RELATIVITÀ, Teoria della

Enciclopedia Italiana (1936)

RELATIVITÀ, Teoria della

Guido CASTELNUOVO
Lucio GIALANELLA

È, in senso largo, ogni teoria fondata sulla ipotesi che qualsiasi esperienza od osservazione (meccanica, fisica, astronomica, ecc.) sia atta a rivelare soltanto moti relativi dei corpi (v. moto); nel senso stretto oggi generalmente inteso e qui adottato, è la teoria più soddisfacente e compiuta che si possegga sinora in proposito, dovuta ad Albert Einstein (v.). Egli costruì in due tempi la detta teoria, che ebbe ripercussioni profonde sullo sviluppo della fisica e sul pensiero filosofico. In una prima fase (1905-1907) egli insegnò quali modificazioni dovessero apportarsi ai concetti tradizionali di spazio e tempo e alla meccanica classica per soddisfare interamente al postulato della relatività dei moti rettilinei uniformi, costruendo così la relatività ristretta o prima relatività. In una seconda fase (1912-1916) egli volle fondere la gravitazione con l'inerzia, riguardando quest'ultima come caso particolare della prima, ed entrambe come dovute alle proprietà geometriche dello spazio-tempo, o, fisicamente, alla distribuzione - variabile nel tempo - della materia e dell'energia nello spazio. Così ebbe origine la relatività generale o seconda relatività. Poiché questa seconda relatività si riduce alla prima in regioni dello spazio lontane da materia, conviene, anche nell'esposizione qui adottata, seguire l'ordine cronologico. Alla fine si darà un breve cenno delle ricerche attuali sopra le conseguenze cosmologiche della teoria. Faranno seguito alcune considerazioni sul significato filosofico della teoria della relatività.

1. Relatività ristretta. - 1. Relatività galileiana. - Era già noto a Galileo che nessuna esperienza meccanica, eseguita nell'interno di un corpo in moto rettilineo uniforme, è capace di rivelare questo moto. Egli esprime con la solita lucidità il suo pensiero nel dialogo I due massimi sistemi del mondo (1632), citando l'esempio di un vascello che navighi su mare tranquillo; chi si trova in una sala sotto coperta non si accorge se la nave sia ferma o in moto. La stessa tesi è accolta dalla meccanica newtoniana, sebbene Newton introduca lo spazio (e il tempo) assoluto (per maggiori notizie storiche, v. moto). Verosimilmente Newton si accorse che era necessario precisare l'affermazione di Galileo, fissando quel che noi oggi chiamiamo un sistema (o piattaforma) di riferimento, rispetto al quale si possa definire il moto di un punto; e tale ufficio egli attribuiva allo spazio assoluto. Ma poiché questo non è rintracciabile con esperienze, noi possiamo procedere nel modo seguente. Adottiamo come sistema galileiano di riferimento una terna di rette (od assi) uscenti dal centro del Sole o di una stella e dirette a tre stelle fisse lontane. L'affermazione di Galileo-Newton si può allora enunciare sotto questa forma, che diremo principio di relatività galileiano: "Nessuna esperienza meccanica eseguita nell'interno di un corpo permette di distinguere se esso sia in quiete o in moto rettilineo uniforme rispetto a un sistema di riferimento galileiano".

La scelta di codesto sistema tra gl'infiniti possibili è indifferente; in altre parole, tutti i sistemi galileiani sono equivalenti nella descrizione delle leggi del moto. Ad es., un punto materiale, sottratto a qualsiasi forza, descrive una retta, con moto uniforme rispetto a ognuno dei detti sistemi (legge d'inerzia).

L'equivalenza tra quei sistemi dipende sostanzialmente da due fatti: 1. l'angolo sotto cui si vedono due stelle lontane è praticamente invariabile durante un tempo assai lungo a causa delle piccole velocità mutue delle stelle di fronte alle loro enormi distanze; 2. in un tempo non eccessivamente lungo si può ammettere che il moto relativo di una delle maggiori stelle rispetto a un'altra sia rettilineo uniforme (v. moto).

È noto d'altra parte che il principio galileiano non si estende ai corpi animati da moti accelerati o ai corpi rotanti. Così un viaggiatore nell'interno di un treno si accorge se esso accelera o rallenta la marcia o se percorre una curva; e il moto di rotazione diurno della Terra può essere rivelato con esperienze meccaniche eseguite sulla Terra stessa, ad es. col pendolo di Foucault (v. dinamica, n. 11; pendolo).

2. Il moto rispetto all'etere. - Il postulato galileiano era generalmente accolto nella meccanica sul principio del secolo scorso. Ma in quell'epoca si stava costruendo un altro ramo della fisica teorica, ove comparivano nozioni che non sembravano accordarsi col postulato stesso. È noto infatti che l'ottica ondulatoria, sviluppata principalmente per opera di A.-J. Fresnel, ammetteva che la luce si propagasse mediante vibrazioni di un mezzo - l'etere cosmico - in quiete assoluta, attraverso al quale si movevano, senza attrito, i corpi celesti (v. luce). Era quindi presumibile che esperienze ottiche o elettromagnetiche (quando J. C. Maxwell fece entrare l'ottica nell'elettromagnetismo) riuscissero a rivelare il moto dei corpi rispetto all'etere, moto che avrebbe ben potuto riguardarsi come assoluto. Si pensi all'apparente analogia con l'acustica, dove esperienze sonore permetterebbero di scoprire il moto di un corpo rispetto all'atmosfera tranquilla. Tuttavia i tentativi fatti, nella prima metà del secolo scorso, da D.-F.-J. Arago e da altri per determinare, con esperienze ottiche terrestri, la velocità (rispetto all'etere) della Terra nel suo moto annuo lungo l'eclittica, velocità che si riteneva non inferiore ai 30 chilometri al secondo, a nulla riuscirono. Né miglior esito ebbe l'ingegnosissima esperienza che A. A. Michelson (ispirandosi forse a una suggestione di Maxwell, 1878) progettò nel 1881 ed eseguì alla fine di quell'anno insieme con E. W. Morley; l'esperienza fu poi ripetuta centinaia di volte in condizioni svariate. Questa esperienza, che avrebbe potuto rivelare un vento d'etere anche inferiore ai 30 km./sec., dimostrò che il movimento della Terra non ha influenza sulle propagazioni luminose (o, secondo D. C. Miller, ha un effetto notevolmente minore del previsto).

Le esperienze di Arago miravano a determinare mediante misure puramente terrestri il rapporto v/c della velocità della Terra alla velocità della luce, rapporto il cui valore di circa 10-4 risulta da osservazioni astronomiche - ad es. dal fenomeno dell'aberrazione della luce (v. aberrizione) -; che per via astronomica si riesca a valutare il detto rapporto non deve sorprendere trattandosi di un effetto di moto relativo della Terra rispetto alle stelle fisse. L'insuccesso di quelle esperienze fu spiegato verso la fine del secolo scorso da H. A. Lorentz, il quale dimostrò che, per il modo stesso come le esperienze erano concepite, gli effetti del primo ordine (cioè dell'ordine di grandezza di v/c) dovevano necessariamente sfuggire all'osservazione. L'esperienza di Michelson e Morley avrebbe dovuto rivelare effetti del secondo ordine (cioè dell'ordine di ν2/c2 = 10-8). Essa consiste sostanzialmente nel far percorrere a un raggio luminoso due cammini uguali di andata e ritorno - l'uno nella direzione in cui la Terra si muove lungo l'eclittica, l'altro in direzione perpendicolare - e nel valutare, mediante misure interferenziali, la differenza dei tempi richiesti dall'uno e dall'altro percorso (per maggiori particolari, v. luce). L'esito negativo parve inesplicabile in un primo momento. Per darne ragione il Lorentz propose (1893) un'ipotesi, formulata simultaneamente da G. F. Fitzgerald, secondo la quale i corpi in moto subirebbero una contrazione nella direzione del moto. Ma l'ipotesi parve artificiosa e i fisici esitavano ad accoglierla quando l'Einstein propose la teoria che ora esporremo.

3. Relatività einsteiniana. - Poiché nessuna esperienza era riuscita a mettere in evidenza il moto della Terra rispetto all'etere, l'Einstein (1905) rinunziò all'ipotesi dell'etere stagnante e ammise l'impossibilità di scoprire il moto di un corpo rispetto all'etere. Estendendo ad ogni fenomeno fisico il principio di relatività di Galileo, che era ristretto ai fenomeni meccanici, egli affermò che:

I. Nessuna esperienza, di qualsiasi natura, eseguita nell'interno di un corpo può rivelare il moto di traslazione rettilinea uniforme del corpo rispetto a un sistema galileiano.

È questo il primo postulato della teoria einsteiniana. Esso non ne costituisce però il solo fondamento. Si presenta qui infatti una nuova questione. Finché veniva accolta l'ipotesi dell'etere immobile, era naturale di ritenere (con Fresnel) che la luce, nel vuoto, si propagasse con una velocità costante c di circa 300.000 chilometrì al secondo rispetto all'etere, qualunque fosse la velocità della sorgente luminosa; il fatto analogo ha luogo, ad es., per il suono propagantesi nell'atmosfera tranquilla. Ma poiché si negava l'esistenza dì un sistema di riferimento legato all'etere, occorreva definire la velocità della luce o rispetto alla sorgente che la emetteva, o rispetto all'osservatore che la riceveva. Tra le varie ipotesi compatibili col postulato I che potevano formularsi al riguardo, meritavano speciale attenzione le due seguenti:

II a. La velocità della luce nel vuoto, relativamente all'osservatore, è una costante c, indipendente dal moto della sorgente e dell'osservatore.

II b. La velocità della luce c si somma (vettorialmente) con la velocità della sorgente rispetto all'osservatore.

Per veder nettamente la differenza tra le due ipotesi, si immaginino due stelle, di cui la prima sia ad una distanza costante d dalla Terra, mentre l'altra si avvicini a noi con la veloatà v e passi, in un certo istante, in vicinanza della prima. Due raggi luminosi emessi in quell'istante dalle due stelle arrivano contemporaneamente sulla Terra dopo trascorso il tempo d/c, se vale l'ipotesi II a; invece, nell'ipotesi II b, i due segnali luminosi impiegano i tempi d/c e d/(c + v) a pervenire a noi, tempi che dato l'enorme valore di d, possono differire di ore e anche di giorni.

