Teologia

Enciclopedia del Novecento (1984)

Teologia

Jürgen Moltmann

di Jürgen Moltmann

Teologia

sommario: 1. Il retaggio dell'Ottocento: a) la visione della libertà; b) il principio di autorità; c) il ‛retaggio' e i compiti del nostro secolo. 2. La teologia nel Novecento: a) anacronismi delle confessioni; b) la fine del Corpus christianum. 3. Alla ricerca della rilevanza secolare: a) la coscienza critica e la demitizzazione del cristianesimo; b) il mondo secolare e la teologia della secolarizzazione; c) il Terzo Mondo e la teologia della liberazione; d) la teologia cristiana dell'età moderna. 4. Alla ricerca dell'identità cristiana: a) la riscoperta dell'origine: la Bibbia; b) il significato del Vecchio Testamento; c) il problema cristologico e il Nuovo Testamento. 5. La teologia nell'epoca ecumenica: a) superamento del confessionalismo; b) superamento dell'eurocentrismo. □ Bibliografia.

1. Il retaggio dell'Ottocento

La storia universale non si lascia scandire secondo i secoli. Essa ha il suo proprio ritmo e le sue particolari epoche. Noi intendiamo qui con ‛Ottocento' quell'epoca della storia europea che ha il suo principio nel 1789, con la Rivoluzione francese, e la sua fine nel 1917-1918, con la prima guerra mondiale e la Rivoluzione russa. È l'epoca del mondo uscito dalla rivoluzione borghese e scosso nei suoi fondamenti dalla rivoluzione socialista. Il mondo borghese ha incessantemente rinnovato il tentativo - mirante alla propria legittimazione - di interpretare se stesso: la sua stessa natura lo chiama a un tale sforzo di autointerpretazione. Noi prendiamo qui in esame, di tali autointerpretazioni, le due più importanti ma tra loro contraddittorie: la ‛visione della libertà' e il ‛principio d'autorità', e da esse partiremo per illustrare le contraddizioni ereditate dall'Ottocento e i problemi più importanti della teologia nel Novecento. La teologia è sempre riferita alla situazione ecclesiale, la quale, nell'epoca moderna, è a sua volta condizionata dalla situazione sociale, culturale e politica. Per comprendere la struttura della Chiesa e le formazioni della teoria teologica, dobbiamo quindi prendere le mosse dalla situazione del mondo nell'Ottocento.

a) La visione della libertà

‟Libertà, eguaglianza, fraternità": con questi principî ebbe inizio la Rivoluzione francese; essi costituiscono le basi ideologiche del mondo borghese. La vecchia, feudale, società europea dei ceti fu distrutta e fu edificata una nuova società egualitaria delle prestazioni: non la nascita, ma la prestazione determina il valore di una persona umana. La sovranità dei principi e del dominio assolutistico ‛per grazia di Dio' furono sostituiti dalla sovranità popolare: allo Stato autoritario succedeva lo Stato democratico, al suddito il libero cittadino. Lo Stato confessionalmente unitario fu superato con la secolarizzazione dei beni ecclesiastici: subentrava lo Stato confessionalmente neutrale, lo Stato secolare. La religione divenne così ‛una faccenda privata' e oggetto di una decisione personale. L'uomo borghese esigeva libertà di coscienza nei confronti dell'autorità della Chiesa e libertà di religione nei confronti del potere dello Stato.

L'edificazione del mondo borghese andò di pari passo con l'edificazione del mondo industriale. La nuova tecnologia rese possibile la prima ‛rivoluzione industriale', che produsse un immenso sommovimento della popolazione in Europa: le masse sciamarono dalla campagna alle città, dando vita alle metropoli industriali. In quanto titolari di forza lavoro e in quanto consumatori, tutti gli uomini, per la prima volta nella storia, poterono esser oggetto di un eguale trattamento. Nazionalità, religione, cultura, sesso, razza e quant'altro aveva potuto costituire in passato l'identità dell'uomo passava in secondo piano rispetto a questi nuovi criteri di eguaglianza. La borghesizzazione e l'industrializzazione mandarono in frantumi gli ordinamenti cetuali e i confini storici del vecchio mondo europeo. I principî di libertà e di eguaglianza sono per loro natura universali. Per questa ragione, essi furono di volta in volta invocati - in guise sempre nuove - contro ogni loro realizzazione particolare: quando la borghesia ormai arrivata costituì una nuova classe dominante, il proletariato sfruttato raccolse questi principî e rivendicò, dopo la libertà politica, anche la libertà economica; quando la borghesia europea intraprese la colonizzazione economica del mondo, i popoli coloniali oppressi se ne fecero banditori a loro volta e diedero inizio alla lotta di liberazione contro l'imperialismo europeo. La liberazione degli schiavi e la liquidazione del sistema schiavistico negli Stati Uniti e nelle colonie europee fu il grande tema della prima metà dell'Ottocento. Le idee di libertà e di eguaglianza furono infine raccolte dalle donne, private dei loro diritti dalla società patriarcale, e ispirarono i loro movimenti di emancipazione. L'Ottocento può a giusta ragione essere considerato come l'epoca delle lotte per la libertà e delle rivoluzioni, attraverso le quali doveva trovare realizzazione la speranza della Rivoluzione francese. In sempre nuovi strati del popolo e in sempre nuove popolazioni del globo la visione del regno della libertà, della giustizia e della pace duratura liberò un potenziale immenso di energia umana. La storia non fu più subita passivamente come destino o come provvidenza. Per la prima volta l'uomo divenne consapevole del suo potere, s'innalzò a signore della sua storia e assunse la responsabilità del suo futuro. Si rivela qui un mutamento radicale della mentalità moderna: cessa l'orientamento della vita verso l'origine attraverso le tradizioni e prende il suo posto l'orientamento verso il futuro attraverso la speranza e la progettazione. Gli ordinamenti della vita sia personale sia sociale non vengono più fatti coincidere, giusnaturalisticamente, con le eterne leggi del cosmo: la realtà viene anzi esperita come storia, nelle cui possibilità le speranze dell'umanità possono trovare realizzazione. Al progresso nella coscienza dell'umana libertà corrispondeva il riconoscimento che la realtà della vita e del cosmo è aperta verso il futuro. Il senso della storia non era più cercato nel passato mediato dalle tradizioni e neppure nell'eternità mediata dalla religione, bensi nell'apertura invitante del futuro. Tutte le grandi idee dominanti dell'Ottocento - la rivoluzione, l'evoluzione, l'emancipazione, il progresso, la crescita, l'espansione - collegano la speranza con la storia e la storia col futuro. Già la moderna scansione della storia in tre epoche - antichità, medioevo, età moderna - mostra la secolarizzazione dello spirito messianico (Gioacchino da Fiore) nel nostro mondo. Affermava con ragione Friedrich Schlegel: ‟Il desiderio rivoluzionario di realizzare il Regno di Dio è l'elemento propulsivo di ogni cultura progressiva e l'inizio della storia moderna". Questa interpretazione coglieva tuttavia soltanto una faccia del mondo moderno.

b) Il principio di autorità

Sull'altra faccia troviamo il principio di autorità: ‟Dio, re e patria". È il motto della reazione conservatrice, la quale interpretava i fenomeni del mondo moderno come segni della crisi degli ordinamenti della vita e di un'apocalittica fine del mondo. A quest'opzione conservatrice diedero la loro intera adesione, nell'Ottocento, le grandi Chiese europee e i loro teologi. I filosofi cattolici de Maistre, de Bonald e Donoso Cortés elaborarono la filosofia statale della controrivoluzione, filosofia fatta poi propria dalla Chiesa di Roma. I teologi luterani tedeschi Julius Friedrich Stahl e August Vilmar presentarono la religione e la Chiesa come salvezza dei popoli dal ‟morbo della rivoluzione". Il teologo calvinista e presidente del consiglio dei ministri olandese Abraham Kuyper predicava la ‟Riforma contro la rivoluzione". Tutte le rivoluzioni sono dirette contro Dio; la democrazia, la sovranità popolare, il liberalismo e la secolarizzazione sono i nomi della Bestia prorompente dall'abisso e segni del caos incipiente. La rivoluzione contro i poteri dominanti è ribellione contro Dio, come attesta il motto rivoluzionario Ni Dieu ni maître. Per questa ragione la rivoluzione conduce all'ateismo e l'ateismo all'anarchia. Soltanto la religione consente di salvare l'autorità dello Stato; soltanto l'autorità dello Stato consente di mantenere l'ordine della vita; soltanto le Chiese possono guarire i popoli dal morbo della rivoluzione. Il teismo cristiano fu presentato come una religione sostenitrice dello Stato, in quanto forniva una legittimazione trascendente all'unità e all'ordinamento gerarchico della società. Con la rivoluzione e l'ateismo, con il liberalismo e l'immoralità, con la democrazia e l'autodivinizzazione dell'uomo ha invece inizio l'epoca apocalittica: è la cruenta battaglia decisiva tra cattolicesimo e socialismo ateo (Cortés), la lotta finale tra Cristo e Anticristo (Vilmar, Stahl), l'inconciliabile contrasto tra l'uomo di Dio e l'uomo senza Dio (Kuyper). Le grandi Chiese hanno quindi, dopo la Rivoluzione francese e in particolare dopo il 1848, appoggiato l'ordinamento conservatore e impugnato un tricolore controrivoluzionario, recante il motto ‟Dio, re, patria" o ‟Dio, famiglia, patria". Le Chiese presentarono anzi se stesse come potere politico della controrivoluzione. Gli sviluppi della democrazia nella sfera politica, del liberalismo e del socialismo in quella economica cozzarono quindi frontalmente contro la resistenza delle Chiese e della teologia. Invero, difficilmente si potrebbe indicare uno sviluppo della mentalità moderna che non abbia, ai suoi inizi, urtato contro la resistenza delle Chiese e della teologia. Soltanto quando il mondo borghese si avviava ormai alla fine le Chiese e i teologi cominciarono timidamente ad assumere un atteggiamento positivo nei confronti degli sviluppi del mondo moderno, sebbene non si possa non constatare che la basilare opzione controrivoluzionario-conservatrice determina ancor oggi la figura storica della religione cristiana, le sue formazioni ecclesiali e le sue teorizzazioni teologiche. Il processo trasformativo di revisione di questa basilare opzione conservatrice è cominciato solo con la metà del nostro secolo, né è possibile proclamare sin d'ora il suo successo.

