 79, tav. 26 s. Bacinelle greche del Ceramico di tipo affine: K. Gebauer, in Arch. Anz., 1940, P. 341-2, fig. 1921. Crateri con leoni e con grifoni della tomba Barberini: id., op. cit., n. 81, tav. 29 ss.; E. Akurgal, Die Kunst Anatoliens, 1961, p. 56 ss., fig. 35 s., 39 s. Brocche a becco di bronzo: P. Jacobsthal-A. Langsdorf, Die Bronzeschnabelkannen, 1929. Candelabri etruschi: T. Dohrn, in Röm. Mitt., LXVI, 1959, p. 45-64. Per l'interpretazione dei rilievi del carro bronzeo di Monteleone e di Perugia: R. Hampe-E. Simon, Griechische Sagen in der frühen etruskischen Kunst, 1963, cap. 8, tav. 22-25 e cap. 2, tav. 20 s. Carro di Perugia: E. Petersen, Röm. Mitt., IX, 1894, p. 274 ss.; Antike Denkmäler, II, tav. 14. Tripodi Loeb: G. H. Chase, in Am. Journ. Arch., XII, 1908, p. 287-323, tav. 8-18; L. Banti, Bronzi Arcaici Etruschi, in Tyrrhenica, 1957, p. 77-92. Specchi etruschi arcaici con rilievi: H. B. Walters, Gat. Bronzes Brit. Mus., 1889, p. 75, n. 542, tav. 18; D. B. Thompson, in Hesperia, VIII, 1939. p. 288, fig. 3; J. D. Beazley, in Journ. Hell. Stud., LXIX, 1949, p. 2 s., tav. 2 a (Eracle e "Mlacuch").

8. Crateri con grifoni: U. Jantzen, Griechische Greifenkessel, 1955. Bibliografia essenziale fino ad oggi: E. Simon, in Latomus, XXI, 1962, p. 751 s., nota 5. Crateri proto-attici di Magonza: R. Hampe, Ein frühattischer Grabfund, 1960. Officini di protomi di grifoni a Samo: U. Jantzen, in Ath. Mitt., LXXIII. 1958, p. 26 ss. Tempio di Atena Chalkìoikos a Sparta e altre rifiniture in bronzo arcaiche: P. Verzone, Il bronzo nella genesi del Tempio Greco, in Studies Robinson, I, 1951, p. 272-294. Femmina di grifone di Olimpia: id., op. cit., p. 275, fig. 2. Limine rinvenute di recente ad Olimpia: H. V. Hermann, VI. Olympia Bericht, 1958, p. 153-162; tav. 56-65; Bull. Corr. Hell., LXXXIV, 1960, tav. 17 s. F. Willemsen, VII. Olympia Bericht, 1961, p. 181-195, tav. 79-83. Piede di tripode da Argo: R. Hampe, Frühe griechische Sagenbilder in Bootien, 1936, p. 71, tav. 41. Piede di tripode a New York: D. v. Böthmer, in Bull Metr. Mns., 1961, p. 133 ss., tav. 2 ss. Phyàle di bronzo di Perachora: Perachora, I, 1940, p. 148 ss. Tombe di Trebenište: B. Filow, Die Archaische Nekropole von Trebenischte, 1927. T. corinzia dell'età arcaica: H. Payne, Necrocorinthia, 1931, p. 210-231. Cratere di Vix: R. Joffroy, La Trésor de Vix, 1954; A. Rumpf, Krater Lakonikos, in Charites, Studien zur Altertumswissenschaft, 1957, p. 127-135. Idria di Telesstas: G. Hafner, ibid., p. 119-126, tav. 16 s. Idrie del Santuario sotterraneo di Paestum: C. P. Sestieri, in Boll. d'Arte, XL, 1955, p. 53 ss.; B. Neutsch, in Abh. Akademie Heidelberg, 1957.

