CONTARINI, Tommaso

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 28 (1983)

CONTARINI, Tommaso

Gino Benzoni

Nacque a Venezia, il 7 sett. 1547, da Marcantonio (1517-1597) di Tonunaso e da Lucrezia di Giovanni Basadonna.

Ebbe due sorelle, Comelia e Marcella, spose rispettivamente a Ottaviano Pisani di Michele e a Francesco Contarini d'Antonio, e cinque fratelli: Girolamo (1545-1591) dei sei avvocati "per officia" di Rialto, dei Dieci governatori del "collegio della militia da mar", governator di galea grossa, senatore; Giovanni (1550-1614) che diverrà cavaliere di Malta; Alvise (1553-1627), governatore di galea e del Consiglio dei dieci, che, sposandosi con Lucietta di Daniele Dolfin, prosegue la linea familiare; Pietro (1554-1596) provveditor a Veglia; Leonardo (1560-1617).

La memoria dell'esempio fornito dal nonno materno, che aveva saputo connotare la propria presenza politica d'un marcato prestigio culturale, e soprattutto gli incitamenti del padre, che - capitano a Raspo, provveditore sopra la Giustizia Vecchia, podestà di Vicenza, capo dei Consiglio dei dieci, dei quarantuno elettori del doge Cicogna, provveditore sopra le Beccarie, provveditore al Sal (che non è da confondere, però, come è spesso stato fatto, con il più tardo Marcantonio Contarini [1555-1620] di Pietro che fu tesoriere sopra il Taglio dei Po e, all'epoca dell'interdetto, provveditore "sopra i formenti nel Trevisan et Friul") - passava pure per "scrittor", inducono il C. ad impegnarsi nello studio.

Donde la sua accurata preparazione sigillata dall'assidua frequentazione a Padova delle lezioni di teologia dei domenicano novarese Giovanni Ambrogio Barbavara "inter sapientiores theologos" eccellente e di quelle di filosofia naturale del senese Francesco Piccolomini, figura influente nella biografia intellettuale di tanti giovani patrizi e dal C. ammiratissimo ché, disvelando i "philosophiae arcana", illustra, nei suoi corsi, non solo "peripateticam, sed etiam platonicam disciplinam omneque scientiarum genus".

Giovane dalle estese letture, destinate a riecheggiare nelle Sentenze tratte da varii autori, sorta di soggettario (da "abondanza" a "tregua" e quindi con temi quali "amore", "compassione", "fede", "grado", "guerre", "incontinenza", "preda") più o meno nutritamente corredato da citazioni stralciate da svariati testi (la Bibbia, Cicerone, Filone Ebreo, Boccaccio, Guicciardini, Bodin), il C. s'espone, altresì, in prima persona con la pubblicazione di Librorum de humana tranquillitate aeneas una... viris sapientibus proposita ut tranquilla disputatione cum Patavii rum Venetiis tranquillitatis gloria refulgeat (Venetiis 1572).

È un trattatello d'impronta scolastica epperò non privo d'ambizione, dedicato a Michele Surian, l'importante uomo politico (che, nella parutiana Perfezzione della vita politica, spiccherà quale energico propugnatore della dignità e della superiorità dell'impegno civico) proposto al C. quale modello di comportamento dal padre. Risolto in una esibizione di cattolicesimo - la "vera tranquillitas" è approdo certo della via tracciata dalla "incarnati Verbi fides", s'incornicia nelle coordinate istituzionali della Chiesa; e chi non ha questa "pro matre... in terris, Deum pro patre non habebit in coelis" -, lo scritto viene menzionato da Piccolomini quale valida conferma della tesi da lui "per multos annos" enunciata dalla cattedra "dupliceni non triplicem dari ordinem". Una convinzione trasmessa agli "auditores", ribadita, appunto, "praesertim", nel capitolo settimo del libro primo dell'operetta del C., "clarissimus", secondo Piccolomini, nonché "sapientia prudentia probitate insignis".

Eletto savio agli Ordini il 19 marzo 1575 e, di nuovo, il 18 giugno 1576, il C. - che, nel 1580, per volontà del Consigho dei dieci sostituisce il padre, finché questi è indisposto, nella carica di depositario alla Zecca - è successivamente provveditor alle "cazude", provveditor alla Sanità, avogador di Comun. Di impianto robusto e di notevole vigore argomentativo il suo discorso "di eriger un banco publico trattato in senato et deliberato di sì" il 28 dic. 1584. senz'altro il migliore tra le "renghe" che di lui ci sono rimaste, in merito alle quali, peraltro, è arduo stabilire fino a che punto siano risuonate in sede pubblica o se non vadano invece considerate esercizi di meditazione e scrittura.

