Lucrezio Caro, Tito

Enciclopedia Dantesca (1970)

Lucrezio Caro, Tito

Antonio Martina

Il nome di L. (vissuto nella prima metà del I secolo a. C. e autore del De Rerum natura) non ricorre mai nel corpus dantesco. Il Plumptre, citato dal Moore (Studies, I 295), notava che in D. non vi sono tracce di una conoscenza del De Rerum natura; tuttavia, alcuni dei moderni hanno tentato di stabilire dei confronti tra passi danteschi e lucreziani. Occorre perciò procedere all'esame dei singoli passi per stabilire quale autore abbia influito di volta in volta sull'immaginazione del poeta e precisare l'entità e i limiti delle cognizioni dantesche.

Non una prova della diretta lettura del De Rerum natura, ma una semplice rispondenza terminologica potrebbe considerarsi il confronto tra If I 17 (vestite già de' raggi del pianeta) e Rer. nat. II 147-148 (" quam subito soleat sol ortus tempore tali / convestire sua perfundens omnia luce "), come dimostra la presenza di analoghe espressioni, per es. in Arnobio Adv. nat. I II " Numquid ipse siderum sol princeps, cuius omnia luce vestiuntur...? ". Né ha alcuna rilevanza constatare, a proposito di If I 44 ss., che L. ricorda la " vis... violenta leonum " (III 296, e cfr. v. 741): D. trovava caratterizzata la terribilità di questa bestia in numerose fonti, già indicate da I.M. Capelli (Per una nuova interpretazione del primo canto, in " Giorn. d. " VI [1898] 357).

Non da Rer. nat. IV 181-182 (" ille gruum quam / clamor in aetheriis dispersus nubibus austri "), ma da Virgilio (Aen. X 264-266) e Stazio (Theb. V 13-14, e cfr. Claudiano De Bello gildonico 475-478) deriva la bella immagine delle gru in If V 46-47.

Se si potesse essere certi della conoscenza di D. dell'opera di L., colpirebbero due possibili raffronti finora non indicati. Il primo potrebbe istituirsi tra If I 22 ss. (E come quei che con lena affannata, / uscito fuor del pelago a la riva, / si volge a l'acqua perigliosa e guata, / così l'animo mio, ch'ancor fuggiva) e Rer. nat. II 1 ss. (" Suave, mari magno turbantibus aequora ventis, / e terra magnum alterius spectare laborem; / non quia vexari quemquam est iucunda voluptas, / sed quibus ipse malis careas quia cernere suave est "). L'immagine lucreziana, con la quale si apre il proemio del II libro, con cui D., com'è facile presumere, poteva quindi avere maggiore familiarità, non nuova nell'antichità (cfr. Archippo, fr. 43, ediz. Kock, e Cicerone Ad Atticum II VII 4), è facilmente accostabile alla similitudine dantesca e consente un confronto complessivo forse più convincente dei richiami a sporadici termini o espressioni di altre fonti (Virgilio Aen. V 254 " anhelanti similis "; Orazio Carm. I XV 31 " Sublimi fugiens... anhelitu " per If I 22 con lena affannata; Aen. II 12 " animus... horret luctuque refugit " per If I 25 l'animo mio, ch'ancor fuggiva; e, infine, Ovid. Met. VI 304 " In vultu color est sine sanguine: lumina moestis / stant immota genis: nihil est in imagine vivi ", poco attinente ai versi danteschi). Quanto al secondo, sebbene più vago, è difficile sottrarsi alla tentazione di supporre per If XIII 40-45 (Come d'un stizzo verde ch'arso sia / da l'un de' capi, che da l'altro geme / e cigola per vento che va via, / sì de la scheggia rotta usciva insieme / parole e sangue) l'eco dell'immagine lucreziana (" quod genus e nostro cum missus corpore sanguis / emicat exsultans alte spargitque cruorem. / Nonne vides etiam quanta vi tigna trabesque / respuat umor aquae? Nam quo magis ursimus alte / derecta et magna vi multi pressimus aegre, / tam cupide sursum revomit magis atque remittit, / plus ut parte foras emergant exsiliantque ", II 194-200), anche se l'intensità del momento creativo e l'esigenza della singolarità dell'episodio hanno consentito a D. di rivivere in modo tutto nuovo le particolarità del fenomeno.