9. Brocche a formi di anfora con anse a forma di animali: P. Amandry, in Antike Kunst, III, 1959, p. 38 ss., tav. 20 55. "Doppi rhytà" a forma di anfora: id., art. cit., p. 48 ss., tav. 24 ss. Vaso di pietra a scanalature trasversali: 7000 Jahre Kunst im Iran, Esssn 1962, n. 321 con fig. Piatto d'oro con aquila: Cot. cit., n. 328, con fig. Piatto d'oro con stambecchi; ibid., n. 327, con fig. Piatto d'argento con toro alato: ibid., n. 332, con fig. Piatto d'argento con lotta fra leone e toro: ibid., n. 330, con fig. Stambecchi alati al Louvre e a Berlino Ovest: P. Amandry, Cat. cit., tav. 27, n. 361, con fig. Anfora di una collezione privata: P. Amandry, art. cit,, tav. 24 s.

10. Fidia come toreuta: 3. Overbeck, Schriftquellen, n. 775 ss. Copie di opere toreutiche di Fidia: G. Becatti, Problemi fidiaci, 1951, tav. 64 ss. Scavi della bottega di Fidia: E. Kunze, in Neue Deutsche Austrabungen, 1959, p. 278 ss.; R. Hampe, in Gymnasium, LXVIII, 1961, p. 549 s. Medaglione d'argento di Galaxidi: E. Simon, Die Geburt der Aphrodite, 1959, p. 43, fig. 26; E. Buschor, Medusa Rondonini, 1958; C. Blümel, Phidiasische Reliefs und Porthenonfries, 1957. Phyàlai d'oro ornate con ghiande: D. v. Bothmer, in Bull. Metr. Mus., 1962, p. 154-166. Le Menadi di Kallimachos: W. Fuchs, Die Vorbilder der neu-attischen Reliefs, in Jahrbuch, XX, 1959, p. 72 si.; 90 s. Calco in argilla delle paragnatidi di un elmo attico: E. Langlotz, Phidissprobleme, 1947, p. 85 ss., tav. 30. Idrie di bronzo con applicazioni a sbalzo: E. Diehl, Die Hydria, 1964, cap. 16, p. 177-203. Idria con Nike a New York: E. Simon, in Antike Kunst, III, 1960, p. 18, tav. 7, 1. Cratere con menadi di Berlino: W. Züchner, in 98. Berliner Winckelmonnsprogranm, 1938. Specchi a cerniera: W. Züchner, in Jahrbuch, XIV, 1941. Rhytòn d'argento di Taranto a Trieste e rhytòn a testa di toro di Kul Oba: A. Puschi-F. Winter, in Österr. Jahresh., V, 1902, p. 112-127, tav. 1. Faretre e foderi di spada d'oro a Leningrado e a New York: G. M. A. Richter, in Metr. Mus. Studies, IV, 1932, p. 109-130, tav. 3. Vasi d'argento da Nikopol: G. Becatti, Oreficerie Antiche, 1955, n. 453, tav. 127. Materiale rinvenuto nei tumuli della Tracia: B. Filow, Die Grabhügelnekropole bei Dunvanlij in Südbulgarien, 1934. Coppa d'argento con Selene: A. Rumpf, in Hondbuch der Archaeologie, IV, 1953, tav. 40, 6. Tesoro di oggetti d'oro di Panajurište: B. Svoboda-D. Cončev, Neue Denkmäler antiker Toreutik, 1956, p. 117 ss.; J. Venedikov, Der Goldschatz von Panajurište, 1961. Interpretazione e datazione: E. Simon-H. A. Cahn, in Antike Kunst, III, 1960, p. 3-29; N. Kontoleon, in Balkan Studies, III, 1962, p. 13 ss.

