Testimonianza [dir. proc. pen.] 3. Testimonianza assistita

Diritto on line (2017)

Giuseppe Tabasco

Abstract

La legge 1.3.2001, n. 63 ha introdotto nel nostro sistema processuale penale l’istituto della testimonianza assistita, che era già contemplato dall’ordinamento francese, prevedendo due categorie di testimoni assistiti: a) gli imputati connessi teleologicamente o collegati probatoriamente con procedimento che non si è ancora concluso con sentenza irrevocabile; b) gli imputati connessi o collegati, allorché il procedimento penale a loro carico si sia concluso con decisione definitiva diversa dalla sentenza irrevocabile per non aver commesso il fatto. A tali categorie, con due declaratorie di illegittimità, la Corte costituzionale sembra averne aggiunte ulteriori: da un lato, gli imputati connessi o collegati assolti irrevocabilmente per non aver commesso il fatto; dall’altro gli imputati connessi o collegati assolti irrevocabilmente perché il fatto non sussiste, i quali depongono con garanzie meno intense rispetto a quelle di cui godono le altre due categorie. I principi fondamentali su cui si fonda la disciplina dell’istituto sono quattro: 1) l’assistenza difensiva; 2) la necessità dei riscontri; 3) l’inutilizzabilità in damnosis delle dichiarazioni rese nel corso dell’esame; 4) uno speciale privilegio contro l’autoincriminazione sul fatto addebitato.

Cenni comparativi dell’istituto con l’ordinamento francese

La l. 1.3.2001, n. 63 ha ridotto l’area della incompatibilità a testimoniare degli imputati in un procedimento connesso o collegato, prevedendo la loro compatibilità con l’ufficio di testimone. Di tal guisa, essi, «pur ricadendo appieno nell’alveo della testimonianza, godono di garanzie ben più ampie rispetto a quelle riconosciute al comune testimone, in ragione del legame tra il procedimento a loro carico e quello nel quale sono chiamati a rendere dichiarazioni» (Bonzano, C., I mezzi di prova, in Procedura penale. Teoria e pratica del processo, diretto da G. Spangher-A. Marandola-G. Garuti-L. Kalb, vol. I, Soggetti. Atti. Prove, a cura di G. Spangher, Torino, 2015, 887). Come noto, il meccanismo risponde all’istituto della testimonianza assistita, già introdotto nell’ordinamento francese dalla l. 30.12.1987 (Cataldo, M.E., Imputato e testimone assistito nel processo penale francese, in AA.VV., Le nuove leggi penali. Abuso d’ufficio, dichiarazioni del coimputato, videoconferenze giudiziarie, Padova, 1998, 285, nt. 30), che, tuttavia, limitava l’assunzione della qualifica di testimone assistito soltanto a colui che veniva accusato dalla parte civile. Con la riforma introdotta dalle leggi 4.1.1993 e 24.8.1993, nell’ordinamento d’oltralpe, le garanzie riconosciute al testimone assistito venivano estese anche a colui che fosse stato accusato dal pubblico ministero nella requisitoria introduttiva, nonostante permanesse per le due figure di testimone assistito un diverso trattamento giuridico a seconda che l’accusa provenisse dal pubblico ministero o dalla parte civile (Stanzione, G., Il diritto al silenzio nel sistema processuale francese in comparazione con l’ordinamento italiano, in Dir. pen. e processo, 2016, 951). Successivamente, «Le disposizioni relative al testimone assistito sono state profondamente modificate con la legge n. 516 del 15 giugno 2000. A seguito della riforma, la normativa in parola è oggetto di una sezione specifica del codice di procedura penale composta da otto articoli (artt. da 113-1 a 113-8 c.p.p. fr.), i quali stabiliscono una disciplina unitaria per tutte le ipotesi in cui un dichiarante assume lo status di testimone assistito. Inoltre, sono aumentati i casi nei quali una persona può essere sentita in tale veste e sono stati ampliati, altresì, i diritti riconosciuti a questa figura processuale» (Cataldo, M.E., Imputato e “testimone assistito”: la recente riforma in Francia, in Giusto processo. Nuove norme sulla formazione e valutazione della prova (legge 1° marzo 2001, n. 63), a cura di P. Tonini, Padova, 2001, 165 e 166). Ulteriori riforme sono intervenute, negli ultimi anni. In particolare, le leggi 14.4.2011, n. 392 e 27.5.2014, n. 535, hanno introdotto una serie di garanzie per la persona sottoposta a giudizio penale, al fine di colmare le lacune presenti nel processo penale francese, proprio in riferimento ai diritti sulla persona. Tuttavia, permane fra l’ordinamento francese e quello italiano una vistosa differenza, consistente «nell’inesistenza, nell’ordinamento francese, del riconoscimento di un privilegio contro l’autoincriminazione, al pari di quello previsto dal nostro art. 197 bis, comma 4, oltreché di una norma di diritto sostanziale che faccia salvo l’imputato connesso sentito in qualità di testimone comune qualora egli sia costretto a scegliere tra una condotta integrante il reato di falsa testimonianza o il dover compiere dichiarazioni che arrechino nocumento nella libertà e nell’onore a sé o a un prossimo congiunto, che rende la tutela del silenzio dell’imputato una garanzia monca e zoppicante» (Stanzione, G., Il diritto al silenzio, cit., 967).