Delle due ipotesi l'Einstein adottò (1905) la II a che costituisce il secondo postulato della sua teoria o principio della costanza della velocità della luce. Al contrario Walter Ritz, acuto fisico svizzero, ritenne preferibile la II b (detta principio balistico), e su di essa e sul postulato I tentò di costruire (1908) una teoria della relatività, diversa dalla einsteiniana, teoria che fu poi abbandonata. Effettivamente le osservazioni dirette terrestri o celesti (mediante esami di orbite di stelle doppie) e meglio ancora le innumerevoli conferme indirette, derivanti dalle verifiche dell'ottica classica e poi da quelle della teoria di Einstein, sembrano favorevoli all'ipotesi II a. Noi perciò la adotteremo e dovremo naturalmente accettare le conseguenze di essa e del postulato I, anche se, a primo aspetto, paradossali.

4. La simultaneità non ha carattere assoluto. - La prima e più importante conseguenza riguarda la nozione di contemporaneità. Per parlare di eventi simultanei in posti lontani occorre aver modo di accordare gli orologi. La cosa sarebbe facile se potessimo trasmettere segnali istantanei, che viaggiassero con velocità infinita. Ma noi non conosciamo trasmissioni più rapide di quelle luminose, e dovremo quindi valerci di queste. Immaginiamo due individui A e B in quiete relativa, ma lontani tra loro, i quali vogliano accordare i loro orologi. Lo scopo sarà raggiunto se due segnali luminosi emessi da A e B quando i loro orologi segnano uno stesso istante, colpiscano contemporaneamente un terzo osservatore C situato nel punto medio di AB. Ora un semplice ragionamento fa vedere che l'accordo raggiunto per A e B non si estende a due nuovi osservatori A′ e B′ che siano in moto rispetto ai primi.

Si supponga che A e B siano due viaggiatori situati alle due estremità di un treno in corsa; nel momento in cui A e B passano davanti a due cantonieri A′ e B′ fermi sulla linea, i viaggiatori e i cantonieri lanciano segnali luminosi che si propagano insieme. Se i raggi emessi da A e B s'incontrano nel punto medio C del treno, i raggi emessi da A′ e B′ non s'incontreranno nel punto medio C′ di AB′, perché in causa del moto del treno i punti medî C e C′, che coincidevano quando i segnali son partiti, si trovano separati nel momento in cui i segnali raggiungono C. Dunque eventi contemporanei per A e B non lo sono più per A′ e B′.

La simultaneità di due eventi non ha un senso assoluto; essa dipende dallo stato di quiete o di moto di chi la riscontra. L'orologio di un viaggiatore sopra un treno non concorda con gli orologi scaglionati lungo la linea; questi ultimi ritardano rispetto al primo, tanto più quanto più lungo è il viaggio. La differenza è però inapprezzabile per le ordinarie velocità terrestri o anche astronomiche, sempre piccole rispetto alla velocità della luce.

Quando pure riuscissimo a lanciare un treno con la velocità della Terra lungo l'eclittica (30 km/sec., mille volte superiore a quella dei nostri treni più rapidi), occorrerebbe un viaggio di 200 secondi per riscontrare un ritardo di un milionesimo di secondo. Si comprende come questa differenza sia sfuggita e sfugga ancora alle osservazioni più esatte, e come la nostra intuizione abbia attribuito alla misura del tempo e alla simultaneità quel carattere assoluto che esse avrebbero se si potessero trasmettere segnali con velocità infinita.

Tuttavia il risultato, anche se non ha conseguenze pratiche, presenta un grande interesse filosofico e mette in luce quella riposta analogia fra nozioni temporali e spaziali che costituisce uno dei caratteri salienti della teoria della relatività. Per Tolomeo, che riteneva la Terra immobile nell'universo, la piramide di Cheope occupa in eterno la stessa posizione nello spazio. Copernico invece sa che, se la posizione è la stessa per un osservatore terrestre, essa si sposta di 30 chilometri al secondo rispetto al Sole. Nella scienza moderna non ha dunque senso parlare di identità di luogo in tempi diversi, finché non si precisi o sottintenda l'osservatore che constata questa identità. Similmente, se prima del 1905 all'identità di tempo (simultaneità) in luoghi diversi si dava un valore assoluto e si ammetteva la possibilità di un orologio che battesse il tempo a tutto l'universo, oggi Einstein ci fa vedere che non ha senso parlare di eventi contemporanei in luoghi diversi, se non si avverte quale sia lo stato di quiete o di moto dell'orologio rispetto al quale la simultaneità è verificata. Così di due eventi A e B che abbiano luogo l'uno sul Sole e l'altro sulla Terra, può darsi che A preceda B rispetto ad un primo orologio, e segua invece B per un secondo orologio. L'incertezza sussiste però soltanto se l'evento terrestre B ha luogo prima che un raggio, partito dal Sole quando A si è verificato, raggiunga la Terra; in caso opposto, B (che potrebbe dipendere da A) segue A rispetto ad ogni orologio. Le nuove vedute sul tempo non tolgono dunque validità al principio che l'effetto segue sempre la causa.

L'alterazione che subisce la misura del tempo per effetto del moto ha riscontro nella variazione delle dimensioni dei corpi mobili. Si dimostra infatti che la lunghezza di un treno misurata da chi vi sta sopra differisce dalla lunghezza valutata dai cantonieri fermi lungo la linea; questi si accorgerebbero di una contrazione se la precisione delle misure potesse tener conto di una variazione estremamente piccola. Si pensi, ad es., che il diametro della Terra (di quasi 13.000 km.) diretto nel senso del moto lungo la eclittica sembrerebbe ridotto di circa 6 centimetri (cioè di un duecentomilionesimo del suo valore) a un osservatore in quiete rispetto al Sole. Si tenga poi presente che queste alterazioni di durate e di lunghezze sono effetti di moto relativo; è lecito scambiare le parole quiete e moto, senża modificare le affermazioni precedenti.

5. Trasformazione di Lorentz. - Sotto l'aspetto quantitativo, le alterazioni prodotte da un moto di traslazione uniforme sono espresse dalle formule di trasformazione di Lorentz, formule che questo fisico, con altre vedute, stabilì fino dal 1895. S'immaginino due triedri ortogonali Oxyz, Oxyz′ che coincidano nell'istante zero; il primo sia in quiete, il secondo si muova in modo che x′ scorra sopra x con velocità costante v, e gli altri due assi si spostino parallelamente a sé stessi. In un punto dello spazio, che ha le coordinate (x, y, z), (x′, y′, z′) rispetto ai due triedri, si verifica un evento quando gli orologi situati in O ed O′ segnano i tempi t e t′. Allora tra le dette quantità passano le relazioni

dove β v/c indica il rapporto della velocità di traslazione alla velocità della luce. Le formule s'invertono scambiando le lettere con apice con le lettere senz'apice e β con -β. Dalle (1) o dalle inverse segue subito che la distanza d′ = x1 - x′ di due punti dell'asse mobile x′ (in uno stesso istante t′) viene valutata

dall'osservatore fisso;

è il fattore di contrazione lorentziana. Similmente l'intervallo di tempo τ′ = t1t′ misurato dall'orologio mobile (in uno stesso punto dell'asse x') viene valutato

dall'orologio fisso.

Dalle (1) risulta che è sempre β ≤ 1, cioè v c: nessuna velocità di un corpo nello spazio (rispetto a un qualsiasi sistema galileiano) può superare la velocità della luce, né con velocità maggiore si può trasmettere energia. Va notato che se la velocità della luce fosse infinita, si avrebbe β = 0 e le (1) si ridurrebbero alle

dette formule di trasformazione di Galileo. Sta il fatto che le leggi della meccanica di Galileo-Newton non si alterano quando si eseguisca la trasformazione (1′), mentre le equazioni di Maxwell dell'elettromagnetismo sono invarianti di fronte alla trasformazione (1); anzi è quest'ultima osservazione che ha condotto Lorentz a scrivere le (1). Prima del 1905 sussisteva la incongruenza che alcune leggi della fisica erano invarianti di fronte a certe trasformazioni di coordinate e tempo, altre leggi di fronte a trasformazioni diverse. Einstein ha tolto la discordanza modificando le leggi della meccanica in modo che anch'esse non venissero alterate dalle (1); solo per le ordinarie velocità, cioè per valori piccoli di β, le (1) non differiscono sensibilmente dalle (1′) e la meccanica classica rimane valida. Invece W. Ritz ha tentato di estendere le (1) all'elettromagnetismo, il che lo ha costretto ad abbandonare le equazioni di Maxwell, sostituendole con equazioni più complicate; ma come già dicemmo, questa sua teoria non sembra accordarsi con l'esperienza.

Dalle (1) si deduce facilmente la formula di composizione delle velocità nella meccanica relativistica. Se da un treno in corsa con la velocità u viene lanciato nella direzione del moto un proiettile con velocità v rispetto al treno, si dimostra che il proiettile ha, rispetto al terreno, la velocità

Secondo la meccanica classica la velocità composta sarebbe w′ = u + v. Questa subisce dunque, nella nuova teoria, una riduzione di circa (uv/c2) w′, estremamente piccola per le ordinarie velocità, ma sensibile se una delle due velocità u o v si avvicina a quella della luce. Un'esperienza in cui questo fatto accade è la seguente. S'immagini che entro un tubo rettilineo scorra l'acqua con la velocità u di qualche metro al secondo, e che il tubo sia percorso nello stesso senso da un raggio di luce; poiché nell'acqua la velocità della luce è v = 3c/4 circa, la propagazione luminosa avverrà, rispetto all'osservatore in quiete, con la velocità

Alla velocità della luce nell'acqua si aggiunge dunque, non l'intera velocità della corrente, ma soltanto la frazione (7/16) u. Orbene questo parziale trascinamento (come si diceva) dell'onda luminosa da parte della corrente liquida era già stato rilevato da A.-H.-L. Fizeau fino dal 1851, e confermato successivamente da misure sempre più precise. La teoria della relatività ne offre oggi la spiegazione più semplice.

Un'altra conseguenza della (2) riguarda il caso che una u delle velocità componenti uguagli quella della luce. Si trova allora w = c, qualunque sia v; ciò corrisponde al fatto che componendo più velocità non si riesce mai a superare la velocità della luce.