c) Il ‛retaggio' e i compiti del nostro secolo

Il mondo borghese dell'Ottocento è andato incontro a una triplice fine. Anzitutto, nella prima guerra mondiale si fiaccarono a vicenda le due grandi potenze borghesi protestanti: la Gran Bretagna e la Germania; e si fiaccò anche la grande potenza borghese secolare, la Francia. In secondo luogo, la Rivoluzione bolscevica del 1917 significò per il mondo borghese esattamente ciò che questo aveva significato nel 1789 per il mondo feudale della vecchia Europa: la dissoluzione di tutti i suoi valori e principi. Per questa ragione la reazione anticomunista della borghesia accolse tutti gli elementi ideologici dei suoi avversari feudali, rivolgendoli contro il comunismo. La basilare opzione antiborghese delle Chiese si trasformò in un'opzione anticomunista. In terzo luogo, l'esito della seconda guerra mondiale segnò la fine del dominio mondiale dell'Europa. Dalle macerie dell'Europa si levano le due superpotenze: gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica. L'impotenza europea sfocia inoltre nella liberazione dei popoli dell'Africa, dell'Asia e dell'America Latina dal dominio coloniale e dall'imperialismo. Il futuro della storia universale cessa d'allora in poi d'essere determinato dall'Europa.

Dal ‛retaggio dell'Ottocento' nascono i compiti del nostro secolo. Noi possiamo individuare questo retaggio in una serie di contraddizioni, che debbono essere risolte se l'umanità vuol sopravvivere.

1. L'emancipazione dell'economia dalla religione, dalla morale e dalla politica ha condotto al liberalismo e quindi alla formazione del capitalismo. Se la contraddizione tra capitale e lavoro ha prodotto, nell'Ottocento, la crescita del proletariato, dalla metà del Novecento produce una disoccupazione dovunque in aumento. Gli sviluppi tecnico-scientifici tornano a vantaggio del capitale. Il crescente potere delle imprese multinazionali si sottrae sia al controllo degli Stati nazionali sia alla cogestione (Mitbestimmung) attraverso i sindacati. Questo sviluppo non è di utilità alla vita delle masse umane se non viene posto sotto il controllo umano.

2. La civiltà tecnico-scientifica - diventata ormai il destino dell'uomo - ha prodotto un enorme arricchimento, ma anche un illimitato accrescimento dell'umanità. Essa ha inoltre cacciato la natura e l'umanità in un disastro ecologico, dal quale non si vede ancora una via d'uscita. D'altra parte, senza il superamento della crisi ecologica non c'è sopravvivenza.

3. Le forme politiche della democrazia, sviluppatesi nel mondo borghese dell'Ottocento, non hanno incontrato nel nostro secolo un'ulteriore diffusione, e sono anzi divenute insicure anche nei paesi europei. Da un lato non esiste, per la realizzazione dei diritti umani, alcuna alternativa alla democrazia; dall'altro, è sempre più difficile raccogliere il consenso dei cittadini sulle questioni politiche fondamentali. Per questa ragione le vecchie forme della vita democratica cedono il passo dinanzi alle burocrazie moderne e ai controlli autoritari. Dittature militari sorgono dappertutto, in Occidente come in Oriente. Anche nelle vecchie democrazie è difficile difendersi da prassi autoritarie di governo.

4. L'Ottocento ha infine lasciato in eredità una razionalità europea, che ha raggiunto diffusione mondiale, senza però un'Europa potente e politicamente unificata. Di qui l'esigenza di una relativizzazione e integrazione dell'Europa in una cultura mondiale, che è soltanto ai suoi albori e la cui conformazione nessuno può prevedere.

2. La teologia nel Novecento

a) Anacronismi delle confessioni

Non si può prescindere dal fatto che tutti i gruppi e tutte le istituzioni di una società sono ‛sincroni', debbono cioè convivere nella medesima epoca. D'altra parte, i progressi sono sempre unilaterali: per questo nelle società moderne ci sono tanti anacronismi. Le rappresentazioni religiose e le modalità etiche di comportamento mostrano una particolare lentezza nel necessario adattamento a nuove situazioni e a nuove esigenze. Le forme della vita e dell'organizzazione ecclesiale posseggono una sorprendente forza d'inerzia. Il mondo moderno esige spesso dalla religione un'immutabilità persino maggiore che non le vecchie culture: la stabilità religiosa, evidentemente, deve controbilanciare l'instabilità della vita moderna. Per questo accade sovente che anche i problemi interni della teologia non coincidano con i problemi contemporanei della società nella quale vive. Le Chiese sussistono in un significativo anacronismo rispetto al mondo moderno. Di conseguenza, la teologia del Novecento è ancora in larga misura impegnata con i problemi di adattamento delle Chiese e dei cristiani agli sviluppi dell'Ottocento; e non ha preso quindi piena cognizione dei nuovi problemi del nostro secolo.

Anche tra le diverse Chiese è osservabile un certo sfasamento. I problemi teologici del mondo borghese, della civiltà scientifica e della secolarizzazione urbana furono recepiti ed elaborati dapprima dalla teologia protestante, poi - da un cinquantennio - dalla teologia cattolica e soltanto oggi dalla teologia ortodossa. Quella corrente della teologia protestante che va sotto il nome di ‛teologia liberale' si era conciliata sin dall'inizio dell'Ottocento con lo spirito borghese: la libertà di fede, la libertà di coscienza e la libertà delle Chiese locali costituiscono i presupposti della libertà della teologia stessa. Sulla scorta di Kant, questo indirizzo elaborò la teologia morale; sulla scorta di Friedrich Schleiermacher, la teologia della fede. Comune a entrambe è la nuova alleanza tra la fede, che viene limitata alla determinazione religiosa dell'esistenza personale, e la ragione scientifica interamente emancipata, di modo che la fede non ostacola la ragione e questa non dissolve la fede. Fu cosi evitata tutta una serie di conflitti col ‛modernismo', che scossero invece profondamente la teologia cattolica. Ma anche questo trattato di pace tra fede cristiana e ragione scientifica rimase vigente soltanto finché fu possibile guardare al mondo borghese come a un ‛mondo cristiano'. Anche questa forma del Corpus Christianum si dissolse negli orrori della guerra mondiale e nel terrore delle dittature fasciste.

b) La fine del Corpus Christianum

La Chiesa e la teologia attuali sono dominate da difficili processi di disgregazione del Corpus Christianum, nelle sue diverse formazioni storiche. La Chiesa ortodossa perdette, con il crollo dell'autocrazia cristiana nel 1917, i suoi ultimi sostegni politici. Aveva termine così la teocrazia bizantina, alla quale la teologia ortodossa era legata sin da Costantino il Grande. La Chiesa cattolica romana intraprese di propria iniziativa il processo di distacco dallo Stato cattolico nel Concilio Vaticano II (1962-1966). Il suo processo di rinnovamento avviene sotto l'insegna dell'‛aggiornamento' di papa Giovanni XXIII. La Chiesa evangelica in Germania si rese autonoma come ‛Chiesa confessante' nella lotta contro Hitler (1933-1945). Anche le altre Chiese di Stato e popolari europee assunsero atteggiamenti di resistenza comportandosi da libere Chiese, senza per questo diventare ‛Chiese libere' (Freikirchen). Tutte e tre le confessioni cristiane hanno sperimentato il distacco dallo Stato confessionale da esse improntato e si sono preparate ad accogliere un mondo secolarizzato e pluralistico. I cristiani imparano a vivere in un ambiente indifferente, post-cristiano e non-cristiano. Le Chiese imparano a reggersi con le proprie forze, senza privilegi politici. La teologia cristiana impara a farsi capire senza il presupposto di una ‛teologia naturale' ovvia e data per scontata. Questo processo di distacco può condurre all'universalizzazione della fede, della Chiesa e della teologia; può parimente condurre alla cristificazione della fede, della Chiesa e della teologia. Le nuove opportunità del cristianesimo nel Novecento si possono quindi formulare nel modo seguente: ‛fede' come fede cristiana (e non più come religione europea) e in un colloquio su scala mondiale con altre religioni e altre visioni del mondo; ‛Chiesa' come Chiesa di Cristo, e non più come ‛religione civile' dell'Europa nella sua missione universale; teologia aperta al mondo per la testimonianza dell'evangelo nella veniente cultura universale. La secolarizzazione del vecchio Corpus Christianum ha aperto alla Chiesa e alla teologia la positiva opportunità di diventare veramente secolari, vale a dire aperte sul mondo e di estensione mondiale. I processi di de-europeizzazione e universalizzazione della Chiesa e della teologia cristiane dominano il Novecento.