Il fatto il Sansovino attesti che il C. "compose un libro... et tuttavia scrive" suggerisce di valutarle, se non altro, anche come momenti di ritirata riflessione. Ad esempio la "renga" sostenente, nella crisi del 1582, il ritorno - di contro alla direzione travalicante e costituzionalmente anomala del Consiglio dei dieci - ai "prischi costumi", il reintegro della centralità del Pregadi dà l'impressione più d'Oratio ficta che d'intervento reale nel clima tesissimo originato dal rifiuto del Maggior Consiglio di rieleggere la zonta al Consiglio dei dieci, giudicato strapotente. Comunque sia, sia stata, cioè, solo scritta o, invece, anche letta, l'orazione del 1584 attesta, da parte del C., una visione del "commercio" quale attività che accomuna e pone sullo stesso piano gli uomini, che abbraccia e rapporta, valorizzando le complementarità sino all'integrazione, gli spazi e le società più distanti e diversi fondendoli in una sorta di economia-mondo. "Tutto il mondo", infatti, "diviso in tante parti, composto di tante terre lontanissime l'una dall'altra", si configura come "una sola città" grazie, appunto, al "commercio", il quale, "mediante la mercantia... unisce tutti insieme con amicitia et con beneficio, communicando le cose che abonda in un luogo a quei che ne han mancamento et portando a casa quello che in altri paesi è più copioso". Una dimensione dilatatissima e pervasiva nella quale Venezia, altrimenti destinata ad essere "solitaria et squalida", si situa in tutta la sua "fama" e "bellezza" brillando "pomposa et grande", fervida e stimolatrice con la sua operosa compresenza d'ebrei e cristiani, di greci ed armeni. Funzionalissimo in una città mercantile siffatta, dal "trafico" intensissimo "di varie sorte" e quindi dagli incessanti "pagamenti" insiti negli acquisti e nelle vendite, un accreditato e agile "banco di scrittura" per il risparmio del "tanto tempo" altrimenti impiegato nell'"esborsar il danaro... et riceverlo". Per merito del "banco" al trasferimento fisicamente ingombrante della moneta si sostituisce il rapido tratto di "penna sopra i libri", con soddisfazione sia dei "comprador" che del "venditor". Alle fastidiose lungaggini dei contratti, con relativi "caution" delle parti, intervento di notai, testimoni, "contraenti", "scritturali", atti, "riceveri", "multa summa" e connesso "contar gran numero di danari" subentra la "partida di banco", la quale è "così succinta che in un momento la si sa et si vede, di tanta commodità che tutti restan contenti et così sicura che sempre si può trovar sui libri". Ma - argornenta il C., che parla o finge di parlare ad un consesso fortemente turbato dal recente faffimento del banco privato Pisani-Tiepolo - tale servizio di pubblica utilità dev'essere sottratto all'alea della speculazione, dev'essere confortato dall'assoluta garanzia di solvibilità che solo l'"autorità publica" può dare, evitando la "confusion" e "danno" apportati dal crollo dei "banchi" dei e particulari". Logico che i privati tendano ad investire le somme loro affidate, a distribuirle in più settori, a massicci acquisti, ed affari sempre più ampi. Ma tale attività speculativa non è detto sia sempre fruttuosa; accade "vada in sinistro", con perdite rovinose, con impossibilità di restituire i depositi. Si aggiungono gli inconvenienti dovutì alla tendenza a trattenere la "bona valuta"; né va scordata la lamentata sopravvalutazione di quella adoperata per la restituzione. Non c'è altra via, ad evitare ulteriori sconcerti del "negotio", che "eriger un banco publico", il quale, circoscrivendo rigorosamente il proprio compito a strumento di costituzione di riserve e autolimitandosi alla loro esclusiva custodia per essere sempre disponibile ai pagamenti, "tronchi la radice" dei "disordeni" provocati dal tralignamento speculativo dei banchi dei "particulari". Si fonderà così saldamente "la sicurtà di volzer et manezzar il denaro"; e, una volta che "la man del publico assicurerà ogni cosa" e "la promessa dei principe rimoverà ogni timor", grande sarà, a Venezia, la "frequentia" degli operatori non più scoraggiati dai paventati tracolli dei banchi privati, intensamente si moltiplicheranno gli affari sicché la città diverrà "opulentissimo emporio del mondo". Visto che "i banchi particulari non sono sicuri", è opportuno che il "principe", che ha sempre mantenuta "la sua parola", la cui "fede" è "immaculata", istituisca in prima persona "un luogo sicuro, un banco fidel che ricevi et conservì il denaro" a lui "portado", dando "mediante la scrittura", possibilità a "tutti di volzerlo et negotiarlo". Tassativa per il C. l'intangibilità dei depositi: nel banco pubblico il denaro va "inviolabilmente custodito". I suoi funzionari dovranno soltanto "recever" il denaro e "sborsar sulla base degli "ordini della scrittura et dei libri". Nessuna avventura speculativa: tanto sarà il dar quanto l'haver". Una perorazione serrata e persuasiva questa del Contarini.