6. Equivalenza della massa e dell'energia. - Le osservazioni precedenti riguardano la cinematica (teoria del movimento, astraendo dalle forze agenti). Quali cambiamenti subisce la dinamica? La legge fondamentale di questa (enunciata da Newton) stabilisce il legame fra la misura statica della forza che viene applicata ad un corpo, la massa di questo, e l'accelerazione che esso subisce (v. dinamica, n.1):

forza = massa × accelerazione.

Einstein ammette che questa relazione continui a sussistere per un corpo inizialmente in quiete rispetto a un sistema galileiano, ed esamina come i tre termini di essa si modifichino quando il corpo venga riferito ad un nuovo sistema galileiano in moto. Egli trova così che se un corpo in quiete rispetto all'osservatore ha la massa m0 (massa di riposo), lo stesso corpo, quando sia in moto, ha una massa crescente con la velocità, e tendente all'infinito se la velocità si avvicina a quella della luce. In altre parole, per accrescere di 1 cm. al secondo la velocità di un corpo occorre uno sforzo tanto maggiore quanto più grande è questa velocità; l'accrescimento diventa impossibile quando si sia raggiunta la velocità della luce.

Un risultato molto notevole riguarda l'energia posseduta dal corpo. Dall'espressione relativistica dell'energia cinetica, o forza viva, che per le comuni velocità si riduce al termine classico m0 v2/2, si ricava che se al corpo è fornita una nuova dose di energia E, il corpo si muove come se la sua massa m0 avesse subito l'incremento E/c2. Così, per mettere in moto un involucro chiuso di massa m0 contenente nel suo interno l'energia raggiante E, occorre vincere la stessa inerzia che s'incontrerebbe se l'involucro avesse la massa m0 + E/c2, e l'interno fosse privo d'energia. Di qua conclude l'Einstein che l'energia E possiede la massa E/c2; l'energia è pesante e presenta una resistenza al moto come la materia. Inversamente un corpo di massa m è teoricamente capace, smaterializzandosi, di sviluppare l'enorme dose di energia mc2; (l'energia s'intende misurata in erg, la massa in grammi, mentre c = 3 × 1010 cm/sec.). Non v'è dunque diffenza essenziale fra massa ed energia, e i due principî di conservazione di questi caratteri nella meccanica classica si fondono in uno solo nella meccanica relativistica: "quando un sistema isolato composto di materia ed energia subisce una serie qualsiasi di trasformazioni, rimane costante la somma delle masse e dell'energia".

Sebbene alle dosi consuete di energia corrispondano masse inapprezzabili, si sono avute brillanti e precise conferme di questo fondamentale principio nelle recenti ricerche sulla disintegrazione dei corpi radioattivi e sulla trasmutazione degli elementi. Se, ad es., due componenti si riuniscono per dare luogo a un nuovo corpo e la massa di questo risulta inferiore alla somma delle masse di quelli, si trova che la differenza corrisponde esattamente all'energia liberata durante la trasformazione.

In formule: se un corpo in quiete rispetto all'osservatore ha la massa m0, lo stesso corpo in moto con velocità v ha, rispetto allo stesso osservatore le masse longitudinale e trasversale

secondo che la forza destinata a modificare il moto venga applicata nella direzione di questo o in direzione perpendicolare. L'impulso o quantità di moto del corpo è data da mtv e l'energia cinetica da

7. Il cronotopo. - Il legame fra le misure di spazio e di tempo stabilito dalla relatività viene messo in luce da una felice rappresentazione geometrica suggerita da H. Minkowski (1908), la quale ha avuto una profonda influenza sullo sviluppo della teoria.

Ricordiamo che un evento il quale abbia luogo in un determinato punto e in un certo istante è caratterizzato da quattro coordinate x, y, z, t; le prime tre sono, ad es., le coordinate cartesiane del punto rispetto a un sistema galileiano Oxyz, mentre la quarta indica il tempo misurato da un orologio situato in O. Lasciandoci guidare dall'analogia con l'ordinaria geometria analitica, possiamo dire che l'evento è rappresentato da un punto di coordinate x, y, z, t in uno spazio a quattro dimensioni, detto lo spazio-tempo o cronotopo. La rappresentazione si potrebbe eseguire nell'ordinario spazio a tre dimensioni xyt se ci limitassimo a considerare eventi presentantisi sul piano xy (z = 0).

Se l'evento puntuale non è istantaneo, al variare del tempo t il punto rappresentativo varia e descrive una linea oraria (il nome sta a ricordarci le linee similmente definite, mediante le quali si rappresentano, negli orarî grafici, i movimenti dei treni sopra una ferrovia). La linea oraria è una retta se il corpuscolo, dove l'evento ha luogo, si sposta di moto rettilineo uniforme; e l'angolo ϕ che la retta forma con l'asse del tempo t dipende dalla velocità del moto (precisamente v = tang ϕ); se il corpuscolo è in quiete rispetto al sistema galileiano Oxyz, la linea oraria è parallela all'asse t. Se per semplicità scegliamo le unità di misura di spazio e tempo in modo che la velocità della luce nel vuoto sia eguale ad 1, le linee orarie delle propagazioni luminose formeranno un angolo di 45° con l'asse t; un'altra linea oraria qualsiasi avrà in ogni suo punto una tangente formante con t un angolo minore; è questa l'interpretazione geometrica del principio fisico che nessuna velocità può superare quella della luce.

Le rette a 45° con t, uscenti dall'origine O, formano un doppio cono rotondo (a tre dimensioni; si ridurrebbe all'ordinaria superficie conica euclidea a due dimensioni se ponessimo z = 0); esso si compone di due coni opposti al vertice, uno dei quali racchiude la semiretta positiva t, l'altro la semiretta negativa (v. figura). I due coni dividono il cronotopo in tre regioni. Una di queste, e precisamente l'interno del primo cono, rappresenta gli eventi futuri rispetto all'osservatore che si trova in O nell'istante zero; s'intende dire che se P (x, y, z, t) è un puntoevento di quella regione, si può immaginare un individuo in moto uniforme rispetto al sistema di riferimento, il quale si trovi in O nell'istante zero ed assista successivamente in P al verificarsi dell'evento. In quest'ultimo istante, mentre l'orologio situato in O segna il tempo t, l'orologio del viaggiatore indica un tempo locale τ ricavato dalla formula

Con senso analogo diremo che l'interno del secondo cono rappresenta il passato.

La regione esterna ai due coni rappresenta il presente. Intendiamo dire che se Q è un punto-evento di essa, si può immaginare un osservatore o un sistema galileiano di riferimento, rispetto al quale i due eventi O e Q risultino contemporanei.

Nella rappresentazione di Minkowski ha un'importanza fondamentale l'espressione (3), o in generale

se la velocità della luce è c. Ogni trasformazione di Lorentz (n. 5) muta la (4) in sé stessa; anzi le trasformazioni più generali di Lorentz (con origine fissa) si possono definire, sotto l'aspetto algebrico, come trasformazioni lineari che lasciano invariata la (4). Dal punto di vista geometrico esse corrispondono a particolari cambiamenti della direzione degli assi uscenti dall'origine.

Per rendere suggestiva la rappresentazione di cui parliamo, conviene riguardare il cronotopo con i suoi punti-eventi e le sue linee orarie, come se avesse un'esistenza obiettiva, indipendente dall'osservatore. Mutando lo stato di quiete o di moto di quest'ultimo, cambiano solo gli assi coordinati e, in conseguenza, le rappresentazioni analitiche di quei punti e di quelle linee; è come se mutasse la prospettiva di uno stesso edifizio esaminato da diversi punti di vista. L'ente più interessante del cronotopo è il cono delle propagazioni luminose uscenti da uno stesso punto, in uno stesso istante. Se il punto è l'origine e l'istante è zero, il cono ha l'equazione che si ottiene annullando il secondo membro della (4).

Va segnalata l'analogia delle trasformazioni di Lorentz con le trasformazioni ortogonali di coordinate (o rotazioni intorno all'origine) nello spazio euclideo a quattro dimensioni. Queste sono trasformazioni lineari che mutano in sé il quadrato della distanza di un punto dall'origine: x2 + y2 + z2 + t2. L'ultima espressione proviene dalla (4), quando in essa si sostituisca a c l'unità immaginaria i = √−1. In causa della detta analogia il cronotopo di Minkowski viene detto spesso pseudoeuclideo. Esso differisce dallo spazio euclideo a quattro dimensioni solo per il fatto che il quadrato dell'elemento lineare cioè della distanza (o intervallo) di due punti infinitamente vicini (x,..., t), (x + dx,..., t + dt), che nello spazio euclideo è dato dalla somma dx2 + dy2 + dz2 + dt2, viene qui dato dall'espressione

II. Relatività generale. - 8. Nuovi problemi di meccanica relativistica. - Varî motivi spinsero l'Einstein dopo il 1907 ad allargare il quadro della relatività:

1. Un motivo d'indole filosofica. La relatività ristretta aveva riconosciuto la perfetta equivalenza dei sistemi galileiani nella descrizione di tutti i fenomeni naturali, ma lasciava apparire un privilegio di questi sistemi di fronte ad altri sistemi di riferimento. Ad esempio, rispetto ad una piattaforma rotante, le leggi fisiche si esprimono in forma più complicata. Qual è la ragione di codesta preferenza della natura per i sistemi galileiani? Sarà possibile enunciare le leggi naturali in una forma invariante di fronte ad ogni scelta del sistema di riferimento?

2. L'enigma della gravitazione. È questa una forza che ha proprietà diverse da tutte le altre forze, ed ha carattere universale come l'inerzia. Quale relazione passa fra la gravitazione e l'inerzia? Può quest'ultima essere riguardata come caso particolare della prima e possono entrambe venir collegate a proprietà geometriche del cronotopo? Come si concilia l'azione istantanea a distanza, ammessa da Newton, con la veduta odierna della fisica, secondo la quale ogni azione viene trasmessa da punto a punto contiguo con velocità finita?

3. Sarà possibile determinare la geometria del cronotopo in modo da trovarvi l'interpretazione non solo della gravitazione, ma anche delle azioni elettromagnetiche?