3. Alla ricerca della rilevanza secolare

Sino a che si sentì a casa nel Corpus Christianum, la Chiesa cristiana visse circondata da un mondo dominato e permeato dal suo spirito, in un mondo a essa conforme. In questo ‛mondo cristiano' la teologia poteva presupporre una ‛teologia naturale', sulla quale tutti consentivano in base al ‛sano buon senso'. Con ‛teologia naturale' s'intende una conoscenza di Dio generale e immediata: ognuno è in grado. di riconoscere, alla luce della propria ragione naturale, che Dio ‛esiste' e che Dio è ‛uno'. La teologia cristiana si fonda bensì sulla rivelazione di Dio, qual è testimoniata nella Sacra Scrittura, ma - nel Corpus Christianum - presupponeva questa teologia naturale come grado preliminare o propedeutico al riconoscimento della rivelazione. Nacquero così nel Medioevo le grandi sintesi di teologia cristiana e teologia naturale, di sacra dottrina e di prima philosophia. La metafisica di Aristotele e la sua ricezione, mediata da Tommaso d'Aquino, furono considerate come la formulazione evidente della conoscenza naturale di Dio. D'altra parte, la teologia cristiana, attraverso la sintesi con la prima philosophia della teologia naturale, assurse al rango di regina delle scienze. Sin dall'inizio del Rinascimento, le scienze si sono emancipate dai limiti e dalle leggi di questa metafisica teologica. Esse hanno edificato il proprio mondo, quello della civiltà tecnico-scientifica. Nelle moderne università la teologia è altrettanto poco ‛regina' quanto poco la Chiesa nel mondo moderno è ancora la ‛corona della società'. Ma, se il mondo delle scienze non è più unificabile in un cosmo del sapere secondo il metro di una metafisica teologica, la teologia perde allora, insieme con il predominio, anche la sua rilevanza. Le moderne teorie globali, con cui si reinterpretano incessantemente le scienze e i loro risultati, sono teorie postaristoteliche e, sinora, mostrano un'indole assolutamente ateologica. Diventa in tal modo problematica non già l'intima essenza della teologia, ma la sua competenza e rilevanza universale. La teologia, nella sua figura tradizionale, perde la sua funzione. Come può rendere comprensibile l'universalità del Dio Uno, se non può più presupporre una conoscenza generale e immediata di Dio? Quale funzione ha la teologia cristiana in un mondo delle scienze che si è emancipato dalla sua guida? Quale figura deve dunque assumere la teologia cristiana in un mondo secolarizzato, postcristiano, se deve preservare la sua specificità cristiana e d'altra parte dimostrare la sua universalità teologica? Questi problemi sono stati trattati sinora sotto l'etichetta della ‛teologia fondamentale' (cattolici) e dell'‛apologetica' (protestanti). La crisi ha però ormai raggiunto non solo l'aspetto esterno della teologia cristiana, ma anche la sua intima essenza. Troviamo perciò non solo adattamenti esterni della teologia allo spirito moderno, ma anche seri abbozzi di una forma nuova della teologia cristiana in generale. Tutti questi abbozzi vanno in cerca di ruoli e funzioni, in cui la teologia cristiana possa acquistare sia rilevanza (nella situazione attuale) sia competenza (riguardo ai problemi dell'età moderna). Il nuovo abbozzo della teologia nel suo insieme viene delineato a seconda dell'analisi della situazione sociopolitica e culturale-spirituale attuale. Si è dato a questo procedimento anche il nome di ‛metodo contestuale': il testo della teologia dev'essere riferito ogni volta al contesto in cui la teologia si trova. Presenteremo qui solo gli indirizzi più importanti: a) la ‛teologia ermeneutica'; b) la ‛teologia della secolarizzazione'; c) la ‛teologia della liberazione' e infine, al § d), ricapitoleremo le idee fondamentali della ‛teologia cristiana dell'età moderna'.

a) La coscienza critica e la demitizzazione del cristianesimo

L'immagine del mondo del Nuovo Testamento è un'immagine mitica: si parla del cielo, della terra e dell'inferno. La storia è uno scenario di forze soprannaturali: Dio, gli angeli, Satana con i suoi diavoli. Gli uomini non sono liberi, ma dominati dai diavoli o da Dio. A questa immagine mitica del mondo corrisponde la presentazione dell'evento salvifico in un linguaggio mitico: il figlio di Dio discende dal cielo alla terra, sacrifica la vita sulla croce, il terzo giorno viene risuscitato dai morti, regna ora dal cielo e tornerà il giorno del Giudizio. Per l'uomo moderno, che si è conquistato un rapporto razionale col mondo e con la storia, quest'immagine mitica del mondo è sorpassata. Di conseguenza, egli non può essere raggiunto dall'annuncio cristiano, se viene espresso in questo tradizionale linguaggio mitico. Chi si basa per tutta la settimana sulla validità delle leggi naturali, non può la domenica credere nei miracoli. Ma è l'annuncio cristiano incatenato all'immagine mitica del mondo? Esige la fede in Cristo anche il riconoscimento di questa antiquata visione del mondo? Non essendo certo questo il caso, l'annuncio cristiano deve liberarsi dall'immagine mitica del mondo, per poter rivolgersi agli uomini - nel mondo moderno, razionale - in un linguaggio non mitologico. A questo programma Rudolf Bultmann dà il nome di ‛demitizzazione'. Egli realizzava in tal modo il compito dell'indagine storico-critica della Bibbia e abbozzava le idee dominanti dell'‛interpretazione esistenziale', che hanno sinora fecondato l'ermeneutica della tradizione cristiana. L'immagine mitica del mondo propria della Bibbia fu sostituita con l'immagine scientifica del mondo propria dell'Ottocento. Il sentimento di dipendenza da forze soprannaturali fu superato dalla libera autocoscienza dell'uomo moderno. Qual è però il contenuto dell'annuncio cristiano e a chi esso si rivolge? Il messaggio cristiano testimonia la ‛fede', che gli uomini hanno trovato attraverso Cristo. Esso si rivolge non alla comprensione che l'uomo ha del mondo, ma alla sua autocomprensione. Anche nelle immagini mitiche del mondo, quali si trovano nella Bibbia, l'uomo ha anzitutto interpretato se stesso. Già nel mito si esprime l'autocomprensione del credente, non la ricerca di un'immagine obiettiva del mondo. È compito dell'esegesi critica del testo individuare nella modalità mitica di espressione il senso esistenziale dell'enunciato di fede, al fine di presentarlo all'uomo di oggi come possibilità della sua autocomprensione. La demitizzazione non è una riduzione ma un'interpretazione dell'annuncio cristiano. L'uomo è la creatura che deve interpretare e comprendere se stessa. Il problema fondamentale dell'uomo è se comprendersi a partire dal mondo e dalle proprie opere o se comprendersi a partire da Dio e dalla fede. L'annuncio cristiano riguarda unicamente questa decisione dell'uomo. Esso può quindi rinunciare a un immagine del mondo unitaria, religiosa, e sciogliersi dalle immagini del mondo delle epoche passate della cultura europea: l'interrogarsi dell'uomo su se stesso e sulla verità del proprio esser uomo sussiste indipendentemente da tali immagini, poiché è costitutivo dell'umanità dell'uomo.

La concentrazione bultmanniana della demitizzazione sull'interpretazione antropologica è stata, ed è, contestata. Anche quei teologi che hanno condiviso i suoi presupposti non hanno però accettato tutte le conseguenze. È possibile separare l'autocomprensione umana e l'immagine umana del mondo? Può l'uomo comprendere (verstehen) se stesso senza comprendere (begreifen) nel contempo il suo mondo? Non conduce l'interpretazione esistenziale nelle strettoie dell'esistenza privata borghese? La discussione sull'ermeneutica delle tradizioni religiose e culturali fondamentali ha aperto vasti orizzonti. Hans Georg Gadamer e Paul Ricoeur hanno elaborato un'ermeneutica filosofica delle tradizioni soggette a mutamento culturale, nella quale orizzonti diversi di comprensione e di interpretazione della vita si fondono, dando luogo a nuovi orizzonti. Non soltanto l'autocomprensione dell'uomo, ma anche la sua immagine del mondo è situata in una storia di ampliamento e approfondimento ermeneutico, come può vedersi nell'evoluzione della fisica da Euclide a Newton a Einstein. A torto Bultmann aveva conferito valore assoluto all'immagine naturalistico-scientifica del mondo, propria dell'Ottocento. In tutte le sfere della vita noi troviamo processi ermeneutici di interpretazione, applicazione e revisione di tradizioni determinate. Ha quindi senso interpretare come un'unità la comprensione del mondo e l'autocomprensione dell'uomo e sottoporre questa unità differenziata a quel processo di revisione che si renda necessario per rispondere alla sfida del futuro. Ciò vale anche per l'annuncio cristiano, che non può venir limitato all'anima o all'esistenza dell'uomo, ma riguarda insieme con l'uomo - se Dio è la potenza che tutto determina - anche il suo mondo e il cosmo.