In altri casi, tuttavia, il confronto tra D. e L. porta a conclusioni negative. Collocando tra gli ‛ spiriti magni ' Democrito che 'l mondo a caso pone (If IV 136) D. sapeva da Cicerone che per il filosofo di Abdera il mondo è formato dal fortuito concorso di atomi, non dall'attuarsi del disegno di una divina mente creatrice: " ex his effectum esse caelum atque terram, nulla cogente natura, sed concursu quodam fortuito " (Nat. deor. I XXIV 66). Condannava invece Epicuro per la totale negazione dell'immortalità dell'anima umana, opinione che egli riteneva intra tutte le bestialitadi... stoltissima vilissima e dannosissima (Cv II VIII 8). Della dottrina epicurea D. era informato, oltre che da Seneca, dalle opere filosofiche di Cicerone.

Non v'è però nessuna necessità di spiegare If X 15 (che l'anima col corpo morta fanno) con Rer. nat. III 417-418 (" Nunc age, nativos animantibus et mortalis / esse animos animasque levis ut noscere possis ") e vv. 830-831 (" Nil igitur mors est ad nos neque pertinet hilum, / quandoquidem natura animi mortalis habetur "), come pure la sostanziale identità di contenuto potrebbe far supporre. Numerosi sono, infatti, i passi di scritti, noti o ignoti a D., che si possono confrontare con maggiore convinzione col verso dantesco: Cicerone Amic. IV 13; Tertulliano Praescr. haer. VII 4; Lattanzio Div. inst. VII XII 5; Agostino Sermo XL ed Epist. CIV 3 (Ad Nectarium). D. poteva, inoltre, leggere in fonti tardo-medievali a lui accessibili quanto bastava a dargli un'idea su questo punto del sistema epicureo. Rabano Mauro, che D. ricorda tra gli spiriti sapienti nel cielo del Sole (Pd XII 130), scrive: " Asseruit autem Deum nihil agere, omnia constare corporibus, animam nihil aliud esse quam corpus. Unde et dixit: non ero posteaquam mortuus fuero " (De Univ. XV 1 [Patrol. Lat. CXI 415]). Ma una sorprendente affinità col verso dantesco è in Vincenzo di Beauvais Spec. histor. IV 41 " Erravit autem in multis plus quam omnes philosophi, nam putavit Deum res humanas non curare, sed ociosum esse et nihil agere; dixitque voluptatem summum bonum esse et animas cum corporibus interire ", che costituisce la fonte anche per Cv IV VI 11. Una quasi analoga rispondenza terminologica, infine, è possibile rintracciare, come ha già notato il Cosmo (" Giorn. d. " VII [1900] 173-174), anche in altre fonti medievali: Giovanni di Salisbury, Alano de Insulis, ecc.

Per il sacrificio di Ifigenia, commesso da Agamennone, e ricordato in Pd V 68 ss., D. teneva presente, più che Ovidio Met. XII 27 ss. e Virgilio Aen. II 116 ss., Cicerone Off. III XXV 95. In questo caso D. non lascia apparire alcuna conoscenza di L., che con accenti di sconsolata pietà rievoca il sacrificio della vergine (Rer. nat. I 80-101) per dimostrare che la superstizione religiosa è causa di delitti.

A Rer. nat. I 9 (" placatumque nitet diffuso lumine caelum ") si è cercato di riportare (cfr. Casini-Barbi, ad l.), senza che peraltro si sia potuta dare una dimostrazione convincente, Pd XXVIII 79-84; ma per questi versi cfr. Virgilio Aen. XII 365-366 e Boezio Cons. phil. I m. III.

