TOPOLOGIA

Enciclopedia Italiana - III Appendice (1961)

TOPOLOGIA (v. topologia astratta, App. II, 11, p. 1004)

Mario BALDASSARRI

Introduzione. - Un insieme X si dice uno spazio topologico (v. anche spazio in questa App.) se in esso è fissata una famiglia di sottoinsiemi; detti insiemi aperti, che contenga X ed il sottoinsieme vuoto, e sia chiusa rispetto alle operazioni di unione e di intersezione, quest'ultima essendo ripetuta solo un numero finito di volte. I complementi degli insiemi aperti in X si dicono chiusi: l'unione di tutti gli insiemi aperti di X contenuti in un sottoinsieme Y di X è quindi un sottoinsieme aperto (proprio o no) di X che si dice l'interno di Y e l'intersezione di tutti gli insiemi chiusi di X contenenti Y è dualmente un sottoinsieme chiuso di X che si dice la chiusura Ç di Y, con il che ci si riallaccla alle definizioni classiche di topologia. Se X, Y sono due spazî topologici e se f:X Y è una mappa (ossia una funzione univalente) dell'insieme X nell'insieme Y, la f si dice continua se, V essendo un sottoinsieme aperto qualsiasi di Y, f-1(V) è aperto in X. Se la f. è biunivoca e bicontinua essa si dice un omeomorfismo fra X ed Y che a loro volta si dicono omeomorfi in f. La continuità di mappe fra spazî topologici sarà sempre sottintesa.

Il problema fondamentale ed ultimo della t. classica consiste nel determinare condizioni necessarie e sufficienti affinché due dati spazî topologici siano omeomorfi: abbandonati subito i metodi diretti e più o meno intuitivi basati sulle prime esperienze relative a semplici esempî di spazî topologici (linee e superficie), la strada che si è cercato di seguire per arrivare almeno a trovare significative condizioni necessarie consiste nell'associare ad uno spazio topologico una struttura algebrica che dipenda da esso a meno di omeomorfismi, di guisa che il problema della classificazione per omeomorfismi degli spazî topologici possa essere almeno in parte ridotto ad un problema di classificazione per isomorfismi di strutture algebriche, sul quale l'algebra recente offre molte più informazioni e molti più mezzi di attacco.

La storia della t. algebrica coincide allora largamente con la storia dei varî metodi escogitati per associare ad uno spazio topologico X una qualche struttura algebrica; ed essa è influenzata da due fondamentali circostanze: l'una, il tentativo di far ciò per spazî sempre più generali e l'altra, che profondamente ha influito, ora stimolando ed ora rallentando la prima, ed è lo sviluppo stesso dei metodi dell'algebra pura. Ormai possediamo una vera e propria algebra omologica, importante capitolo dell'algebra ed allo stesso tempo indispensabile introduzione alla t. odierna che risulta in definitiva un insieme di applicazioni di essa a svariati problemi (anche del tutto diversi da quello storico citato e per altro non ancora risolto neppure in casi molto limitati), e possediamo anche delle algebrizzazioni di strutture topologiche abbastanza generali da coprire quelle che si incontrano nelle più importanti applicazioni della topologia. I seguenti elementi di t. algebrica potranno dare una idea di alcune situazioni tipiche di questa scienza.

Algebra omologica.

1. - Operazioni fondamentali (cfr. algebra, in App. I, p. 125 e in questa App.). - Sia A un anello con elemento unità. Un gruppo (v. gruppo, in questa App.) abeliano L si dice un A-modulo sinistro se per ogni aεA e xεL è definito un elemento axεL, in modo che siano soddisfatte le condizioni seguenti:

dove x, yεL, a, bεA. Una mappa f: L M con L, M entrambi A-moduli è un omomorfismo (v. applicazione, in questa App.) se f è tale per i due gruppi abeliani soggiacenti e se f(ax) = af(x) (condizione che esprime la linearità di f). L'insieme di queste mappe risulta, rispetto ad una ovvia addizione, un gruppo abeliano che si indica con Hom (L, M). Porremo inoltre: N(f) = f-1(O); Im (f) = f(L); Cn(f) = M/f(L). Si tratta ancora di tre A-moduli sinistri che si dicono rispettivamente nucleo, immagine e conucleo di f. Una sequenza:

di A-moduli e di omomorfismi si dice esatta se Im (fn) = N(fn+1) per ogni n. Se è esatta la sequenza:

l'omomorfismo f si dice rispettivamente iniettivo o suriettivo e se è esatta la:

si ha che L′ può pensarsi come un sottomodulo di L ed L″ come il modulo quoziente L/L′, e viceversa.