Ciò non toglie - a meno che non abbia ragione l'Errera che esclude il testo sia del C., senza però provarlo, e l'attribuisce a "senatore incognito" - sia lo stesso C. ad argomentare, nel 1587, "contra l'eretfion dei banco publico".

Compito del principe il "governar", il "maneggiar la guerra". Non se ne offuschi la grandezza coinvolgendola in incombenze spettanti a "persone private". Non è forse la "mercantia" riserbata ai "privati essercitii"? Impossibile, come provano troppe esperienze antiche e recenti, "questa materia del danaro resti incontaminata". Che garanzie ci sono contro l'"intacco"? La "volontà" degli "homeni" può trasgredire la più severa normativa. Foriero di "desordeni", fomite d'imbroglì il banco pubblico. Manipolabili, maneggiabili le somme in custodia. Preferibile prosegua la pratica dei banchi privati pur col rischio dei ripetersi degli inconvenienti. La "falison" d'uno di questi turba - è vero - "la piazza", ma l'eventuale tracollo del banco pubblico sarebbe la rovina dello Stato, coprirebbe d'onta la Repubblica. Meglio, allora, il "cosfume antico" dei banchi privati che "il partido d'admetter la novità d'un banco publico". Un discorso dunque, di segno totalmente opposto rispetto al primo: in questo vengono caldeggiati l'abolizione dei banchi privati e il diretto intervento statale, nel secondo, invece, si sostiene il mantenimento di quelli, s'esclude ogni assunzione di responsabilità da parte del principe. Si rafforza, a questo punto, la sensazione che i due testi dei C. siano stati stesi a mo' d'esercitazione, stilisticamente elaborata e concettualmente impegnata, sciorinante da un lato i vantaggi d'una decisione, dall'altro gli svantaggi. L'uno, insomma, soppesa e vanta i pro, l'altro elenca incalzante i contro. Non orazioni effettivamente pronunciate allora, ma composizioni attQrno ad un argomento, scritte tra il 28 dic. 1584, quando si deliberano l'istituzione del banco pubblico e l'abolizione dei privati, e l'11 apr. 1587, quando, col "Banco della piazza di Rialto" nasce la prima banca pubblica a Venezia, il cui bilancio è caratterizzato, nei primi anni di vita, da parità tra depositi e cassa. Vuol dire che l'istituto non è caduto negli abusi ipotizzati dal C. nel secondo discorso e s'è, invece, scrupolosamente attenuto ai connotati di mero intermediario dei pagamenti monetari delineati dal C. nel primo. L'insidia verrà, col tempo, dall'accettazione di versamenti in moneta di qualità scadente, di cui, poi ci si varrà nei pagamenti, nonché dall'irrealizzabilità, a tempi prolungati, d'una circolazione costituita esclusivamente da monete ineccepibili, laddove, di contro, l'eterogeneità della massa monetaria vanificherà ogni vagheggiamento di simmetriche equivalenze.