Le categorie della testimonianza assistita

Il legislatore ha previsto due categorie di testimoni assistiti. In primo luogo, gli imputati connessi teleologicamente o collegati probatoriamente con procedimento che non si è ancora concluso con sentenza irrevocabile. In tale ipotesi i soggetti predetti possono deporre come testimoni se hanno reso «dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri». In secondo luogo, gli imputati connessi o collegati, allorché il procedimento penale a loro carico si sia concluso con decisione definitiva diversa dalla sentenza irrevocabile per non aver commesso il fatto. Tuttavia, solamente in relazione a quest’ultima categoria vige «un sostanziale intangibile diritto al silenzio nel senso che soltanto gli imputati connessi ex art. 12 lett. a), possono rendere, in sede di indagini preliminari, dichiarazioni a carico di terzi e, successivamente, in dibattimento (salvo che nel frattempo non siano intervenute le pronunce irrevocabili di condanna, applicazione della pena o assoluzione) avvalersi della facoltà di non rispondere o rendere dichiarazioni non veritiere senza conseguenze di sorta, e ciò appunto in virtù del legame di stretta inscindibilità tra il fatto proprio ed i fatti altrui tale da non consentire una facile distinzione tra gli uni e gli altri». In merito alla prima categoria, invece, «l’assunzione nei modi e alle condizioni di cui all’art. 210, comma 6, c.p.p., della figura di testimoni assistiti, ne comporterà l’assoggettamento, in via generale, alla disciplina della testimonianza con conseguente obbligo di rispondere e di dire il vero limitatamente ai fatti riguardanti la responsabilità di altri liberamente enunciati in prima battuta» (Carini, C., Sub art. 197 bis, in Codice di procedura penale ipertestuale, a cura di A. Gaito, I, Torino, 2008, 999). A tali categorie, con due declaratorie di illegittimità, la Corte costituzionale sembra averne aggiunte altre (C. cost., 21.11.2006, n. 381, in Cass. pen., 2007, 486 ss., che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, in riferimento all’art. 3 Cost., l’art. 197 bis, co. 3 e 6, c.p.p., nella parte in cui prevedono, rispettivamente, e l’assistenza di un difensore e l’applicazione delle disposizioni di cui all’art. 192, co. 3, del medesimo codice, anche per le dichiarazioni rese dalle persone indicate, al co. 1 del medesimo art. 197 bis c.p.p., nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di assoluzione «per non aver commesso il fatto» divenuta irrevocabile, ritenendo irragionevole assoggettare alla regola della corroboration e munire della assistenza difensiva le dichiarazioni rese da chi – già imputato di reato connesso o collegato a quello per cui si procede – è stato assolto con formula ampia, essendo venuta meno qualsiasi relazione tra il dichiarante ed il processo nel quale egli è chiamato a deporre; C. cost., 26.1.2017, n. 21, in Guida dir., 2017, 8, 84, che, ritenendo suscettibile di estensione la ratio sottesa alla predetta sentenza n. 381/2006, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo sia l’art. 197 bis, co. 6, c.p.p. nella parte in cui prevede l’applicazione della disposizione di cui all’art. 192, co. 3, c.p.p. anche per le dichiarazioni rese dalle persone indicate al co. 1 dello stesso art. 197 bis c.p.p., nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di assoluzione «perché il fatto non sussiste»; sia l’art. 197 bis, co. 3, c.p.p. nella parte in cui prevede l’assistenza di un difensore anche per le dichiarazioni rese dalle persone indicate al co. 1 del medesimo art. 197 bis, nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di assoluzione «perché il fatto non sussiste» divenuta irrevocabile). Si tratta degli imputati connessi o collegati assolti irrevocabilmente per non aver commesso il fatto, ovvero perché il fatto non sussiste, i quali, in forza dell’intervento della Corte costituzionale, depongono con garanzie meno intense rispetto a quelle di cui godono le altre due categorie. Infine, un ruolo particolare assume la figura del cosiddetto collaboratore di giustizia, ossia la persona che, una volta manifestata la volontà di collaborare per un delitto di tipo terroristico, mafioso o assimilato, entro centottanta giorni deve fornire al pubblico ministero «tutte le notizie in suo possesso utili alla ricostruzione dei fatti e delle circostanze sui quali è interrogato nonché degli altri fatti di maggiore gravità ed allarme sociale di cui è a conoscenza oltre che alla individuazione e alla cattura dei loro autori ed altresì le informazioni necessarie perché possa procedersi alla individuazione, al sequestro e alla confisca del denaro, dei beni e di ogni altra utilità dei quali essa stessa o, con riferimento ai dati a sua conoscenza, altri appartenenti a gruppi criminali dispongono direttamente o indirettamente». Tale soggetto, in concreto, «sarà sentito come imputato concorrente (senza obbligo di verità penalmente sanzionato) o come testimone assistito (con obbligo di verità sul fatto altrui già dichiarato) secondo il tipo di legame che intercorre tra il proprio procedimento e quello nel quale è chiamato a deporre e in base all’oggetto delle precedenti dichiarazioni» (Tonini, P., Manuale di procedura penale, XVII ed., Milano, 2016, 333).