Se f: L′ → L e g: M M′ ad ogni uεHom (L, M) si può associare l'elemento g0u0fε Hom (L′, M′) e si ha così un omomorfismo (simbolo: Hom (f, g)) di Hom (L, M) in Hom (L′, M′), il che prova che Hom (L, M) è contravariante in L e covariante in M. Inoltre le sequenze esatte del tipo O M′ → M M″ sono lasciate tali dall'operatore Hom (L, ...) e quelle del tipo L′ → L L″ → O ancora tali (salvo l'ordine delle freccie) da Hom (..., M), lo stesso non essendo vero per sequenze del tipo

cosicché si hanno le nozioni di modulo proiettivo ed iniettivo L appunto a seconda che siffatta sequenza è lasciata esatta dall'operatore Hom (L,...) ovvero Hom (..., L).

Sia L un A-modulo destro ed M un A-modulo sinistro. Consideriamo, nel gruppo (v. gruppo, in questa App.) abeliano libero F avente per base l'insieme L × M, il sottogruppo G generato dagli elementi dei tre tipi seguenti: (x′ + x″, y) − (x′, y) − (x″, y); (x, y′ + y″) − (x, y′) − (x, y″); (xa, y) − (x, ay) dove x, x′, x″ εL; y, y′, y″ εM; aεA. Allora il gruppo fattore F/G si chia na il prodotto tensoriale di L ed M su A (simbolo:

È chiaro che si ha una applicazione bilineare di L × M in L ⊗ M fornita da (x, y) → x y e si prova la proprietà (caratteristica) che ogni applicazione bilineare, L × M G, dove G è un gruppo abeliano, si può fattorizzare univocamente mediante la precedente. In particolare risulta:

se poi si considera una sequenza esatta del tipo:

di A-moduli destri, essa può essere moltiplicata tensorialmente per un A-modulo sinistro Y rimanendo esatta di fronte agli ovvî omomorfismi. Invece se f è iniettivo può essere che nella nuova sequenza il corrispondente omomorfismo non lo sia; se ciò accade per ogni sequenza, Y si dice piatto.

Sia ora I un insieme ordinato (v. struttura, in questa App.) con la relazione ≥ (cioè in ordine decrescente) e tale che ogni sua parte finita sia minorata in I e si supponga data una famiglia di insiemi Ei con iεI, di guisa che per ogni coppia (i, j) con i j si abbia una applicazione

con fii = 1 per ogni iεI; fik = fik 0 fij con i j k. Introduciamo nell'insieme somma degli Ei la relazione di equivalenza che identifica xiεEi ed xjεEj se e solo se si può trovare un k i, j con fik(xi) = fki(xj). Allora l'insieme delle classi di equivalenza (insieme quoziente) si dice il limite induttivo (o diretto) degli Ei rispetto alle fik e si scrive: E = lim. ind. Ei. Se si suppone che E sia un Ai-modulo destro Li e si pone, rispetto a certe famiglie di omomorfismi di anello e di modulo, A - lim. ind. A6, L - lim. ind. Li, si prova che L risulta un A-modulo destro e si prova anche che l'operazione di limite induttivo è compatibile con l'operazione di prodotto tensoriale e con la nozione di sequenza esatta.

2. - Complessi. - Un A-modulo differenziale sinistro X è un A-modulo sinistro dotato di un omomorfismo (detto il "differenziale") d: X X con d 0 d = d2 = 0. Un omomorfismo f: X X′ fra moduli differenziali è un omomorfismo con d′0 f = f 0 d essendo d e d′ i differenziali in X, X′. Se X è un A-modulo differenziale e si pone:

risulta B(X) ⊂ Z(X) e quindi esiste il modulo quoziente (detto "derivato di X") H(X) = Z(X)/B(X). Ogni omomorfismo f: X Y di moduli differenziali definisce evidentemente un omomorfismo di A-moduli f*: H(X) → H(Y), e perciò si dice che la mappa X H(X) è un funtore covariante dalla categoria degli A-moduli differenziali a quella degli A-moduli, secondo una terminologia sulla quale non possiamo diffonderci. Si prova il risultato fondamentale che se:

è una sequenza esatta di moduli differenziali, esiste un omomorfismo ∂: H(X′) → H(X′) dotato di naturali proprietà commutative rispetto agli omomorfismi fra due sequenze esatte e tale da rendere esatta la sequenza:

