Tirannide

Enciclopedia delle scienze sociali (1998)

Tirannide

Giovanni Giorgini

La tirannide antica

La tirannide è una forma di gestione del potere e quindi una realtà della politica, ma il concetto di tirannide non è l'immediato rispecchiamento di questa realtà storica: vi è una cesura, uno iato, tra la tirannide come regime politico e la sua concettualizzazione, e occorre innanzitutto ricercarne la ragione e poi ripercorrere le due storie separatamente, osservando quanto il pensiero attinga dalla realtà e arricchisca via via la nozione di tirannide passata nella storia del pensiero politico occidentale. Preliminarmente si può affermare che la tirannide fa la propria comparsa come regime politico in Occidente nel VII secolo a.C., mentre il concetto di tirannide si plasma nelle lotte politiche all'interno delle città greche (πόλειϚ), verso la fine del VI secolo a.C., per divenire un 'concetto militante' nella teorizzazione politica del V e IV secolo a.C.: l'evoluzione e i mutamenti del concetto di tirannide non sono quindi riconducibili, se non in misura assai ridotta, alle vicende storiche dei governi tirannici. Non si spiegherebbe, altrimenti, lo scarto temporale tra la presenza storica di regimi tirannici e la concettualizzazione della tirannide; ma, soprattutto, non si spiegherebbe l'ossessiva fobia verso il tiranno che appare un fenomeno diffuso in tutti gli strati della popolazione di Atene un secolo dopo la cacciata dei tiranni reali, i Pisistratidi, né si spiegherebbe come tutti i tiranni siano accomunati in un giudizio negativo, indipendentemente dalle loro singole, e talvolta positive, personalità. Occorre concludere che già nel V secolo a.C. la tirannide non è più una mera forma di governo ma è divenuta una creazione ideologica: il tiranno è il nemico interno della città, perché la comunità dei cittadini è giunta a elaborare una propria concezione del vivere politico - che è stata assai efficacemente definita 'ideologia della città' - fondata su di un insieme di valori morali, giuridici e politici, e di scelte economiche che appaiono antitetici alla tirannide. Occorre quindi concepire la tirannide come un concetto 'dialettico' e legare la sua concettualizzazione alla nascita della categoria del 'politico', ossia all'invenzione, databile al VI secolo a.C., del 'politico' concepito come spazio comune (ϰοινόν) di mediazione, all'interno del quale vigono leggi (νόμοι) valide per tutti e uguale diritto di parola (ἰσηγοϱία), al quale tutti i cittadini (in linea di principio, nella realtà i maschi adulti liberi) possono partecipare al fine di governare la città: la politica, dunque, come spazio contrapposto alla violenza e all'arbitrio di uno solo. Il tiranno appare così come il negatore di questa visione della politica che possiamo definire latamente 'democratica' o, con maggiore rigore terminologico, 'isonomica', perché fondata sull'uguaglianza di fronte alla legge (ἰσονομία). L'evoluzione in senso democratico della πόλιϚ greca, e segnatamente della città di Atene, alla quale possono essere ricondotti la maggior parte degli autori e delle testimonianze in nostro possesso, è alla base della creazione del tiranno come idolo polemico, perché egli rappresenta l'antitesi di ciò che la comunità politica è giunta a identificare come miglior forma di governo: è la costruzione ideologica, e non le circostanze storiche accidentali dei regimi tirannici, a interessare il pensiero politico, e può apparire perfino sorprendente in che misura lo stereotipo greco passa inalterato e viene utilizzato nella lotta politica molti secoli dopo la scomparsa dei tiranni effettivi, in contesti storici e culturali diversissimi e contro avversari assai differenti. È quindi alla Grecia che ci dobbiamo rivolgere per conoscere la realtà della tirannide e per ripercorrere le tappe della creazione di un 'mito' politico.

È necessaria, inoltre, una chiarificazione concettuale: non dobbiamo confondere la tirannide, che ha una propria natura specifica, con altri regimi politici che le vengono spesso accostati e ai quali viene talvolta assimilata. Già i Greci l'avevano distinta categorialmente dal dispotismo, marcando una differenza che viene ereditata dalla tradizione politica occidentale. La storia del dispotismo, che pure in epoca moderna si intreccia talvolta con quella della tirannide, è una storia a sé stante, che conserva negli autori più rigorosi alcune specificità. Fin dalla sua comparsa la tirannide appare come un caso eccezionale, al punto da non poter essere neppure definita una forma di governo stricto sensu, mentre il dispotismo costituisce un sistema politico, caratterizzato dal trasferimento nella sfera pubblica dello status privato del capofamiglia e del padrone degli schiavi, un dominio pertanto particolarmente adatto a popoli di indole servile. Questo aspetto di eccezionalità costituisce uno dei tratti peculiari e sorprendenti della tirannide, che rimase un fatto dell'esperienza politica e non fu mai razionalizzata all'interno di un contesto giuridico e istituzionale. Per tali motivi i Greci ritennero il dispotismo un sistema politico alieno, laddove paventarono sempre una possibile insorgenza tirannica. La stigmatizzazione del dispotismo risale alle guerre persiane, allorché i Greci vincitori impostarono quella straordinaria operazione culturale che assegnò la vittoria ai difensori della libertà contro la schiavitù di coloro che, da allora, furono designati come 'barbari': nacque allora la categoria del 'dispotismo orientale', ossia di un regime adatto a popoli 'schiavi per natura', mentre perfino nei contemporanei trattati medici si cercava una spiegazione antropologica della naturale inferiorità dei popoli asiatici (Ippocrate, Arie, acque, luoghi 16, dove spiegazioni climatiche e considerazioni politiche si intrecciano). La confusione terminologica che regna oggi in politica ci costringe a distinguere inoltre la tirannide da altre forme di organizzazione del potere alle quali viene spesso assimilata, sebbene ciascuna di esse abbia peculiarità che la contraddistinguono nettamente dalla tirannide. In una concettualizzazione appena rigorosa emerge con chiarezza la distanza che separa la tirannide dalla dittatura, magistratura straordinaria ma inserita nel contesto giuridico della repubblica romana. La dittatura è legata allo 'stato di eccezione', ma il dittatore è pur sempre un commissario dotato di uno scopo concreto (condurre una guerra o reprimere una sedizione) e il suo incarico e le sue prerogative sono regolate da norme giuridiche e finalizzate a salvare la libertà repubblicana in una situazione di pericolo. Nei tempi moderni, a partire dalla Rivoluzione francese e in tutta evidenza nella letteratura socialista, a questa antica dittatura con funzioni limitate di riforma si è affiancata una dittatura rivoluzionaria legata al potere costituente del popolo, svincolata da ogni limite giuridico, da Carl Schmitt denominata "dittatura sovrana" e distinta dalla precedente "dittatura commissaria". È questo il caso, ad esempio, della marxiana "dittatura del proletariato". Ancora maggiore è la distanza dall'assolutismo, termine settecentesco che rimanda allo Stato moderno e alla dottrina della sovranità, dove l'unico punto di contatto è costituito dall'unicità della figura del monarca e dalla soppressione della divisione dei poteri. Appare evidente, da ultimo, la differenza dal cesarismo che, nelle sue varianti anche contemporanee, indica sempre il governo con il supporto dell'esercito, visto come entità professionale e non identificabile con il corpo dei cittadini.