11. Cratere di bronzo di Salonicco: Illustrated London News, del 27 gennaio 1962, p. 130. Cratere Borghese e le sue copie: W. Fuchs, in Jahrbuch, XX, 1959, p. 108 ss., tav. 22 ss.; per l'interpretazione: E. Panofsky, A Myrhological Painting by Poussin, 1959, p. 44. Cratere Medici: G. A. Mansuelli, Galleria degli Uffizî, Le sculture, I, 1958, p. 189 ss., n. 180. Rilievo di bronzo con Artemide di Delo: F. Courby, in Mon. Piot, XVIII, 1910, pp. 19-35, tav. 6; G. Lippold, in Handbuch der Archaeologie, III, 1, 1950, p. 318, tav. 15, i. Coppa d'argento di Ingolstadt: A. Adriani, Il vaso argenteo di Ingolstadt ed un suo modello alessandrino, in Röm. Mitt., LXVII, 1960, pp. 111-125, tav. 34 a. Il carico della nave di Mahdia; H. Küthmann, Beitràge zur späthellenistischen und frührömischen Toreutik, 1959, p. 11 ss. Coppa di Atena del tesoro di argenterie di Hildesheim: H. Küthmann, op. cit., p. 44 ss. Materiale rinvenuto nelle tombe di Emesa: H. Seyrig, in Syria, XXIX, 1952, pp. 204-250. Tesoro di Taranto: P. Wuillemier, Le Trésor de Tarente, 1930; sulla più attendibile datazione tarda: H. Küthmann, op. cit., p. 23 ss. Rinvenimenti del kurgan Artiuchow: L. Stephani, in Gont. Rend. Petersburg, 1880, p. 5 ss.; H. Küthmann, op. cit., p. 8 ss.; 14 ss. Anse con nodo d'Eracle: A. Greifenhagen, Beiträge zur antiken Reliefkeramik, in Jahrbuch, XXI, 1963, p. 34 ss., tav. 1 s. Kàntharos del tesoro di Taranto: P. Wuilleumier, op. cit., pp. 41-47, tav. 5 s.; A. D. Ure, in Am. Journ. Arch., LXII, 1958, p'. 389 ss., tav. 104. Cratere di Mitridate: H. S. Jones, Cat. Pal. Cons., 1926, p. 175, n. 10, tav. 62. Lettiere di bronzo di Delo: E. Dichl, in Jahrbuch dei Röm. Germ. Zentralmuseums Mainz, VII, 1960, p. 208-213.

12. Una parte del materiale citato è trattato e riprodotto da G. M. A. Richter, Ancient Italy, Ann Arbor University, Chicago 1955. Kàntharos d'argento di Londra: L. E. Corbett-D. E. Strong, in The British Museum Quarter., XXIII, 1961, p. 68-86; C. Vermeule, in Antike Kunst, VI, 1963, p. 33 ss., tav. ii. Replica aretina: A. Stenico, La ceramica Aretina, i, 1960, tav. 16, n. 87. Coppa d'argento di Hoby e replica aretina: G. M. A. Richter, op. cit., p. 63. figg. 190-194; E. Simon, Die Portlandvase, 1957, tav. 36 s.; H. Küthmann, op. cit., p. 78; A. Greifenhagen, Beiträge zur antike Reliefkeramik, in Jahrbuch, XXI, 1963, p. 76. Coppa d'argento di Meroe: C. Vermeule, in Antike Kunst, VI, 1963, p. 33 s., tav. 10. Skỳphoi di Boscoreale con scene storiche: A. Héron de Villefosse, in Mon. Piot, V, 1899, p. 133 55., nn. 103-104, tavv. 31-36; H. Küthmann, op. cit., p. 76 S. Tesoro di argenterie di Hildesheim: E. Pernice-F. Winter, Der Hildesheimer Silberfund, 1901; H. Küthmann, op. cit., passim. Rinvenimento di Berthouville: E. Babelon, Le Trésor d'argenterie de Berthouville, 1916; H. Küthmann, op. cit., p. 79. Kàntharos; di Stevensweert: A. Roes-W. Vollgraff, in Mon. Piot, XLVI, 1952, pp. 39-67; H. Küthmann, op. cit., p. 34 ss. Coppa di Alesia: A. Héron de Villefosse, Le Canthare de Alise, in Mon. Piot, IX, 1902, p. 179 ss., tav. 16; H. Küthmann, op. cit., p. 49 ss.; L. Byvanck-Quarles van Ufford, in Bull. Vereeniging Ant. Beschav., XXXIV, 1959, pp. 80-91. Tesoro d'argento della Casa del Menandro: A. Maiuri. La casa del Menandro ed il suo tesoro di argenteria, 1932. Coppe con medaglioni,: H. Küthmann, op. cit., p. 72 ss.; G. M. A. Richter, in Coll. Latomous, LVlII, 1962, pp. 1322-1326, tavv. 258-261. Medaglione con ritratto di Tolomeo Sotere: G. M. A. Richter, op,. cit., tav. 260, fig. 9. Phalerae di Lauersfort e Xanten: F. Matz, Die Lauersporter Phalerae, in 92 Berliner Winckelmannsprogramm, 1932; A. Büttner, in Bonner Yahrbücher, CLVII, 1957, pp. 145-152. La La spada di Tiberio: G. Lippold, in Festschrift des Röm. Germ. Zentralmuseums Mainz, I, 1952, p. 4 ss. Specchio di Boscoreale: H. Küthmann, op. cit., p. 66 a. Tazza d'argento di Aquileia e identificazione di Marco Antonio: H. Möbius, in Festschrift für F. Matz, 1962, pp. 80-67, tav. 24 ss.