Alcuni commentatori (cfr. per es. Casini-Barbi) hanno ricordato a proposito di Pd XI 1 (0 insensata cura de' mortali) Rer. nat. II 14 (" O miseras hominum mentis, o pectora caeca! ") e Persio Sat. I 1 (" O curas hominum! quantum est in rebus inane! "), che si ritiene derivato dal verso lucreziano e che il Vellutello considera alla base del dantesco, sia per il tratto esclamativo comune, sia per l'evidente rispondenza di termini. Quasi certamente alla base di Pd XI 1 ss. (e cfr. Cv III XI 10, il cui argomento sarà poi trattato, come nota il Sapegno, con diversa intonazione dai teorici dell'umanesimo da Albertino Mussato al Petrarca, al Boccaccio, al Salutati) c'è un passo di s. Girolamo, già indicato da Pietro: " Nonne vobis videtur in vanitate sensus ingredi, qui diebus ac noctibus in dialectica torquetur, qui physicus perscrutator oculos trans coelum levat, qui divina per fas et nefas quaerit, qui adulator regibus, qui haereditates et opes congregat...? ". Ma D. si è ricordato anche di Boezio Cons. phil. I III 14 " at nos desuper irridemus vilissima rerum quaeque rapientes, securi totius furiosi tumultus eoque vallo muniti, quo grassanti stultitiae aspirare fas non sit " e III II 2 " Omnis mortalium cura quam multiplicium studiorum labor exercet, diverso quidem calle procedit, sed ad unum tamen beatitudinis finem nititur pervenire. Id autem est bonum quo quis adepto nihil ulterius desiderare queat ", che richiama a sua volta Pg XXVII 115-116 (cfr. Cv IV XII 15 e Pg XVI 91-93 e XVII 127-129). Quest'ultimo passo può essere alla base di Pd XI 1-2 e induce a escludere L. e forse anche Persio, poiché alla singolare comunanza del tratto esclamativo, sottolineata anche da A.M. Chiavacci Leonardi (Lettura del Paradiso dantesco, Firenze 1963, 264), si oppone, oltre che la rispondenza tra " omnis mortalium cura " e O insensata cura de' mortali, l'affinità tra " quam multiplicium studiorum labor excercet " e quanto son difettivi sillogismi, evidente nonostante l'innegabile impronta personale data da D. all'apertura di questo canto.

Il problema se D. conoscesse L. si pone soprattutto in Pd XIV 112-117 (così si veggion qui diritte e torte, / veloci e tarde, rinovando vista, / le minuzie d'i corpi, lunghe e corte, / moversi per lo raggio onde si lista / talvolta l'ombra che, per sua difesa, / la gente con ingegno e arte acquista) che molti commentatori hanno accostato a Rer. nat. II 114-120 (" Contemplator enim, cum solis lumina cumque / inserti fundunt radii per opaca domorum: / multa minuta modis multis per inane videbis / corpora misceri radiorum lumine in ipso / et velut aeterno certamine proelia pugnas / edere turmatim certantia nec dare pausam, / conciliis et discidiis exercita crebris "). All'accostamento, accolto dalla maggior parte dei commentatori, si oppone, più che la natura della trasmissione dell'opera di L., che ci porta a escludere che per i tempi di D. il De Rerum natura facesse parte del comune patrimonio della cultura medievale, il confronto con passi di alcuni autori più tardi, derivanti da L. e più vicini ai versi danteschi, oltre che, a quanto sembra, più facilmente accessibili allo stesso Dante. Dopo il Venturi (Le similitudini dantesche, n. 151), il Busetto e il Proto, che rimanda a Seneca Nat. quae. V I 2, e cfr. Ep. XC 23, dove ricorre il termine minutiae), il Bignone ha sostenuto che la vera fonte per il passo dantesco sia Lattanzio De Ira Dei X 9 " Haec, inquit [Leucippo], per inane irrequietis motibus volitant et huc atque illuc feruntur, sicut pulveris minutias videmus in sole, cum per fenestram radios ac lumen immiserit ", che ci consente di stabilire un parallelo tra " irrequietis motibus " e veloci e tarde (v. 113), " in sole " e moversi per lo raggio (v. 115), " pulveris minutias " e minuzie d'i corpi (v. 114, e cfr. la nota del Petrocchi, ad l.; per minutiae cfr. Thesaurus Linguae Latinae).

Sulle orme del Bignone è inoltre opportuno notare che Lattanzio non ha derivato l'immagine dal solo L., che egli conosceva, ma ha tenuto presente anche una fonte dossografica greca, come dimostra il confronto con Stobeo I XLI 43 (I, p. 384 Wachsmuth), dove soprattutto l'espressione ὥσπερ τὰ ἐν τῷ ἀέρι ξύσματα [cfr. " pulveris minutias ", e Aristotele Anima I 2, 404a 16, che usa il termine ξύσματα per indicare le anime secondo il sistema filosofico pitagorico] διὰ τῶν θυρίδων φαινόμενα ci consente di rendere conto dell'espressione " cum per fenestram radios ac lumen immiserit ", che è alla base del dantesco onde si lista / talvolta l'ombra che, per sua difesa, / la gente con ingegno e arte acquista. È doveroso notare che l'immagine ricorre in Servio ad Buc. VI 31 (III, p. 69 Thilo-Hagen) " quasdam minutissimas partes... quas Lucretius minutiores dixit esse illis corpusculis, quae in infusis per fenestram radiis solis videmus ", indipendente da Lattanzio, e in Isidoro Etym. XIII II 1 " Hi (ἄτομοι) per inane totius mundi inrequietis motibus volitare et huc atque illuc ferri dicuntur, sicut tenuissimi pulveres qui infusis per fenestras radiis solis videntur ", che fa presupporre al Bignone una fonte intermedia comune a Lattanzio, Servio e Isidoro. Attraverso quest'ultimo l'immagine passò nelle fonti tardo-medievali (per es. Rabano Mauro De Computo XI [Patrol. Lat. CVII 677] e De Univ. IX 1 [Patrol. Lat. CXI 262]).