Di questo vastissimo programma solo il secondo punto ebbe, per merito di Einstein, uno sviluppo esauriente, tale da rinnovare la teoria newtoniana della gravitazione.

Intorno al primo punto, che riguarda una questione dibattuta dal Newton in poi (v. moto), la relatività generale porge una risposta di carattere formale, offrendo il modo di esprimere le leggi della dinamica e della gravitazione in forma invariante rispetto ad ogni sistema di riferimento. Se però si esamina il lato fisico del problema, si è costretti a distinguere. La scelta del sistema è, in realtà, indifferente nello studio del moto incipiente (osservazione di F. Enriques, 1906); ed anche le leggi della pura dinamica si possono presentare in una forma indipendente dal detto sistema (G. Giorgi, 1912). Ma se si vuole indagare lo stato di moto, in cui un corpo permane per effetto dell'inerzia o della gravitazione, si deve riconoscere che la descrizione riesce particolarmente semplice quando si riferisca il corpo ad un sistema locale di tipo galileiano, e si complica se si assume una piattaforma diversa. Insomma, sotto l'aspetto fisico, la distinzione tra sistemi galileiani e non galileiani (nella nuova forma in cui verranno introdotti) permane, almeno in ogni regione convenientemente limitata dello spazio.

Il terzo punto (costruzione di una teoria unitaria) ha dato luogo a profonde ricerche da parte dell'Einstein e di altri; ma non si può dire ancora che si sia trovata una soluzione rispondente alle varie esigenze. Dato il carattere astratto e provvisorio di queste ultime ricerche, non è possibile qui parlarne.

9. Gravitazione ed inerzia. - Una proprietà molto notevole distingue la gravitazione da tutte le altre forze: essa agisce nello stesso modo su tutti i corpi, che sono ugualmente situati. In termini precisi: corpi aventi la stessa posizione, pur differendo per la massa, la forma, la costituzione, subiscono per effetto di un campo gravitazionale (ad es., per l'attrazione di uno o più astri) uguali accelerazioni; se quei corpi si trovano a contatto anche per un tempo brevissimo, essi restano uniti nella traiettoria che descrivono sotto l'azione del campo. Galileo aveva già rilevato questo fatto nel caso della gravità terrestre, affermando che nel vuoto corpi pesanti e leggieri cadono con la stessa velocità; Newton ha poi esteso la stessa proprietà ad ogni campo gravitazionale.

L'osservazione di Newton, che fu il punto di partenza per Einstein, si presenta di solito sotto la forma seguente. Si ricordi la seconda legge della dinamica, la quale dice che se ad un corpo si applica una forza qualsiasi f, esso subisce un'accelerazione a legata alla forza dalla relazione f = mia, dove il coeffìeiente mi, massa inerziale, dipende esclusivamente dal corpo. D'altra parte, la legge di attrazione di Newton dice che la forza con cui un corpo è sollecitato da un campo gravitazionale è del tipo f = kmg, dove mg, massa gravitazionale, dipende esclusivamente dal corpo, mentre il fattore k dipende dal campo e dalla posizione del corpo rispetto ad esso (ad es., dalla distanza del corpo dall'astro attraente). Ora tutte le osservazioni, da Newton fino alle esattissime misure odierne, hanno riscontrato che mi = mg (donde poi segue a = k); per ogni corpo la massa inerziale e la massa gravitazionale coincidono.

La proprietà del campo gravitazionale sopra rilevata fornisce la possibilità di annullare localmente l'azione del campo mediante un'opportuna scelta del sistema di riferimento. Immaginiamo infatti, nel caso della gravità terrestre, una cabina di ascensore che, abbandonata a sé stessa, precipiti verso il suolo, senza ruotare e senza essere rallentata dalla resistenza dell'aria. Un corpo pesante, lasciato libero nell'interno della cabina, cadrà verso la terra con la stessa velocità e quindi rimarrà immobile rispetto alla cabina, o, se lanciato, descriverà una retta rispetto ad essa. In generale, un proiettile che attraversi la cabina apparirà, a un osservatore situato nel suo interno, muoversi di moto rettilineo uniforme, mentre il proiettile, visto dalla Terra, descrive notoriamente un arco di conica (parabola). Poiché l'osservazione vale qualunque sia la velocità del proiettile, si è pure indotti a ritenere rettilineo, rispetto alla cabina, il percorso di un raggio di luce; ciò esige che il raggio risulti incurvato dal campo gravitazionale terrestre, rispetto a un osservatore fisso sulla Terra; così si prevede la deflessione che la luce subisce per effetto della gravitazione. In breve, possiamo dire che le leggi fisiche nell'interno della cabina non differiscono da quelle che si riscontrerebbero in una regione dello spazio dove non agisse la gravità.

Per esprimere il risultato in forma più precisa, conviene chiamare sistema di riferimento inerziale una terna di assi cartesiani legata rigidamente con la cabina, o, in generale, trascinata liberamente dall'azione del campo gravitazionale che si considera; dove non agisce il campo, il sistema inerziale non differisce dal sistema galileiano. Allora la nostra affermazione si presenta così: in una regione ristretta di un campo gravitazionale, riferita a un sistema inerziale, i fenomeni naturali seguono le stesse leggi a cui obbedirebbero se mancasse il campo e si assumesse un riferimento galileiano.

Tutto ciò vale però in una regione limitata dello spazio. Se la cabina dell'ascensore fosse molto estesa, varierebbero da luogo a luogo la direzione e l'intensità del campo; ad es., sulla superficie terrestre le verticali, in punti lontani, non sono parallele. In altre parole: nei campi gravitazionali a noi noti, al variare del posto, siamo costretti a mutare il sistema inerziale di riferimento; mentre, se la gravitazione non agisse, un unico sistema potrebbe servire per tutto lo spazio (o almeno ciò sembra plausibile).

10. Il cronotopo curvo di un campo gravitazionale. - Per quel che dovremo dire conviene aggiungere ai tre assi inerziali x, y, z della nostra cabina, ma fuori dello spazio fisico a tre dimensioni, un quarto asse t sul quale si possa rappresentare il tempo segnato da un orologio interno alla cabina. Allora la regione limitata del campo gravitazionale (ad es., l'interno della cabina), durante un breve intervallo di tempo, si potrà rappresentare mediante un frammento di cronotopo pseudoeuclideo (spazio-tempo di Minkowski; n. 7). Al variare del luogo e dell'istante varierà questo frammento. I varî frammenti, collegati tra loro, costituiranno una specie di musaico poliedrico che ci darà un'idea del cronotopo curvo rappresentante il campo gravitazionale.

Per aiutare l'intuizione giova qui tener presente il caso analogo delle due dimensioni. Mentre la geometria piana si può studiare riferendo l'intero piano ad un'unica coppia di assi cartesiani, questo procedimento non si estende senz'altro ad una superficie curva. Sopra una tal superficie, ad es., su quella dell'oceano tranquillo, si può ammettere che un'area abbastanza piccola sia piana e si possa quindi riferire a un sistema cartesiano locale; ma se ci spostiamo dal punto di partenza, dovremo via via mutare il piano contenente l'area e il corrispondente sistema cartesiano. Le piccole aree piane così introdotte vengono a costituire un comune poliedro mediante il quale riusciamo ad approssimare la superficie curva. In modo analogo quel musaico formato da frammenti di cronotopi pseudoeuclidei potrà approssimare il cronotopo curvo che corrisponde al campo gravitazionale.

A dir vero, la curvatura di una superficie viene ordinariamente giudicata da un osservatore situato fuori di essa, mentre non possiamo esaminare il cronotopo dall'esterno. Va notato però che anche un essere a due dimensioni strisciante sopra una superficie potrebbe valutarne la curvatura mediante misure eseguite su di essa (triangolazioni). Similmente, con effettive osservazioni e misure, si riuscirebbe a determinare in ogni punto-istante i caratteri di curvatura del cronotopo che rappresenta il nostro mondo fisico.

Rinviando qualche complemento matematico a un paragrafo successivo (n. 13), riassumeremo le vedute di Einstein nella forma seguente:

Ammesso che lo spazio vuoto di materia e di energia dia luogo al cronotopo pseudoeuclideo (o piano) di Minkowski, si osserva che la presenza della materia incurva il cronotopo; le proprietà geometriche inerenti a questa curvatura si traducono nelle proprietà fisiche del campo gravitazionale generato dalla materia. Le particelle di materia costituiscono punti o linee orarie singolari del cronotopo. Una regione sufficientemente piccola del cronotopo, che circondi un punto non singolare, si può ritenere, con buona approssimazione, pseudoeuclidea. Nella detta regione si potranno dunque distinguere i moti di traslazione uniforme (rispetto a un sistema inerziale) dai moti varî, in particolare dai moti di rotazione. La distinzione ha però soltanto carattere locale, nella seconda relatività, e non può essere estesa a tutto il cronotopo.

Si riesce effettivamente a distinguere le due specie di moti con esperienze meccaniche od ottiche. Tra queste ultime merita di essere segnalato un esperimento compiuto nel 1925 da Michelson e Gale. Questi fisici hanno riscontrato, - in accordo anche quantitativo con le previsioni teoriche - che un raggio di luce impiega tempi diversi a percorrere nei due sensi un circuito chiuso situato sopra un piano orizzontale, e ciò per effetto del moto di rotazione della Terra intorno al proprio asse. L'esperienza fornisce dunque una nuova prova della rotazione terrestre, rispetto all'insieme degli astri.

11. Il moto spontaneo e le geodetiche del cronotopo. - In una regione dello spazio lontana dalla materia il moto libero o spontaneo (cioè non prodotto da forze) di un punto è rettilineo uniforme - legge d'inerzia - e la corrispondente linea oraria è una retta nel cronotopo pseudoeuclideo. Come si modifica questo risultato in prossimità della materia, dove il cronotopo è curvo e non contiene rette? Nella relatività generale la gravitazione non va considerata come una forza, ma come una proprietà geometrica dello spazio; è spontaneo un moto che non sia prodotto o turbato da altre forze; ad es., è spontaneo il moto di un sasso o proiettile che cade liberamente verso la Terra (nel vuoto).

Einstein ammette che la linea oraria rappresentante un moto spontaneo sia una geodetica (v. geodetiche, line) del cronotopo.