13. Phyàle con i busti di Mercurio e di Rosmerta da Berthouville: E. Babelon, Le trésor de Berthouville, 1916, tav. 23; H. Jucker, Dai Bildnis im Bläterkelch, 1961, p. 160 s., fig. 44 (con riferimento alle tazze con busti citate nell'inventario del tesoro di Delo). Situle di bronzo di Hemmoor: H. Willers, Die römischen Bronzeeimer von Hemmoor, 1901; H. Menzel, Die römischen Bronzen aus Deutschland, I, Speyer 1960, p. 40 s., n. 70, tav. 48 s., con bibliografia. Patera d'argento di Caubiac; H. B. Walters Cat. Silver Plate in the British Museum, 1921, p. 35 s., n. 137, tav. 20 s. Tesoro di Chaource: id., op. cit., p. 38 ss., nn. 144-182, tavv. 23-30, Situla e patera: id., ibid., tav. 25, nn. 148, 170. G. Bendinelli, Il tesoro di Marengo, in Mont. Ant. 1937. Umboni di Speyer: H. Menzel, op. cit., p. 10 s., n. 15, tavv. 17-19.

14. Rinvenimenti di Caesaraugusta: R. Laur-Belart, Der spätrömische Silberschatz von Kaiseraugust, 1963. Piatto d'argento con Artemide a Berlino: W. Volbach-M. Hirmer, Frühchristliche Kunst, 1958, tav. 106. Trovamento di Gross Bodoungen: W. Grünhagen, Der Schatzfund von Gross Bodungen, in Röm.-Germ. Forsch., XXI, 1954, p. 27 ss., tav. 9 s. Missorium del console Aspar Ardabur: W. Volbach-M. Hirmer, op. cit., tav. 109. Argenteria bizantina: L. Matzulewitsch, Byzantinische Antike, Berlino 1929; E. Cruikshank-Dodd, Byzantine Silver Stamps, in Dumbar Oaks Studies, VII, 1961.

Bibl.: A) Generale: E. Saglio, in Dict. Ant., I, p. 778 ss., s. v. Caelatura; G. Lippold, in Pauly-Wissowa, VI A, c. 1750 ss., s. v. Toreutik; G. Becatti, Oreficerie antiche, Roma 1955; E. Coche de la Ferté, Les bijoux antiques, Parigi 1956. Tecnica: H. Blümner, Techn. u. Term. d. Gewerbe, IV, Lipsia 1887, pp. i ss.; M. Rosenberg, Geschichte der Goldschmiedekunst auf technischer Grundlage, I, Francoforte sul Meno, 1910; II, 1918; M. J. Milne, The Uses of τορεύω and Related Words, in Am. Journ. Arch., XLV, 1941, pp. 390-398; M. Ebert, Reallexikon der Vorgeschichte, 1924-1932, II, pp. 170-179, s. v. Bronzetechnik; IV, pp. 388-394, s. v. Goldschmiedekunst; II, p. 159-164, s. v. Silber; XIII, pp. 422-424, s. v. Treiben, Treibmuster; D. B. Thompson, The Golden Nikai Reconsidered, in Hsperia, XIII, 1944, p. 173-209; D. K. Hill, The Technique of Greek Metal Vases and its Bearing on Vase Forms in Metal and pottery, in Am. Journ. Arch., LI, 1947, p. 248-256; H. Maryon, Metal Working in the Ancient World, ibid., LIII, 1949, p. 93-125; R. J. Forbes, Metallurgy in Antiquity, Leida 1950; History of Technology, II, Oxford 1957, Metallurgy: p. 41-80 (R. J. Forbes); Fine Metal-Work: p. 449-492 (H. Maryon). Calchi in argilla e gesso di opere della toreutica: G. Rodenwaldt, Ein toreutisches Meistewerk, in Jahrbuch, XII, 1926, p. 101-204; D. B. Thompson, Mater Caelaturae. Impressions from Ancient Metal-Work, in Hesperia, Suppl. VIII, 1949, p. 365-372; W. Züchner, Von Toreuten und Töpfern, in Jahrbuch, LXV-VI, 1950-51, p. 175-205; G. M. A. Richter, Ancient Plaster Casts of Greek Metalware, in Am. Journ. Arch., LXII, 1958, p. 369-377, tav. 88-95 (con bibliografia; si ricordino in particolare gli scritti di O. Rubensohn); γύψνον a Princeton; G. M. A. Richter-A. E. Raubitschek, Record of the Art Museum Princeton University, XVIII, 1959, p. 53-60; G. M. A. Richter, Calenian Pottery and Classical Greek Metalware, in Am. Journ. Arch., LXIII, 1959, pp. 241-249.