I principi fondamentali della testimonianza assistita

L’art. 197 bis c.p.p. detta le regole che sono comuni alle categorie di testimoni assistiti individuate dal legislatore. In primo luogo, al testimone assistito si applicano le norme sulla testimonianza, salvo che non siano espressamente derogate dall’art. 197 bis. Pertanto, egli è obbligato a presentarsi al giudice, mentre nel corso della deposizione i testimoni assistiti godono di uno speciale privilegio contro l’autoincriminazione sul fatto addebitato, che si affianca al comune privilegio contro l’autoincriminazione con riferimento a reati ulteriori e diversi di quelli oggetto del procedimento a loro carico, dai quali potrebbe emergere una responsabilità penale, riconosciuto dall’art. 198, co. 2, del codice di rito penale. «Pertanto, essi possono tacere non solo sui fatti oggetto del procedimento a proprio carico e, in determinati casi, sui fatti per i quali sono stati condannati, ma possono eccepire il privilegio anche su ulteriori fatti dai quali potrebbe emergere una loro responsabilità penale» (Conti, C., L’imputato nel procedimento connesso, Diritto al silenzio e obbligo di verità, Padova, 2003, 294, la quale osserva come non sia possibile «escludere a priori la configurabilità di situazioni nelle quali anche il teste assistito con processo pendente abbia necessità di invocare il comune privilegio contro l’autoincriminazione ex art. 198, comma 2», 295, nt. 194). In secondo luogo, l’art. 197 bis, co. 3, stabilisce che il testimone sia assistito da un difensore di fiducia o in mancanza da uno di ufficio. A tal proposito, va evidenziato che la norma non afferma ex professo che il difensore abbia diritto di partecipare all’esame, diritto, che è, invece, attribuito ai soggetti imputati in procedimento connesso che non possono assumere l’ufficio di testimone, ai quali si riferisce l’art. 210, co. 4, del codice di rito penale. Tuttavia, non sembra dubbio che al difensore vada riconosciuto sia «il diritto di presenziare all’assunzione della testimonianza, sia, in tale sede, «il diritto di formulare richieste, osservazioni e riserve, ovviamente a tutela della posizione del testimone assistito e delle corrispondenti prerogative sul versante dei limiti al dovere testimoniale» (Grevi, V., Prove, in Conso, G.-Grevi, V.-Bargis, M., a cura di, Compendio di procedura penale, VIII ed., Padova, 2016, 309). In altre parole, «egli è tenuto a vigilare sulla correttezza dell’escussione, che deve limitarsi al fatto sul quale il dichiarante è divenuto compatibile e deve rispettare i limiti del privilegio contro l’autoincriminazione» (Bonzano, C., I mezzi di prova, cit., 889). Qualora la deposizione venga assunta in assenza del difensore sembra che vada escluso che il vizio che possa colpirla sia la nullità, ex art. 178, lett. c) c.p.p., non ricorrendone i relativi presupposti. Tuttavia, vi è chi ritiene che ricorra una inutilizzabilità per violazione di una forma essentialis dell’atto (Conti, C., Annullamento per violazione di legge in tema di ammissione, acquisizione e valutazione delle prove; le variabili giurisprudenziali, in Cass. pen., 2013, 485). In giurisprudenza, attesa la tassatività delle nullità, è stato escluso che la deposizione possa essere colpita sia da nullità che da inutilizzabilità (Cass. pen., 7.2.2007, n. 10235, Catanzaro e altro, in C.E.D. Cass., n. 235922). Sempre in tema di assistenza difensiva, è discussa ancora la questione se i testimoni assistiti possano essere ammessi al patrocinio a spese dello Stato. La giurisprudenza di merito si è pronunciata sia in senso affermativo (Trib. Roma, 24.5. 2005, Marocchi, in Cass. pen., 2005, 2744 ss.) che negativo (Trib. Santa Maria Capua Vetere, 5.1.2004, in Giur. mer., 2005, 613 ss.). La giurisprudenza di legittimità, invece, ha ritenuto che tale beneficio possa essere concesso esclusivamente se la procedura derivata ed accidentale risulta connessa ad un procedimento nel quale il richiedente sia già stato ammesso al patrocinio in quanto titolare di una delle qualifiche soggettive elencate nel primo comma dall’art. 74 del d.P.R. 30.5.2002, n. 115 (Cass. pen., 11.6.2008, n. 33139, Di Bari e altro, in C.E.D. Cass., n. 240898). Di parere contrario la dottrina, che è orientata a ritenere che il beneficio vada riconosciuto anche ai testimoni assistiti nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di assoluzione (Sechi, P., Esame dell’imputato in procedimento connesso ed estensione del patrocino per i non abbienti, in Giur. mer., 2005, 1673). Una ulteriore garanzia riconosciuta al testimone assistito coincide con la prevista inutilizzabilità in damnosis delle dichiarazioni da egli eventualmente rese sia nel procedimento a suo carico che nel procedimento di revisione della sentenza di condanna, nonché in qualsiasi giudizio civile o amministrativo relativo al fatto addebitato al dichiarante (Bonzano, C., I mezzi di prova, cit., 890). La norma, da un lato, «mira ad indurre il dichiarante a non avvalersi del privilegio contro l’autoincriminazione e a rendere dichiarazioni anche sulla propria responsabilità, considerando che le stesse sono inutilizzabili contra se», dall’altro, appare finalizzata a coprire tutte quelle ipotesi nelle quali gli ambigui confini che separano fatto proprio e fatto altrui, obbligo testimoniale e facoltà di tacere, possono provocare una lesione del diritto di difesa» (Conti, C., L’imputato nel procedimento connesso, cit., 295 e 296). In dottrina, è stato ritenuto che tali dichiarazioni siano inutilizzabili anche in materia cautelare, per cui sulle stesse non potrà fondarsi l’esistenza dei presupposti applicativi di un provvedimento limitativo della libertà personale (Daniele, M., La testimonianza assistita e l’esame degli imputati in procedimenti connessi, in Il