L'interpretazione esistenziale dell'annuncio della fede cristiana è stata d'altra parte arricchita della dimensione politica. L'‛ermeneutica politica' (Jürgen Moltmann, Johann Baptist Metz, Dorothee Sölle, e altri) parte dal fatto che nell'immagine mitica del mondo propria della Bibbia non si esprimono soltanto la comprensione del mondo e l'autocomprensione proprie degli uomini di quell'epoca, ma si rispecchiano anche le lotte politiche di potere. Le tradizioni bibliche mostrano il confronto della promessa e dell'evangelo di Dio con la ‛religione politica'. Tutte le tradizioni del Vecchio Testamento discendono dall'esodo d'Israele dalla schiavitù in Egitto. Esse si radicano nell'esperienza della liberazione religioso-politica: il loro veicolo è la festa della Pasqua. Tutte le tradizioni del Nuovo Testamento si radicano nel resuscitamento di Cristo - crocifisso dai Romani come ribelle - ad opera di Dio. Si tratta di messaggi di una liberazione realmente esperita ed escatologicamente sperata. Per questa ragione l'annuncio cristiano deve anche oggi intervenire nel mondo in senso critico-liberatore e non può limitarsi alla ‛faccenda privata' del cittadino pio. L'ermeneutica politica vede nella Chiesa cristiana un fermento della critica e della liberazione dell'uomo dai limiti e dalle costrizioni della ‛religione civile' del mondo moderno. Essa interpreta la Bibbia come un libro ‛sovversivo', ‛rivoluzionario' in questo mondo di violenze disumane e di potenze lontane da Dio.

b) Il mondo secolare e la teologia della secolarizzazione

Con ‛secolarizzazione' s'intende, in senso stretto, la laicizzazione dei beni ecclesiastici e, in senso traslato, la mondanizzazione dei concetti religiosi; nel senso corrente, la società senza Chiesa, la morale senza religione, le scienze senza teologia e l'uomo senza Dio. Sin dagli esordi dell'illuminismo, del razionalismo e della rivoluzione la Chiesa e la teologia hanno condannato questa capitale evoluzione della società europea moderna come apostasia da Dio, come ribellione contro la religione e come ateismo destinato a condurre all'anarchia. Soltanto dopo la seconda guerra mondiale nacque una teologia critica che accolse positivamente la secolarizzazione per ripudiare unicamente il secolarismo.

L'influsso più forte fu quello di Dietrich Bonhoeffer, con le sue idee circa il ‛mondo adulto'. La secolarizzazione ha per lui il significato positivo di una sdivinizzazione del mondo, di una scoperta della sua mondanità: ‟Dio come ipotesi di lavoro morale, politica, scientifica è eliminato e superato [...]. Non possiamo essere onesti senza riconoscere che dobbiamo vivere nel mondo, etsi Deus non daretur" (v. Bonhoeffer, 1951; tr. it., p. 264). Sbaglia dunque la teologia quando vuole introdurre ‛Dio' come spiegazione in aree ancora scientificamente sconosciute della natura, ovvero come via d'uscita in problemi morali e politici di cui non si riesce a venire a capo. Essa deve rispettare la mondanità del mondo e salutare come un progresso la raggiunta età adulta dell'uomo libero. Questo è però possibile soltanto se la teologia del mondo moderno precisa la sua interpretazione meglio di quanto non abbia fatto sinora. Per Bonhoeffer, l'interpretazione religiosa del mondo è superata già dalla fede cristiana nell'incarnazione: Dio è entrato nella realtà del mondo e non sta più di fronte a essa. La vita nel mondo ‛senza Dio' si disvelò nel modo più radicale attraverso l'abbandono, da parte di Dio, del figlio di Dio sulla croce. Il Dio della Bibbia acquista potenza attraverso la sua impotenza nel mondo: ‟Solo il Dio sofferente può essere di aiuto". Dalla fede cristiana nel Dio incarnato e crocifisso, Bonhoeffer trae la conseguenza: ‟Il mondo adulto è senza Dio e, forse proprio per questo, più vicino a Dio che il mondo non ancora diventato adulto" (ibid., p. 267). Se pone termine all'epoca religiosa del cristianesimo, il mondo moderno senza religione dischiude però nel contempo le possibilità dell'autentica fede cristiana. L'illuminismo rende impossibile la medievale ‛teologia naturale' e rimanda la teologia cristiana a se stessa.

Anche Friedrich Gogarten ha elaborato una teologia del mondo secolarizzato, partendo però dall'antropologia. Sdivinizzando, sdemonizzando il mondo della natura, la scienza moderna ne ha fatto il mondo dell'uomo. Le scienze adempiono dunque il comandamento della creazione: ‟Assoggettatevi la terra". Esse liberano l'uomo dalle forze e dalle leggi della natura, di cui lo rendono padrone. Ma se il soggetto umano non può più comprendersi a partire dagli ordinamenti mondani, in qual modo potrà comprendersi? La risposta di Gogarten è: attraverso la fede l'uomo fonda la sua esistenza nel Dio trascendente e si comprende a partire da Dio e non più dal mondo. Egli diviene, cristianamente parlando, un ‛figlio di Dio'. Venendo però innalzato, nella comunione con Cristo, al rango di figlio di Dio, diventa anche l'erede del mondo, che Dio gli affida. L'immagine dell'uomo propria della fede cristiana e le nuove possibilità offerte dalla scienza e dalla tecnica convergono nel porre l'uomo ‛tra Dio e il mondo'. La scienza e la tecnica ‛ominizzano' il mondo, la fede cristiana umanizza l'uomo: chi trae la sua vita interamente da Dio, diventa libero dinanzi al mondo intero. Inversamente, questa libertà dal mondo e questo potere sul mondo sono conservati unicamente attraverso la fede. La vera fede in Dio fonda l'autonomia mondana dell'uomo e impedisce che l'uomo moderno, per paura della sua libertà, si rifugi nelle ideologie e nelle dittature.

L'americano Harvey E. Cox ha tentato una teologia della ‟città secolare": il crollo della religione e della morale tradizionali e la nascita di una nuova civiltà urbana coincidono, e costituiscono il contrassegno del mondo moderno. In una prospettiva sociologica secolarizzazione non vuol dir altro che urbanizzazione. Nella metropoli moderna (megalopoli, tecnopoli) la natura viene sdivinizzata, la storia sottratta al fato, la religione privatizzata; la morale diventa pluralistica e l'uomo sempre più mobile. La metropoli moderna diventa un crogiuolo di razze, popoli, religioni e culture. Essa costituisce la realtà sociale di un'epoca areligiosa, razionale e pluralistica. Le Chiese tradizionali non hanno sinora trovato alcuna risposta alle sfide della metropoli moderna, limitandosi per lo più a trasferire alla città la situazione della famiglia patriarcale e del villaggio. Ma se il cristianesimo vuole adattarsi alla città, si rendono necessarie trasformazioni fondamentali: la Chiesa deve comprendere se stessa, dinamicamente, come l'avanguardia del Regno di Dio; la teologia deve diventare la teologia del mutamento sociale; la fede cristiana deve dispiegare capacità di esorcismo culturale: nell'anonimità della metropoli, solo la fede personale conferisce la certezza della propria identità. Attraverso l'annuncio profetico l'evangelo libera gli uomini dai nuovi dei e demoni del consumo e della politica. Attraverso le comunità cristiane la Chiesa risana chi soffre di ferite e di malattie sociali.

La nuova ‛teologia politica' ha ripreso questi spunti. Essa affronta il mondo secolare con due idee guida: 1) il riconoscimento della radicale mondanità del mondo non è nient'altro che la presa di coscienza della sua storicità. Se gli uomini moderni non sperimentano più la realtà secondo il ritmo della natura, ma come storia aperta, allora soltanto la speranza nel futuro fornisce il criterio per patire e creare tale storia. Il futuro della storia è stato sempre compendiato, nella prospettiva cristiana, nel simbolo del Regno di Dio. In quest'orizzonte escatologico la Chiesa e il mondo non stanno più l'una di fronte all'altro, ma percorrono un unico cammino comune. L'orientamento verso il futuro, proprio dell'età moderna, è fondato sulla fede biblica nella promessa. In quest'orientamento la fede nella promessa si secolarizza. Il mondo moderno rivendica la fede come speranza e la teologia come fondazione del futuro (escatologia); 2) al riconoscimento della storicità del mondo è associato il moderno primato della prassi rispetto alla conoscenza. La prassi morale e politica verifica le teorie e ne sollecita di nuove. La moderna critica della religione non s'interroga più sull'essenza della religione, ma unicamente sulle sue funzioni pratiche, psichiche e politiche. Per questa ragione la teologia - nelle condizioni del mondo moderno - non può più essere mera teoria, deve diventare teoria pratica. Essa è necessariamente ‛teologia politica': la ‛riflessione della prassi' alla luce dell'evangelo e insieme il calarsi della fede nella prassi dell'impegno per la giustizia nella vita sociale. Sia l'orientamento escatologico sia la collocazione politica della teologia non soltanto conducono all'interno dell'epoca secolare, ma oltrepassano i confini della ‛religione civile' propria di quest'epoca.