Il termine 'tiranno' (τύϱαννοϚ), come altri termini greci indicanti il potere di una persona sola, è di derivazione allotria e appartiene alla cultura asiatica, anatolica e mediorientale, ove, a partire dal XII secolo a.C., indicava il detentore autocratico di un potere extraistituzionale circondato di un'aura di autorità. Il termine 'tirannide' (τυϱαννίϚ) fa la propria comparsa in greco alla metà del VII secolo a.C. in una poesia di Archiloco di Paro, in riferimento al re della Lidia, Gige, il quale regnò tra il 687 e il 652 circa. Già a partire dal V secolo a.C. gli autori greci ricorsero a etimologie spesso fantasiose e inattendibili per mostrare l'origine straniera, aliena, del fenomeno della tirannide. Occorre evidenziare come i Greci non importarono dall'Oriente un'istituzione bensì un vocabolo dotato di alcune connotazioni precise, che designava con maggiore esattezza, rispetto agli usuali ἄναξ (signore) e βασιλεύϚ (re), il nuovo potere che si stava affermando in alcune città greche. Sebbene in origine non avesse connotazioni negative e nella sua accezione neutra continuasse a essere utilizzato, soprattutto nella tragedia, anche in epoca classica, il termine 'tirannide' ha connaturate due sfumature di significato, che sottolineano la novità (ossia l'assenza di successione dinastica) e la grandezza del potere tirannico, oggetto pertanto di ammirazione e di invidia da parte dei più.

Si può affermare con una certa sicurezza che esistono alcuni dati comuni riguardo all'origine e al ruolo storico delle tirannidi. I tiranni cominciarono a insediarsi nelle comunità politiche greche a partire dal VII secolo a.C., in un'epoca caratterizzata dallo scontro tra l'aristocrazia tradizionalmente dominante nelle città e i nuovi ceti politici: il contesto comune all'insediamento delle tirannidi è la στάσιϚ, la lotta interna fra fazioni politiche che non riesce a essere composta con i mezzi ordinari della cultura politica nobiliare e della πόλιϚ aristocratica, e che rende pertanto necessario ricorrere a un intervento straordinario. Il ricorso al tiranno non rappresentava, peraltro, l'unica possibilità di colmare un vuoto di potere: in diversi contesti di lotte intestine si ricorse a figure straordinarie, sempre dotate di potere monocratico, quali l'esimnete e il legislatore, con il compito di pacificare il conflitto. Ciò che contraddistinse il tiranno fu l'appropriarsi del potere che, in diverse guise, aveva ricevuto, oltre il lasso di tempo necessario al proprio compito: i tiranni cercarono di perpetuare il proprio potere personale instaurando dinastie che raramente andarono peraltro oltre la seconda generazione. Occorre evidenziare come la lotta politica nel VII e VI secolo a.C. si svolgesse quasi esclusivamente tra fazioni aristocratiche, anche se non dobbiamo personalizzare eccessivamente il conflitto, che vedeva la contrapposizione di programmi concernenti l'assetto interno e la politica estera. I tiranni arcaici appartenevano alle classi nobiliari e avevano un seguito soprattutto tra le famiglie aristocratiche, perché il popolo non ebbe alcun ruolo politico consapevole fino al V secolo a.C. Il tiranno è, dunque, un aristocratico che prende, o riceve, il potere in un momento di crisi dell'aristocrazia, una crisi determinata da fattori eterogenei e concomitanti quali la trasformazione dell'economia e il conseguente accumulo di capitali, il mutamento nella tecnica militare con la sostituzione della falange oplitica alla cavalleria aristocratica, lo sviluppo della coscienza individuale. Il tiranno è un aristocratico che va contro l'assunto fondamentale dell'ideologia aristocratica, l'uguaglianza tra pari: ὁμοῖοι, uguali, si definivano tra loro i nobili, ma il tiranno non si accontenta di questa uguaglianza, travalicando limiti che non sono solamente politici e giuridici ma anche etici e religiosi, e pecca dunque di ὕβϱιϚ, di arrogante tracotanza, una nozione ricca di connotazioni morali e sacrali che individua il rifiuto di permanere nei limiti posti dalla divinità all'azione umana. Il tiranno è un aristocratico che tra gli aristocratici, soprattutto più recenti, ritaglia i propri consensi ma che, per governare, attua politiche che ledono gli interessi della nobiltà e si rivelano favorevoli agli strati della popolazione meno elevati sul piano economico e sociale: il tiranno, soprattutto arcaico, non è comunque il paladino del popolo contro la nobiltà, come affermano invece alcuni autori antichi e moderni. I tiranni mantennero la struttura aristocratica della πόλιϚ e si limitarono a far ricoprire le cariche più importanti a persone a loro vicine, mostrando così l'aspetto 'privatistico' del loro regime, di contro all'ideologia comunitaria che si sarebbe sviluppata nel giro di qualche decennio; repressero, o quanto meno non favorirono, la discussione pubblica sulle questioni politiche comuni, mentre la democrazia si sarebbe caratterizzata come un regime fondato sulla parola e sulla centralità dell'ἀγοϱά; cercarono di impedire l'inurbamento del δῆμοϚ e concedettero la cittadinanza a molti stranieri, in modo da contenere le richieste dei cittadini di maggiore partecipazione al potere politico. Questa serie di motivi rese la tirannide non soltanto un'opzione politica non più praticabile nel V secolo, ma anche l'antitesi speculare del regime politico che una serie di circostanze aveva portato ad instaurare nella più importante città greca dell'epoca: la democrazia.