giusto processo tra contraddittorio e diritto al silenzio, a cura di R.E. Kostoris, Torino, 2002, 211, che, tuttavia, evidenzia come dal prisma della inutilizzabilità vadano escluse le dichiarazioni che costituiscano corpo del reato di calunnia o falsa testimonianza nell’eventuale procedimento contro il teste assistito). Tuttavia, esse potrebbero risultare utili a fini investigativi, contribuendo a delineare una possibile ipotesi ricostruttiva dei fatti (Nobili, M., Giusto processo e indagini difensive: verso una nuova procedura penale?, in Dir. pen. e processo, 2001, 8). La suprema Corte, invece, ha sottolineato che l’inutilizzabilità delle dichiarazioni è prevista solo nel caso in cui di esse si faccia uso contro la persona che le ha rilasciate (Cass. pen., 26.11.2007, 4230, Ferraro, in Cass. pen., 2009, 2078 ss., che, sulla base di tale rilievo, ha ritenuto utilizzabili ai fini delle misure cautelari le dichiarazioni rese da un coindagato senza l’assistenza del difensore). Infine, l’ultimo comma dell’art. 197 bis c.p.p. stabilisce che le dichiarazioni rese dai testimoni assistiti siano utilizzabili soltanto in presenza di riscontri che ne confermino l’attendibilità. Su tale complesso meccanismo è intervenuta a più riprese la Corte costituzionale, che, in un primo momento, chiamata a pronunciarsi sulla disciplina nella parte in cui prevede la necessità di riscontri anche per le dichiarazioni rese dai testimoni assistiti, già coimputati del medesimo reato nei cui confronti sia stata emessa sentenza di patteggiamento, ha dichiarato infondata la questione di costituzionalità, ritenendo che non esista una totale equivalenza delle figure del teste ordinario e del teste assistito, di guisa che la necessità di riscontri, si risolve in un esercizio non irragionevole della discrezionalità del legislatore (C. cost., 8.7. 2004, n. 265, in Cass. pen., 2004, 4065 ss., che ha rilevato come la sentenza irrevocabile di patteggiamento non sia idonea a rescindere ogni legame tra il soggetto e il processo nel quale è chiamato a deporre, quanto meno nel caso di concorso nel medesimo reato, osservando, in particolare, che il dichiarante in oggetto «non è mai completamente “terzo” rispetto alla imputazione cui la pena applicata si riferisce; l’originario coinvolgimento nel fatto lascia infatti residuare un margine di “contiguità” rispetto al procedimento, che si riflette sulla valenza probatoria della dichiarazione»). Successivamente, ha sottratto al trattamento riservato al testimone assistito l’imputato prosciolto in via definitiva con la formula «per non aver commesso il fatto», ritenendo tale soggetto totalmente parificabile al testimone comune e (pena la violazione del principio di uguaglianza) non più necessitato di assistenza difensiva, nel corso dell’esame incrociato, e non più destinatario della regola di valutazione di cui all’art. 197 bis, co. 6, c.p.p. (C. cost., 8.11.2006, n. 381, in Cass. pen., 2007, 486 ss.). A conclusione della disamina della disciplina mette conto di segnalare una recente sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione, che hanno posto fine a un lungo contrasto giurisprudenziale. Chiamate a stabilire «se la mancata applicazione – in sede di esame dibattimentale di un imputato di reato connesso o collegato a quello per cui si procede – delle disposizioni di cui all’art. 210 c.p.p., relativamente alle dichiarazioni testimoniali rese da chi avrebbe dovuto essere sentito come teste assistito, perché imputato in un procedimento connesso o di un reato collegato, determina inutilizzabilità, nullità a regime intermedio o altra tipologia della deposizione testimoniale», hanno enunciato i seguenti principi di diritto: «In sede di esame dibattimentale ai sensi dell’art. 210 c.p.p., comma 6, di imputato di reato connesso ex art. 12 c.p.p., comma 1, lett. c), o collegato ex art. 371 c.p.p., comma 2, lett. b), l’avvertimento di cui all’art. 64, comma 3, lett. c), deve essere dato non solo se il soggetto non ha reso in precedenza dichiarazioni concernenti la responsabilità dell’imputato (come testualmente prevede l’art. 210, comma 6), ma anche se egli abbia già deposto erga alios senza aver ricevuto tale avvertimento». – «In sede di esame dibattimentale ai sensi dell’art. 210 c.p.p., comma 6, di un imputato di reato connesso ex art. 12, comma 1, lett. c), o collegato ex art. 371 c.p.p., comma 2, lett. b), a quello per cui procede, il mancato avvertimento, di cui all’art. 64 c.p.p., comma 3, lett. c), determina la inutilizzabilità della deposizione testimoniale» (Cass., S.U., 26.3.2015, n. 33583, Lo Presti e altri, in Dir. pen. e processo, 2015, 1373 ss.). La decisione, riconoscendo la massima estensione al diritto di difendersi degli imputati connessi teleologicamente o collegati probatoriamente, ha affermato che l’omissione dell’avvertimento previsto dall’art. 64, co. 3, lett. c) c.p.p., determina la inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dai soggetti in parola. Tuttavia, «persistono ancora molte perplessità sugli effetti dell’inosservanza delle disposizioni in materia di testimonianza assistita» (Quagliano, G., Una “formalità” rilevante: il mancato avvertimento all’incompatibile a testimoniare determina l’inutilizzabilità delle sue dichiarazioni, in Dir. pen. e processo, 2015, 1380). La Corte regolatrice, infatti, nello sforzo di legittimare la sua determinazione, compie un’interpretazione contra legem, atteso l’inequivocabile tenore letterale dell’art. 210, ult. co., c.p.p. che circoscrive l’applicazione delle disposizioni in esso contenute a quegli imputati di reato connesso che mai hanno reso dichiarazioni concernenti terzi (Dubini, M., Il ritorno del garantismo inquisitorio: le Sezioni Unite sull’esame del testimone assistito, in Dir. pen. cont., 11.7.2016, 6).