c) Il Terzo Mondo e la teologia della liberazione

La liberazione dei popoli dal colonialismo europeo dopo la seconda guerra mondiale non ha significato la liberazione dall'imperialismo economico. Negli anni 1956-1966 si credette di poter superare il sottosviluppo dei popoli del Terzo Mondo attraverso una politica di sviluppo e gli aiuti per lo sviluppo. Sebbene predomini tuttora sia nella politica sia nella Chiesa, l'‛ideologia dello sviluppo' fu riconosciuta come un'illusione già nella Conferenza dei vescovi latinoamericani tenuta a Medellín nel 1968. La differenza tra il ‛primo' mondo e il Terzo Mondo cresce, il sottosviluppo si presenta come ‛sviluppo verso il basso'; la dipendenza e l'indebitamento dei popoli del Terzo Mondo aumentano enormemente. Per afferrare la situazione reale, l'ideologia dello sviluppo è stata sostituita con la ‛teoria della dipendenza'. Essa è il rovesciamento della teoria leniniana dell'imperialismo e dimostra che lo sviluppo complessivo del mondo torna sempre a vantaggio dei centri e delle metropoli del potere, mentre i popoli poveri vengono sempre più marginalizzati. Attraverso l'economia mondiale fondata sulla divisione del lavoro i paesi a monocultura sono costretti a produrre per i mercati mondiali, col risultato di distruggere le economie di sussistenza locali. Le moderne città di massa lasciano impoverire la campagna, sul piano economico come su quello culturale. Nel Terzo Mondo nasce oggi il proletariato della società mondiale. Dopo i tentativi, fatti per qualche tempo dalle Chiese, di elaborare una teologia e un'etica dello sviluppo è nata nell'America Latina dapprima una ‛teologia della rivoluzione' (Camilo Torres), e quindi la ‛teologia della liberazione' (G. Gutiérrez, J. L. Segundo, H. Assmann e altri), la quale assume come punto di partenza la teoria della dipendenza, al fine di portare le Chiese e i popoli nella lotta per la liberazione dall'oppressione. Le sue idee fondamentali derivano senza dubbio dalla teologia europea della speranza e dalla teologia politica; le sue condizioni di partenza sono però diverse, essendo costituite dalla situazione dei popoli poveri e oppressi del Terzo Mondo. La teologia è qui, e in modo radicale, la ‛riflessione critica della prassi' alla luce dell'evangelo. ‛Prassi' è, anzitutto, l'esperienza della vita vissuta, in questo caso l'esperienza della miseria, dello sfruttamento e della brutale oppressione del popolo. La teologia critica vuole perciò, anzitutto, scoprire il posto della Chiesa nella vita del popolo: è essa un potere repressivo e una complice del dominio o è la patria dei poveri e una forza per la loro liberazione? Le lotte di potere e di classe nell'America Latina mostrano come questo interrogativo spacchi la Chiesa in una Chiesa dei dominanti e in una Chiesa dei poveri. Se la teologia riflette l'esistenza della Chiesa alla luce dell'annuncio di Gesù che il Regno di Dio è per i poveri, essa deve allora diventare una teologia critica sia della società sia della Chiesa. Essa non può soltanto interpretare diversamente il mondo, deve volerlo cambiare. Essa conduce quindi, per interna necessità, a una nuova prassi: la liberazione degli oppressi. Rispetto alla teologia tradizionale, la ‛teologia della liberazione' non è soltanto una teologia diversa, è un altro modo di fare teologia. È una teoria eminentemente pratica: prima viene l'ortoprassi, poi l'ortodossia; prima viene l'impegno storico per la liberazione degli oppressi, poi la riflessione teologica. Di conseguenza, la teoria teologica comprende se stessa come un momento nella lotta per la liberazione, che trasforma il mondo. La sua meta è la creazione di una società giusta e solidale, che sia l'immagine - nella storia - del veniente regno divino della giustizia e della pace.

La teologia della liberazione, elaborata dapprima nell'America Latina, si è diffusa a partire dal 1968 in cerchie sempre più vaste. Il suo ‛metodo di azione-riflessione' fu accolto dalla ‛teologia nera' negli Stati Uniti e nel Sudafrica, come anche dalla ‛teologia femminista'. Dovunque classi, razze, stirpi e gruppi singoli diventino consapevoli, in questa società, del loro assoggettamento, della loro umiliazione e del loro sfruttamento, il metodo della teologia della liberazione si offre come una via per un futuro migliore. Lo sfruttamento dei poveri, l'umiliazione della gente di colore, l'oppressione delle donne, l'emarginazione degli handicappati costituiscono in molte parti del mondo un intreccio diabolico, che è ragione di infelicità e di morte per milioni di uomini.

La ‛teologia femminista della liberazione' merita particolare attenzione, perché l'oppressione delle donne perdura in molte culture nate dalla sostituzione del matriarcato primordiale con il patriarcato aggressivo. Tra queste figurano tutte le cosiddette culture superiori note. Il Vecchio Testamento è una testimonianza eloquente dell'oppressione dei culti cananei della Madre da parte della religione jahvista del Padre. Anche il cristianesimo ecclesiastico antico è una testimonianza religiosa del predominio dell'uomo. Nell'incipiente teologia femminista della liberazione si annuncia una rivoluzione culturale di grande portata, dalle conseguenze per il momento incalcolabili. La questione è se e in qual misura una tale teologia della liberazione della donna possa riallacciarsi alla tradizione biblica e cristiana o debba invece condurre a un distacco dal cristianesimo. La teologia femminista si occupa non soltanto della liberazione della donna dalla superiorità - religiosamente sancita - dell'uomo, ma anche della liberazione del corpo dalla superiorità dell'anima e della liberazione della natura dallo sfruttamento ad opera dell'uomo. Dove ha successo la teologia femminista conduce, oltre che alla liberazione della donna, a una nuova accettazione della corporeità umana e a una nuova comunanza con l'ambiente naturale. Come la teologia latinoamericana della liberazione, anch'essa ha in sé la tendenza alla liberazione universale. In fondo, le teologie della liberazione - pur nella specificità dei punti di partenza - sono tutte rivolte all'‟emancipazione umana dell'essere umano": altrimenti, non sarebbero teologie.

Rimangono tuttavia dei problemi aperti. Questa nuova funzionalizzazione della teologia nelle teologie della liberazione conduce forse a trascurare i contenuti della teologia? Si constata bensì un modo nuovo di fare teologia, ma, sinora, non nuove conoscenze teologiche. Il primato della prassi sulla teoria richiede un nuovo atteggiamento etico, che ideologizza la fede cristiana? Ad onta di questi interrogativi, rimane fermo che la fede cristiana è per sua natura fede messianica e che la fede messianica è sempre fede ‛liberatrice'. La teologia della liberazione rimane, nonostante tutti gli imprestiti ideologici, una ‛teologia cristiana'.

d) La teologia cristiana dell'età moderna

Le teologie del Medioevo erano teologie dell'‛amore'. Le teologie dei riformatori - Lutero, Zwingli, Calvino - erano nettamente teologie della ‛fede'. Ora, la questione fondamentale dell'età moderna è la questione del futuro. La teologia cristiana dell'età moderna deve dunque essere di necessità una ‛teologia della speranza'. Alla domanda: ‟che cosa posso sapere?" risponde, secondo Kant, la ragion pura. Alla domanda: ‟che cosa debbo fare?" risponde la ragion pratica. Alla terza domanda: ‟che cosa posso sperare?" deve rispondere la religione. Ma, per poter rispondere alla domanda sulla speranza, la teologia cristiana dev'essere ricostruita a partire dall'escatologia (dottrina delle cose ultime). Alla dottrina tradizionale della salvezza dell'anima in un aldilà celeste deve subentrare la dottrina del futuro del Regno di Dio, un futuro rinnovatore e del cielo e della terra. La tradizionale speranza nell'aldilà dev'essere integrata con la speranza nella trasformazione e nel rinnovamento della terra. All'atteggiamento di attesa passiva deve subentrare la speranza creativa, che anticipa già oggi ciò che sarà domani. Vengono riscoperte le componenti corporee e materiali della speranza cristiana nella resurrezione; ritrovano inoltre modo di manifestarsi le dimensioni cosmiche della speranza nella nuova creazione. Soltanto così la critica e la trasformazione del presente diventano possibili. Nell'Ottocento la speranza degli uomini era in larga misura impegnata dalla fede nel progresso, che veniva data per scontata dalla maggior parte dei movimenti, nella scienza come nella cultura. Dopo le catastrofi del Novecento, questa fede secolare è profondamente scossa e viene anzi spesso rovesciata nel suo contrario: si diffondono stati d'animo di ‛fine del mondo'. Il compito della teologia è oggi quello di formulare la speranza liberatrice in modo tale da evitare sia un suo assorbimento nella fede immanente nel progresso sia una sua degenerazione in angoscia apocalittica di fronte al futuro. La speranza cristiana nel Regno di Dio sostiene e mobilita tutte le speranze intramondane in una maggiore libertà e in una migliore giustizia; essa critica però anche, in esse, la hybris degli uomini. Per questo si oppone al pervertimento moderno della speranza in rassegnazione. Di là dalla hybris e dalla rassegnazione, la speranza in Dio conserva nella storia il tempo lungo della pazienza e la forza per rinascere da ogni sconfitta. Il nuovo orientamento della teologia verso il futuro si è manifestato nei dialoghi tra cristiani e marxisti come anche nel dialogo con le moderne teorie della storia e le teorie delle scienze naturali moderne.

Nell'età moderna, la teologia è necessariamente una ‛teologia della libertà'. Il mondo moderno è nato dai movimenti di liberazione, nei quali è tuttora impegnato. Poiché la Chiesa e la teologia si sono troppo a lungo mantenute fedeli al principio d'autorità, molti movimenti di libertà si associarono con l'ateismo. Se la teologia cristiana vuol superare l'‛ateismo moderno', deve anzitutto superare la sua inerzia e dimostrare che il Dio biblico dell'esodo del popolo e della resurrezione di Cristo non ostacola ma anzi fonda, preserva e difende la libertà dell'uomo. Un cristianesimo che si fondasse su queste tradizioni bibliche di libertà diventerebbe realmente la ‛religione della libertà' (Hegel). Un tale cristianesimo dovrà però superare il vecchio teismo teocratico e il principio di autorità nella Chiesa, da esso legittimato. Soltanto allora la cristiana religione della libertà sarà in grado di combattere in modo convincente - e di superare - le perversioni della libertà nel mondo moderno: l'anarchia e il dispotismo. Sinché la fede in Dio e l'autorità ecclesiastica mantengono l'uomo in uno stato di minorità infantile e di irresponsabilità, ogni critica della teologia all'evoluzione moderna della libertà sarà inattendibile.