Si prova inoltre che il funtore X H(X) è compatibile con la formazione dei limiti induttivi. Se X è un A-modulo differenziale destro ed L un A-modulo sinistro, il modulo

risulta in modo naturale differenziale e si ha un omomorfismo naturale

Analogamente se X è un A-modulo differenziale sinistro ed L un A-modulo sinistro, il gruppo abeliano Hom (X, L) resta dotato del differenziale u u 0 d e si ha ancora un omomorfismo naturale

Ogni sequenza X = (Xn)nεZ (dove Z è l'insieme degli interi) si chiama A-modulo graduato se ogni Xn è un A-modulo: sono ovvie le definizioni di moduli graduati

ed Hom (X, L). Se X ed Y sono A-moduli graduati ogni sequenza f = (fn) di omomorfismi fn: Xn Yn+r si dice un omomorfismo di grado r e si chiama allora complesso ogni modulo graduato X dotato di un omomorfismo d: X X di un certo grado r e con

Il complesso si dice di catene se Xn = 0 per n 〈 0 e se r = − 1. Gli elementi di Xn si dicono catene di grado n, d si chiama l'operatore di frontiera ed un xεXn è un ciclo se dx = 0, ed una frontiera se esiste un x′ εXn+1 con x = dx′. I cicli formano un sottomodulo Zn(X) di Xn, le frontiere un sottomodulo Bn(X) di Z(X) ed il gruppo fattore Hn(X) = Zn(X)/Bn(X) si chiama gruppo di omologia di X di dimensione n. Se invece r = + 1 si hanno analoghe definizioni per le cocatene, cocicli, cobordi e gruppi di coomologia che qui si scrivono: Zn(X) = N

In analogia a quanto precede e rispetto alla sequenza esatta

di complessi di catene (o cocatene) si stabilisce l'esistenza di un terzo omomorfismo ∂ che dà luogo alla sequenza esatta di omologia:

ed alla analoga per la coomologia. Valgono anche osservazioni analoghe a quelle sopra fatte per il prodotto tensoriale e l'operatore Hom.

Se X ed Y sono due A-moduli differenziali ed f0, f1 sono due omomorfismi di X in Y, si dice che f0 ed f1 sono omotopi se esiste un'applicacazione A-lineare h : X Y tale che: f1f0 = h0d + d′0h. L'importanza della nozione consiste nel fatto di immediata verifica che allora gli omomorfismi f0* ed f1* fra H(X) ed H(Y) sono identici: si noti che la relazione di omotopia è una relazione di equivalenza. Gli A-moduli differenziali X ed Y si diranno poi omotopicamente equivalenti se esistono degli omomorfismi f: X Y e g: Y X tali che f0g e g0f siano omotopi all'identità: allora H(X) ed H(Y) sono isomorfi. In particolare X è omotopo a zero (od omotopicamente triviale) se gli endomorfismi identico e nullo sono omotopicamente equivalenti: in tal caso H(X) = O ma non viceversa, per il che occorre anche sapere che Z(X) è fattore diretto di X. Tutto ciò si estende in modo ovvio al caso dei complessi appena si supponga che h sia di grado − r, se i differenziali sono entrambi di grado r.

3. - Complessi simpliciali. - Se n ≥ 0 è un intero, porremo

Ogni A-modulo graduato X* = (Xn)n≥0 si dirà un complesso simpliciale di catene se per ogni applicazione f: Δp → Δq(p, q qualsiasi) si ha un omomorfismo å: Xq Xp (detto "operatore di faccia") tale che å sia identico se lo è f ed å = è0à se f = g0h; analogamente per il caso delle cocatene (con la scrittura å: Xp Xq). Ancora una volta siffatta struttura è ereditata da Hom (X, L) e L X* con opportuni significati per L: inoltre la nozione di omomorfismo si estende al caso in esame come omomorfismo di grado zero compatibile con gli operatori di faccia. Il complesso simpliciale si dirà basico se ogni Xn ammette una base di A-modulo i cui elementi si diranno i simplessi di dimensioni n e se le faccie dei simplessi sono simplessi. Si noti che per un tale X si ha un omomorfismo canonico X0 A, e precisamente quello di valore uno su ogni simplesso zerodimensionale (detto "accrescimento" canonico di X*).