I testimoni assistiti prima della sentenza irrevocabile

Sussistono dei presupposti in virtù dei quali scatta l’obbligo di deporre come testimone per l’imputato collegato o connesso teleologicamente nei cui confronti non sia intervenuta una sentenza irrevocabile. In primo luogo, è necessario che l’imputato sia stato ritualmente avvisato che «se renderà dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri, assumerà, in ordine a tali fatti, l’ufficio di testimone». In secondo luogo, le dichiarazioni rese dall’imputato connesso o collegato devono avere ad oggetto un fatto concernente la responsabilità di altri. In presenza di tali presupposti l’imputato collegato o connesso teleologicamente diventa compatibile con la qualifica di testimone assistito. «Si tratta, dunque di una compatibilità condizionata e parziale. “Condizionata” perché scatta soltanto se l’imputato in questione ha reso dichiarazioni sul fatto altrui. “Parziale” perché è limitata al singolo fatto altrui già dichiarato» (Tonini, P., Manuale di procedura penale, cit., 327). Il testimone assistito con procedimento pendente gode del comune privilegio contro l’autoincriminazione in relazione a reati diversi da quelli oggetto del procedimento a suo carico. A tale privilegio il legislatore ne ha aggiunto un altro per l’imputato collegato o connesso teleologicamente che rende dichiarazioni come testimone assistito sul fatto altrui. L’art. 197 bis, co. 4, c.p.p. stabilisce che il teste assistito non può essere obbligato a deporre su fatti che concernono la propria responsabilità in ordine al reato per il quale si procede nei suoi confronti. In merito a tale privilegio, va evidenziato che «l’unico caso in cui l’escussione in qualità di teste assistito può inerire alla propria responsabilità è l’ipotesi nella quale le precedenti dichiarazioni vertano su fatti inscindibili». Infatti, «é con specifico riferimento a tale ipotesi peculiare che il legislatore ha riconosciuto al teste assistito la facoltà di non rispondere sul fatto proprio». Ne consegue che «quando i fatti sono inscindibili la facoltà di non rispondere si estende anche al fatto altrui. Tuttavia, se il teste assistito decide di rispondere, egli ha un obbligo di verità penalmente sanzionato». Ovviamente, questa disciplina trova applicazione anche quando i procedimenti connessi teleologicamente o collegati siano stati riuniti. Va, però, sottolineato che non sempre l’imputato al momento della dichiarazione è in grado di riconoscere il fatto come altrui. Infatti, spesso solo successivamente un fatto si rivela essere circostanza a carico di altri e tale rilevanza ben poteva essere ignota ex ante al dichiarante (Tonini, P., Manuale di procedura penale, cit., 328). Inoltre, gli intrecci tra le vicende umane sono talmente spessi e inestricabili che l’astratta scindibilità tra fatti si dissolve alla luce della concreta eventualità, di guisa che «ogni parola dell’indagato, ancorché limitata al fatto proprio, risichi[a] di attingere il fatto altrui e, simmetricamente, ogni parola del testimone assistito, ancorché limitata al fatto altrui, p[uò] concernere in modo diretto o indiretto anche il fatto proprio». In conclusione, la prospettiva di obblighi testimoniali può indurre l’imputato a tacere o a mentire, inquinando, di tal guisa, la libertà della strategia difensiva (Bonzano, C., I mezzi di prova, cit., 897 e 898). D’altronde «anche presupponendo che si tratti di dichiarazioni di per sé scindibili, difendersi parlando soltanto del fatto proprio può essere praticamente impossibile, o rendere molto arduo l’esercizio del diritto di difesa. … Parlare di fatti concernenti altre persone implica l’intenzione di rendere dichiarazioni sulla loro responsabilità» (Illuminati, G., L’imputato che diventa testimone, in Indice pen., 2002, 399).

