DISTRIBUZIONI, Teoria delle

Enciclopedia Italiana - IV Appendice (1978)

DISTRIBUZIONI, Teoria delle

Tullio Viola

Generalità. - Il concetto di d. è stato introdotto nell'analisi matematica (v. anche funzionale, analisi in questa Appendice), e sviluppato in una teoria di notevole efficacia applicativa, da L. Schwartz (a partire dal 1950). Importanti contributi e perfezionamenti alla teoria, da vari punti di vista, sono stati successivamente apportati da I. M. Ghelfand e G. E. Šilov, da J. Mikusiński e R. Sikovski, da J. Sebastião e Silva, ecc. Seguiremo qui la trattazione di Mikusiński, nelle sue linee più semplici e più fondamentali (d. in una sola variabile reale indipendente x), come quella che presenta aspetti più vicini all'analisi classica e che sono perciò più famigliari soprattutto agli studiosi di fisica.

Data una successione {fn(x)} di funzioni reali, tutte definite in uno stesso intervallo aperto (u, v), diciamo che essa converge ivi "quasi uniformemente" (q. u.), se esiste un'altra funzione f(x) in (u, v), tale che la successione converga uniformemente alla f(x) in ogni intervallo chiuso contenuto in (u, v). Per es., la successione delle ridotte fn(x) = (1 − xn+1)/(1 − x) delle serie geometrica

converge q. u. in (− 1, 1), per proprietà ben note, verso la funzione f (x) = 1/(1 − x).

Indichiamo con la notazione: fn(x) S-106??? f (x) la convergenza q. u. ora definita; indichiamo semplicemente con la notazione fn(x) S-106??? la convegenza q. u., quando si sa che esiste la funzione limite, ma non la si conosce o, per particoalri ragioni, non la si vuol nominare. La convergenza uniforme è caso particolare di quella quasi uniforme.

Si dimostra il fondamentale teorema: Siano x0 un punto di (u, v) e {fn(x)} una successione di funzioni definite ciascuna nell'insieme aperto Σ = (u, x0) ⋃ (x0, v), ivi continue e limitate nel loro insieme (cioè tali che ∣ fn(x)∣ 〈 M, S-104???x ∈ Σ ed M indipendente da n). Se allora f (x) è un'altra funzione, definita in Σ e tale che

risulta anche

Esempio:

1) Le funzioni fn(x) = 1/[1 + exp (− nx)] (n = 1, 2, ...) sono tutte continue in (− ∞, 0) ⋃ (0, + ∞), ed è ivi ∣ fn(x)∣ 〈 1 (v. figura).

Esse sono anzi continue in tutto (− ∞, + ∞). Inoltre è

Chiamata f (x) la funzione limite per n → ∞:

poniamo x0 = 0. Poiché si può scegliere M = 1, si dovrà avere, in virtù del precedente teorema:

Ciò può subito verificarsi osservando che

e

Successioni fondamentali. - Chiamiamo ora "fondamentale in (u, v)" una successione {fn(x)} di funzioni continue in (u, v), quando esistono una successione {Fn(x)} di funzioni continue in (u, v) e un indice di derivazione k ≥ 0, tali che sia, in (u, v):

a) F(nk)(x) = fn(x), S-104???n (intendendosi F(n0)(x) ⊄ Fn(x));

b) {Fn(x)} convergente q. u.

Così ogni successione {f(x)} di funzioni continue in (u, v), ivi soddisfacente alle ulteriori ipotesi del teorema fondamentale precedente, è fondamentale in (u, v): basta infatti porre

Le funzioni fn(x) = 1/[1 + exp (− nx)] dell'es. 1) sono di questo tipo in (− ∞, + ∞).

Da questa definizione a), b) si deducono immediatamente le proposizioni seguenti.

α) Ogni successione {fn(x)} di funzioni continue in (u, v), ivi q. u. convergente, è fondamentale in (u, v): basta infatti prendere k = 0 e quindi Fn(x) ⊄ fn(x), (n = 1, 2, ...).

β) Se {fn(x)} è fondamentale in (u, v) e se esiste un indice di derivazione p > 0 tale che le f(np)(x) esistano e siano tutte continue in (u, v), allora anche la successione {f(np)(x)} (n = 1, 2, ...) è fondamentale in (u, v): basta osservare che

Così, nell'es. precedente in cui fn(x) = 1/[1 + exp (− nx)], tutte le successioni {f(np)(x)} (p = 1, 2, ...; n = 1, 2, ...) sono anch'esse fondamentali.