Morto, il 19 ott. 1587, Francesco I de' Medici e succedutogli il fratello Ferdinando, il C. viene incaricato, il 25 novembre, di complimentarsi col nuovo granduca e, insieme, di condolersi per la scomparsa del congiunto. Rapido lo svolgimento della missione dettagliatamente precisata nella commissione dell'11 febbr. 1588. Il C. parte a metà marzo e, splendidamente accolto, esprime, nell'udienza del 21, a Ferdinando il "contento" e l'"affettione" di Venezia. Un compito semplice di cui il C. approfitta per una elaboratissima relazione, che lo impegna nella stesura per circa due mesi. Presentatosi, infatti, in Collegio il 18 aprile chiede il rinvio della lettura accampando motivi di salute. Ma il testo è ben lungo - e il fatto sia pervenuto in due redazioni è indicativo dell'impegno e, anche, del travaglio dell'autore - se, presentandolo, il 7 luglio "parlò più de due hore, ma non poté finire dicendosi che ne vuole tre altre per finire".

Al di là, dunque, dell'occasione congratulatoria, la veloce puntata fiorentina del C. s'è trasforInata in stimolo ad un esauriente panorama - che abbraccia storia, economia, geografia, aspetti istituzionali, dati militari - d'uno Stato compatto, dotato d'incisi contorni naturali ("la natura ha circuncinto... il paese di monti"; un "sito... munito", allora, "ben fortificato" dalla "natura"), sino a non molto tempo addietro diviso nelle "tre repubbliche" di Firenze, Siena e Pisa. V'è, da parte del C., uno sforzo d'intendimento serio dei vittorioso imporsi della prima, sospinto sino all'attenzione, non priva d'ammirazione, verso le modalità di attuazione e radicamento e d'ulteriori penetrazione e conformazione del suo dominio. Il granducato mediceo, allora, come forma-Stato (quale l'ha definita, dopo il fluttuare delle "varie forme" e "spesse mutazioni" antecedenti, Cosimo I) diversa da quella di Venezia, epperò dotata d'intrinseca congruenza, di produttiva efficacia. Una spregiudicata valutazione del problema del tipo di governo, libera da moralistiche perplessità e svolta in termini di mera funzionalità che qualifica il C. lettore non distratto di Machiavelli, che fa della sua relazione uno dei punti più alti ed evidenti della fortuna veneziana dell'ufficialmente rimosso politologo. "Tutte le cose sono ridotte sotto un sol signore s, dal quale "tutti gli ordini dipendono". Ci può essere governo più distante da quello veneto ove - come aveva altrove rimarcato il C. - l'"amministration delle cose importanti" è di pertinenza dei "molti" adunati in Senato? Ciò - non toglie possa esprimere "ordini" validamente "opportuni" palesemente "buoni", incentivare le manifatture incrementare i traffici, incoraggiare la vita artistica e culturale, estendere le aree coltivabili. Firenze è caduta in "servitù", ma si lascia alle spalle una "confusa e sediziosa libertà". Meglio quella di questa, pensa il C., che ravvisa, poi, un residuo di "libertà" nell'esistenza di "giudici ordinari" per le "liti civili" e di "consoli" a capo delle "congregazioni delle arti". Una parvenza che appaga l'"universale senza pericolo del presente governo", che non mette, comunque, in discussione la definitività del regime autoritario e personale solidamente impiantato già da Cosimo I. "Tutte le cose", a parte qualche revocabile margine, dipendono dal volere "del solo principe".

Eletto rappresentante in Spagna il 18 giugno 1588, debitamente istruito con la commissione del 14 febbr. 1589, il C. risiede per oltre tre anni presso Filippo II ancora ostinato nell'ingerenza attiva nel travaglio di Francia (cui vorrebbe affibbiare la figlia Isabella per regina e ove fa. combattere Alessandro Farnese), ancora convinto di poter stroncare la ribellione olandese, in grado, comunque, di punire colla perdita delle franchigie l'Aragona rea d'aver appoggiato Antonio Perez.

Una volta a Venezia, il C. legge, nell'aprile del 1593, una relazione, ove traccia un penetrante ritratto del sovrano: di "complessione flemmatica... gravissimo... sempre ritirato... amico della solitudine", oberato da compiti giganteschi e insieme impegnato nelle "fabbriche" grandiose dell'Escuriale, ma non per questo disinvolto "nelle piccole spese". C'è un che di maniacale nella cupezza solitaria d'una grandezza così separata dai "consorzi" umani, così concentrata nel meditabondo soppesare "le più gravi e importanti materie che occorrono nel mondo", così meticolosa nell'annotare e postillare "tutte le deliberazioni di momento", senza, peraltro, omettere le pratiche di "minor considerazione". Netta, altresì, nelle pagine del C., la denuncia dell'atteggiamento spagnolo nei confronti della penisola volto a "mantenere i principi italiani disuniti", ché da un lato li attrae con "grossi stipendi", dall'altro sabota i matrimoni preludenti ad un embrione di colleganza. Lo stesso invio all'estero di truppe arruolate in terra italiana rientra nel disegno di "spogliare affatto" la penisola d'ogni potenzialità difensiva, d'accentuarne ulteriormente la subordinazione. Solo la Serenissima è "stimata alla corte di Spagna... indipendente"; ma, quanto alla ventilata "lega" antiturca, trattasi d'un'ipotesi poco allettante per il C., data la "diversità dei fini e dei disegni".