Testimone assistito e imputato giudicato in via definitiva

In relazione alla testimonianza assistita dell’imputato dopo che la sentenza emessa nei suoi confronti sia divenuta irrevocabile (sia essa una sentenza di condanna, di proscioglimento o di patteggiamento) l’art. 197 bis, co. 4, c.p.p. stabilisce che questi non può essere obbligato a rispondere su fatti per i quali sia stata pronunciata sentenza di condanna qualora nel procedimento a suo carico abbia negato la propria responsabilità ovvero non abbia reso alcuna dichiarazione. In tale ipotesi, il privilegio contro l’autoincriminazione si fonda sull’onore del condannato e la ratio della disposizione normativa è quella di non pregiudicare la possibilità di una revisione per chi sia stato ingiustamente condannato (Tonini, P., Il testimone assistito: un “oggetto misterioso” nel processo penale, in Equo processo: normativa italiana ed europea a confronto, a cura di L. Filippi, Padova, 2006, 353). Esso, tuttavia, non può essere invocato dalla persona nei cui confronti sia stata emessa sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti (Trib. Milano, 24.4.2001, Beraldi e altri, in Foro ambr., 2001, 360 ss., che, partendo dall’assunto che «la norma di cui al comma 4 dell’art. 197-bis c.p.p riconosce testualmente l’esenzione dell’obbligo di deporre solo a favore dei soggetti “per i quali è stata pronunziata in giudizio sentenza di condanna”», è pervenuto alla conclusione che «Come risulta evidente dalla lettera della norma ed è altresì confermato dall’esame dei lavori preparatori, il riferimento alle sentenze di condanna pronunciate “in giudizio” vale ad escludere l’operatività del diritto al silenzio nei confronti di coloro che abbiano riportato sentenze di applicazione (della) pena ai sensi dell’art. 444 e ss. c.p.p.»). La disciplina ha dato luogo a dubbi di costituzionalità. Tuttavia, la Corte costituzionale ha dichiarato manifestamente infondata la questione di incostituzionalità dell’art. 197 bis, co. 4, c.p.p. nella parte in cui non riconosce il privilegio in parola al soggetto che ha patteggiato quando questi nel procedimento a sua carico aveva negato la propria responsabilità o non aveva reso alcuna dichiarazione. A parere del Giudice delle leggi, infatti, l’imputato nell’optare per il rito alternativo è posto ex ante nella condizione di apprezzare le conseguenze che scaturiscono da tale scelta, tra le quali appunto, anche quella di non essere esonerato dal deporre come teste in altri processi, anche se strettamente collegati a quello per il quale ha subito l’applicazione della pena (C. cost., 28.12.2007, n. 456, in Giur. cost., 2007, 4920 ss.). In ogni caso, sembra che non si possa negare ai soggetti in questione, nell’ipotesi che rendano false dichiarazioni al fine di tutelare il proprio onore, l’applicazione della scusante prevista dall’art. 384, co. 1, c.p.p (Trib. Genova, 16.9.2006, in Corr. mer., 2007, 761 ss.). Anche in dottrina, la scelta normativa ha suscitato perplessità, per un verso, a causa del mancato richiamo ad altri provvedimenti terminativi, quali il decreto penale di condanna o la sentenza dichiarativa del difetto di giurisdizione o di competenza, rispetto ai quali non resterebbe «che affidarsi ad una ardita lettura analogica della norma codicistica» (Caprioli, F., Commento all'art. 5 l. 1.3.2001, n. 63 – Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale in materia di formazione e valutazione della prova in attuazione della legge costituzionale di riforma dell'art. 111 della Costituzione, in Legisl. pen., 2002, 186; nonché, nello stesso senso, Vigoni, D., Ius tacendi e diritto al confronto dopo la l. n. 63 del 2001: ipotesi ricostruttive e spunti critici, in Dir. pen. e processo, 2002, 101, la quale rileva che l’assimilazione del decreto penale di condanna al provvedimento di cui all’art. 