TITO

Enciclopedia Italiana (1937)

TITO

Silvio Rosadini

. Personaggio del Nuovo Testamento, discepolo di San Paolo, nominato la prima volta in Galati, II,1: "Poi, dopo quattordici anni, di nuovo ascesi a Gerusalemme con Barnaba, avendo preso anche Tito", dove T. espressamente è chiamato greco, cioè pagano, e appare incirconciso (II, 3). Questo viaggio di Paolo, che da molti viene identificato con quello descritto in Atti, XV, avvenne circa il 49, e anche solo da questo lato appare che questo T. non è da identificare con il Tito-Giusto, o Tizio-Giusto (cod. B, D, Pesch., Sahid.) di Atti, XVIII, 7-12, che convertito da Paolo diede poi a costui ospitalità nella propria casa a Corinto circa il 51.

Di T. poi parla S. Paolo in II Corinzî in più luoghi (II, 13; VII, 6 segg.; VIII, 6-16; XII, 18). Mentre l'Apostolo era in Efeso verso il 56 mandò T. a Corinto per farvi la grande colletta in favore dei poveri di Gerusalemme e per prepararvi la visita propria. Adempiuta la missione affidatagli, T. nel suo ritorno trovò Paolo già in viaggio in Macedonia, e fu di nuovo inviato a Corinto in precedenza di Paolo, forse per meglio disporre quei fedeli alla sua venuta. Il nome di questo discepolo, che dovette esser condotto alla fede dallo stesso Apostolo, giacché egli lo chiama "figlio" (Tito, I, 4), non appare poi se non nelle lettere pastorali, come preposto a reggere le chiese di Creta, da dove viene invitato a raggiungere l'Apostolo a Nicopoli nell'Epiro (Tito, III, 12); da II Tim., IV, 10, appare inviato in Dalmazia, quale delegato di Paolo.

Niente altro le Scritture dicono di lui. Eusebio di Cesarea e Teodoreto aggiungono che egli evangelizzò le isole dello Ionio e dell'Egeo, e S. Girolamo ci dice che morì di morte naturale conservando intatta la sua verginità.

La Lettera a T. - È inclusa nel Nuovo Testamento fra le lettere di S. Paolo.

Questa lettera può dirsi tutta un'esortazione alle opere buone, anche nella parte che tratta dell'elezione dei presbiteri. L'Apostolo, dopo avere rivolto a T. il suo saluto cristiano di pace e grazia da Dio e da Gesù Cristo Signor nostro, viene subito a trattare della elezione dei "presbiteri", che sono ugualmente chiamati anche "episcopi" (vescovi). T. ne deve porre uno in ogni città dove si trova una commità cristiana; e tali ministri devono essere scelti fra persone irreprensibili, immuni da superbia, ira, crudeltà, avarizia, ripieni piuttosto di benignità, giustizia, continenza, e di provata fedeltà nel ritenere e insegnare la buona dottrina; così potranno efficacemente opporsi ai falsi dottori, dei quali non pochi, specie i venuti dal giudaismo, spacciano errori per amore di lucro e vanagloria. Opportunamente proprio un poeta cretese aveva detto di loro: I Cretesi sono sempre bugiardi, cattive bestie, gente pigra. Bisogna dunque bene insistere che non si corra dietro a favole giudaiche, o a tradizioni umane (cap. I). Passa poi a indicare le regole di bene vivere per ogni classe di uomini; T. deve inculcare ai vecchi che siano pazienti, fermi nella fede, alle matrone anziane che non siano malediche, ubriacone, ma che siano decenti, sobrie, e in ogni cosa di buon esempio alle giovani, agli adolescenti che siano sobrî, e a tutti Tito sia un esempio di virtù in modo che la bocca dei nostri avversarî resti chiusa. I servi poi devono esser obbedienti ai loro padroni come si deve, e fuggire ogni frode. Così dobbiamo vivere, lontano dalle cose di questo secolo, aspettando il compimento della nostra speranza nella gloriosa venuta del gran Dio e Salvator nostro Gesù Cristo (cap. II). In generale, tutti devono esser soggetti alle autorità, modesti, benigni anche verso gl'infedeli; giacché anche noi eravamo immersi nei vizî odiosi e solo per bontà del Salvatore, non per le nostre opere fummo salvati. Questa è dunque la sostanza delle esortazioni; i pastori abbiano cura di promuovere le buone opere, che sole giovano, mentre le questioni della legge o genealogie sono vane e stolte. Si rechi T. a visitare l'apostolo a Nicopoli, e mandi innanzi a sé Zena legisperito e Apollo. Saluti da tutti quelli che sono con Paolo (cap. III).

Circa la questione dell'autenticità è da ripetere quanto si è detto per le lettere a Timoteo (v.). Poiché l'atteggiamento della critica è stato lo stesso verso tutte e tre le cosiddette lettere "pastorali" (le due a Timoteo e questa a Tito), anche per questa si possono addurre gli stessi argomenti in favore, cominciando dalla tradizione; la quale specialmente per questa lettera si manifesta in Clemente Romano (I Cor., II, 7), nella lettera dello pseudo-Barnaba (I, 2, 4, 6), in S. Ignazio martire (Ad Magn., XIII, 3; Trall., II, 4), in S. Giustino (Dial. cum Triph., 7, 7; 35, 3), Teofilo di Antiochia (Ad Autol., III, 14; 2, 16). In modo poi cospicuo ed esplicito viene attribuita la nostra lettera a Paolo dal Frammento Murariano (lin. 60-61), da Ireneo (Contra Haer., I, 16, 3), Clemente di Alessandria (Strom., 14), Origene, Tertulliano, Girolamo, ecc. Mai presso la Chiesa di Roma, o le altre chiese dissidenti da essa, vi fu dubbio sull'origine paolina di questa lettera. I dubbî e le negazioni, che cominciarono col sorgere del razionalismo biblico e che anche oggi sono molto diffusi fra i non cattolici, sono fondati sulle dottrine e sulla gerarchia della Chiesa, che qui appariscono più evolute, nonché sulla diversità di lingua e stile; a questi dubbî si risponde da parte cattolica con le medesime ragioni già esposte a proposito delle lettere a Timoteo (v.).

Si può tuttavia osservare che la nostra lettera, per il maggior ordine e per la maggior precisione nel trattare la materia affine o identica a quella della I Tim., sembra doversi dire scritta dopo di questa, prima però della II Tim., la quale per il suo colore e per le chiare allusioni all'imminente morte dell'Apostolo, si deve porre l'ultima della serie di queste tre lettere, scritte dopo che Paolo fu liberato dalla prima cattività romana (dal 63 al 66 circa).

Bibl.: V. timoteo.