Varie considerazioni rendono plausibile questo postulato. Anzitutto le geodetiche di uno spazio curvo sono le linee che più assomigliano alle rette, le quali sono geodetiche di uno spazio piano (euclideo o pseudoeuclideo). Per lasciarci guidare dall'intuizione, sostituiamo allo spazio curvo un ente a due dimensioni, cioè una superficie; le geodetiche della superficie sono le linee che segnano su di essa la minima distanza fra due punti, vale a dire le posizioni assunte da fili tesi sopra la superficie. Nell'intorno di un suo punto, ossia sulla faccetta piana che possiamo sostituire alla superficie in quella piccola regione, una geodetica apparisce come rettilinea. Similmente il breve tratto di una geodetica del cronotopo, che attraversa l'intorno pseudoeuclideo di un punto di questo, appare rettilineo; e così deve essere, visto che il moto spontaneo in quell'intorno si presenta come se la gravitazione non agisse, e valesse la sola legge d'inerzia (n. 10). Un'altra ragione di analogia, favorevole al postulato di Einstein, sta in ciò che, nella stessa meccanica classica, il movimento spontaneo di un punto materiale costretto a giacere sopra una superficie è una geodetica di questa. Ricordiamo finalmente che una geodetica è determinata quando se ne conosca un punto e la direzione con la quale esce dal punto; questa proprietà geometrica traduce una proprietà fisica ben nota: il moto spontaneo di un punto in un campo gravitazionale è determinato, quando si conoscano la posizione iniziale del punto e la velocità (in grandezza e direzione) con la quale il punto abbandona quella posizione.

Se ad un punto mobile liberamente si applica in un certo istante una forza (diversa dalla gravitazione), la linea oraria del punto devia dalla geodetica percorsa sino allora. È questo il fatto geometrico che distingue, nell'intorno del punto-istante, il moto spontaneo della particella libera dal moto vario della particella forzata. La distinzione dipende dalla geometria di quella regione del cronotopo, ossia, fisicamente (a quanto sembra plausibile), dall'azione che sopra la detta regione limitata dello spazio esercita la materia diffusa in tutto il resto dello spazio.

12. Il moto dei pianeti e la relatività. - Secondo il postulato di Einstein i pianeti, che nel nostro spazio fisico descrivono ellissi intorno al Sole per effetto del campo gravitazionale prodotto da questo, hanno per linee orarie delle geodetiche del cronotopo curvo che rappresenta quel campo. Si presenta dunque un procedimento per determinare il moto dei pianeti senza ricorrere alla legge di attrazione di Newton, procedimento che, ove conduca a risultati conformi alle osservazioni, offrirà una verifica indiretta della relatività generale. Il procedimento consiste: a) nello stabilire le proprietà geometriche di un cronotopo corrispondente a un sol centro di attrazione (il Sole); b) nel determinare le geodetiche del detto cronotopo; c) nell'interpretare in linguaggio fisico le proprietà geometriche di queste geodetiche.

I problemi qui enunciati furono risolti e condussero a un risultato molto notevole (n. 13). Accontentandosi di una prima approssimazione, si trovò che nel nostro spazio fisico il pianeta descrive effettivamente una ellisse intorno al Sole seguendo le leggi di Kepler (v. kepler). Se però l'approssimazione viene spinta più in là, si scorge che l'orbita ellittica, anziché conservare fissa l'orientazione nello spazio, come nella teoria classica, va rotando lentamente nel proprio piano, intorno al Sole, e nello stesso senso del moto del pianeta; ne segue che due perielî successivi (posizioni del pianeta più vicine al Sole) son visti dal Sole in direzioni diverse formanti tra loro un piccolo angolo. Ora questo fenomeno dello spostamento del perielio era stato avvertito dagli astronomi a proposito del pianeta Mercurio, per il quale è più sensibile, e restava inesplicato nella meccanica celeste newtoniana. La relatività ne darebbe, a quel che pare, la spiegazione esatta anche sotto l'aspetto quantitativo.

Senza insistere su questa e su altre verifiche astronomiche, per le quali v. sotto: Controlli astronomici della relatività, ci limitiamo a rilevare che l'aver trovato con buona approssimazione che la legge di attrazione newtoniana, con le sue innumerevoli conferme astronomiche, è una conseguenza della teoria della relatività, costituisce un trionfo innegabile di questa.

13. Complementi matematici. - Per precisare alcune delle affermazioni precedenti conviene dare qualche nozione di carattere matematico. Ricordiamo che le proprietà metriche intrinseche di una superficie o di uno spazio a tre o più dimensioni rimangono determinate quando: a) si sappia far corrispondere in modo biunivoco e continuo ad ogni punto dell'ente una coppia, o terna,..., di numeri x0, x1, x2,..., detti coordinate del punto; b) si sappia valutare la distanza fra due punti infinitamente vicini, comunque situati sull'ente che si studia. Ad es., per una superficie si assume come quadrato della distanza di due punti (x0, x1) (x0 + dx0, x1 + dx1) una espressione del tipo (v. superficie)

dove g00, g01, g11 sono funzioni di x0, x1; ds si dice elemento lineare e l'espressione scritta rappresenta una generalizzazione del teorema di Pitagora, al quale essa si riduce se la superficie è un piano e xo, x1 sono coordinate cartesiane ortogonali, perché allora g00 = g11 = 1, g01 = 0. Per il cronotopo a quattro dimensioni occorreranno quattro coordinate x0, x1, x2, x3 e l'espressione dell'elemento lineare conterrà quattro termini coi quadrati dx02,..., dx32 e sei termini coi prodotti dx9 dx1,..., dx2 dx3; essa si presenterà così:

I dieci coefficienti g00, ..., g23 sono funzioni di x0,..., x3, e, per ragioni che poi diremo, furono chiamati dall'Einstein potenziali gravitazionali. Nel caso particolarmente semplice del cronotopo pseudoeuclideo, le coordinate possono esser scelte in modo da ridurre la (6) alla (5) ossia da rendere (con opportuna scelta delle unità di misura) g00 = 1, g11 = g22 = g33 = −1, g01 = ... = g23 = 0. Il fatto che il cronotopo gravitazionale possa esser riguardato come pseudoeuclideo nell'intorno di un punto corrisponde al fatto algebrico che, fissato il punto (x0, x1, x2, x3) e resi quindi costanti i coefficienti della (6), è sempre possibile eseguire una trasformazione di coordinate tale da ridurre la forma (6) ad una somma algebrica dei quadrati dei quattro differenziali delle nuove coordinate; perché uno dei quadrati sia preceduto dal segno + e tre dal segno -, come nella (5), occorre e basta che i coefficienti della (6) soddisfino a certe condizioni qualitative (disuguaglianze).

Una trasformazione generale di coordinate muta la (6) in un'espressione dello stesso tipo con nuovi coefficienti g00,..., g33. Esistono poi criterî per decidere se due espressioni del tipo (6) siano equivalenti, cioè trasformabili l'una nell'altra mediante un opportuno cambiamento di variabili. Le proprietà geometriche del cronotopo, e quindi le corrispondenti proprietà fisiche dello spazio, si devono poter esprimere mediante funzioni delle gik, che conservino lo stesso aspetto quando vengano calcolate coi coefficienti gik di una forma equivalente alla (6) (espressioni invarianti).

Problema fondamentale della relatività generale è di ricavare i potenziali gravitazionali gik dalla conoscenza della distribuzione della materia e dell'energia nello spazio e nel tempo. Questa determinazione potrebbe veramente esser fatta con un'esplorazione punto per punto del cronotopo; ad es., lanciando da un punto generico xi segnali luminosi o proiettili nelle varie direzioni e valutando sopra un orologio ivi situato i tempi che essi impiegano a raggiungere un punto infinitamente vicino xi + dxi. Ma a parte le difficoltà pratiche, questo procedimento non servirebbe nemmeno per gli scopi teorici, in vista dei quali occorre stabilire a priori le relazioni fra le gik e le proprietà fisiche dello spazio. In questa costruzione Einstein si è lasciato ispirare dalla forma, che aveva assunto nel secolo XIX la teoria classica della gravitazione, quando alla ricerca diretta della forza, con la quale un punto materiale (x, y, z) dello spazio fisico viene attratto, si era sostituita la ricerca della funzione potenziale U (x, y, z), le cui derivate parziali rispetto ad x, y, z dànno le componenti della detta forza lungo i tre assi cartesiani (v. potenziale). Il potenziale U soddisfa a un'equazione a derivate parziali del 2° ordine (di LaplacePoisson), il cui primo membro è la somma delle tre derivate seconde di U rispetto a x, y, z, mentre il secondo membro esprime - a meno di un fattore costante - la densità della materia nel punto attratto. Ora, quando il cronotopo gravitazionale differisca poco dal cronotopo pseudoeuclideo di Minkowski e le coordinate x0, x1, x2, x3 siano scelte convenientemente in modo che x0 rappresenti un tempo, si dimostra che il primo potenziale g00 non differisce dal potenziale classico U se non per costanti e termini di grandezza trascurabile. Questa osservazione ha suggerito l'idea che g00 e, per ragioni di simmetria, anche gli altri nove coefficienti gik soddisfino a un sistema di dieci equazioni a derivate parziali del 2° ordine, ottenute uguagliando certe espressioni dipendenti e sclusivamente dalle g e dalle loro derivate in un punto generico a certe quantità Tik (= Tki), dipendenti esclusivamente dalle proprietà fisiche del cronotopo nell'intorno del detto punto; le Tik sono tutte nulle, se in quell'intorno non v'è né materia né energia. Per la natura stessa del problema quel sistema di equazioni deve essere indipendente dalla scelta del sistema di coordinate, a cui il cronotopo vien riferito. Si raggiunge lo scopo, facendo in modo che i primi e i secondi membri delle dieci equazioni siano componenti di due tensori del secondo ordine (v. tensore). Le componenti di un tensore sono, per definizione, funzioni di x0, x1, x2, x3, che si trasformano secondo una regola particolarmente semplice, quando si eseguisce una trasformazione generale di coordinate. Il calcolo differenziale assoluto di Ricci e Levi-Civita insegna a costruire, con le gik e le loro derivate, tensori dei varî ordini, i quali dipendono dalle proprietà geometriche (v. differenziale assoluto, calcolo; tensore).