533 «sembra imporsi a livello interpretativo, sia in ragione dell’irragionevolezza della soluzione contraria, che fa leva soltanto sulla tipologia formale della condanna, sia della espressa menzione della sentenza “patteggiata” …, con cui il decreto penale di condanna ormai condivide paralleli profili premiali … e a cui risulta accomunato da analoga matrice consensuale»); per altro verso, perché potrebbe avere ricadute pericolose nella misura in cui il rischio di un futuro obbligo di testimonianza nel processo altrui possa finire con il condizionare la strategia difensiva nel processo proprio (Patané, V., Il diritto al silenzio dell’imputato, Torino, 2006, 173; nonché Santoro, V., Il cambio da coimputato a teste esalta il confronto, in Guida dir., 2001, 13, 42, che parla di «tendenziale pregiudizio al diritto al silenzio e alle stesse prerogative in punto di accesso ai riti semplificati»). Peraltro, la Corte costituzionale non ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 197 bis, co. 5, c.p.p. nella parte in cui prevede la inutilizzabilità contra se delle dichiarazioni rese dal teste assistito. Ne consegue che il testimone assistito in parola risulta più garantito rispetto al testimone comune, delineandosi, di tal guisa, una ulteriore peculiare species (Bonzano, C., I mezzi di prova, cit., 893). Infine, mette conto di rilevare che la Corte costituzionale, nel dichiarare l’illegittimità dell'art. 197 bis, co. 3 e 6, c.p.p., nella parte in cui prevedono, rispettivamente, l’assistenza di un difensore e l’applicazione della disposizione di cui all’art. 192, co. 3, c.p.p. prima per le dichiarazioni rese dalle persone, indicate nel medesimo art. 197 bis, co. 1, nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di assoluzione “per non aver commesso il fatto” divenuta irrevocabile (C. cost., 8.11.2006, n. 381, in Guida dir., 2006, 46, 71), poi per le dichiarazioni rese dalle medesime persone nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di assoluzione «perché il fatto non sussiste» divenuta irrevocabile (C. cost., 26.1.2017, n. 21, in Guida dir., 2017, 8, 84) ha, nella sostanza, assimilato la posizione dell’imputato assolto con sentenza irrevocabile, «per non aver commesso il fatto» o perché il fatto non sussiste, a quella del testimone comune. In realtà, a parere del Giudice delle leggi l’assoluzione definitiva per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste, comporterebbe per l’innocente una piena restitutio in integrum e, stante anche la garanzia del ne bis in idem, ripristinerebbe la sua terzietà rispetto al fatto oggetto dell’addebito. In altre parole, la sentenza di assoluzione per non aver commesso il fatto, renderebbe il dichiarante immune da qualunque interesse in causa. Eppure, le situazioni di tali soggetti sono assai diverse: l’uno è stato pienamente “assolto” dall’addebito, l’altro è ancora assoggettato a procedimento penale e, pertanto, il suo interesse, sebbene affievolito, non risulta del tutto annullato (Catalano, E.M., I confini della testimonianza assistita nel prisma del sindacato di ragionevolezza, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2007, 315). Appare evidente, infatti, che qualora si rifiutasse di rispondere, potrebbe essere imputato per falsa testimonianza nella forma della reticenza. In ogni caso, «l’aver privato la dichiarazione dell’assolto “perché il fatto non sussiste” dall’orpello dell’assistenza legale» nonché dalla «presunzione di inattendibilità di cui all’art. 192, comma 3, del c.p.p. affida al giudice il compito di operare comunque misurazioni fini sull’affidamento da riporre verso il dichiarato. Il libero convincimento torna a operare liberamente, ma questo non esclude una verifica delle ragioni dell’assoluzione» (Cisterna, A., Non più sospetto ma vero e proprio testimone, in Guida dir., 2017, 8, 90).