B) La maggior parte della bibliografia è già stata citata relativamente alle opere trattate (v. Monumenti considerati). Aggiungiamo qui soltanto alcune opere fondamentali e alcuni studî specifici usciti recentemente:

1. Egitto e Asia Anteriore: K. Bittel, Beitrag zur Kenntnis anatolischer Metallgefässe der zweiten Hälfte des dritten Jahrtausends v. Chr., in Jahrbuch, LXXIII, 1958, p. 1-34; H. Schäfer, Aegyptische Goldschmiedearbeiten. Mitt. aus der ägypt. Sammlung Berlin, I, 1910; F. W. v. Bissing, Aegyptisch oder phönikisch?, in Jahrbuch, XXV, 1910, p. 193-199; P. Montet, Vases sacrés et profanes du tombeau de Pousennés, in Mon. Piot, XLIII, 1949, pp. 13-32.

2. Creta e Micene: G. Karo, Die Schachtgräber von Mykenai, Monaco 1930; id., Schatz von Tiryns, in Athen. Mitt., LV, 1930, p. 119-140; B. Segal, Museum Benaki. Katalog der Goldschmiedearbeiten, Atene 1938, tav. i ss.; G. Becatti, op. cit., tav. 2 ss., n. 5 ss. (con bibl.); D. H. F. Gray, Linear B and Archaeology, in Bull. Univ. London Inst. Class. Stud., VI, 1959, pp. 47-57.

3. Periodo geometrico: A. Furtwängler, Olympia, IV, Die Bronzen, Berlino 1890; S. Benton, The Evolution of the Tripod Lebes, in Ann. Brit. School, XXXV, 1934-35, p. 74-130; F. Willemsen, Dreifusskessel von Olympia, in Olymp. Forschungen, III, 1957, con recensione di S. Benton, in Am. Journ. Arch., LXIII, 1959, p. 94 s.; D. H. F. Gray, Metal-Working in Homer, in Journ. Hell. Stud., LXXIV, 1954, p. i ss.; F. Canciani, I rilievi bronzei cretesi e il problema dell'arte orientalizzante (dissertazione Trieste 1960).

4. Assiria: E. Unger, Die Wiederherstellung des Bronzetors von Balawat, in Ath. Mitt., XLV, 1920, p. 1-105; R. D. Barnett, Assyrian Palastreliefs, Londra. 1960. Tazze di Bronzo assire: G. Schneider-Hermann, in Bulletin Vereeniging Ant. Beschav., XVI, 1941, p. 1-17. Urartu: R. D. Barnett, The Excavations of the British Museum at Toprak Kale, near Van, Addenda, in Iraq, XVI, 1954, p. 3 ss.; id., Further Russian Excavations in Armenia, 1949, 1953, in Iraq, XXI, 1959, p. 1 ss.; G. M. A. Hanfmann, Four Urartian Bull's Heads, in Anatolian Studies, VI, 1956, p. 205 ss.; K. R. Maxwell-Hyslop, Urartian Bronzes in Etruscan Tombs, in Iraq, XVIII, 1956, p. 150 ss.; E. Akurgal, Urartäische Kunst, in Anatolia, IV, 1959, p. 77-114. Frigia: E. Akurgal, Phrygische Kunst, Ankara 1955; R. S. Young, in Amer. Journ. Arch., LXII, 1958, p. 139-154; LXIV, 1960, p. 227-243; LXVI, 1962, p. 153-168 (studî provvisorî). Fenicia: F. W. v. Bissing, Untersuchungen über die "phönikischen" Metallschalen, in Jahrbuch, XXXVIII, IX, 1923-24, p. 180 ss.; E. Gjerstad, Decorated Metal Bowls from Cyprus, in Op. Arch., IV, 1945, p. i ss. Luristan: Y. A. Godard, Les Bronzes de Louristan, L'Aia 1931; A. U. Pope, Dated Louristan Bronzes, in Bull. Am. Inst. of persian Art and Archaeology, V, 1938, p. 205 ss.