Tra le libertà, che la teologia deve riconoscere e fondare, vanno annoverate: 1) la ‛libertà di religione': fu un grosso passo in avanti, quando la Chiesa cattolica - nel Concilio Vaticano II - riconobbe espressamente la libertà religiosa, per l'innanzi respinta; 2) la ‛libertà di fede': l'uomo moderno crede sulla base della propria esperienza e della propria decisione, non sulla base dell'appartenenza involontaria a una Chiesa; nella fede personale egli cerca e trova la sua identità interna, che lo libera dalle costrizioni sociali e politiche; 3) la ‛libertà di coscienza': l'uomo adulto è responsabile della sua vita e deve perciò agire secondo la sua coscienza; le Chiese possono acuire la coscienza degli uomini, ma non possono sottrarre ad alcuno la decisione secondo coscienza, decidendo per lui; 4) la ‛libertà delle comunità locali': nella società moderna le Chiese non possono più organizzarsi in grandi istituzioni, ma devono organizzarsi in comunità di popolo. Le Chiese sono vitali soltanto dove la comunità è vitale. Il futuro della Chiesa sta nella comunità carismatica, nella quale tutti i membri, con le loro capacità e possibilità, esercitano il sacerdozio universale dei credenti. Soltanto nelle comunità di base, che oggi nascono dovunque, trova la sua fine sia il teismo clericale sia l'ateismo laico; 5) la ‛libertà della teologia': la teologia è il compito comune dell'intera cristianità, non il compito particolare di specialisti appositamente formati. La teologia cristiana si forma sempre nella responsabilità di fronte alla Chiesa, ma non può essere assoggettata alle forze di volta in volta dominanti nella Chiesa. La teologia cristiana si forma anche nella responsabilità di fronte agli uomini nel mondo, ma non può consegnarsi alle ideologie di volta in volta dominanti nella società. La libertà della teologia nella responsabilità di fronte alla Chiesa e di fronte al mondo è il presupposto perché la teologia recepisca in modo autonomo i problemi della nostra epoca e contribuisca con le proprie forze alla loro soluzione.

4. Alla ricerca dell'identità cristiana

Sino a che la Chiesa si sentì a casa nel Corpus Christianum, la sua identità cristiana non era messa in discussione, ma data per scontata. Essa godeva di un riconoscimento generale sul piano religioso e morale come su quello sociale e politico. Nella cultura unitaria del mondo cattolico medievale e nella cultura unitaria del mondo protestante borghese la Chiesa era un elemento costitutivo integrato di una figura storica del cristianesimo. Con ‛cristianesimo' intendiamo appunto queste sintesi culturali di Chiesa e Stato, fede e religione, teologia e filosofia. Esse improntano la vita in determinate epoche e determinate aree. Quando diventano obsolete perché non più all'altezza delle sfide del futuro, le loro forme si disgregano. L'identità cristiana di queste sintesi culturali diventa allora problematica. Ci s'interroga nuovamente circa l'origine e la verità della fede cristiana. Agli inizi dell'età moderna in modo occulto e poi in modo palese a partire dalla Rivoluzione francese, il cristianesimo europeo - sia cattolico sia evangelico - attrayersa appunto una di tali crisi di identità, che annuncia la fine del Corpus Christianum. Per lungo tempo questa crisi fu percepita oscuramente e soffocata. Ma il soffocamento era esso stesso un segno della crisi d'identità e non certo una sua soluzione; esso ebbe come effetto la cristallizzazione delle forme e l'estinzione del contenuto della vita cristiana. Menzioniamo qui alcune reazioni tipiche. Alla sua espulsione dalla vita pubblica, nell'età moderna, la Chiesa ha spesso risposto con l'ecclesiasticizzazione della vita cristiana e la clericalizzazione della Chiesa, col risultato di cacciare l'esistenza cristiana in un ghetto sociale. Essa ha lamentato l'ateismo del mondo moderno e si è limitata al ‛resto' fedele, al piccolo gregge. Secondo l'opinione di molti contemporanei, la Chiesa ha cessato di essere la religione dominante dell'Occidente cristiano per diventare una setta ai margini della società moderna. Sintomi di mentalità settana nelle Chiese sono oggi la conservazione della tradizione senza la fondazione di nuove tradizioni, il biblicismo rigoroso senza la predicazione liberatrice dell'evangelo e il comportamento pauroso quanto intollerante nei conflitti intraecclesiastici. L'identità cristiana può allora essere formulata soltanto in opposizione al ‛mondo'. Si diffonde, riguardo ai rapporti tra Chiesa e mondo, un modo di pensare in termini di ‛amico-nemico'. Quella cristiana non è più un'identità aperta, invitante, ma un'identità aggressivo-ostile. In certi gruppi cristiani, quest'identità cristiana aggressiva viene intensificata in un'apocalittica separazione tra i giusti e i senza Dio, nella quale si annuncia la fine del mondo. All'espulsione della teologia tradizionale dalla discussione scientifica e dal dibattito culturale, i teologi hanno spesso reagito in modo analogo: si sono arroccati sulle loro particolari tradizioni, cercando con zelo ortodosso di conservarne l'integrità; hanno trascurato le necessarie innovazioni. Per questo la storia della teologia moderna è dominata da tante restaurazioni: neotomismo, neocalvinismo, neo-ortodossia, rinascenza agostiniana, rinascenza tomistica, ecc. Non c'è dubbio che queste tradizioni contengano tesori ancora insospettati, ma sono esse all'altezza delle sfide della nostra epoca?

Di altra indole è la ricerca di ciò che è originariamente cristiano, con la quale s'intraprende il cammino ad fontes. Questo cammino è associato con la volontà di riforma della Chiesa e della teologia e col rinnovamento dell'esistenza cristiana a partire dalla verità della sua origine, al fine di pervenire a una testimonianza autentica nell'età presente.

a) La riscoperta dell'origine: la Bibbia

Nella teologia cattolica s'incominciò a percorrere questa strada sotto il pontificato di Leone XIII. Intorno al volgere del secolo nacque la ‛scienza' cattolica. Dalle irrigidite formule di fede del presente si risalì alle tradizioni teologiche del Medioevo e alla Patristica, studiandole imparzialmente con i metodi della ricerca storica moderna. Attraverso queste tradizioni cristiane si giunse infine alla Bibbia stessa. Nacque così, nella Chiesa cattolica, la prima esegesi storico-critica, scientifica (A. Loisy, M.-L. Lagrange, L.M.-O. Duchesne e altri). L'applicazione dei moderni metodi storico-critici condusse invero a risultati tali da mettere in questione la tradizione ecclesiastica e la presente dottrina della Chiesa: nasceva la cosiddetta ‛crisi modernista', cui Pio X pose fine d'autorità nel 1907 col ‛giuramento antimodernista'. Ciò nonostante, ci fu uno slancio della teologia storico-scientifica, mentre sorgeva, contemporaneamente, un movimento cattolico di rinnovamento fondato sulla Bibbia. Lo spirito di rinnovamento della Chiesa e della teologia a partire dalla verità della loro origine s'impose poi nel Vaticano II, nel quale venne finalmente superata la mentalità difensiva, che era stata il frutto della crisi modernista. Le scienze bibliche trovarono il posto che loro spetta se si guarda alla verità dell'origine della teologia cristiana. Per il loro tramite, la teologia cattolica entrava a far parte della comunità ecumenica insieme con la teologia evangelica e quella ortodossa, giacché più una teologia si avvicina alla verità della propria origine e più diventa ecumenica. La scienza biblica cattolica ha trovato il suo posto nella scienza biblica ecumenica, anche se non ha raggiunto, nella teologia dogmatica cattolica, la stessa importanza centrale ch'essa possiede nella Chiesa evangelica.

