Tōkyō nagaremono

Enciclopedia del Cinema (2004)

Tōkyō nagaremono

Mariann Lewinsky

(Giappone 1966, Il vagabondo di Tokyo, colore, 83m); regia: Suzuki Seijun; produzione: Nakagawa Tetsurō per Nikkatsu; sceneggiatura: Kawauchi Yasunori; fotografia: Mine Shigeyoshi; montaggio: Inoue Shinya; scenografia: Kimura Takeo; musica: Kaburagi Sō.

'Phoenix' Tetsu, al pari del suo boss Kurata, non è più un gangster. Anche quando alcuni membri yakuza del gruppo di Ōtsuka lo pestano, lui non restituisce i colpi. Ma poiché l'infame boss Ōtsuka si appropria con l'inganno e il delitto delle proprietà immobiliari di Kurata, quest'ultimo e Tetsu sono costretti loro malgrado a rimettere in funzione le pistole. Tetsu per coprire il boss Kurata si assume la colpa di un omicidio e lascia Tokyo. Doloroso è il commiato dall'amata, la cantante di night club Chiharu, e dal paterno boss. Il killer 'Viper' Tatsu, un uomo di Ōtsuka, lo insegue fino al gelido Nord. I due si sfidano a duello nella neve; sopravvivono, gravemente feriti. 'Shooting Star' Kenji, che un tempo ha fatto parte della gang di Ōtsuka e ora si è sganciato da qualsiasi appartenenza, cura e guarisce Tetsu ammonendolo a non fidarsi ciecamente di Kurata. Tetsu riparte, questa volta per il Giappone del Sud. Qui lo accoglie un affiliato yakuza di Kurata, proprietario di un locale. Tatsu e Kenji sono già sul posto. Marinai, gangster e le ragazze del locale ingaggiano una battaglia farsesca. Tatsu colpisce Tetsu con la pistola; ma quando questi, simile alla fenice, risorge e incomincia a fischiettare il suo motivo prediletto, il killer si spara per non aver compiuto la propria missione. Nel frattempo, a Tokyo, Kurata accetta la proposta di Ōtsuka: un palazzo in cambio della vita di Tetsu. Ma quest'ultimo è salvato ancora una volta da Kenji. Tetsu non può credere al tradimento di Kurata e raggiunge Tokyo per il gran finale nel night club Alulu. Fa fuori tutti gli avversari e rompe il patto di fedeltà con il suo boss. Per l'onta Kurata si taglia le vene. Tetsu lascia Chiharu ‒ "chi è senza patria non può avere una donna" ‒ e si mette di nuovo in viaggio, non si sa per dove.

Quando Tōkyō nagaremono venne proiettato per la prima volta in Occidente (alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, nel 1984), si rise molto e si rimase sconcertati. Watari Tetsuya con l'impermeabile nella neve fonda! E con indosso un abito celeste! Il cattivo con occhiali da sole allungati a riempire l'intero schermo panoramico! Una resa dei conti in bianco puro e giallo puro intorno a un pianoforte laccato! Era difficile assorbire l'esplosivo antinaturalismo di Suzuki Seijun, quel mix di azione rapida e brutale, farsa, colori primari e languide canzonette. A distanza di vent'anni, l'esibizione della moda anni Sessanta produceva un effetto talmente ridicolo da costituire un vero intralcio alla percezione del valore estetico del film. Passati altri vent'anni, quegli occhiali da sole e quegli interni sono tornati di moda, il film viene celebrato come un capolavoro e Suzuki è diventato un regista di culto, insignito nel 2001 a Venezia di un premio speciale alla carriera. Fatta eccezione per pochi titoli, la sua opera resta tuttavia sconosciuta in Occidente, dove importanti film come Akutarō (Il giovane ribelle, 1963) e Irezumi ichidai (Una generazione di tatuati, 1965) sono tuttora accessibili solo con grande difficoltà.

Regista di film di serie B dal 1956 al 1967, Suzuki realizzò per la casa di produzione Nikkatsu (dove aveva debuttato in qualità di assistente alla regia) circa quaranta film, muovendosi agilmente tra i generi: commedie, melodrammi, film yakuza, thriller, soft-porno. Gli studios decidevano la sceneggiatura, le canzoni-guida, gli attori protagonisti, i tempi strettissimi delle riprese. Fenotipo di eccentrico geniale, Suzuki è in realtà il prodotto e il rappresentante del sistema degli studios giapponesi, che misero a disposizione del suo talento condizioni ottimali: anni di intensa formazione, attori professionisti e una troupe stabile di tecnici di prim'ordine, come lo scenografo Kimura Takeo e il direttore della fotografia Mine Shigeyoshi. Insieme a loro Suzuki elaborò in chiave virtuosistica i vecchi generi, trasformando soggetti banali in eccitanti costruzioni visive.