Chiameremo (con R. Godement) schema simpliciale ogni insieme K su cui sia assegnata una famiglia di sottoinsiemi da dirsi i simplessi, che siano finiti e non vuoti, e tale che ogni sottoinsieme finito e non vuoto di un simplesso sia un simplesso. Come esempio (ed assai importante) si consideri un ricoprimento qualunque M = (Mi)iεI di un insieme X e si dica che ogni parte finita e non vuota di I è un simplesso S se l'insieme

è non vuoto. Si ottiene così sull'insieme I una struttura di schema simpliciale ed I si dice allora il nervo di M.

Un altro esempio è fornito dallo schema simpliciale tipo di dimensione n che si ottiene prendendo K = Δn e convenendo che ogni parte non vuota di Δn è un simplesso.

Ogni applicazione fra schemi simpliciali K → L che conservi i simplessi si chiama un omomorfismo di schema simpliciale (o applicazione simpliciale) e nel caso s: Δq K essa si dice un complesso singolare di dimensione q di K. Se f: Δp → Δq il simplesso singolare s0f: ΔpK lo indicheremo con å(s) ed allora se Cn(K) è il gruppo libero avente per base l'insieme dei simplessi singolari di dimensione n di K. si vede subito che c*(K) = (Cn(K))n≥0 è un complesso di catene simpliciale e basico sull'anello degli interi Z. Più generalmente se A è un gruppo abeliano si può porre Cn(K;A) =

passando così a catene con i coefficienti in A.

È possibile allora definire le cocatene singolari di grado n di K a valori in A come elementi di Cn(K; A) = Hom (Cn(K), A) ed infine porre

Si noti che ogni f: K L induce in modo ovvio degli omomorfismi C* (K; A) → C*(L; A) e C*(L; A) → C*(K; A) (carattere funtoriale delle mappe K C*(K; A) e K C* (K; A)). Se poi L è un sottoschema di K si può formare il quoziente C*(K mod L; A) = C*(K)/C*(L) A e si ha senz'altro la sequenza esatta:

ed analoga per le cocatene.

Vogliamo infine collegare quanto si è detto con la nozione classica di complesso geometrico quale si usa nella teoria degli spazî triangolabili. Perciò partiamo da uno schema simpliciale K e consideriamo l'insieme di tutte le applicazioni f di K nel corpo dei numeri reali R tali che: I) gli xεK con f(x) ≠ 0 formino un simplesso ∣ f ∣ di K; II) f(x) ≥ 0 per ogni xεK; III)

Sia allora P(K) l'insieme delle f di questo tipo ed introduciamo in P(K) la seguente topologia. Intanto se S è un simplesso di K sia P(S) l'insieme delle fεP(K) con ∣ f ∣ ⊂ S: è facile vedere che P(s) si può identificare, se S ha dimensione n, con l'insieme dei punti (t0, t1, ...., tn) dello spazio numerico reale (n + 1)- dimensionale con ti ≥ 0 e Σti = 1, ossia col simplesso classico geometrico n-dimensionale. Basta allora munire P(S) della topologia usuale per atteggiare, come facilmente si controlla, P(K) a spazio topologico ed anzi a "poliedro". Si vede allora (sempre in concordanza alle definizioni classiche) che ogni applicazione simpliciale K L induce una mappa di spazî topologici P(K) → P(L) definita dal trasformare i vertici in quanto símplessi zerodimensionali ed estesa altrove mediante la condizione di essere lineare-affine sui simplessi associati.

4. - Catene singolari. - Sia Rn+1 lo spazio numerico (n + 1)-dimensionale reale e sia Jn il simplesso geometrico tipo di dimensione n, ossia l'insieme dei punti t di Rn+1 con ti ≥ 0 e Σti = 1. Ogni f: Δp → Δq definisce una mappa: ô: Jp Jq che è l'applicazione lineare-affine associata alla f. Ogni applicazione continua s: Jn E, dove E è uno spazio topologico si chiama un simplesso n-dimensionale singolare di E. Da quanto si è detto segue che ogni f: Δp → Δq determina una mappa fra simplessi singolari che manda s: Jq E in s0ô: Jp E, e che dunque sono soddisfatte le condizioni per procedere alla costruzione di un complesso simpliciale basico CS*(E) formato dalle combinazioni lineari intere dei simplessi singolari e che si dice il gruppo delle catene singolari di E. Analogamente al n. 3 si può poi passare ad un anello arbitrario ponendo:

ed al gruppo delle cocatene singolari ponendo

Anche qui una mappa ϑ: E F di spazî topologici induce un omomorfismo fra i rispettivi gruppi di catene (o cocatene) singolari associando al simdesso s: Jn E il simplesso ϑos: Jn F, ed ancora sussiste una sequenza esatta analoga che, per il caso ad es. della coomologia, si scrive, se F è un sottospazio topologico di E:

Il lettore osserverà anche che, se K è uno schema simpliciale, allora C*(K) è un sottocomplesso simpliciale di CS*P(K) e si potrebbe far vedere come questi due complessi siano "omologicamente" equivalenti.