γ) Se {fn(x)} è fondamentale in (u, v), l'intero k non è univocamente determinato, potendosi esso sostituire con qualunque altro intero k + p > k: infatti la nuova successione {Fn*(x)}, con

gode in (u, v) delle due proprietà:

a*) Fn*(k+p)(x) = fn(x),

b*) {Fn*(x)} convergente q. u. (in virtù del teorema precedente).

Tutto ciò premesso, introduciamo una relazione d'equivalenza nella totalità delle successioni fondamentali in uno stesso intervallo (u, v). Due successioni {fn(x)} e {gn(x)}, entrambe fondamentali in (u, v), si dicono "equivalenti" in (u, v) e si scrive

se è possibile trovare uno stesso indice di derivazione k ≥ 0 e, corrispondentemente, due successioni {Fn(x)}, {Gn(x)} di funzioni continue in (u, v), tali che, oltre alle condizioni a), b) sopra enunciate, valgano anche le due analoghe:

a1) G(nk) (x) = gn(x), ∀n (intendendosi G (no) (x) ⊄ Gn(x));

b1) {Gn(x)} convergente q. u. in (u, v);

e infine:

c) Fn S-106??? e Gn S-106??? verso una stessa funzione in (u, v).

Che questa sia effettivamente una relazione d'equivalenza, è immediato. Il passaggio al quoziente (nel senso dell'algebra moderna) genera allora corrispondentemente delle classi d'equivalenza: indichiamo con [fn(x)] la classe d'equivalenza che contiene la successione {fn(x)}. Ne segue che la relazione d'equivalenza [1] s'identifica con l'uguaglianza:

Essa significa che si può assumere, come elemento rappresentativo della classe d'equivalenza considerata, l'una o l'altra (a piacere) delle due successioni

Ogni classe d'equivalenza in (u, v), prende il nome di "d." in (u, v). In altre parole: la d. [fn(x)] è la classe di tutte le successioni fondamentali in (u, v), che sono ivi equivalenti alla {fn(x)}.

La condizione necessaria e sufficiente affinché sia [fn(x)] = [gn(x)], è che la successione

sia fondamentale.

Esempio:

2) Poniamo

Dalla formula classica:

si deduce:

Ne segue che le funzioni ψn(x) sono limitate, nel loro insieme (con M = 1), in tutto (− ∞, + ∞). Inoltre è:

La successione {ψn(x)} risulta pertanto fondamentale in (− ∞, + ∞). Lo si vede applicando il teorema fondamentale di cui sopra: si ottiene infatti, in (− ∞, + ∞),

Anche la successione{ϕn(x)} risulta fondamentale in (−∞, + ∞), e ciò per la proposizione β). Ne segue, confrontando le ψn(x) con le fn(x) dell'es. 1 (i diagrammi cartesiani delle ψn sono analoghi a quelli delle fn, v. figura), che è {ϕn(x)}~ {fn(x)} in (− ∞, + ∞), cioè

(Si assuma k = 2 nelle condizioni a) e a1), v. sopra). Così pure, derivando membro a membro,

Applicazioni e cenni storici. - Il concetto di d. generalizza quello di funzione continua. Infatti anzitutto una successione {f(x)}, i cui termini s'identifichino tutti con una stessa funzione f (x) continua in (u, v), è evidentemente fondamentale e determina quindi una d. in (u, v): la indichiamo con [f (x)]. In secondo luogo si dimostra che due d. di questo tipo, [f (x)] e [g(x)], sono uguali se e solo se f (x) e g(x) sono uguali in tutto (u, v). In terzo luogo, se per una d. [fn(x)] è fn(x) S-106??? f (x) in (u, v), è [fn(x)] = [f (x)] Se dunque si conviene di porre [f (x)] = f (x), si giunge a identificare, a meno d'un isomorfismo, ogni d. [f (x)] con la funzione f (x) che la determina.

Ma esistono d. che non possono identificarsi con le funzioni continue, altre che non possono identificarsi con funzioni d'alcun tipo. Così la d. [2], come si riconosce subito dall'es. 2. L'ampliamento della classe di tutte le funzioni continue in uno stesso intervallo aperto, in quella di tutte le d. nello stesso intervallo, presenta strette analogie con l'ampliamento del campo dei numeri razionali in quello dei numeri reali.