Le tirannidi più importanti sul continente greco si ebbero ad Atene e a Corinto, le cui figure di tiranni rimasero emblematiche e ispirarono la letteratura su questo regime, mentre Sparta ne fu esente e attuò sempre una politica estera contraria alle tirannidi. A Corinto nel 657 a.C. Cipselo, un polemarco, ossia un comandante militare, rovesciò l'oligarchia dei Bacchiadi, cui pure apparteneva per parte di madre, e instaurò la tirannide: le valutazioni delle fonti successive sono oscillanti, ma concordano nel giudicare più violenta la tirannide del figlio Periandro, il quale dovette sopperire alla mancanza di sostegno popolare di cui aveva goduto il padre, con un sostegno personale di 300 guardie del corpo, limitò la libertà economica dei sudditi impedendo loro l'acquisto di schiavi, spogliò le donne di Corinto dei loro gioielli e compì scelleratezze di varia natura. Questo non impedì tuttavia al figlio di succedergli: merito soprattutto della politica estera estremamente dinamica del padre Periandro, che vide la fondazione di numerose colonie, e di una politica commerciale fondata sui buoni rapporti personali con i tiranni di altre città. La progressiva degenerazione della tirannide nei passaggi generazionali è, comunque, un topos della storiografia greca. Ad Atene la tirannide di Pisistrato, insediatosi al potere nel 560 a.C., seguì un lungo periodo di lotte tra clan nobiliari, aggravate da una situazione economica che aveva visto molti ateniesi venduti all'estero come schiavi. Le fondamentali riforme di Solone (592 a.C.), che avevano decretato l'abolizione della schiavitù per debiti, sancendo il principio dell'inviolabilità della persona umana e la sostituzione del principio censitario a quello genetico, non avevano tuttavia eliminato la lotta tra fazioni. Pisistrato, eroe di guerra ed esponente di una delle fazioni aristocratiche in lotta, seppe approfittare delle divisioni dei suoi avversari e, attraverso alleanze mutevoli e un'accorta politica matrimoniale, invero un tratto distintivo di tutti i tiranni, seppe mantenere il potere fino alla morte, avvenuta nel 527 a.C., nonostante fosse stato cacciato due volte dalla città: il suo governo era stato così mite e benevolo che gli succedettero i figli Ippia e Ipparco, con un accordo, documentato, tra le principali famiglie aristocratiche. La figura di Pisistrato è emblematica per valutare lo scarto tra realtà della tirannide e mitologia politica e il ridotto grado di isomorfismo che la concettualizzazione della tirannide presenta: con icastica formulazione, Aristotele asserisce che Pisistrato governò "più politicamente che da tiranno", inaugurando una contrapposizione tra politica e tirannide destinata ad avere straordinaria fortuna nella tradizione politica occidentale. In precedenza già Erodoto, sostenitore della democrazia periclea e critico senza appello del regime tirannico, aveva espresso un giudizio assai positivo sulla figura del tiranno Pisistrato (I, 59), seguito in questo da Tucidide (VI, 54): sebbene le singole personalità tiranniche possano essere state buone, il regime tirannico in sé viene condannato. Centrale in questa vicenda è la svolta storica che vede la cacciata di Ippia (511 a.C.), dopo l'uccisione del fratello Ipparco che aveva provocato un inasprimento del regime tirannico (514 a.C.) e dopo alcuni tentativi nobiliari falliti di rovesciare la tirannide, ad opera del clan degli Alcmeonidi aiutati militarmente dagli Spartani e con l'appoggio dell'oracolo di Delfi. Fu in questa Stimmung che si forgiò il mito politico dei τυϱαννόϰτοι, gli uccisori del tiranno, eroi della democrazia ateniese e prototipi di tutti i futuri tirannicidi in nome della libertà politica; fu in questo contesto che il leader degli Alcmeonidi, Clistene, ritenne necessario allargare la base di consenso della propria fazione per sopravanzare l'avversario Isagora, e si assicurò l'appoggio del popolo facendolo entrare per la prima volta nella dimensione pubblica in nome dell'ideale di uguaglianza di fronte alla legge (ἰσονομία). Fuori dal continente greco, le principali tirannidi si insediarono in Sicilia, a Siracusa, con Gelone e Gerone nel V secolo e Dionisio il Vecchio e Dionisio il Giovane nel IV. Le tirannidi ioniche del VI secolo, e in particolare quella di Mileto con Aristagora e Istieo, sono caratterizzate dal sostegno militare persiano, per cui questi tiranni sono più assimilabili a governatori.