D'altra parte la meccanica classica dei mezzi continui (teoria dell'elasticità) sapeva già rappresentare lo stato fisico della materia nel nostro spazio mediante le componenti Tik di un tensore simmetrico del secondo ordine, la cui estensione al cronotopo quadridimensionale è immediata. L'uguaglianza di due tensori si esprime uguagliando le componenti dell'uno (dieci se si tratta di un tensore simmetrico del 2° ordine in uno spazio a quattro dimensioni) alle omonime componenti dell'altro (come nel nostro spazio euclideo l'uguaglianza di due vettori si traduce in tre uguaglianze fra le componenti omonime).

Le dieci equazioni gravitazionali di Einstein esprimono appunto la uguaglianza di due tensori, dei quali il primo, detto tensore gravitazionale, dipende soltanto dalle particolarità geometriche del cronotopo (cioè dalle gik), mentre l'altro, tensore energetico, dipende soltanto dallo stato fisico della materia e dell'energia. Per determinare la geometria del cronotopo, ossia la forma (6) dell'elemento lineare, occorrerebbe ricavare dalle osservazioni le componenti Tik del tensore energetico e poi integrare il sistema delle dieci equazioni gravitazionali, delle quali sei sole sono indipendenti. L'integrazione fornirebbe le dieci funzioni incognite gik, a meno della quadruplice indeterminazione dovuta alla libera scelta del sistema di coordinate.

Il problema fu risolto solo in casi particolarissimi, dei quali il più interessante riguarda l'ipotesi di un unico centro attraente, il Sole. Allora le Tik (fuori del Sole) sono tutte nulle. Preso il centro del Sole come polo di un sistema di coordinate polari, detto r il raggio vettore misurato mnvenientemente, ϑ e ϕ, due coordinate angolari (colatitudine e longitudine) nello spazio a tre dimensioni t = 0, l'elemento lineare (6) assume la forma indicata da K. Schwarzschild (1916):

si è indicata con A la differenza 1−2m/r, dove m è una costante che sostituisce la massa della meccanica newtoniana e può essere ricavata solo dalle osservazioni. Per il Sole m, che ha la dimensione di una lunghezza, vale 1,47 km.

La ricerca delle geodetiche del cronotopo avente l'elemento lineare (7) conduce alle seguenti equazioni differenziali che determinano il moto del pianeta:

dove h è una costante e si è posto u = 1/r. La prima delle (8) esprime la legge delle aree. La seconda, se mancasse l'ultimo termine del primo membro, che è in ogni modo piccolissimo, coinciderebbe con l'equazione newtoniana dell'orbita ellittica avente un fu0co nel Sole. La presenza di quel termine produce lo spostamento del perielio (n. 12) di un angolo

per ogni rivoluzione; in questa formula a è il semiasse maggiore della ellisse, e l'eccentricità, T il periodo della rivoluzione misurato in secondi c la velocità della luce.

14. Problema cosmologico - Costruita la relatività generale che stabilisce un legame fra la distribuzione della materia nello spazio e la geometria del cronotopo, Einstein si propose nel 1917 il problema di determinare la forma di questo, indipendentemente dalle irregolarità locali che la materia produce. In termini precisi: quale sarebbe la forma del cronotopo, se la materia esistente fosse distribuita in modo uniforme nello spazio? La densità, a quanto sembra, sarebbe estremamente piccola: pochi protoni (o nuclei d'idrogeno) per metro cubo. Ragioni di simmetria inducono a ritenere che il cronotopo e lo spazio fisico tridimensionale avrebbero curvatura costante, e in conseguenza le proprietà geometriche non varierebbero da regione a regione. La curvatura dello spazio fisico può essere tuttavia positiva, nulla o negativa; così, in due dimensioni, una superficie a curvatura costante può avere curvatura positiva (per es., la sfera) o nulla (per es., il piano) o negativa (per es., la pseudosfera, superficie introdotta da E. Beltrami nella geometria non euclidea; v. superficie). Nelle prime ricerche sulla questione, l'Einstein, poggiandosi sopra ragioni, di cui egli stesso più tardi riconobbe lo scarso peso, si attenne all'ipotesi che lo spazio fisico avesse curvatura positiva e volume finito, pur non possedendo frontiera (come, nel caso di due dimensioni, succede per la sfera che ha superficie finita, ma non è limitata da confini). Tenendo conto della detta ipotesi, che esige una lieve modificazione delle equazioni gravitazionali, Einstein e W. de Sitter sono arrivati quasi contemporaneamente a due soluzioni diverse che conducono a due cronotopi estendentisi all'infinito nel verso del tempo, ma finiti per quanto riguarda lo spazio fisico. Però qualche tempo dopo Friedman (1922) e Georges Lemaître (1927) hanno dimostrato che queste soluzioni in presenza di materia non sono stabili, nel senso che una variazione sia pur minima, della curvatura dello spazio, prodotta da qualunque causa, ad es., da una variazione nella densità della materia, tende a crescere con lo scorrere del tempo. Questo risultato ha condotto a riprendere in esame tutto il problema, tenendo conto altresì di soluzioni instabili, nelle quali lo spazio fisico ha curvatura (costante) nulla o negativa. Si è visto così essere compatibili con le equazioni gravitazionali tre tipi di spazî instabili:

1. spazî in espansione, dove le mutue distanze tra corpi crescono indefinitamente col tempo (rispetto ad un'unità di lunghezza di natura atomica od ottica, postulata invariabile), conservando immutati i mutui rapporti; come succederebbe, in due dimensioni, a punti segnati sopra la superficie sferica di un palloncino di gomma elastica che venisse gonfiato, o sopra un piano che subisse una dilatazione uniforme;

2. spazî in contrazione, nei quali si verifica il fenomeno opposto;

3. spazî oscillanti, dove i periodi di espansione si alternano con i periodi di contrazione.

Gli scarsi dati che oggi si posseggono farebbero ritenere che lo spazio fisico sia attualmente in espansione. Infatti le recenti osservazioni spettroscopiche sulle nebulose extragalattiche (enormi ammassi di stelle che riteniamo analoghi alla Galassia, o Via Lattea, della quale fa parte il nostro sistema planetario) dimostrano che le righe di quegli spettri sono spostate verso il rosso, come se le dette nebulose si allontanassero da noi con velocità crescenti al crescere delle loro distanze dalla Terra; si tratta di distanze enormi che la luce impiega milioni d'anni a percorrere, e di velocità enormi che possono raggiungere i 20.000 km. al secondo. È proprio il fenomeno che si riscontrerebbe in un universo in espansione. È da avvertire però che le ricerche teoriche fondate sopra ardite estrapolazioni e i dati astronomici troppo recenti e incompleti non permettono di trarre per ora conclusioni sicure su questo argomento. Per maggiori notizie il lettore potrà consultare un libro di A. S. Eddington tradotto in italiano: L'universo in espansione.

III. Il significato filosofico della teoria della relatività. - 15. La teoria einsteiniana ha suscitato vivo interesse tra i filosofi, molti dei quali si sono posti la domanda "che cosa essa porti ai problemi filosofici della conoscenza". In realtà codesta teoria esprime piuttosto il termine di uno sviluppo d'idee maturate nella filosofia di pensatori matematici, a partire dagli inizî del sec. XIX, porgendo, in qualche modo, il frutto scientifico di quelle idee; ma si comprende che l'importanza dei nuovi risultati ottenuti e il capovolgimento della classica visione cosmologica sieno valsi a richiamare la più larga attenzione dei filosofi sopra una corrente di pensiero, insufficientemente apprezzata.

I più importanti aspetti filosofici della dottrina di Einstein toccano le seguenti questioni:

a) La nozione dello spazio e del tempo. In opposizione alla teoria di Kant che vede nello spazio e nel tempo delle forme necessarie dell'intuizione, la filosofia empirica inglese ha sostenuto che queste nozioni, e gli assiomi che ne enunciano le proprietà elementari, esprimono soltanto la coordinazione di dati sensibili e sono perciò acquisite dall'esperienza. Frattanto i creatori della geometria non euclidea (Gauss, Lobačevskij, Bólyai, Riemann, Helmholtz, ecc.) sono riusciti a mettere in luce un concetto più largo dello spazio, dipendente da parametri variabili in modo continuo, che soltanto per valori particolari di questi parametri si riduce allo spazio (euclideo) della nostra intuizione. A parte il problema della genesi psicologica delle nozioni spaziali, il risultato anzidetto prova che: "è possibile, in via di approssimazione comunque grande, subordinare la rappresentazione dell'universo fisico ad un concetto dello spazio che risponda a postulati diversi da quelli di Euclide, e perciò della differenza eventuale fra lo spazio fisico e lo spazio euclideo non si può, in ogni caso, giudicare a priori, ma deve farsi giudice l'esperienza".

Quest'ordine d'idee si estende naturalmente alla nozione del tempo. Gli assiomi che caratterizzano questa nozione vengono egualmente ad esprimere una realtà, implicando relazioni fondamentali che consentono una certa coordinazione delle esperienze; e così diventano postulati della fisica. Ora nell'esaminare questi postulati, Einstein ha avvertito che la possibilità di ordinare i fenomeni in un ordine temporale dipende dalle segnalazioni (ottico-elettromagnetiche) che di tali fenomeni possono giungere all'osservatore. E quindi l'indipendenza di quest'ordine dalla posizione e dal moto dell'osservatore stesso, implica il presupposto di segnalazioni istantanee. Una volta ammesso un tempo di propagazione delle onde elettromagnetiche, e accolta più in generale l'idea che tutte le azioni fisiche si propaghino per contiguità ed esigano per ciò un tempo di propagazione, cadeva a priori la presunzione del tempo assoluto di Newton e si affacciava naturalmente la veduta della relatività del tempo, che abbiamo spiegata nel n. 4. Questa rivoluzione (concettuale) era dunque implicita nel presumibile contrasto di una dottrina meccanica, come quella di Newton, che postula le azioni a distanza (istantanee) e della teoria elettromagnetica, costruita in base all'ipotesi di una propagazione per contiguità.