Quanto detto toglie validità alle ipotesi del Moore (Studies, I 295), che il passo di L. sia alla base dei versi danteschi, come vuole anche il Butler, ivi citato, o che D. abbia potuto disporre in questo caso di uno dei tanti Florilegia medievali, e nello stesso tempo dimostra inesatte le varie interpretazioni, di antichi e moderni.

Gli studi condotti sulla trasmissione del De Rerum natura, i cui più importanti manoscritti a noi giunti sono l'Oblongus (Vossianus lat. F 30 di Leida) proveniente dal duomo di Magonza, e il Quadratus (Vossianus Q 94 di Leida) ambedue risalenti al IX secolo, come pure il frammento di Copenaghen (Fragmentum Gottorpianum) e i frammenti di Vienna (Schedae Vindobonenses), inducono a pensare a un'assai limitata presenza di L. nel patrimonio della cùltura medievale.

Nel XII secolo L. era praticamente sconosciuto: Lovato Lovati (1241-1309) mostra di aver preceduto i contemporanei nella conoscenza del De Rerum natura, che rimase molto circoscritta sino a quando nel 1417, forse a Fulda, Poggio scoprì un codice (derivante dallo stesso archetipo di OQ), dal quale derivano i codici umanistici, tra cui il Laurenziano 35, 30 (cfr. R. Sabbadini, Le scoperte dei codici latini e greci ne' secoli XIV e XV, Firenze 1914, 192). D'altra parte alcuni confronti tra passi lucreziani e danteschi, soprattutto quando si può escludere la presenza di altra fonte, in modo particolare degli apologeti cristiani, che spesso imitano o citano versi lucreziani, impediscono di negare in assoluto l'eventualità di una magari parziale lettura da parte di D. del De Rerum natura.

Ma allo stato attuale degli studi è impossibile, senza una prova definitiva, pensare che l'autore del De Rerum natura, che trattò " de summa caeli ratione deumque " (I 54) e svelò agli uomini i " rerum primordia " (I 55) e che per la grandiosità di concezione appare il poeta latino spiritualmente più affine a D., sia stato letto da chi cantò ciò che per l'universo si squaderna (Pd XXXIII 87).

Bibl. - Sulla fortuna di L. nel Medioevo: I. Jessen, Lucrez im Mittelalter, in " Philologus " XXX (1870) 236 ss.; M. Manitius, ibid. LII (1893) 536 ss.; ID., Geschichte der Lateinischen Literatur des Mittelalters, Monaco 1911, 296; J. Philippe, Lucrèce dans la théologie chrétienne du IIIe au XIIIe siècle et spécialement dans les écoles Carolíngiennes, in " Revue de l'Histoire des Religions " XXXIV (1895) 284 ss.; XXXVI (1896) 125 ss.; A. Bufano, L. in Lattanzio, in " Giorn. It. Filologia " IV (1951) 335 ss. Inoltre, P.R. Caverni, in " La Scuola " I (1873) 29-30, 63 ss.; L. Venturi, Le similitudini dantesche, Firenze 1889, 95; E. Moore, Studies in D., I, Oxford 1896, 295; U. Cosmo, Noterelle francescane, in " Giorn. d. " VIII (1900) 171 ss.; N. Busetto, Saggi di varia psicologia dantesca, in " Giorn. d. " XIII (1905) 123; E. Proto, D. e i poeti latini, in " Atene e Roma " XIII (1910) 93-94; E. Bignone, Per la fortuna di L. e dell'Epicureismo nel Medioevo, in " Riv. Filol. Classica " XLI (1913) 246 ss.; G. Vitaletti, Varietà, in " Giorn. d. " XXVI (1923) 329, 331; A. Renaudet, D. humaniste, Parigi 1952, 116, 336; P. Renucci, D. disciple et auge du monde gréco-latin, ibid. 1954, 126, 192 n. 755.

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