Tema, quest'ultimo del coinvolgimento di Venezia in un'"unione" antiottomana, più ampiamente svolto nel Discorso - da considerare più come trattazione che orazione effettiva - circa la lega della Cristianità contro il Turco (edito in Docc. ... per... nozze Bevilacqua-Neuenfels, Venezia 1856, pp. 25-36 e, parzialmente, in G. Benzoni, Venezia nell'età della controriforma, Milano 1971, pp. 111 s.), nel quale il C. prospetta come disastroso per la Serenissima il concorde scatto combattivo delle potenze cattoliche proposto a Roma ove con ostinazione si spera in un revival dello spirito delle crociate.

I Francesi, prevede il C., dopo il primo impeto, ricercherebbero, con accordo separato, la ripresa dei vantaggiosi rapporti colla Porta; i Polacchi, timorosi d'una concomitante aggressione moscovita, si sgancerebbero altrettanto rapidamente; i principi imperiali, svanito il terrore d'una invasione, deporrebbero in breve le anni. Venezia, con la Spagna e il papa, rimarrebbe, allora, sola a combattere. Ma la bruciante memoria di Lepanto - una splendida vittoria senza, però, "acquisto... d'un palmo di terra" - valga ad evitare il rinnovarsi d'una "lega" dalla quale soltanto la Spagna trarrebbe frutto, ché alla difesa delle sue coste e delle sue isole si sommerebbe l'estenuazione - per lei del pari vantaggiosa - della Repubblica nello sforzo bellico. Stremata, infatti, da questo, fioca sarebbe, successivamente, la sua resistenza alla prevaricazione ispanica. "Il fine, adunque, di spagnuoli nelle lega con venetiani è di far che" i secondi "necessariamente caschino" nell'"ingordissimo grembo" della vorace brama egemonica del re cattolico. Alle accuse, circolanti a Roma, d'abbandono, da parte di Venezia, della "causa di Christo" va, pertanto, ribattuto che questa coincide, anzitutto, con la conservazione del "dominio" veneto e che "con la lega il si rovina, senza lega il si mantiene". Più semplicemente è, inoltre, preferibile essere "odiadi che insidiadi".

Nominato, ancora il 30 apr. 1591, ambasciatore presso l'imperatore, il C. parte alla volta di Praga nel settembre del 1593 e vi si trattiene sino alla fine di luglio del 1596 costatandovi quanto "li tedeschi sono discordi tra loro" e giudicando severamente la condotta asburgica della guerra: è troppo tentennante, incapace dun convinto dispiegamento di truppe e di una loro successiva massiccia concentrazione che, in una vittoriosa battaglia campale, sfondi per poi penetrare in profondità.