L'educazione sentimentale del protagonista di Tōkyō nagaremono ‒ Tetsu è costretto a patire il peggiore dei tradimenti, a vivere la perdita degli ideali giovanili per andarsene infine in giro per il mondo, adulto e solo ‒ è la variante yakuza di un archetipo mélo, che con minimo dispendio narrativo funziona da arco portante e produce da sé situazioni drammatiche e profondità di sentimento (o per usare le parole del regista: azione e atmosfera). Suzuki non spreca inoltre un istante in cerca di verosimiglianza; utilizza i propri materiali ‒ il tempo, il colore ‒ come puro tempo filmico e puro colore filmico, sciolti da ogni vincolo o ossequio realistico. Poteva così dedicarsi meglio a quanto lo interessava: atmosfere e soluzioni a effetto per l'azione. Tōkyō nagaremono, il suo trentottesimo film, riprende una serie di precedenti trovate e ha i tratti di un'antologia formale. Generi e set cambiano bruscamente: dopo un esordio da gangster film metropolitano, si passa agli stilemi del film yakuza classico, in un paesaggio giustamente nevoso e romantico, per arrivare poi a un autentico numero slapstick in un americanizzato Giappone del Sud. Quanto al colore, Suzuki produce una ricchezza massima di varianti, non soltanto utilizzando il bianco e nero, la monocromia, ma anche lavorando con audacia sull'illuminazione. Il dramma è punteggiato da oggetti di un rosso violento ‒ un telefono, una cassetta delle lettere, un giubbotto; le scene vengono completamente immerse in colori cangianti ("Le luci sono la cosa più bella in un film. Io combino sempre qualcosa con la luce").

A partire dal 1968 Suzuki adotta esclusivamente lo schermo panoramico, deformandone il formato a suo piacimento con mascherini e segmentazioni irregolari del campo in immagini verticali o circolari, o riducendolo fino a un minuscolo rettangolo, attraverso sezioni dello schermo che come botole si chiudono repentinamente davanti ai nostri occhi. Estremista dei contrasti, nel mezzo dell'artificialità più spinta fa divampare la bellezza naturale d'un fuoco vero o comparire una soffice neve. Il suo uso dei tempi ci tiene sulla corda, con la suspense, lo shock improvviso, il ritmo dell'azione e del montaggio. Per Suzuki il film è spettacolo; considera un peccato mortale annoiare il pubblico, così come detesta i film a tesi e non gli interessano le prese di posizione teoriche. Di conseguenza, i suoi film esplodono come fuochi d'artificio arditi e sperimentali, senza messaggi e senza pretese artistiche. Suzuki ha sempre rifiutato recisamente l'attribuzione di intenti d'avanguardia. Per anni ha fatto film, come Tōkyō nagaremono, contando sulla complicità di un pubblico che sapeva apprezzare l'audacia estetico-formale, il gioco con i codici dei generi e la materialità del mezzo, all'interno di un'industria che aveva integrato film d'autore e avanguardia nella produzione commerciale. Il suo licenziamento dalla Nikkatsu, nel 1967, fu un sintomo della fine di questo sistema singolare.

Interpreti e personaggi: Watari Tetsuya (Hondo Tetsuya, 'Phoenix' Tetsu), Kita Ryūji (Kurata), Matsubara Chieko (Chiharu), Ezumi Hideaki (Otsuka), Hamakawa Tomoko (Mutsuko), Kawaji Tamio ('Viper' Tatsu), Nitani Hideaki ('Shooting Star' Kenji), Go Eiji, Izumi Tsuyoshi, Hino Michio, Chō Hiroshi.

Bibliografia

N. Kawarabata, Il caso Suzuki Sejiun, in Schermi giapponesi 2. La finzione e il sentimento, Venezia 1984; D. Chute, Branded to Thrill, in "Film comment", January 1992; T. Rayns, Tokyo nagaremono, in "Sight & Sound", n. 4, April 1994; Y. Mochizuki, Suzuki Sejiun. Cineasta del colore e dell'azione, Roma 1996.

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