5. - Omologia di schema e omologia singolare. - Faremo ora vedere come in ogni complesso simpliciale di catene si possa introdurre un differenziale. Perciò se X* è un siffatto complesso, per ogni n ≥ 0 ed ogni i con 0 ≤ i n, si consideri l'applicazione strettamente crescente Fni: Δn-1 → Δn che definisce il simplesso singolare (0, ...., î, ..., n) (dove n il circonflesso indica la soppressione del vertice) di dimensione n − 1 di Δn. A questa corrisponde un omomorfismo (di faccia) Åni: Xn Xn-1 e per ogni sεXn si dice che Åni(s) è la i-esima faccia di s. Dopo ciò poniamo:

si verifica allora che d risulta un omomorfismo di grado − 1 con d0d = 0, ossia dunque un differenziale in X*. Per il caso di un complesso simpliciale di cocatene X* la definizione di differenziale si dà subito ponendo:

Se in particolare X* = C*(K) oppure X* = C*(K), dove K è uno schema simpliciale, le due definizioni assumono la forma semplice (finita anche per le cocatene): d(x0, ...., xn) = Σ(− 1)i(x0, ..., i ...., xn) e

dove la cocatena n-dimensionale è stata pensata come un elemento di Hom (Cn(K),Z) cioè una funzione sui simplessi di K a valori in Z (o più in generale in un anello A). Entrambe queste formule sono classiche ed il ritrovarle fornisce viceversa parte dei motivi che hanno ispirato la costruzione qui esposta.

Come conseguenza fondamentale si ha che ogni complesso simpliciale col differenziale ora definito diviene un complesso nel senso del n. 2 e dunque dà luogo alla costruzione dei gruppi di omologia (o di coomologia) e tenendo anche conto del n. 4 si arriva così a definire immediatamente per ogni schema simpliciale K i gruppi Hn(K; A) (oppure Hn(K; A)) come gruppi di omologia (o di coomologiaj del complesso differenziale

(ovvero del complesso (Cn(K; A)n≥0)) ed analogamente i gruppi Hn(E; A) o Hn(E; A) nel caso singolare.

Le sequenze esatte già segnalate danno subito luogo allora, tenendo conto del carattere funtoriale dei funtori derivati, a delle fondamentali sequenze esatte di omologia e coomologia che scritte per es. nel caso singolare sono le due seguenti:

dove il simbolo δ è l'analogo di ∂ per la coomologia.

A questo punto non è più possibile seguire oltre lo sviluppo della teoria dell'omologia sugli schemi o dell'omologia singolare e, rinviando perciò il lettore alla bibliografia, preferiamo passare a fornirgli una rapida idea dei metodi più generali oggi noti per introdurre su di uno spazio una teoria della coomologia (o della omologia).

La nozione di fascio.

6. - I fasci e le operazioni fondamentali. - Un fascio &out;f di gruppi abeliani sullo spazio topologico X è composto da una funzione che associa ad ogni xεX un gruppo abeliano &out;fx e da una topologia nell'insieme

vincolate entrambe da certe condizioni. Per enunciarle, se fε&out;fx, poniamo π(f) = x ottenendo così una mappa univoca π: &out;f → X detta la proiezione ed inoltre conveniamo di indicare con &out;f′ la parte dell'insieme &out;f × &out;f formata dalle coppie (f, g) con π(f) = π(g). Allora la struttura indicata &out;f dovrà sottostare alle: I) la proiezione π deve essere un omeomorfismo locale; II) l'applicazione f → − f deve essere una applicazione continua di &out;f in &out;f e la (f, g) → f + g una applicazione continua di &out;f′ in &out;f.