La letteratura più antica sulla tirannide è costituita soprattutto da frammenti di poeti aristocratici che riflettono l'immediatezza della lotta politica e lo spirito di parte degli autori. In questa prospettiva dobbiamo leggere le invettive di Alceo (acme 600 a.C.) contro il tiranno Pittaco, definito peraltro anche monarca ed esimnete dalle fonti e annoverato tra i Sette Sapienti, la sconsolata disamina di Teognide (acme 600 a.C.), che vede il tiranno come correttore della malvagia tracotanza delle classi sociali in lotta, l'orgogliosa rivendicazione del proprio operato di Solone, che si vanta di non aver mai ceduto alle lusinghe della tirannide sovvertitrice del tradizionale ordinamento aristocratico della πόλιϚ e generatrice di violenza. Eschilo (525-455 a.C.), esponente della generazione che combatté a Maratona, ha suggestivamente utilizzato i tratti del tiranno per caratterizzare addirittura Zeus e mostrare come solamente l'esperienza e la sofferenza possano infondere giustizia e conoscenza nei governanti (Prometeo incatenato). Nel celebre 'discorso tripolitico' (Storie III, 80-82) di Erodoto (490420 a.C.) troviamo la prima discussione teorica di pregi e difetti delle forme di governo, dove la tirannide già appare l'opposto speculare del governo popolare, "che ha il nome più bello di tutti, isonomia, e che [...] non fa niente di quanto fa il monarca": la successiva esemplificazione mostra che il modello positivo sottostante è l'Atene di Pericle, mentre il tiranno, che "sovverte le patrie usanze, violenta le donne e manda a morte senza giudizio", è già una figura idealizzata, sebbene in negativo. Nelle pagine di Tucidide (460-399 a.C.) troviamo sia la migliore esposizione dell'ideologia ateniese, con la realistica ammissione che ogni città che abbia un impero è costretta a esercitare tirannicamente la propria egemonia, sia un giudizio negativo, ispirato al principio secondo cui la potenza è il metro di misura di ogni entità politica, sulla tirannide vista come regime debole e fonte di debolezza politica. La rappresentazione scenica della tirannide nella tragedia non può prescindere dal carattere politico degli agoni drammatici: la tragedia è un momento di celebrazione della città di Atene e l'immagine del tiranno sulla scena è uno specchio fedele delle convinzioni profondamente condivise dei suoi cittadini. Sofocle (497-406 a.C.) mette sulla scena potenti e complesse figure di tiranni, come Edipo e Creonte, sottolineandone la fragilità morale, che tosto si tramuta in empietà, e la precarietà di fronte alla forza della Tyche. L'ultimo grande tragediografo, Euripide (485-406 a.C.), utilizza invece i tratti politici del tiranno per celebrare la democrazia ateniese.

È tuttavia verso la sistematizzazione teorica del IV secolo a.C., erede peraltro di un'immagine del tiranno già ricca di valenze morali, psicologiche e politiche, che il pensiero politico occidentale è maggiormente debitore. Nel IV secolo, infatti, in concomitanza con un rinnovato affermarsi di tirannie sul continente greco, la teoria politica elabora la cruciale dicotomia tra 'buon re' e 'cattivo tiranno', che inserisce una fondamentale distinzione all'interno del regime monarchico e lo salva da una generalizzata quanto aprioristica condanna. Così nel Gerone, il primo dialogo dedicato alla tirannide, Senofonte (430-355 a.C.) mostra come, ascoltando i consigli dei saggi, il tiranno possa trasformare il proprio governo, fonte di infelicità per sé e per i propri sudditi, in un buon regno. La potenza concettuale e stilistica di Platone (427-347 a.C.) è rinvenibile nelle memorabili pagine dedicate alla delineazione del ritratto psicologico del tiranno, la cui miseria morale e ignoranza della verità riguardo al bene umano ne fanno l'essere più infelice di tutti, di contro alla seducente immagine di felicità che lo accompagna e lo rende oggetto di invidia; a questa caratterizzazione fa pendant la visione della tirannide come pessima forma di governo, ultimo stadio della progressiva degenerazione della πόλιϚ perfetta. È interessante notare come il pensiero politico platonico si evolva e questa concezione della tirannide presente nella Repubblica, dove il filosofo è l'antitesi del tiranno, ceda il posto alla visione delle Leggi, che affida all'unione tra tirannide e filosofia la realizzazione del miglior regime politico. La complessa concettualizzazione della tirannide di Aristotele (384-322 a.C.) è caratterizzata da grandi antitesi, finalizzate a mostrare l'impossibilità antropologica del buon tiranno. Sul piano etico individuale il tiranno appare l'opposto dell'uomo perfettamente virtuoso: questi giudica correttamente le situazioni pratiche che si trova ad affrontare, così da costituire il metro di giudizio cui ispirare la propria azione, mentre il tiranno è accecato dalla propria disposizione malvagia e non può pertanto conoscere il vero bene per l'uomo e per la comunità politica. Sul piano più prettamente politico Aristotele distingue notoriamente sei forme di governo, in base al duplice criterio del numero dei governanti e dell'esercizio del potere nell'interesse pubblico o meno: in questa classificazione la tirannide, degenerazione della monarchia, appare come l'ultima e peggiore forma di governo. Nel corso della trattazione, però, Aristotele, attento alla storia e alla realtà empirica, rende più complessa questa classificazione: da un lato mostra come, nonostante alcune similitudini con l'esimnetia arcaica e la monarchia persiana, la tirannide sia un regime contro natura, mentre il dispotismo barbarico è adatto a un popolo schiavo per natura; dall'altro illustra come la tirannide non sorga soltanto dalla degenerazione del regno ma anche di altri regimi, come l'oligarchia, e si possa trasformare in molte guise (Politica V, 12, 1316a). È in questo contesto che si inseriscono i suoi consigli realistici fino al cinismo, altrimenti inspiegabili o contraddittori, su come trasformare la tirannide per avvicinarla a un regno, rendendola così a un tempo più moderata e più duratura (Politica V, 11, 1313a-1315b). Il distacco che permea questi consigli e la tipologia aristotelica, di contro al pathos di altre pagine della Politica, è lo specchio dell'ambiguità della posizione aristotelica, che tiene in vita un passato già superato dalle conquiste di Alessandro il Macedone: la dissoluzione della πόλιϚ non determina però la scomparsa della sua controparte negativa, destinata a rimanere un nome per i secoli.Possiamo così osservare come nel VI libro delle proprie Storie Polibio (200-120 a.C.), storico greco vissuto a Roma, riprenda la teoria platonico-aristotelica delle forme di governo, cui aggiunge l'idea di un loro succedersi ciclico (anaciclosi): in questa prospettiva la tirannide rappresenta la naturale degenerazione del regno e Polibio osserva come, date le apparenti somiglianze, "tutti i monarchi finché possono adottano dolosamente il titolo di re" (VI, 3). Cicerone (106-43 a.C.) è il tramite tra la cultura greca e quella romana, e a lui dobbiamo la traduzione latina della maggior parte dei concetti filosofici e politici greci. Nella sua opera, come nella letteratura politica latina in generale, la ricezione dell'immagine greca del tiranno si fonde con l'esperienza romana della monarchia: l'esaltazione della libertà repubblicana si accompagna all'esecrazione del rex, i cui tratti riprendono la raffigurazione del tiranno. Cicerone è autenticamente 'classico' nel ritenere che dove vi sia un tiranno, non essendovi "vinculum iuris nec consensus ac societas coetus", non esista affatto respublica (De re publica III, 31). Ne consegue che il tiranno può essere ucciso impunemente perché egli si pone al di fuori dell'ordinamento giuridico, o meglio perché la sua esistenza stessa nega tale ordinamento: "Fra noi e i tiranni non vi è nessun rapporto sociale (societas), ma piuttosto un incolmabile abisso" (De officiis III, 6). Altre classiche contrapposizioni greche vengono riprese dal pensiero politico latino: in Sallustio (86-35 a.C.) i tratti del tiranno rivivono in figure quali Silla e Catilina; nell'Ab urbe condita di Tito Livio (59 a.C.-17 d.C.) troviamo l'opposizione tra la libertà repubblicana e la servitù sotto il tiranno, dove osserviamo l'obliterazione della distinzione tra re e tiranno unita a un elogio del tirannicidio; in Tacito (55-120 d.C.) la successione del principato alla repubblica marca la sostituzione della respublica con un possesso privato del dominus. Questi temi, inseriti in un contesto etico didascalico, ritornano nei Moralia e nelle Vite parallele di Plutarco (I secolo d.C.), opere destinate ad avere un perdurante influsso sulla letteratura repubblicana, mentre la figura del tiranno rivive per incarnare diversi aspetti del vizio morale nelle opere di Seneca (4 a.C.-65 d.C.) e, con fini essenzialmente retorici, nelle orazioni di epoca imperiale.