Nell'accavallarsi contraddittorio dì notizie e "avisi" ("si dice", "viene scritto", "s'intese", "riferiscono alcuni", "s'ha havuto..., ma però non tanto sicuro") annuncianti "danni" e "rotte", mosse e contromosse, resta il deprimente dato di fatto della "longhezza" e "lentore" delle "rissolutioni" imperiali, persiste il terrorizzante incubo della minaccia turca su "tutto il paese intergiacente fra Vienna e Praga", la quale, ultima, pur "sede" di "Cesare" e della "corte" è vulnerabile, non sufficientemente garantita da "muraglia... castello... soldati". Ministri e cortigiani si cullano nella speranza l'"impeto" turco si trattenga lontano, specie in Valacchia e Transilvania. "Non è dubbio - scrive il C. il 13 febbr. 1596 - che Sua Maestà et li suoi stati sono esausti de danari... et che ognuno è stanco di faticare et di spendere"; augurandosi, tuttavia, si scarichino altrove le tensioni della guerra, contando il "Transilvano" e il "Valacco" sappiano ancor tagliar "a pezzi" le altrimenti dilaganti orde tartare, fidando nell'apporto cosacco, a corte "si spera di poter, con poco denaro et con poca spesa, mantenere il presente anno la guerra". Quanto a Venezia, già malvista per il rifiuto d'aiutare anche solo finanziariamente Rodolfò II, con l'erezione della fortezza di Palma si mette ulteriormente in cattiva luce; e invano il C. sadopera per presentare il forte in costruzione quale temibile bastione antiottomano. "Qui dispiace sommamente - così il C., il 10 febbr. 1594, a Marcantonio Barbaro, il primo provveditore generale a Palma - quella fortificatione et mostrano di non voler tollerarla". Rilevante - nella relazione presentata dal C. rientrato a Venezia, ordinata e, talvolta, acuta anatornia dell'eterogenea sommatoria di "regni e stati" costituenti l'Impero - l'osservazione che "la confessione augustana" resa obbligatoria a danno d'ulteriori sviluppi ereticali ha, in realtà, proprio con la sua accomunante moderazione, danneggiato la causa cattolica: fungendo, infatti, da fattore aggregante, ha reso compatti col richiamo della sua condividibile ragionevolezza i "luterani" ed evitata l'emorragia della dispersione "in più sette".

Il C. è savio del Consiglio, "principal grado di questo governo", quando, il 15 marzo 1597, figura tra i quattro scelti in Senato "da raccomandare", come scrive il nunzio Anton Maria Graziani al card. Pietro Aldobrandini, al papa, perché, a sua volta, nomini uno di loro arcivescovo di Candia. Il C., a detta del nunzio, è il più indicato.

"Questo soggetto..., per quanto n'ho inteso da molti riscontri, è reputato qualificatissimo". D'aspetto giovanile ché "mostra molto meno" dei suoi anni, "ha già cons guito tutti i principali honori della Republica... Per quello che io ne sento, ha studiato et studia tuttavia" - informazione esatta, questa di Graziani; il C. s'interessa anche di scienza, come si evince dal Discorso breve degl'effetti della calamita col suo "muoversi verso i poli" e attirare il ferro - con buoni risultati sì che potrà sostenere brillantemente l'"esamine". Sotto il profilo morale, precisa il nunzio, il C. "è reputato homo di costumi non solo gravi..., ma casti et religiosi". Asserzione corroborata dal "testimonio, dei confessore suo", un teatino "di ottimo nome" a Venezia, "che è anco confessor mio". Ritratto lusinghiero che convince Clemente VIII a preferire il C. - già beneficiato da "molti voti... in pregadi" - tra i quattro nominativi propostigli.

Recatosi a Roma per l'esame, il C. lo sostiene con ottimo esito, al punto che Clemente VIII se ne rallegra vivamente con l'ambasciatore veneto Giovanni Dolfin dicendogli - così lo stesso Dolfin il 28 giugno - che il C. vi si è affermato come "gran teologo" e "persona di buonissime lettere". Non è solo adatto al governo di una diocesi, ma anche - il papa ne è convinto - ad una cattedra di "teologia scolastica", ove insegnerebbe meglio di "chi si sia". Nel concistorio del 4, luglio Clemente VIII propone il C., che, peraltro, non ha ancora ricevuti "li ordeni", per l'arcivescovado di Candia, riducendo, ad ulteriore "espressione della sua benignità", la pensione annua su quello gravante da 1500 e 1300 scudi (di cui 1000 spettano al card. Mantica, il resto a persona da destinarsi). Altro onore per il C., nella messa, del 15 agosto, per l'Assunta a S. Maria Maggiore, l'invito "ad sedendum inter Sanctitatis Suac assistentes".

Ben voluto, dunque, il C. dal papa, mentre, invece, Venezia blocca la partenza per l'isola d'un nutrito drappello di gesuiti ch'egli avrebbe voluto al suo seguito. Alcuni gesuiti, comunque, lo precedono a Candia - dove il C. fa il suo ingresso il 31 genn. 1598, salutato da un roboante panegirico dello ieromonaco indigeno Meletio Vlastos - e vi iniziano una fastidiosa e rumorosa propaganda del rito cattolico. Un atteggiamento rilanciato dal C. con la pretesa - che suona offensiva e suscita vivissime proteste specie alla Canca - di visitare le chiese greche e con la convocazione - pur essa provocatoria - d'un sinodo provinciale del clero latino.