Nella teologia evangelica le cose stanno altrimenti, giacché le scienze bibliche come indagine storico-critica delle Scritture originarie della fede cristiana ebbero inizio circa un secolo prima. Il problema centrale non era qui il rapporto tra Bibbia e tradizione ecclesiastica, ma il rapporto tra Cristo e Bibbia. L'indagine storico-critica della Bibbia, fin dai tempi di Reimarus e Semler (1778, 1779), fu guidata dal proposito di conoscere Gesù, di comprenderlo così come realmente fu. L'indagine storica della vita di Gesù condusse alla liberazione di Gesù dal dogma cristologico e alla liberazione della fede da costrizioni dogmatiche. Si dovette scuotere il dogma cristologico di Calcedonia per poter cercare il Gesù storico, come del resto soltanto attraverso la ricerca del Gesù reale, storico, si poté scuotere il dogma cristologico. Si cercava il Gesù storico per incontrarlo nella sua personalità reale e per conoscere ciò che è originariamente e inconfondibilmente cristiano: è Gesù stesso, infatti, che costituisce l'origine e l'identità del cristiano. Albert Schweitzer ha dato un'esposizione classica della Geschichte der Leben-Jesu-Forschung (1906): ‟Essa è una grande e originale impresa di verità, uno degli avvenimenti più significativi in tutta la vita spirituale dell'uomo". Il suo risultato è tuttavia ambiguo. Si era partiti per trovare il Gesù storico, pensando di poterlo trasferire, quale realmente è, come Maestro e Salvatore, nella nostra epoca. L'indagine storico-critica sciolse i legami che l'avevano avvinta per secoli alla roccia della dottrina della Chiesa e si rallegrò quando si vide venire incontro il Gesù storico: ‟Ma egli non si arrestò; passò accanto alla nostra epoca e ritornò nella sua". L'indagine storico-critica scopriva cioè l'estraneità di Gesù rispetto al nostro tempo e ai bisogni della nostra cultura, quando riconosceva nel messaggio escatologico del veniente Regno di Dio il centro dell'intera sua esistenza storica. Se Gesù comprendeva se stesso interamente a partire da questo messaggio, allora già in lui stesso risiede l'origine della cristologia ecclesiastica: vero uomo e vero Dio. L'indagine storica della vita di Gesù non produsse quindi, in definitiva, un'alternativa umanistica all'annuncio di Cristo da parte della Chiesa, bensì trasferì quest'annuncio all'origine facendone il suo criterio di verità: il Cristo annunciato è Gesù di Nazareth. Ciò che dev'essere considerato ‛cristiano' deve perciò manifestarsi in Gesù stesso e nel suo messaggio. Gesù stesso e nessun altro è l'origine e il principio di ogni teologia cristiana. Egli è il criterio per la discretio spirituum; è il ‛canone nel canone', il principio interno di distinzione nel Nuovo Testamento. Man mano che seguiva questo principio e comprendeva la divisa della Riforma sola scriptura come espressione esterna del vero principio cristiano solus Christus, la scienza biblica evangelica influiva sull'incipiente scienza biblica ortodossa e su quella cattolica e diventava essa stessa ecumenica. La strada ad fontes condusse, sul versante cattolico, alla scoperta della Bibbia come origine e criterio della tradizione ecclesiastica; su quello protestante, alla scoperta di Gesù come origine e criterio delle tradizioni neotestamentarie. Dalle due scoperte derivano quelle riforme della teologia e della Chiesa che rendono, nel nostro tempo, riconoscibile l'autentica identità cristiana. Con particolare veemenza la riscoperta della Bibbia ha portato alla ribalta il Vecchio Testamento. Esporremo dapprima il significato - per la teologia e per la Chiesa - della nuova ‛teologia del Vecchio Testamento', per passare quindi al problema cristologico, riaperto dall'indagine storica del Nuovo Testamento.

b) Il significato del Vecchio Testamento

Storicamente, il cristianesimo è scaturito dal giudaismo. Il Nuovo Testamento presuppone il Vecchio Testamento. Nella determinazione teologica del rapporto tra Nuovo e Vecchio Testamento e del significato di quest'ultimo per la Chiesa si decide dunque nulla di meno che l'identità cristiana rispetto al giudaismo. Perché la Chiesa cristiana conserva la Torà d'Israele come il proprio ‛Vecchio Testamento', e con quali occhi i cristiani leggono il Vecchio Testamento? Il campione della teologia liberale protestante A. von Harnack affermava nel 1923: ‟Ripudiare il Vecchio Testamento nel secondo secolo fu un errore che la Chiesa ha giustamente emendato; mantenerlo nel XVI secolo fu un destino al quale la Riforma non poté sottrarsi; ma conservarlo ancora, dall'Ottocento, come documento canonico del protestantesimo è la conseguenza di una paralisi religiosa ed ecclesiastica". Harnack portava così alla luce l'imbarazzo della Chiesa e della teologia cristiana di fronte al Vecchio Testamento. Appartiene il Vecchio Testamento al canone per necessità teologica o per un accidente storico? Ha esso un suo messaggio per la Chiesa di Cristo? Qual è il suo significato per il rapporto della Chiesa con la Sinagoga e con Israele? Riguardo al Vecchio Testamento, la teologia cristiana ha elaborato una serie di punti di vista divergenti.

1. Il punto di vista dell'indifferenza per la religione. In questa prospettiva, sia il giudaismo sia il paganesimo sono per il cristianesimo religioni estranee. In quanto ‛religione di salvezza', il cristianesimo parla a tutti gli uomini - siano ebrei o pagani -, giacché tutti gli uomini sono eguali nel loro bisogno di salvezza. La religione cristiana di salvezza esisterebbe anche se Israele non fosse esistito, ed esisterebbe anche se non ci fossero più ebrei. Il Vecchio Testamento è associato al Nuovo unicamente dalla casualità storica. Da quando è apparso il redentore Cristo, esso non ha più nulla di proprio da dire. Questo punto di vista fu espresso dal teologo evangelico Friedrich Schleiermacher nella sua influentissima ‛dottrina della fede': ‟Il cristianesimo si trova bensì in una particolare connessione storica con il giudaismo, ma, per quanto riguarda la sua esistenza storica e la sua finalità, si rapporta in modo identico al giudaismo e al paganesimo". Ora, se il Vecchio Testamento è soltanto il libro di fede della religione giudaica, allora non si vede perché la Chiesa cristiana lo conservi e perché non lo baratti con le scritture religiose dei popoli in cui si è insediata. Soltanto quando i cosiddetti ‛cristiani tedeschi' sotto Hitler vollero sostituire il Vecchio Testamento con le saghe germaniche dell'Edda, molti teologi compresero l'insostituibile significato del Vecchio Testamento per la fede e la teologia cristiana.

2. Il punto di vista del contrasto necessario per la salvezza. In questa prospettiva, il cristianesimo è nato dalla contrapposizione radicale al giudaismo e in questa contrapposizione continua a vivere: il Vecchio Testamento rivela la legge di Dio, il Nuovo Testamento l'evangelo di Dio; il Vecchio Testamento insegna la legge della retribuzione, il Nuovo Testamento lo spirito dell'amore; il Vecchio Testamento si rivolge unicamente al popolo eletto degli Ebrei, il Nuovo Testamento è aperto a tutti gli uomini. Il Vecchio e il Nuovo Testamento, Israele e la Chiesa sono visti in reciproca contrapposizione; si tratta però di una contrapposizione necessaria al riconoscimento della novità del Nuovo Testamento e della specificità della Chiesa. Questo punto di vista è rappresentato sovente dai teologi della tradizione luterana. Da ultimo, Rudolf Bultmann ha definito la storia d'israele, qual è testimoniata nel Vecchio Testamento, come ‟una storia del fallimento" del popolo ebraico nei confronti di Dio, della sua legge e della sua elezione, per sottolineare quindi positivamente la giustificante fede in Cristo: ‟La fede abbisogna, per esser sicura di se stessa, di sapere il senso della legge; altrimenti soggiacerebbe alla seduzione della legge. La situazione del giustificato s'innalza unicamente sulla base del fallimento". Ma ciò non significa altro che la fede cristiana abbisogna del ricordo della legge di Dio solo in quanto follia negativa, e che il Vecchio Testamento viene conservato, come esempio da cui rifuggire, per rassicurare se stessa. Da questo punto di vista, la teologia cristiana elabora una teologia del Vecchio Testamento come una teologia negativa, mirante a porre se stessa nella giusta luce. Questa contrapposizione tra cristianesimo e giudaismo si è, purtroppo, largamente diffusa attraverso la predicazione: qui il samaritano misericordioso, là il fariseo sicuro di sé; qui la Chiesa veggente, là la Sinagoga cieca.

3. Il punto di vista della successione nella storia della salvezza. Valutata da questo punto di vista, la storia d'Israele è soltanto la ‛preistoria' del cristianesimo e il Vecchio Testamento una ‛preparazione' del Nuovo. Il popolo d'Israele è servito alla preparazione storico-salvifica per l'avvento della Chiesa universale. Dall'avvento di Cristo la Chiesa è subentrata a Israele, dato che il Vecchio Testamento trova il suo compimento nel Nuovo. ‟La Chiesa poggia bensì su Israele in quanto popolo eletto da Dio, ma Israele si risolve a sua volta nella Chiesa. La Chiesa è ora il vero popolo di Dio", spiegava il teologo luterano Paul Althaus. In modo analogo si esprime la Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane del Vaticano II: ‟La Chiesa di Cristo riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovavano già, secondo il mistero divino della salvezza, nei Patriarchi, Mosè e i Profeti. Essa afferma [...] che la salvezza della Chiesa è misteriosamente prefigurata nell'esodo del popolo eletto dalla terra di schiavitù [...]. La Chiesa crede, infatti, che Cristo, nostra pace, ha riconciliato gli Ebrei e i Gentili per mezzo della sua Croce e dei due ha fatto una sola cosa in se stesso" (Concilio Ecumenico Vaticano II. Costituzioni, decreti, dichiarazioni, Milano 19664, pp. 368-369). Secondo questa diffusissima concezione, il cristianesimo è il compimento e insieme il superamento del giudaismo, il quale, di conseguenza, non ha un proprio posto accanto alla Chiesa nella storia divina della salvezza. In quanto ‛Vecchio Testamento' della Chiesa, la Torà ha perduto il suo significato.