Il Medioevo e l'umanesimo civile

L'adattabilità ai diversi contesti della figura del tiranno emerge con assoluta chiarezza nell'uso medievale, dove essa viene impiegata sia per descrivere il papa che travalica il proprio potere spirituale e non rispetta né le prerogative del Concilio né quelle dell'imperatore, sia per designare l'imperatore che non ha riguardo per il ruolo dei propri vassalli, sia infine per bollare i piccoli governanti locali che calpestano le libertà del popolo. Ciò che occorre sottolineare è la versatilità d'uso di questa caratterizzazione, atta a bollare di infamia qualunque uso eccessivo del potere, temporale o spirituale. L'orizzonte morale che caratterizza il Polycraticus (1159) di Giovanni di Salisbury spiega l'uso ampio del termine tirannia, che abbraccia sia tutte le forme di governo violento che, a ogni livello, mirano a vanificare le leggi e a ridurre il popolo in schiavitù, sia la smodata lotta per la conquista del trono pontificio (VIII, 23). Concezione medievale del rex supra legem e visione cristiana si intrecciano in una dottrina di cui fatichiamo a comprendere la coerenza: dal momento che la tirannide è un crimine pubblico e il tiranno è un nemico pubblico, ucciderlo non solo è lecito ma equo e giusto (III, 15); d'altro canto, anche i tiranni sono ministri di Dio (VIII, 18) e pertanto agli oppressi viene raccomandato di affidarsi alla protezione e alla clemenza di Dio (VIII, 20). L'influsso aristotelico in Tommaso d'Aquino (1225-1274) spicca nella descrizione della tirannia come forma di governo nella quale chi detiene il potere lo esercita nel proprio interesse e non per il bonum commune (Summa Theologica Ia IIae 105 1 ad 2). Pur condannando la ribellione come un peccato mortale, Tommaso ritiene lecito resistere a un tiranno appellandosi all'autorità pubblica, ossia a magistrati superiori (De regno); nel caso, poi, di un usurpatore del potere regio, l'uccisore del tiranno è degno di lode e di premio (Commento alle sentenze II, q. 44, 2, 2-5; De regimine principum I, 2-6). Ma è soprattutto nelle grandi lotte che videro contrapposti papato e impero e il papa al concilio vescovile che la retorica della tirannide appare pienamente dispiegata. Nel Defensor pacis (1324) di Marsilio da Padova, accanto a suggestioni aristoteliche (I, 8, 3), la condanna della tirannide è motivata dalla necessità che all'interno della politia viga una legge che è espressione della volontà di tutto il corpo dei cittadini (o della sua valentior pars: I, 12, 8). Nel Breviloquium de principatu tyrannico, scritto verso il 1340, Guglielmo di Occam attacca la dottrina della plenitudo potestatis papale come contraria al Vangelo e alla ragione naturale e fonte di mali incalcolabili, perché confonde le due sfere di potere, temporale e spirituale. Richiamando Aristotele e le Sacre Scritture, egli ricorda come il governo "apostolico o papale" e quello temporale esistano per il "vantaggio comune" dei fedeli e dei sudditi, rispettivamente; la giurisdizione dell'imperatore non è pertanto basata sul suo essere cristiano. L'influsso aristotelico è invece particolarmente avvertibile nella tipologia esposta nel Dialogus (III, 1, 2, 6).