b) Un altro punto notevole è la posizione che Einstein dà del problema della dinamica in confronto alla posizione classica di Galilei-Newton. Questi autori riuscivano alla rappresentazione della realtà sovrapponendo due astrazioni: la legge d'inerzia, per cui il moto naturale dei punti materiali è rettilineo uniforme, e il campo statico delle forze. Ma fino dai loro tempi si era pure espressa nei circoli cartesiani la tendenza ad eliminare la "forza", sostituendola con la nozione dei "legami", di tipo geometrico. È noto come questi due concetti vengano connessi nella meccanica analitica di Lagrange. Per es., se un punto è costretto a muoversi sopra una data superficie, il vincolo che così viene imposto al moto equivale a un sistema di forze agenti sul punto, che sono appunto le "reazioni vincolari". Ma quel moto si può caratterizzare nel modo più semplice, indipendentemente dalla nozione della forza, giacché "il moto naturale di un punto sopra una superficie, quando non agiscano forze perturbatrici, avviene secondo una geodetica della superficie stessa". Ora nell'evoluzione della scienza, dopo Galileo e Newton, si è spesso presentata, accanto alla veduta di un meccanismo retto da forze (generalmente centrali), anche la veduta di un meccanismo cartesiano, in cui figurano come dati soltanto dei "vincoli". E fra i più recenti tentativi in questo senso si deve annoverare la meccanica di H. R. Hertz (v.), che per spiegare in concreto il moto delle masse materiali visibili, in quanto si discosta dalla legge d'inerzia, postula (in luogo di forze) delle masse e dei vincoli nascosti. In questa meccanica il moto viene governato da una legge unica, che fonde in sé le due astrazioni sovrapposte della dinamica di Galilei-Newton, e si esprime appunto come una generalizzazione del moto geodetico sopra la superficie. È presumibile che l'idea di Hertz abbia influito sul pensiero di Einstein, suggerendogli la forma del suo postulato fondamentale.

D'altra parte conviene ricordare che W. K. Clifford (v.) aveva pure affacciato l'idea che ciò che noi sentiamo come forza, o come calore o come elettricità, possa rispondere ad una variazione della curvatura dello spazio, a cui apparteniamo, così come un essere piatto, che si muova strisciando sopra una superficie, avvertirà con sensazioni particolari del suo organismo le differenze di curvatura di questa.

c) Un terzo punto che merita di fermare la nostra attenzione è l'uso che Einstein ha fatto del principio di ragion sufficiente.

Nella voce moto è spiegato come il Leibniz, concependo lo spazio quale ordine dei corpi, ne deducesse non esservi ragione di distinguere un moto assoluto dai moti relativi. Questo è un motivo a favore della relatività del moto, che vale a spiegare la differente attitudine dei fisici di fronte alle citate esperienze di Michelson; le quali furono per alcuni (razionalisti) semplice occasione di rigettare una possibilità che nella loro mente era condannata a priori, mentre apparirono ad altri (empiristi) qualcosa d'imbarazzante e d'imprevisto. Einstein evidentemente ritiene che - l'etere essendo non un fluido reale, ma una semplice espressione della solidarietà cosmica - il moto assoluto sia necessariamente privo di senso, e quindi debba risultare indiscernibile nell'esperienza. Ma qui non si limita la sua applicazione del principio di ragion sufficiente. Infatti tra i motivi della sua teoria si deve annoverare l'esigenza di dar ragione di un fatto che nella meccanica classica appare come una coincidenza casuale: cioè dell'equivalenza della massa attraente dei corpi con la massa d'inerzia.

Tali sono i principali motivi filosofici che figurano nella dottrina di Einstein, e chi rifletta intorno ad essi riuscirà a spiegarsi insieme l'accoglienza e l'opposizione che la teoria stessa ha suscitato nel pubblico scientifico, prima che numerose esperienze venissero a portarle il conforto di una verifica obiettiva sempre più estesa.

Bibl.: Scritti di divulgazione: A. Einstein, Sulla teoria speciale e generale della relatività, Bologna 1921; G. Castelnuovo, Spazio e tempo secondo le vedute di A. Einstein, ivi 1923; É. Borel, L'espace et le temps, Parigi 1922; A. S. Eddington, Space, Time and Gravitation, Londra 1920 (tradotto in varie lingue). Trattati: R. Marcolongo, Relatività, 2ª ed., Messina 1923; T. Levi-Civita, Fondamenti di meccanica relativistica, Bologna 1928; A. Kopff, I fondamenti della teoria della relatività (tradotto dal tedesco con complementi e aggiunte di varî autori), Milano 1923; M. v. Laue, Die Relativitätstheorie, voll. 2, Brunswick 1921; H. Weyl, Raum, Zeit, Materie (varie edizioni e traduzioni), Berlino 1921; A. S. Eddington, The mathematical Theory of Relativity, Cambridge 1923. Su varie questioni sollevate dalla teoria, v. anche i fascicoli di E. Bauer, F. Perrin, L. de Broglie, G. Darmois, E. Cartan e P. Langevin, nelle Actualités scientifiques et industrielles, Parigi 1932-1933.

Sulle questioni filosofiche, oltre ai lavori citati alla voce moto, v. F. Enriques, Spazio e tempo davanti alla critica moderna, in Questioni riguardanti le matematiche elementari, parte I, ii, Bologna 1925; É. Meyerson, La déduction relativiste, Parigi 1925; M. Schlick, Raum und Zeit in der gegenwärtigen Physik, Berlino 1922. - Una bibliografia delle pubblicazioni fino al 1922 si trova nel trattato del Kopff sopra citato.

Controlli astronomici della relatività.

La teoria della relatività generale conduce a un certo numero di conseguenze, che sono suscettibili di controlli di carattere sperimentale. Tre di queste conseguenze, riguardanti l'astronomia, hanno attratto in modo speciale l'attenzione degli scienziati. La delicatezza delle misure e l'ordine di grandezza degli errori presunti lasciano, a dir vero, qualche dubbio sul valore di questi controlli. È giusto rilevare tuttavia che nessuna smentita hanno dato sinora le osservazioni astronomiche alle previsioni teoriche.

Le prove che oggi si portano sono: a) lo spostamento del perielio delle orbite planetarie; b) la deviazione dei raggi luminosi attraverso un campo gravitazionale; c) lo spostamento delle righe dello spettro verso il rosso, o effetto Einstein.

1. Cominciando dall'esame della prima di queste prove, ricordiamo che la teoria della relatività generale, partendo dall'espressione dell'elemento lineare ds, nella forma statica di K. Schwarzschild ricordata nella formula (7) del n. 13,

e nell'ipotesi di un campo gravitazionale proveniente da un unico centro (ad es., il Sole), permette di scrivere le equazioni delle geodetiche del cronotopo e dedurre le equazioni del moto di una piccola massa (un Pianeta, ad es.).

È questo precisamente uno dei casi in cui le equazioni delle geodetiche si ottengono con semplici quadrature (ellittiche). È stato già accennato al risultato: la traiettoria non è più la solita ellisse kepleriana (fissa e indeformabile), ma risulta invece una curva più complicata, della quale si può, tuttavia, fare la discussione in modo completo: questa mette in evidenza uno spostamento del perielio del Pianeta, per ogni rivoluzione, espresso in radianti (nn. 12-13) da:

In altre parole, nelle ipotesi relativistiche, l'orbita del Pianeta è soltanto in prima approssimazione un'ellisse di cui l'origine (il Sole) occupa un fuoco; l'asse maggiore di questa ellisse non è fisso, come nel caso newtoniano del problema dei due corpi, ma è dotato di un movimento di rotazione nel piano dell'orbita, il cui importo è precisamente espresso dalla (1); il perielio ha, come si dice, un'accelerazione secolare.

Questo risultato teorico trova una buona applicazione nel movimento del pianeta Mercurio. Mercurio è il pianeta la cui orbita presenta la maggiore eccentricità e quindi il perielio risulta meglio determinato.

Le osservazioni hanno messo in evidenza una rotazione secolare di questo pari a 574″ per secolo, di cui però soltanto 532″ circa sono spiegati dalla teoria delle perturbazioni della meccanica classica. C'è dunque un residuo di circa 42″ per secolo, che non si è riusciti a spiegare in maniera soddisfacente, prima della teoria di Einstein, per quanto questo numero, dipendente da altre costanti astronomiche (tra cui la massa di Venere), non possa essere considerato come non suscettibile di ulteriori discussioni. Orbene, sostituendo nella (1) i numeri relativi a Mercurio si trova Δω = 42″,9; è cioè perfettamente spiegato il residuo.

Va rilevato che questo risultato così preciso deve forse sorprendere piuttosto che soddisfare perfettamente, tenute anche presenti le numerose ipotesi semplificative introdotte dalla relatività. In special modo questa teoria considera Mercurio unico nel campo gravitazionale del Sole e dà conto del divario tra osservazione e calcolo (dedotta nella teoria classica newtoniana per mezzo delle perturbazioni) trascurando che in realtà esso è soggetto a forti perturbazioni per opera degli altri pianeti (Venere principalmente), le quali, oltre a tutto, fanno variare il piano della sua orbita e quindi dànno al perielio uno spostamento non trascurabile.

Un controllo migliore si avrebbe qualora, anche nella teoria della relatività, si considerasse il problema perturbato; per quanto sia verosimile pensare che i risultati non sarebbero molto diversi.

Ripetendo il calcolo per il pianeta Marte si trova uno spostamento secolare del perielio di 1″,35, mentre, in base alle osservazioni, questo spostamento è di 8″,03. Il disaccordo potrebbe però essere spiegato dall'incertezza con cui il perielio stesso può essere determinato, a causa della minore eccentricità dell'orbita.

Il quinto satellite di Giove presenterebbe un'accelerazione secolare del perigiove di 37′ 35″, quantità assai cospicua, ma che non può essere presa in grande considerazione nel saggiare la teoria, data l'incertezza che regna nella determinazione dell'eccentricità della corrispondente orbita.

In conclusione si può dire che la teoria generale della relatività può fornire una buona spiegazione dello spostamento secolare del perielio di Mercurio, mentre non pare in troppo buon accordo con l'osservazione per Marte; forse si potrà ottenere un risultato migliore, in entrambi i casi, quando potrà essere realizzata una teoria relativista completa delle perturbazioni planetarie.

Per gli altri pianeti lo spostamento del perielio è assolutamente trascurabile, data la piccolezza dell'eccentricità e le dimensioni sempre crescenti delle orbite.