Se U è una parte di X. ogni mappa continua s: U → &out;f, con π0s identica, si dice una sezione di &out;f su U; l'insieme di tali elementi si indica con Γ(U, &out;f) e risulta uu gruppo abeliano: è chiaro che se U V si ha un omomorfismo (di restrizione) SUV: Γ(V, &out;f) → Γ(U, &out;f) e che &out;fx risulta il limite induttivo di Γ(U, &out;f) quando U descrive l'insieme degli intorni di x. Questa osservazione permette di generare viceversa un fascio &out;f partendo dall'assegnare ad ogni aperto di X un gruppo abeliano ed una famiglia di convenienti omomorfismi di restrizione (struttura che si chiama un "prefascio" su X) ed indi ottenere ogni fibra &out;fx con la ovvia operazione di limite induttivo. Si hanno allora esempî di fasci non triviali, cioè diversi da quello (costante o semplice) di fibra &out;fx = G per ogni x: ad es. il fascio che si ottiene partendo dal prefascio che assegna ad ogni aperto l'insieme delle funzioni reali ivi continue e che si usa chiamare il fascio dei germi di funzione continua reale. Analogamente si possono definire fasci di anelli e di moduli: nel primo caso la fibra &out;ax del fascio &out;a sarà un anello, nel secondo &out;f sarà un fascio di &out;a-moduli se &out;a è un fascio di anelli e se &out;fx è un &out;ax-modulo, essendo in entrambi i casi postulate inoltre le ovvie condizioni di continuità per le operazioni fondamentali delle due strutture. Si intuisce inoltre che sia possibile estendere, almeno con certe cautele, le operazioni già definite per la singola fibra al fascio nella sua globalità e che così si possa parlare di sottofasci e fasci quozienti, di omomorfismi fra fasci su X e di sequenze esatte. Si può inoltre definire il prodotto tensoriale di due fasci &out;f e &out;g su X di &out;a-moduli (simbolo: &out;f ⊗ &out;g) ed un fascio di germi di omomorfismi di &out;f in &out;g (simbolo: Hom ) ottenuto ad es. partendo dal prefascio che ad ogni aperto U di X associa il gruppo degli omomorfismi di Γ(U, &out;f) in Γ(U, &out;g), nonché la nozione di limite induttivo quando ogni insieme Ei del n. 1 sia un fascio &out;fi su X e siffatto limite risulta ancora un fascio dello stesso tipo di struttura comune agli &out;fi.

Lo spazio topologico X si dice paracompatto se soddisfa all'assioma di separazione di Hausdorff e se per ogni ricoprimento aperto di X, ne esiste un altro più fine e localmente finito (cioè tale che ogni punto di X ha un intorno che interseca solo un numero finito di insiemi di quel ricoprimento): tale carattere si trasmette ai sottoinsiemi chiusi ed è ad es. posseduto da ogni spazio metrizzabile. D'ora in poi per semplicità supporremo sempre di limitarci a spazî paracompatti. Sia allora &out;f un fascio su X: noi diremo che esso è estensibile sugli aperti (o sui chiusi) quando ogni sezione su qualsiasi aperto (o chiuso) di X proviene per restrizione da una sezione globale di &out;f su X; la prima condizione induce nel nostro caso la seconda ma non viceversa. Se la seconda ipotesi si verifica per il fascio HomZ diremo che &out;f è fine e si può vedere che ciò accade se e solo se esistono due chiusi disgiunti di X ed un omomorfismo &out;f → &out;f che induca rispettivamente l'identità e lo zero in vicinanza dei due chiusi.

7. - Coomologia a valori in un fascio. - La nozione di complesso di gruppi od A-moduli si estende immediatamente attese le osservazioni precedenti alla nozione di complesso di fasci &out;f* = nεZ munito di un operatore omomorfo d con d2 = 0 che supporremo sempre di grado 1, cioè d: &out;fn → &out;fn+1. Si può allora considerare il fascio derivato di grado n che indicheremo con &out;hn e che si può pensare generato dal prefascio relativo al complesso Γ (U, &out;f*) per ogni aperto tf di X. Se si pone

dove Γ abbrevia Γ(X, &out;fn), si vede subito che Γ resta canonicamente dotato di un differenziale e che dunque è un complesso: ciò resta vero a maggior motivo se si considera una sequenza esatta di fasci del tipo:

per la quale si ha &out;f* = n≥0, &out;h0 = &out;f e &out;hn&out;l*) = 0, mentre in generale per il complesso Γ si hanno dei gruppi derivati non nulli. La sequenza ora scritta si chiama una risoluzione di &out;f: ebbene, è sempre possibile per ogni X ed &out;f costruire una siffatta risoluzione canonica (cioè indipendente da altri elementi) nel seguente modo. Ad ogni aperto U di X si associno tutte le sezioni di &out;f anche non continue e sia &out;c0(X; &out;f) il fascio così generato; poi si ponga

e così si proceda generando &out;c2(X; &out;f), ecc. ... Ebbene si prova che &out;c* = )n≥0 è una risoluzione di &out;f e per di più con fasci tutti estensibili sugli aperti. Finalmente si può porre:

ottenendo così la definizione dei gruppi di coomologia di X a coefficienti nel fascio &out;f. Proprietà fondamentali (e caratteristiche) di questi gruppi sono le seguenti: I) H0(X; &out;f) è isomorfo a Γ; II) per ogni sequenza esatta di fasci:

sussiste la sequenza esatta:

III) i gruppi Hn(X; &out;f) hanno un comportamento funtoriale rispetto agli omomorfismi di sequenze esatte. Si può inoltre provare che quei gruppi sono nulli per n≥1 se &out;f è estensibile e che essi non variano se si varia la risoluzione di &out;f nella classe dei fasci estensibili (teorema che in particolare contiene i famosi teoremi di de Rham sulle forme differenziali su di una varietà). Si perviene così al possesso di una costruzione estremamente generale e di grande potenza che costituisce uno dei più importanti mezzi di ricerca della matematica odierna e che ha ormai applicazioni ovunque sia nell'analisi sia nella geometria: rimandando il lettore ai trattati specializzati della bibliografia, ci limitiamo a citare la seguente interessante applicazione ad un problema classico della topologia. Si tratta, dato uno spazio X ed un sottospazio chiuso Y, di trovare dei legami fra la coomologia di X e di Y. Perciò, se &out;f è un fascio di gruppi abeliani su X, si dimostra intanto che esistono due altri fasci su X, che diremo &out;fY ed &out;fX-Y, i quali inducono rispettivamente su Y ed X-Y la restrizione di &out;f ed altrove sono nulli: poi si prova che la sequenza

è esatta ed infine si applica la proprietà II) citata sopra insieme agli isomorfismi: Hn(X; &out;fX-Y) ≈ Hn(X − Y; &out;f), Hn(X; &out;fY) ≈ Hn(Y; &out;f) per ottenere la sequenza classica ma con significato ben più esteso:

Teoria della dimensione.

8. - In questa terza ed ultima parte passeremo ad un argomento ben diverso della topologia moderna occupandoci di fornire alcune schematiche indicazioni sullo stato odierno della nozione, intuitiva nei casi semplici, di dimensione. Supponiamo intanto di avere una classe &out;c di spazî topologici X: allora una funzione intera dimX (eventualmente infinita) su &out;c si dirà una dimensione in &out;c se: I) dim X ≥ − 1, e dimX ≥ 0 se e solo se X non è vuoto; II) se X ed X′ sono omeomorfi, si ha

III) se A è un chiuso di X, si ha dimA ≤ dimX; IV) se X = A1 A2 con A1, A2 chiusi, allora dimX = sup (dimA1, dimA2); V) il cubo n-dimensionale In nel senso reale (che si suppone sempre far parte di &out;c) ha dimIn = n. Se si ammette anche: IV′) se X

e gli Ai sono chiusi, allora dimX = sup (dimAi), si vede subito che se lo spazio n-dimensionale reale Rnε&out;c, allora dimRn = n come è ovviamente desiderabile. Si osservi che non è opportuno ammettere che le mappe continue non alzino la dimensione (esempio della curva di Peano). Oltre agli assiomi precedenti ve ne è un altro di diversa natura che si esprime dicendo che: VI) se X è tale che due chiusi disgiunti A, B possono essere sempre separati da un chiuso C con dimC n − 1, allora dimX n (separare significa che X-C è unione di due aperti disgiunti contenenti rispettivamente A e B).

Accenniamo ora ad alcune categorie &out;c per le quali è possibile introdurre una nozione del tipo indicato. Intanto si suppone in ogni caso che la &out;c contenga tutti i poliedri, che ogni suo spazio sia separato nel senso di Hausdorff, e che essa contenga ogni spazio omeomorfo ad un sottospazio qualsiasi chiuso di ogni suo spazio X. Esempî importanti sono le seguenti quattro categorie: , categoria degli spazî compatti cioè tali che da ogni ricoprimento aperto se ne possa estrarre uno finito (proprietà di Borel-Lebesgue); , categoria degli spazî localmente compatti, cioè tali che ogni punto possieda un intorno compatto (si noti che Rnε&out;c2 ed Rnε/&out;c1); , o categoria degli spazî metrizzabili (cioè che ammettono una nozione di distanza d(x, y) per x, yεX e con: d(x, y) = 0 equivale ad x = y; d(x, y) = d(y, x); d(x, z) ≤ d(x, y) + d(y, z)) e per di più di tipo numerabile (cioè aventi una successione di punti siffatta che ogni aperto di X ne contenga almeno uno).