Il Tractatus de tyranno di Bartolo da Sassoferrato, scritto tra il 1355 e il 1357, ha sullo sfondo il nascente fenomeno dell'instaurarsi di signorie e l'acceso dibattito giuridico-politico che l'accompagnò. Composto verso la fine della sua vita, il De tyranno riassume molti temi della lunga riflessione di Bartolo sulla legalità, la legittimità e la corruzione dei sistemi politici e fornisce una sistematizzazione del fenomeno multiforme della tirannide destinata a divenire canonica. Esaminando una ricchissima casistica, Bartolo si interroga sulla natura del governo tirannico. Nei suoi Moralia super Job (XII, 38: Migne, Patrologia latina LXXV, 1006) Gregorio Magno aveva distinto cinque specie di tirannide, nella Repubblica romana, nelle comunità inferiori e, infine, anche nella coscienza del singolo, specie che si manifesta come desiderio di oppressione. Bartolo afferma decisamente che vi può essere tirannide solamente dove si esercita una giurisdizione, perché i pensieri non interessano al giurista, sebbene egli ritenga che anche gli atti preparatori all'instaurazione della tirannide debbano essere puniti. Egli distingue, poi, la tirannide in manifesta e occulta e all'interno di queste due grandi divisioni opera quattro ulteriori suddivisioni: nella tirannide manifesta egli distingue tra chi detiene illegittimamente il potere, l'usurpatore (ex defectu tituli) che sovverte le forme costituzionali della comunità, e chi lo ha ottenuto legittimamente ma governa dispoticamente e con violenza (ex parte exercitii): dalla trattazione aristotelica Bartolo riprende l'idea che questo tipo di tirannide si manifesti con il mantenimento di divisioni e lotte tra fazioni e l'impoverimento dei sudditi. La tirannide occulta, invece, rispetta in apparenza le regole costituzionali ma le altera nella sostanza, con eccessi di potere o abusi di ufficio o anche con forme di discriminazione verso alcuni cittadini. Se pensiamo ai 'due soli' che guidano la riflessione politica medievale, possiamo concludere che da un lato il tiranno viola un ordine che è sacro perché stabilito da Dio, dall'altro la tirannide costituisce un fenomeno eminentemente antigiuridico. Bartolo tratta anche del diritto di resistenza e afferma che non è lecito abbattere il tiranno per motivi personali, ma solo per ragioni di publica utilitas e soltanto nell'impossibilità di ricorrere a un magistrato superiore.

La suggestione di temi classici ispira la riflessione sulla fine degli ordinamenti repubblicani di Firenze, marcata dall'ascesa al potere di Cosimo de' Medici, nei cosiddetti 'umanisti civici' e nel pensiero repubblicano fiorentino. Ciò che contraddistingue questi autori è l'enfatica contrapposizione della florentina libertas alla servitù sotto un signore unico, che diviene inevitabilmente tiranno. Nel De tyranno di Coluccio Salutati, scritto agli inizi del Quattrocento, ritorna il tema medievale della duplice via per cui si diviene tiranni, ossia usurpando il potere oppure dominando con superbia e contro le leggi e la giustizia; Salutati, tuttavia, individua nella libera accettazione dei sudditi il tratto discriminante del regno dalla tirannide. L'importanza del consenso viene invece negata da Donato Giannotti nella Republica fiorentina, perché esso può essere comprato dal tiranno con elargizioni e altri mezzi. L'esaltazione del 'reggimento civile', in polemica con la tirannide di Lorenzo de' Medici, informa il Trattato circa il reggimento e governo della città di Firenze (1494) di Girolamo Savonarola. Della tirannide Savonarola sottolinea l'instabilità, la mutevolezza e la breve durata e, riprendendo un tema tradizionale, non sottopone a esame la forma di governo ma si sofferma sull'uomo, il tiranno. Nell'Apologia, scritta attorno al 1540 per giustificare l'uccisione del duca Alessandro, Lorenzino de' Medici ritiene che i costumi malvagi creino il tiranno, indipendentemente dalla legalità della sua investitura.