Sulle d., definite in uno stesso intervallo, si possono effettuare la somma, la differenza, il prodotto per un numero e, conseguentemente, tutte le operazioni algebriche lineari usuali per le funzioni, mantenendone le proprietà formali. Ciò si ottiene, in sostanza, definendo una particolare struttura nella totalità di tali d. concepita come spazio, struttura che è stata profondamente studiata anche dal punto di vista dell'algebra moderna. La teoria è stata poi estesa alle funzioni di due o più variabili reali, siano esse a valori reali, o vettoriali, o tensoriali, ecc., o addirittura a funzioni astratte di una o più variabili (eventualmente astratte anche queste).

Quanto alle applicazioni della teoria delle d. all'analisi classica e, per mezzo di questa, alla fisica, esse si sono rivelate feconde di risultati importanti e di notevole semplicità ed eleganza formale. Si può anzi dire che la scoperta delle d. scaturì dalla ricerca, attuatasi nel ventennio 1930-50 seguendo le geniali intuizioni dell'analista e fisico-matematico francese J. Hadamard (1865-1963), dirette a unificare e a snellire i metodi di risoluzione di intere classi di equazioni differenziali, ordinarie o a derivate parziali (per lo più di tipo iperbolico), che traducono molti fenomeni classici della fisica. Tali equazioni ammettono soluzioni appartenenti a totalità, o "campi", di funzioni richiedenti rappresentazioni analitiche diverse e caratterizzate da proprietà diverse, quando si passi da un intervallo all'altro dell'asse reale, separati da un punto singolare (caso di una sola variabile reale indipendente), oppure si passi da un dominio all'altro dello spazio cartesiano Rn (con n ≥ 2), separati da luoghi di punti singolari, o si percorrano speciali cammini o, più in generale, speciali varietà pluridimensionali, intorno a tali luoghi (caso di n variabili reali indipendenti).

La teoria delle d. offre allora una visione di sintesi e uno strumento analitico di unificazione, di profondo contenuto concettuale, di grande efficacia dal punto di vista del calcolo e di suggestiva semplicità. "Quei punti singolari hanno un ruolo fondamentale (afferma M. Bonix, cui è dovuta essenzialmente la semplificazione della trattazione del Mikusiński da noi seguita) e, da un certo punto di vista, li si può considerare come le "sorgenti" della soluzione considerata, intendendo la parola sorgente nel suo significato molto generale del linguaggio corrente". Senza l'uso delle d., "si è costretti a ricorrere ad artifici matematici, più o meno rigorosi, per studiare quelle singolarità, artifici che presentano il doppio inconveniente: da un lato di non soddisfare perfettamente certe esigenze di correttezza, d'altro lato d'assoggettarsi con difficoltà alle tecniche di calcolo dei campi".

Storicamente, tra i primi esempi affrontati per metter ordine nelle tecniche di calcolo già usate scorrettamente (se pure con efficacia) dai fisici, si presentarono le cosiddette "funzioni singolari", enti analitici che non possono in realtà essere considerati come funzioni. La più semplice di tali funzioni singolari fu quella che il fisico P. A. M. Dirac (nato nel 1902) indicò col simbolo δ (x x0), o brevemente δ. Essa dovrebbe, per definizione, essere "nulla su tutto l'asse reale, tranne che nel punto x0 dove assume il valore + ∞, e il suo integrale

è uguale a 1". Una simile definizione, evidentemente incompatibile con quelle classiche di funzione e d'integrale, si muta in altra, del tutto corretta, quando si sostituisca la funzione singolare δ con la d. [2] dell'es. 2 (con x0 = 0). Questa è chiamata appunto la "d. di Dirac". Analogamente la d.:

strettamente legata a quella di Dirac (v. es. 2), è chiamata "d. di Heaviside": anch'essa era stata da tempo usata dai fisici, ma con definizione (nel campo tradizionale delle funzioni) altrettanto scorretta.

Bibl.: L. Schwartz, Theorie des distributions, Parigi, 1950-51; J. Mikusiński e R. Sikovski, The elementary theory of distributions, Varsavia 1957; Teoria delle distribuzioni (Seminario CIME, 1961); I. M. Guelfand, G. E. Šilov, Les distributions, Parigi 1962; M. Bonix, Les fonctions généralisées ou distributions, ivi 1964.

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