5. Scizia: A. Godard, Le trésor de Ziwijé, Haarlem 1950; R. D. Barnett, The Treasure of Ziwijé, in Iraq, XVIII, 1956, p. 111 ss.; H. J. Kantor, A Fragment of a Gold applique from Ziwijé, in Journ. of Near Eastern Studies, XIX, 1960; A. Furtwängler, Der Goldfund von Vettersfelde, in 43. Berliner Winckelmannsprogramm = Kleine Schriften, I, 1912, pp. 469-516; M. Rostovtzeff, Iranians and Greeks in South Russia, Oxford 1922; K. Malkina, Ein Motiv aus dem skythischen Tierstil, in Jahrbuch, XLI, 1926, pp. 176-183; G. Boroffka, Scythian Art, Londra 1928; A. Manzewitsch, Köcher aus Solocha, in Trudi Gosidarstv. Ermitage, VII, 1962, p. 120 ss.

6. Preistoria nelle regioni del Nord: A. Oldeberg, Metallteknik under Förkistorisk Tid, I-II, Lund 1942-43. Hallstatt: G. v. Merhart, Studien über einige Gattungen von Bronzegefässen. Festschrift des Röm-Germ. Zentralmuseums Mainz, II, 1952, p. i ss.: W. Kimming-W. Rest, Ein Fürstengrab des späten Hallstattzeit von Kappel am Rhein, in Jahrbuch des Röm.-Germ. Zentralmuseums Mainz, I, 1954, pp. 179-216; C. Hopkins, Oriental Elements in the Hallstatt Culture, in Am. Journ. Arch., LXI, 1957, p. 338 s.; F. Maier, Zur Herstellungstechnik und Zierweise der späthallstattzeitlichen Gürtelbleche Südwestdeutschlands. Berichte der Röm.-Germ. Komm., XXXIX, 1958, p. 131 ss.; W. Lucke-O. H. Frey, Die Situla in Providence (Rhode Island), in Röm.-Germ. Forschungen, XXVI, 1962. La Tène: P. Jacobsthal, Early Celtic Art, 2 voll., Oxford 1944; C. Fox, Pattern and Purpose. A Survey of Early Celtic Art in Britain, Cordiff (National Museum of Wales), 1958.

7. Etruria: K. A. Neugebauer, Archaische Vulcenter Bronzen, in Jahrbuch, LVIII, 1943, pp. 206-278; P. J. Riis, Tyrrhenika, Copenaghen 1941. La restante bibliografia in L. Banti, Tyrrhenica, Milano 1957, p. 77 ss.; M. G. Mauranti, Lebeti Etruschi, in St. Etr., XXVII, 1959, pp. 65-77.