La grande cesura: Machiavelli e Hobbes

La grandezza e l'innovatività del pensiero di Niccolò Machiavelli si riverberano sull'immagine del tiranno, assolutamente svincolata dalla tradizionale trattazione medievale, che troviamo nelle sue opere e segnatamente nel Principe. Egli mostra innanzitutto di aver ben chiaro come i principati possano essere ricondotti a due grandi tipologie: "o per uno principe, e tutti li altri servi", ossia un despota che nomina a suo piacimento i ministri che lo aiutano a governare, come nel caso dell'Impero ottomano ("el Turco", la classica categoria del dispotismo orientale); "o per uno principe e per baroni", come è il caso della monarchia francese, dove la classe aristocratica costituisce un contrappeso al potere regio per antichità di sangue (cap. 4). Ma la figura paradigmatica per comprendere la centralità della categoria della tirannide in Machiavelli, e l'innovatività della sua trattazione, è costituita dal tiranno di Siracusa Agatocle, il quale esemplifica coloro che ascendono al principato per mezzo di scelleratezze: queste possono procurare il regno ma non la gloria, che è il fine dell'attività di governo. L'inumanità di Agatocle induce inoltre Machiavelli a tracciare la famigerata distinzione tra crudeltà bene o male usate, dove le prime sono quelle commesse, se necessitati, in nome del fine supremo per l'uomo politico - la conservazione dello Stato - e quindi alla fine si convertono nell'utilità dei sudditi; le seconde sono quelle fini a se stesse, che dipendono dall'innata malvagità del governante. Emerge qui con chiarezza come Machiavelli abbia un'acuta consapevolezza che il male rimane tale ("se del male è licito dire bene") anche quando il Principe è necessitato a farvi ricorso (cap. 8). Assente dalla riflessione machiavelliana è invece la questione della legittimità del governo, che viene semplicemente identificata nella sua effettività storica. Nei Discorsi I, 40, emerge come la tirannide si instauri in una repubblica allorché vi sia la prevalenza degli interessi di una parte del popolo che ricerca un'assoluta libertà, o invece dei nobili che vorrebbero sottometterlo completamente; di fronte al tiranno la nobiltà è destinata a dividersi ed egli non potrà guadagnarla senza eccezioni alla propria causa. Il tiranno deve avere l'appoggio del popolo, ma così perde il proprio carattere specifico: è evidente l'influenza dell'insegnamento del Gerone di Senofonte.In Thomas Hobbes troviamo una posizione meno ricca di sfumature e più radicale. La distinzione tra re e tiranno è totalmente obliterata. La tirannia non è una forma di governo a sé stante bensì una monarchia sgradita ai sudditi (Leviathan 19): il nome tirannia, infatti, non è altro che un sinonimo di sovranità. Fedele alla propria convinzione secondo cui "gli uomini sono soliti significare con i nomi non solo le cose ma, insieme, anche le loro passioni", Hobbes ritiene che i nomi 'regno' e 'tirannia' esprimano semplicemente pareri diversi sul potere di uno solo, e riconduce agli scrittori greci e romani l'esecrazione della tirannide, alle loro motivazioni politiche: abituati a vivere in governi popolari o di ottimati, essi odiavano la monarchia in tutte le sue forme (De cive III, 7, 2-3). Nella straordinaria coerenza della costruzione politica hobbesiana osserviamo come attraverso il patto ciascun individuo autorizzi ogni azione del sovrano dando vita a quel grande Leviatano all'interno del quale, solo, si ha la legge e la giustizia e dunque il bene e il male; in assenza di qualunque autorità o riferimento esterno non è possibile giudicare le azioni del sovrano e definire il suo potere una tirannide. In questo modo il suddito viene privato degli strumenti concettuali e giuridici per opporsi al potere sovrano fomentando ribellioni o arrogandosi addirittura il potere di uccidere il tiranno, contrapposto al buon monarca (Leviathan 29): è pericolosissimo, infatti, tollerare "un odio professato per la tirannia" perché significa tollerare "un odio per lo Stato in generale" dal quale sorge il germe delle sedizioni (Leviathan, Revisione e Conclusione).

L'epoca delle guerre di religione e il pensiero repubblicano

L'utilizzo della figura polemica del tiranno ebbe rinnovato vigore nelle guerre di religione che sconvolsero l'Europa nella seconda metà del Cinquecento. Nessuna innovazione caratterizza però tale utilizzo, che si pone in perfetta continuità con il pensiero medievale. In Francia divenne un luogo comune la visione del Principe come manuale per tiranni e l'identificazione del machiavellismo con la difesa teorica del regime tirannico e dell'immoralità in politica. Può apparire singolare che la dottrina tutta politica di Machiavelli possa apparire una difesa della tirannide, ossia della negazione della politica, come è affermato esplicitamente nel celebre Discours [...] contre Nicolas Machiavel florentin di Innocent Gentillet, più noto come Anti-Machiavel (1576), nel quale si sostiene che Machiavelli avrebbe edificato "non une science politique mais tyrannique". Nel medesimo anno compaiono i Six livres de la république di Jean Bodin, una delle opere capitali del pensiero politico cinquecentesco, nella quale ritroviamo diversi topoi tirannici. Nel secondo libro, dove tratta delle diverse forme di Stato, Bodin distingue la monarchia in regia, dispotica e tirannica. Egli fa ricorso alla propria distinzione, di cui va fiero, tra forme di Stato (che sono tre soltanto: monarchia, aristocrazia e democrazia) e forme di governo (la modalità di amministrazione del potere) per sostenere che la tirannide costituisce non un regime a sé stante bensì un modo di esercitare il governo in uno Stato a regime monarchico. Al di là della tipologia, la sua trattazione appare largamente debitrice di Aristotele. Egli sostiene, ad esempio, che il regime dispotico trasferisce nella società civile un dominio patriarcale adatto alla famiglia, con una concezione patrimoniale dello Stato che vede il sovrano padrone delle persone e dei beni dei sudditi. Afferma poi chiaramente che la monarchia dispotica non va confusa con la tirannide e trova il discrimine tra queste due forme di governo nella loro origine: nella monarchia dispotica il sovrano è divenuto padrone dei sudditi e dei loro beni per diritto di guerra in seguito a una guerra 'giusta', mentre è monarca tirannico chi ingiustamente rende schiavi uomini liberi, al modo di un pirata o un brigante, una definizione straordinariamente reminiscente della Politica aristotelica. La monarchia dispotica appare a Bodin una modalità di amministrazione del potere monarchico adatta soprattutto ai popoli asiatici e mal tollerata dagli europei "più alteri e più guerrieri".