Le reazioni rimbalzano a Venezia ove il metropolita ortodosso, l'arcivescovo di Filadelfia Gabriele Seviros, se ne fa infuocato e, anche, convincente portavoce, al punto che la Repubblica, il 22 ottobre, ingiunge al C. d'astenersi dalla visita e di procurare, semmai, "la emenda" con preghiere, vita esemplare, generose elargizioni caritative. A questa - lo si ammonisce - la migliore propaganda. E, il 27 marzo 1599, ribadita la proibizione della visita, si vieta anche l'effettuazione del sinodo.

Anche se il C. non viene mai nominato, nella relazione, del 25 giugno 1602, del provveditore generale a Candia Benedetto Moro (edita, con traduzione greca, da S. G. Spanakes, Candia 1978). vengono criticate, come incaute e irriguardose, le sue iniziative, da non "permettere", infatti, secondo Moro, "itinovatione alcuna nelle cose dei rito" greco proprio della maggioranza degli abitanti; intollerabile, insiste, che "li predicatori latini parlino nelli pulpiti cose contrarie al rito greco". Non è, insomma, da "lasciar che siano toccati in nulla nelle cose del rito ... , perché ogni minimo accidente in questa materia cagiona ne i petti loro grandissima commotione".

Difficile, di fatto, la posizione dei C., da un lato oggetto di rampogne pubbliche, dall'altro pressato dall'oltranzismo dei gesuiti ch'egli stesso ha voluto nell'isola e dalle direttive romane. E i francescani l'accusano addirittura di cedevolezza. Donde - per riacquistare fama d'intransigente campione del cattolicesimo - la smania di punire esemplarmente un abitante di Retimo imputato d'ingiuria ai giubilei. Ma, con suo scorno, il relativo processo passa all'autorità civile.

Nel corso di un temporaneo soggiorno a Roma, dopo pochi giorni di malattia, il C. vi muore, il 4 febbr. 1604 con "universai displicenza di tutta la corte" e con accorata "mentione", il 6, da parte dello stesso Clemente VIII.

Rimane l'imbarazzante strascico dei problema delle "spoglie": da un lato il rappresentante veneto Francesco Vendramin asserisce che il grosso del corredo lasciato dal C. s'è costituito antecedentemente alla nomina ad arcivescovo; dall'altro il papa, preoccupato del recupero delle pensioni non tutte versate, intende ipotecare le suppellettili, quanto meno requisire gli "argenti ritrovati con le armi episcopali". Oggetto, dunque, di disputa mobili e argenteria dello scomparso tra parenti e Camera apostolica. Clemente VIII s'impunta: "voi altri venetiani - protesta con Vendramin - pretendete sempre, contra il dovere et l'uso della corte", d'avere subito il le spoglie dei vostri prelati". Qualcosa invece, se possibile molto - è una questione di principio - occorre resti per il fagocitante appetito romano.

Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Avogaria di Comun, 53, c. 57; Ibid., Segretario alle voci. Elezioni... Pregadi, 4, cc. 17v, 18v; 5, c. 123v; Ibid., Senato. Secreta, reg. 86, c. 90; Ibid., Capi del Cons. dei dieci. Lett. di amb., 13/202-209; 30/97-99; Ibid., Senato. Dispacci Roma, filze 39, lett. nn. 22, 26, 29, 51, 54, 58; 51, passim da lett. n. 60; Arch. Segr. Vatic., NunziaturaVenezia, 32, lett. del 15 marzo 1597; Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr. Codd. Cicogna. 1293/5; 1667; 2327, c. 63v; 2526/XX; 2559; 2578; 2738; 3154; 3416/2; Ibid., Codd. Malvezzi, 42/VIle, VIII, VIII bis; Ibid., Mss. Donà dalle Rose, 489, cc. n. n.; Ibid., Mss. Correr, 390; Ibid., Mss. Wcovich Lazzari, 8/1; 66/2; 95/4, pp. 127-204; Ibid., Misc. Correr, III/390; VII/910; XX/1660; LIX/ 2318; 910; F. Piccolomini, Universa philosophiade moribus..., Venetiis 1583, p. 26; G. Alberici, Catalogode... scrittoriven., Bologna 1605, p. 83; F. Sansovino, Venetia..., Venetia 1663, pp. 615, 630, 634; A. 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