Per quanto riguarda infine la Luna, diciamo che né la teoria classica né quella della relatività riescono a spiegare la sua accelerazione secolare. Qualche astronomo cerca oggi di darne una spiegazione avanzando l'ipotesi della variabilità del giorno siderale, cioè della velocità di rotazione della Terra, causata, a quanto sembra, dalle maree terrestri e da un eventuale spostamento dei continenti (teoria di Wegener).

2. La seconda applicazione della teoria della relatività all'astronomia, cioè la deviazione einsteiniana dei raggi luminosi, sembra comportare un'alea minore nell'interpretazione delle osservazioni. Riguarda in sostanza un problema di ottica: la ricerca della traiettoria di un raggio luminoso in un campo gravitazionale, generato, come il precedente, da una sola massa sferica in quiete (il Sole).

L'energia è inerte, ha cioè una massa (n. 6); quindi anche la luce ha una massa. Se essa è pesante, vuol dire che, quando un raggio luminoso, emesso, per es., da una stella, passa vicino a un corpo come il Sole, il raggio sarà deviato. Orbene, la teoria della relatività permette anche di calcolare questa deviazione.

Assegnata, come nel caso precedente, la forma del cronotopo (nn. 12-13) ed esteso a esso il principio del minimo di Fermat, la ricerca della traiettoria del detto raggio luminoso si riduce a quella delle geodetiche di lunghezza nulla. La ricerca conduce effettivamente a constatare che i raggi luminosi delle stelle in vicinanza del Sole vengono deviati dalle loro traiettorie rettilinee, trasformandosi all'incirca in rami d'iperboli. La deviazione o flessione dei raggi luminosi tangenti al Sole risulta precisamente espressa da:

dove f è la costante di attrazione universale, M la massa e R il raggio del Sole.

Secondo la teoria einsteiniana, si ha un valore massimo a = 1′′,75, mentre, in base alla teoria newtoniana, come già aveva trovato fin dal 1804 J. Soldner, si può arrivare soltanto a a = 0″,37. Aggiungiamo che Einstein ha assegnata anche la legge con cui varia la deviazione dei raggi luminosi col variare della distanza dal Sole, espressa dal rapporto di 1″,75 alla distanza r dal centro del Sole, misurata in raggi solari. Bisogna ora vedere come, e fino a che punto, questo risultato è confermato dalle osservazioni.

Le stelle non possono essere osservate vicino al Sole, tranne che negl'istanti brevi e rari delle eclissi solari totali, durante le quali la ricerca dell'effetto Einstein può esser fatta dagli astronomi soltanto a mezzo della fotografia, poiché la durata della totalità è troppo breve per permettere misure micrometriche visuali. Durante la totalità dell'eclisse si prende un cliché (o una serie di clichés) del campo stellare circondante il Sole; qualche mese dopo, o avanti, si fotografa di nuovo la stessa regione del cielo, visibile allora durante la notte. Paragonando tra di loro le posizioni stellari dei due clichés, si deduce lo spostamento apparente delle stelle durante l'eclisse.

Dal 1919 a oggi gli astronomi hanno fatto e ripetuto queste loro osservazioni approfittando di ogni favorevole eclisse totale di Sole, e compiendo veri miracoli di perizia e di tecnica, per cercare di eliminare ogni influenza estranea e ogni possibile causa di errore.

Le prime osservazioni veramente importanti furono fatte dagli astronomi di Greenwich e di Oxford durante l'eclisse totale di Sole del 29 maggio 1919, in due separate spedizioni a Sobral nel Brasile (A.-C.-D. Crommelin e C. Davidson) e nell'Isola Principe nel Golfo di Guinea (A. S. Eddington e F. T. Cottingham). I risultati furono notevolmente favorevoli alla teoria, avendo fornito un valore medio per la flessione dei raggi luminosi a = 1″,79. Non si nasconde però che a questi risultati furono sollevate in seguito critiche serie e molteplici.

Le osservazioni furono ripetute durante l'eclisse del 21 settembre 1922 da una missione dell'osservatorio Lick installata a Wallal in Australia per opera degli astronomi R. Campbell e R. J. Trumpler; la flessione dei raggi luminosi risultò 1″,72, in ottimo accordo con la teoria, ma neanche questa volta le osservazioni si possono dire immuni da critiche e dubbî di diversa natura.

Una terza spedizione per la verifica dell'effetto Einstein si ebbe nel 1929 in occasione dell'eclisse totale del 9 maggio, e questa volta proprio per opera dell'Einstein Institut di Potsdam, i cui osservatori, E. F. Freundlich, V. Klüber e V. Brunn, si portarono in Estremo Oriente a Takangon (Sumatra), e ottennero un valore medio di 2″,04.

Queste ripetute osservazioni, però, per quanto condotte con cure immense, non sono valse a togliere ogni dubbio, poiché gli errori di osservazione residui sono sempre stati molto grandi, rispetto alla piccola quantità da misurare.

In conclusione, possiamo dire che l'opinione degli astronomi più reputati, e anche dello stesso Einstein, è che le osservazioni fatte, anche se non infirmano, nemmeno confermano decisamente la legge di deviazione di Einstein. Si può dire però che, in sostanza, rimane acquisito che i raggi luminosi provenienti dalle stelle passando in vicinanza del Sole subiscono una deviazione, la quale non è imputabile alla rifrazione di un'atmosfera circondante il Sole; ma nulla ancora si può dire di completamente accertato sulla legge di tale deviazione.

3. La terza prova, forse la più convincente di tutte, è fornita dallo spostamento verso il rosso delle righe dello spettro di una stella rispetto a quelle di una sorgente terrestre, sotto l'azione del campo gravitazionale proveniente dalla stella (in particolare il Sole). Se un atomo vibra su di una stella con frequenza v e uno identico sulla terra con frequenza v′, la teoria di Einstein mostra che queste frequenze sono legate dalla relazione:

dove M è la massa della stella e R la distanza dell'atomo vibrante dal centro della stella; perciò sulla stella la frequenza è minore e il periodo di vibrazione maggiore che sulla Terra. Nel caso del Sole, si trova che la durata di vibrazione dell'atomo luminoso deve essere aumentato di circa 21 decimilionesimi del suo valore, risultando uno spostamento di circa 2 milionesimi della corrispondente lunghezza d'onda.

Questi scarti, osservati fin dal 1896 da H. A. Rowland e L. E. Jewell (ma da questi attribuiti a un unico effetto di pressione), sono però assai difficili a misurarsi, perché la lunghezza d'onda varia appunto con la pressione, e nel caso del Sole non si conoscono con precisione gli stati di pressione delle sue varie regioni, ciò che spiega la discordanza dei risultati dei numerosi osservatori e sperimentatori.

Mentre le prime esperienze fatte da E. Evershed e poi da C. E. St. John all'osservatorio di Mount Wilson non sembravano confermare l'effetto Einstein, quelle di L. Grebe e Bachem (1920) si mostrarono più favorevoli, e così ancora quelle di Julius e soprattutto quelle eseguite sulla riga b del magnesio da A. Perot (1921) e infine quelle di Ch. Fabry e H. Buisson, i quali ripresero in esame antiche misure e osservazioni fatte da loro stessi in un'epoca in cui non si sospettava nemmeno l'influenza della gravitazione.

Un nuovo contributo è stato di recente arrecato dalle osservazioni sulla stella Sirio. È noto come da certe irregolarità nel moto di Sirio, F. W. Bessel avesse concluso l'esistenza di un satellite, Sirio B, che fu poi effettivamente scoperto nel 1862 da A. G. Clark. Gli elementi dell'orbita, determinati da R. G. Aitken e da Howard, hanno mostrato che esso dista da Sirio A venti volte la distanza Terra-Sole e gli gira intorno con un periodo di 50 anni; le masse dei due corpi sono: quella di Sirio A 2,56 volte la massa del Sole, quella di Sirio B o,74 la massa del Sole. D'altra parte le osservazioni fotometriche hanno permesso di trovare il diametro del satellite (0,034 volte il diametro solare, circa tre volte quello terrestre) e la sua densità (30.000 volte quella dell'acqua). Sirio B è cioè, secondo la moderna classificazione stellare, una stella nana bianca (v. stelle).

L'importanza e la singolarità di questo risultato hanno indotto gli astronomi a cercarne un controllo per altra via, e precisamente servendosi della teoria della relatività.

Infatti, poiché il movimento orbitale di Sirio B è conosciuto, si può calcolare in ogni istante la sua velocità radiale e in conseguenza, esaminando lo spostamento delle righe spettrali, è possibile separare la parte dovuta all'effetto Doppler da quella dovuta all'effetto Einstein. L'astronomo americano W. S. Adams nel 1925, con lunga serie di delicate osservazioni, è riuscito a fotografare lo spettro di Sirio e del satellite: dagli spettrogrammi ottenuti ha trovato che ogni riga (dello spettro del satellite) di lunghezza d'onda λ subisce per l'effetto Einstein uno spostamento Δλ = 0,000060 λ.

Ora, la teoria generale di relatività permette di scrivere l'equazione seguente:

che dà il rapporto tra il raggio di una stella Rs e il raggio del Sole R, quando si conosca il rapporto tra la massa della stella Ms e quella del Sole M e lo spostamento Δλ della riga spettrale di lunghezza d'onda λ dovuto all'effetto Einstein.

Per il satellite di Sirio si ha precisamente:

onde si trova:

e cioè il raggio di Sirio B sarebbe circa un quarantesimo di quello del Sole, ciò che indicherebbe una densità media circa 50.000 volte superiore a quella dell'acqua, confermando così almeno nell'ordine di grandezza il risultato ottenuto direttamente.

Bibl.: E. Esclangon, Les preuves astronomiques della relativité, Parigi 1922; E. Picard, La théorie della relativité et ses applications à l'astronomie, ivi 1922; J. Chazy, La théorie de la relativité et la mécanique céleste, ivi 1930; A. Danjon, Le déplacement apparent des étoiles autour du Soleil éclipsé, Strasburgo 1932; R. Marcolongo, La relatività nel suo primo venticinquennio, Napoli 1933; G. v. Gleich, Merkurperihel und Relativitätstheorie, in Astron. Nach., CCLIII (1934), p. 13; A. S. Eddington, La natura del mondo fisico, trad. it. di . Gialanella e Ch. Cortese, Bari 1935.

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