Concludiamo con alcune rapide esemplificazioni per mostrare la continuità con il pensiero politico premoderno e l'assenza di innovazione nell'utilizzo della retorica della tirannia in quest'epoca. Nella letteratura ugonotta posteriore alla strage di san Bartolomeo (1572), negli autori significativamente denominati 'monarcomachi', il problema della tirannide si incontra con quello del diritto di resistenza, perché la 'tirannide' del sovrano assoluto incorpora un elemento nuovo, sconosciuto nel passato, il dominio delle coscienze. Esemplari, in questo senso, la Franco-Gallia (1572) di François Hotman, il Discours de la servitude volontaire (1576) di Étienne de La Boétie e le Vindiciae contra tyrannos (1579) di Stephanus Junius Brutus.L'elaborazione concettuale del tema della liceità del tirannicidio ha un ruolo preminente nella scolastica spagnola, legata alla questione della legittimità della resistenza, ed eventuale deposizione di sovrani eretici. Roberto Bellarmino (1542-1621), Francisco Suarez (1548-1617), ma soprattutto Juan de Mariana (1535-1624) spingono le proprie argomentazioni fino a giustificare l'uccisione del sovrano eretico.

Un ritorno al passato, con un riutilizzo retorico dell'immagine della tirannide, si riscontra anche nel pensiero politico repubblicano inglese del Seicento, e segnatamente in autori come John Milton, Algemon Sidney, Henry Neville, John Toland. È significativo, in questo senso, che nel proprio progetto utopico e antimoderno di Oceana (1656) James Harrington segnali l'eccezionalità della posizione hobbesiana riguardo alla considerazione della tirannia, unanimemente condannata dagli autori del passato.

Nell'opera Les soupirs de la France esclave (1689-1690) Michel Le Vassor sostiene che un governo tirannico è meno pericoloso di uno dispotico perché la tirannia è limitata alla deviazione di un governante, mentre il governo dispotico è un sistema, che una volta si trovava solamente fra gli orientali e che ora si è insediato in Francia, con la conseguenza che "il re ha preso il posto dello Stato" e la sua "puissance tyrannique" si esplica anche nelle questioni religiose. 5. L'eclissi di un concetto e il destino di un nome.

Con il progressivo spegnersi delle guerre civili e delle polemiche religiose osserviamo la permanenza della parola tirannia nel lessico politico ma il depauperamento semantico del concetto. L'Esprit des lois (1748) di Montesquieu marca chiaramente lo spostamento a favore della categoria del dispotismo orientale come concetto ideologico negativo. Sebbene il termine gli sia noto, il concetto di tirannide non ha un ruolo centrale nel suo pensiero, laddove il dispotismo, delineato peraltro con tratti ripresi dall'immagine tradizionale della tirannide, costituisce uno dei tre possibili sistemi di dominio, un dominio fondato sulla paura e la condizione servile dei sudditi. È con l'Illuminismo che il dispotismo diviene una categoria politica centrale, sia in autori che intendono riproporre l'ideale del monarca 'illuminato' dai consigli dei filosofi (despotisme éclairé dei fisiocratici), sia in chi ritiene invece che l'imperium paternale sia la peggior forma di dispotismo (Kant), adatto soltanto ai servili popoli orientali (Turgot, Condorcet): con valutazioni diametralmente opposte questi autori rilevano che caratteristica del dispotismo è il trasferimento della figura paterna dalla casa alla scena politica. Il richiamo alla tirannide e l'elogio del tirannicidio che permette al popolo di recuperare la perduta libertà, che troviamo in autori come Voltaire (si veda la voce Tyrannie nel Dictionnaire philosophique del 1764) e nei rivoluzionari francesi, hanno un mero fine retorico. Lo svuotamento di significato del termine è percepibile nelle espressioni 'tirannia della libertà' e 'tirannia della virtù', veri e propri ossimori che, riecheggiando Rousseau, troviamo in Robespierre. Nella Démocratie en Amérique (1835-1840) di Alexis de Tocqueville appare evidente l'uso metaforico del termine là dove si afferma che le società democratiche devono paventare che tiranna divenga la maggioranza e non un singolo uomo individuabile. La tendenza delle nazioni democratiche a concentrare tutta l'attività governativa nel solo potere che emana direttamente dal popolo, il legislativo, in assenza di freni e contrappesi, determina un'onnipotenza della maggioranza che si estrinseca innanzitutto sul potere legislativo, il quale risulta schiavo delle passioni volubili e momentanee del popolo, e quindi sull'esecutivo, per poi estendersi sul piano sociale fino a imprigionare anche il pensiero: la "tirannide della maggioranza" produce un conformismo di massa cui non servono catene e carnefici perché "trascura il corpo e punta diritto all'anima", un conformismo alimentato da un insaziabile amore per l'eguaglianza che prevarica financo l'attaccamento all'idea di libertà. A questo nuovo genere di tirannide, che minaccia la libertà sul piano sociale, fa pendant un regime politico, bollato spregiativamente come "dispotismo paterno", che, togliendo all'individuo ogni desiderio di partecipare agli affari politici, lo rinchiude egoisticamente nella ristretta cerchia formata da amici e parenti, relegandolo in una dimensione privata dove la sopita passione politica è sostituita dalla "caccia ai piaceri consentiti". Rovesciando un luogo comune vecchio di secoli e guardando al futuro, Tocqueville preconizza così che la tirannide possa coesistere con istituzioni democratiche in una forma di governo in cui la libertà è insensibilmente e volontariamente limitata dai cittadini stessi.

Nel nostro secolo, che già nel 1938 Élie Halévy definiva l'"era delle tirannidi", il grande politologo Raymond Aron insinua il sospetto che la tirannide sia in realtà il simbolo del male in politica. Osserviamo così come il termine, per le sue connotazioni assiologiche, ritorni in concomitanza dell'instaurarsi di regimi totalitari. Ciò appare evidente, da ultimo, nell'opera di uno dei maggiori filosofi politici del Novecento, Leo Strauss, il quale riesuma il termine da un oblio secolare per bollare il nazifascismo e il comunismo sovietico, in nome di una rinnovata concezione della filosofia politica che proponga nuovamente la questione della migliore forma di governo, in aperta polemica con la scienza sociale americana che aveva fatto dell'avalutatività la propria bandiera. (V. anche Dittatura; Governo, forme di).

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