Lo spazio Rnε&out;c3 perché l'insieme numerabile dei punti a coordinate razionali ha appunto la proprietà prescritta: inoltre si può provare che ogni sottospazio di uno spazio di &out;c3 sta in &out;c3; , categoria degli spazî normali (cioè tali che per ogni coppia di chiusi disgiunti esista una funzione numerica continua su X che valga rispettivamente 0 ed 1 su di essi). Si prova che: &out;c4 ⊃ &out;c1 e &out;c4 ⊃ &out;c3.

Nel caso della classe &out;c3 si ammette non solo VI) ma anche il reciproco. Allora VI) insieme ad I) definiscono completamente la funzione dimensione per induzione dicendo che dimX n se due chiusi disgiunti arbitrari possono essere separati da un chiuso Y con dim Y n − 1; allora II). III), IV), V), sono qui dei teoremi (teoria di Menger-Urysohn). Si noti che gli spazî di dimensione zero coincidono qui con gli spazî aperti ed allo stesso tempo chiusi, e che si possono avere quindi spazî infiniti zerodimensionali (ed anche compatti). Nel caso della classe &out;c4 si prenda un ricoprimento aperto finito &out;h di X e si ponga dim &out;h ≤ n se ogni punto di X appartiene al più ad n + 1 insiemi di &out;h. Infine si ponga dimX ≤ n se per ogni ricoprimento aperto e finito di X esiste un ricoprimento più fine &out;h′ con dim &out;h′ ≤ n. Si prova che questa definizione soddisfa a tutti gli assiomi compreso VI) e che essa coincide con quella data in &out;c3 nella categoria &out;c3 ⊂ &out;c4 (teoria di Alexandrov-Čech su di una idea originale di Lebesgue). Avvertendo il lettore che la teoria della dimensione è composta di numerosi profondi risultati la cui prova è spesso estremamente difficile lo rimandiamo per ulteriori informazioni alla bibliografia.

Cenni storici.

9. - L'idea basilare di costruire i gruppi di omologia partendo da complessi geometrici che realizzino una triangolazione di uno spazio, risale a Poincaré (1895), il quale però si limitò a considerare degli invarianti numerici collegati a quei gruppi (i cosiddetti numeri di Betti e numeri di torsione). Solo dopo il 1925 (specie per influsso della scuola algebrica tedesca) l'attenzione passò ai gruppi in se stessi, orientamento che fu stimolato dall'esame di spazî più generali, dove i gruppi stessi non possono ricondursi ad invarianti numerici, e dalla considerazione di strutture più generali per l'insieme dei coefficienti rispetto a quella tradizionale dei numeri interi. Il terzo omomorfismo ∂ appare in S. Lefschetz (1927), insieme alla omologia di un complesso modulo un sottocomplesso (omologia relativa), mentre formalmente la sequenza esatta di omologia appare in W. Hurewicz (1941). Nel frattempo viene composta la prima grande esposizione generale della topologia da parte di P. Alexandroff ed H. Hopf (1935): opera che influenzò largamente i matematici e conserva ancora oggi notevole valore. Dal 1935 iniziò infine il grande periodo di approfondimento della topologia che portò da una parte alle costruzioni assiomatiche di S. Eilenberg a capo della scuola americana (1952) e dall'altra alla creazione dell'algebra omologica e dei metodi funtoriali principalmente ad opera di H. Cartan e della scuola francese, alla quale dobbiamo anche, con J. Leray, l'introduzione della teoria dei fasci e quindi il raggiungimento di uno dei punti culminanti dello stato attuale della topologia. Citiamo ancora come uno dei più interessanti capitoli della topologia moderna la teoria degli spazî fibrati con i suoi profondi legami con la teoria della omotopia e della omologia: esso ha costituito un penetrante strumento per il progresso della geometria differenziale e di quella algebrica nelle ricerche di Ch. Ehresmann, N. Steenrod, J. Leray, P. Serre, A. Borel. A. Grothendieck.

Bibl.: P. Alexandroff e H. Hopf, Topologie, Berlino 1935; H. Cartan, Séminaire E.N.S., 1950-1960; H. Cartan e S. Eilenberg, Homological Algebra, Princeton 1955; S. Eilenberg e N. Steenrod, Foundation of algebraic topology, Princeton 1952; R. Godement, Théorie des faisceaux, Parigi 1958; W. Hurewicz e H. Wallmann, Dimension Theory, Princeton 1952; N. Steenrod, The Topology of Fibre Bundles, Princeton 1951.

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