8. Oriente e Grecia: F. Poulsen, Der Orient und die frühgriechische Kunst, Lipsia-Berlino 1912; G. Karo, Orient und Hellas in archaischer Zeit, in Athen. Mitt., XLV, 1920, pp. 106-156; P. Amandry, Grèce et Orient, Études d'Arch. Class., I, 1955-56, p. 3 ss.; R. D. Barnett, A Syrian Silver Vase, in Syria, XXXIV, 1957, pp. 243-248; C. G. Picard, Les Oinochoés de bronze de Carthage, in Rev. Arch., 1959, pp. 29-64; M. Brandes, Orientalische und archaisch griechische Kesselattaschen aus Bronze (dissertazione non pubblicata, Heidelberg 1959); O. W. Muscarella, The Oriental Origin of Siren Cauldron Attachments, in Hesperia, XXXI, 1962, pp. 317-329. T. e architettura: R. Hampe, in Arch. Anz., 1938, pp. 359-369; H. Drerup, Architektur und T. in der griechischen Frühzeit, in Mitt. des Deutsch. Arch. Inst., V, 1952, pp. 7-38. Vasellame e suppellettili: P. Jacobstahl, Rhodische Bronzekannen aus Hallstattgräbern, in Jahrbuch, XLIV, 1929, p. 198 ss.; U. Jantzen, Griechische Bronzeteller, in Ath. Mitt., LXIII-IV, 1938-39, p. 140 ss.; H. Luschey, Die Phiale, Bleicherode 1939; G. Vallet-F. Vilard, Un atelier de bronziers: sur l'école du cràtère de Vix, in Bull. Corr. Hell., LXXIX, 1955, p. 50 ss.; D. K. Hill, A Class of Bronze Handles, in Am. Journ. Arch., LXII, 1958, p. 193 ss.; id., The Long-Breaked Bronze Jug in Greek Lands, in Am. Journ. Arch., LXVI, 1962, pp. 57-63; U. Jantzen, Griechische Griff-Phialen, in 111. Berl. Wincklemannsprogramm, 1958; R. Joffroy, Le bassin et le trépied de Sainte-Colombe, in Mon. Piot, LI, 1960, p. i ss.; J. Boardman, Jonian Bronze Belts, in Anatotia, VI, 1961, p. 179 ss.; E. DIehl, Die Hydria, Magonza 1964; K. Tuchelo, Tiergefässe in Kopf und Protomengestalt, Berlin 1962.

9. T. achemènide: La bibliografia è raccolta nel catalogo: 7000 Jahre Kunst in Iran, Essen 1962, p. 116. Inoltre: H. Luschey, in Arch. Anz., 1938, p. 760-772; E. L. B. Terrace, in Antike Kunst, VI, 1963, p. 72-80, tavv. 29-32.

10. e 11. T. classica ed ellenistica: B. Schröder, Griechische Bronzeeimer, in 74. Berliner Winckelmannsprogramm, 1914; G. M. A. Richter, A Greek Silver Phiale in the Metr. Mus., in Am. Journ. Arch., XLV, 1941, p. 363-389; Th. Schreiber, Die alexandrinische T., Lipsia 1894; O. Rubensohn, Hellenistisches Silbergerät in antiken Gipsabgüssen, Berlino 1911; A. S. Arvanitopullos, Ein thessalischer Gold- und Silberfund, in Ath. Mitt., XXXVII, 1912, pp. 75-118; A. Ippel, Der Bronzefund von Galjub. Modelle eoines hellenistischen Goldschmieds, Berlino 1922; id., Guss und Treibarbeit in Silber, in 97. Berliner Winckelmannsprogramm, 1937; P. Amandry, Naiskos en or de la Collection Hélène Stathatos, in Annuario Atene, XXIV-XXVI, 1950, p. 181-198; id., Collection H. Stathatos, Bijoux antiques, Strasburgo 1953; H. Küthmann, Beiträge zur späthellenistischen und frührömischen T., 1958, p. 64 ss.; D. E. Strong, Greek a. Roman gold a. silver plates, Glasgow 1966.

12-14. T. ellenistica e romana e t. della tarda antichità: A. Odobesco, Le trésor de Pétrossa, Parigi 1889; F. Drexel, Alexandrinische Silbergefässe der Kaiserzeit, Bonn 1909; W. F. Volbach, Metallarbeiten des Christl. Kultes, Magonza 1921; E. Pernice, Die Hellenistische Kunst in Pompeji, IV: Gefässe und Geräte aus Bronze, Berlino-Lipsia 1925; A. O. Curle, The Treasure of Traprain. A Scottish Hoard of Roman Silver Plate, Glasgow 1923. La bibliografia completa sui tesori della tarda antichità: W. F. Volbach-M. Hirmer, Frühchristliche Kunst, Monaco 1958, pp. 64 s.; 90 s., e s. v. Tesori; A. Bank, Jskusstvo Vizantii b Ermitagia, Leningrado 1960; F. Volbach, Untersuchungen zur Toreutik des 2. und 1. Jahrhunderts v. Ch., Kallmünz 1959.