Imputati connessi e archiviazione o non luogo a procedere

Dibattuta è la questione in ordine al regime applicabile agli imputati nei cui confronti sia stata pronunciata archiviazione o sentenza di non luogo a procedere, i quali non abbiano reso in precedenza dichiarazioni sulla responsabilità altrui, non essendo prevista espressamente una disciplina a riguardo. Sul punto dottrina e giurisprudenza non sono state unanimi. Secondo una prima soluzione veniva proposto che gli imputati in esame venissero sentiti come testimoni sic et simpliciter, sul presupposto che, non essendo più né imputati né indagati, fosse inapplicabile il regime di incompatibilità previsto dall’art. 197 c.p.p. (Trib. Fermo, 11.2.2003, in Arch. nuova proc. pen., 2003, 145 ss.). Viceversa, secondo un diverso indirizzo si riteneva che il soggetto dovesse essere sentito come testimone assistito, sul presupposto che l’archiviazione e il non luogo a procedere siano equiparabili alle sentenze irrevocabili (Cass. pen., 25.9.2007, n. 39050, Costanza, in Cass. pen., 2008, 2812 ss.). Infine, un ultimo orientamento sosteneva che i soggetti in questione andassero sentiti come imputati o indagati in procedimento connesso o collegato, sul presupposto che, non essendo l’archiviazione e la sentenza di non luogo a procedere contemplate negli artt. 197, 197 bis, permanga il regime di incompatibilità a testimoniare previsto per gli imputati in procedimenti pendenti, con la conseguenza che soltanto le dichiarazioni erga alios avrebbero potuto determinare l’assunzione della figura di testimone assistito (Cass. pen., 9.7.2008, n. 34843, Manticello e altri, in C.E.D. Cass., n. 241298; Cass. pen., 8.6.2007, n. 25207, P., in C.E.D. Cass., n. 237073; Cass. pen., 15.3.2007, n. 15804, Grimaldi, in Cass. pen., 2008, 1987 ss.; Cass. pen., 1.2.2005, n. 22402, Gilbo, in Cass. pen., 2006, 3710 ss.). Quest’ultima soluzione è quella che in dottrina è stata ritenuta la più corretta (Ferrua, P., Il giusto processo, Bologna, 2007, 174, per il quale «il silenzio degli artt. 197 e 197 bis c.p.p. non può considerarsi una “lacuna”, ma l’esito di una scelta volta a distinguere dalle sentenze propriamente irrevocabili l’archiviazione e il non luogo a procedere come provvedimenti dotati di minore stabilità, in quanto definitivi solo allo stato degli atti; in rapporto ai quali si profila la possibilità di una riassunzione della veste di indagato o di imputato per effetto della riapertura delle indagini o della revoca della sentenza di non luogo a procedere»; Bricchetti, R., Le figure soggettive della legge sul giusto processo, in Dir. pen. e processo, 2001, 1277; Conti, C., Questioni controverse in tema di prova dichiarativa a quattro anni dalla legge n. 63 del 2001, in Cass. pen., 2005, 663). Peraltro, tale soluzione consentirebbe di evitare l’immissione nel processo di una deposizione testimoniale caratterizzata da un infimo tasso di credibilità, a causa del conflitto tra dovere di verità e interesse a non se detegere che graverebbe sulla posizione del dichiarante (Amodio, E., Giusto processo, diritto al silenzio e obblighi di verità dell'imputato sul fatto altrui, in Cass. pen., 2001, 3590, nt. 10). Tale soluzione interpretativa è stata fatta propria dalla Corte costituzionale in relazione al provvedimento di archiviazione allorché ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 197, 197 bis c.p.p. nella parte in cui vietano di sentire come testimone l'indagato o l'imputato dopo la pronuncia dell’archiviazione o della sentenza di non luogo a procedere (C. cost., 27.3.2006, ord. n. 76, in Guida dir., 2003, 17, 55 ss.). Il Giudice delle leggi ha affermato che «al di là delle peculiari situazioni che possono in concreto verificarsi, il provvedimento di archiviazione, pronunciato con qualsivoglia “formula”, potrebbe in astratto essere sempre superato dalla riapertura delle indagini autorizzata in vista di una nuova qualificazione del fatto come fattispecie penalmente rilevante ovvero come reato perseguibile d’ufficio o ancora come reato per il quale operano termini prescrizionali di maggiore durata». Sull’argomento sono intervenute anche le Sezioni Unite, dando una interpretazione diametralmente opposta a quella della Corte costituzionale. È stato ritenuto, infatti, che la disciplina limitativa della capacità di testimoniare prevista dagli artt. 197, co. 1, lett. a) e b), 197 bis, 210 c.p.p. si applica solo all’imputato, al quale è equiparata la persona indagata nonché il soggetto già imputato, salvo che sia stato irrevocabilmente prosciolto per non aver commesso il fatto nel qual caso deve essere esaminato quale testimone senza l’assistenza di un difensore e senza che sia indispensabile acquisire un riscontro esterno. Viceversa, non sussiste incompatibilità ad assumere l’ufficio di testimone per la persona già indagata in procedimento connesso ai sensi dell’art. 12, co. 1, lett. c), o per reato probatoriamente collegato nei cui confronti sia stato emesso provvedimento di archiviazione. In altri termini, poiché l’archiviato non è più indagato egli deve essere sentito come testimone comune (Cass., S.U., 17.12.2009, n. 2067, De Simone, e altro, in C.E.D. Cass., n. 246376). La soluzione é stata criticata in dottrina in quanto «lascia senza tutela l’archiviato, nonostante tale persona si trovi in una situazione delicatissima. In qualunque momento, infatti, le indagini a suo carico possono essere riaperte sulla base degli evanescenti presupposti stabiliti dall’art. 414, e cioè la mera esigenza di nuove investigazioni» (Tonini, P., Manuale di procedura penale, cit., 336) ed egli può essere «gettato in pasto all’agone dialettico con una veste sguarnita di tutela (Bonzano, C., I mezzi di prova, cit., 895). Appare, perciò, condivisibile la soluzione che evidenzia la necessità di equiparare il dichiarante in esame all’imputato in procedimento pendente (Conti, C., Le Sezioni Unite ed il silenzio della Sfinge: dopo l’archiviazione l’ex indagato è testimone comune, in Cass. pen., 2010, 2594)

Fonti normative

Art. 197 bis c.p.p.

Bibliografia essenziale

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