4. Il punto di vista della comunità profetica. In questa prospettiva, ciò che è proprio e specifico del Vecchio Testamento viene riconosciuto in quella ‛sovrabbondanza' di promesse che se non hanno ancora trovato, con l'avvento di Cristo e l'esperienza dello Spirito, una realizzazione universale, hanno però trovato in linea di principio un avvio di attuazione. Sono le promesse del Regno di Dio, che rinnova il cielo e la terra, e del regno della libertà, che porta la pace a tutte le creature. Il Nuovo Testamento non annuncia né il compimento né la cancellazione di queste promesse del Vecchio Testamento, bensì la loro conferma attraverso Cristo e la loro estensione - attraverso la Chiesa - a tutti i popoli. Già Gioacchino da Fiore aveva rappresentato questa concezione nel XII secolo. Essa è vitale nella tradizione della teologia riformata: nella sovrabbondanza delle sue promesse il Vecchio Testamento ha un ‛plusvalore' per il Nuovo Testamento. Attraverso il messaggio del Nuovo Testamento, le speranze d'Israele abbracciano gli uomini di tutti i popoli. Il futuro del Nuovo Testamento è lo stesso futuro del Vecchio Testamento: entrambi hanno di mira il Regno di Dio. Soltanto in questa concezione il Vecchio Testamento viene preso teologicamente sul serio, così come viene riconosciuto lo specifico significato della Sinagoga e d'Israele accanto alla Chiesa di Cristo. Ebrei e cristiani hanno un libro e una speranza in comune (Martin Buber).

Il cristianesimo acquisisce la sua identità originaria non attraverso la negazione, il ripudio o la successione al giudaismo, ma soltanto nella comunanza delle promesse di Dio e delle speranze d'israele. La recente ‛teologia del Vecchio Testamento' (G. von Rad, W. Zimmerli, e altri) è il Ponte verso quest'origine comune e la guida verso il futuro che ebrei e cristiani hanno in comune. La Chiesa legge la Torà d'Israele come il libro della propria speranza nel Regno di Dio. Essa trova nel messia Gesù, secondo la testimonianza del Nuovo Testamento, l'accesso a questa speranza.

c) Il problema cristologico e il Nuovo Testamento

La specificità del cristianesimo è contrassegnata dal nome di Gesù Cristo. Questo nome, che suona come un nome duplice, è in verità un nome e un titolo: Cristo è il messia di Dio. Per questo il problema critico della teologia è il seguente: è Gesù realmente il Cristo? è il messia di Dio apparso in Gesù di Nazareth?

Sin dalle sue prime confessioni di fede, la Chiesa ha assunto il Nuovo Testamento come prova del suo dogma cristologico: Gesù Cristo è il figlio unigenito di Dio (simbolo apostolico, simbolo niceno). Il Nuovo Testamento divenne il fondamento della dottrina ecclesiastica di Cristo, della cristologia. Questa cristologia è tuttavia ab antiquo una ‛cristologia dall'alto': essa comincia nel cielo, discende con l'incarnazione del figlio di Dio nella storia di Gesù di Nazareth, accompagna il figlio di Dio fatto uomo dalla Galilea a Gerusalemme, lo vede morire sulla croce del Golgota, vive la resurrezione dai morti il terzo giorno, ascende con lui in cielo e attende il suo ritorno il giorno del giudizio. Questo schema cristologico della discesa del redentore sulla terra e della sua ascensione al cielo è un vecchio mito religioso precristiano. Fu applicato già alle origini (Filippesi, 2) all'itinerario di Gesù da Dio agli uomini e dagli uomini a Dio. Ora, corrisponde Gesù a questo mito cristologico?

Sino all'età moderna, gli uomini sentivano e pensavano in chiave metafisica: l'esistenza di Dio era considerata certa e indubitabile: soltanto la creatura caduca era sperimentata come incerta e problematica. Riguardo a Cristo, essa non si chiedeva se Gesù fosse Dio, bensì se egli fosse realmente e autenticamente uomo.

La ‛svolta antropologica' nel pensiero dell'età moderna ha capovolto il problema di Cristo: non l'umanità di Gesù è problematica, ma la sua divinità. Non è più possibile presupporre l'esistenza di Dio in cielo, per poi riconoscere in Gesù di Nazareth il figlio di Dio fatto uomo. Bisogna, all'inverso, partire dall'uomo Gesù di Nazareth per riconoscere Dio. Di conseguenza, nelle condizioni del pensiero moderno la cristologia è sempre, programmaticamente, ‛cristologia dal basso'. Vedere la strada di Gesù ‛dall'alto' è possibile soltanto dal punto di vista di Dio. Gli uomini vivono ‛in basso' sulla terra e la loro conoscenza è limitata alla sfera delle loro possibilità di esperienza. Essi incontrano non l'eterno figlio di Dio in cielo, ma l'uomo Gesù di Nazareth. Sono il messaggio ch'egli reca su Dio e il suo rapporto con Dio che possono rivelare agli uomini la sua qualità di figlio di Dio. La vecchia ‛cristologia dall'alto' era sempre cristologia dell'‛uomo di Dio' Cristo: natura divina e natura umana in una persona. La svolta moderna verso la ‛cristologia dal basso' comincia invece con Gesù l'‛uomo di Dio'; la sua divinità consiste nella forza senza cedimenti della sua coscienza di Dio. La sua umanità senza peccato è la prova della sua divinità. La sua efficacia redentrice consiste nel fatto ch'egli rafforza la nostra oscurata coscienza di Dio (Schleiermacher). Noi dobbiarno dunque lasciare che la sua umanità - nella sua personalita storica - agisca su di noi per riconoscere la sua divinità nella peculiare coscienza ch'egli aveva di Dio (W. Herrmann). La cristologia dal basso è sempre cristologia dell'umanità. Vari indirizzi di questa cristologia moderna ravvisavano l'umanità di Gesù nella sua esemplare ‛coscienza religiosa', seguendo in ciò Schleiermacher; altri sottolineavano la sua esemplare ‛morale', in ciò seguendo Kant e A. Ritschl. Oggi si sottolinea volentieri l'esemplare ‛umanità' di Gesù: la sua totale devozione sia a Dio sia agli uomini è il contrassegno peculiare di Gesù. Ponendosi al suo seguito, nel mondo di oggi, l'uomo può vivere una vita veramente umana (H. Küng).

Ma questa moderna cristologia antropologica non presuppone forse la vecchia cristologia teologica? Come potrebbe cominciare una ‛cristologia dal basso', se non si presupponesse un ‛alto' ch'essa spera di raggiungere ? Se non fosse stato annunciato come fornito di autorità divina, perché Gesù di Nazareth non dovrebbe essere annoverato tra i grandi uomini della storia universale (Buddha, Socrate, ecc.), che svolgono un ruolo esemplare e determinante quanto alla vera umanità dell'uomo? La moderna cristologia dal basso è una correzione ragionevole della vecchia cristologia dall'alto; essa non può tuttavia esistere da sola senza dissolversi. Ogni cristologia - già nel titolo ‛Cristo' - presuppone Dio, e precisamente il Dio d'Israele, il Dio della speranza. Nella teologia moderna si riscontra una grande divisione tra la teologica cristologia dall'alto, quale fu elaborata da ultimo da Karl Barth, e l'antropologica cristologia dal basso, qual è stata recentemente rappresentata da Wolfhart Pannenberg. Quali che siano le decisioni ex cathedra in questa materia, abbiamo in realtà a che fare non con un'alternativa, ma con prospettive che si integrano reciprocamente. Le due cristologie sono da porre in reciproco rapporto dialettico: altrimenti, nasce o una cristologia senza Gesù o una gesuologia senza Cristo.

Se ci rifacciamo alle tradizioni neotestamentarie, constatiamo che la storia di Gesù Cristo è sempre illuminata da due lati: viene raccontata alla luce della sua missione storica e viene ricordata alla luce della sua resurrezione escatologica. Non sono, queste, le prospettive metafisiche ‛dall'alto' e ‛dal basso', bensì le prospettive storiche ‛in avanti' e ‛a ritroso'. Gli evangeli (sinottici) narrano la storia di Gesù alla luce della sua missione messianica e del suo messagio sul Regno di Dio. Essi presentano la sua vita come una conseguenza del suo messaggio. La sua missione si compie nella passione e morte sulla croce del Golgota. Le lettere degli apostoli partono invece dalla resurrezione di Cristo e annunciano il Signore presente nello Spirito. Solo occasionalmente, riguardo alla tradizione eucaristica, Paolo si richiama al Gesù terreno. Naturalmente, anche gli evangeli raccontano la storia della missione di Gesù alla luce della sua resurrezione: altrimenti la sua storia non sarebbe mai stata raccontata; e, naturalmente, anche Paolo ricorda la storia del Signore risorto alla luce della sua missione messianica. Le due prospettive - in avanti e a ritroso - si integrano e si correggono reciprocamente. Nulla può essere annunciato del Signore risorto che contraddica il Gesù terreno: il Gesù terreno crocifisso rimane l'unico criterio per ogni annuncio di Cristo, giacché ‟il Signore è Gesù" e nessun altro. Ma nulla può essere raccontato del Gesù terreno che contraddica l'annuncio del risorto e l'esperienza della sua presenza nello Spirito: il Signore risorto rimane il presupposto per ogni ricordo e racconto della storia di Gesù. Il punto nel quale la storia di Gesù e l'annuncio di Cristo coincidono è la ‛croce' sul Golgota. Alla luce della sua vita, è la sua morte il termine della sua missione messianica; alla luce della sua resurrezione, la sua morte è il suo vero inizio e il principio del Regno di Dio sulla terra. Per questa ragione la teologia recente - rispetto all'antica cristologia dall'alto e alla moderna cristologia dal basso - ha posto con forza crescente la ‛croce di Gesù Cristo' al centro della cristologia e della teologia cristiana: nella croce di Cristo si rivela chi è il vero Dio; nella croce di Cristo si rivela chi è il vero uomo. Nel crocifisso vengono conosciuti insieme il Dio dell'uomo e l'uomo di Dio. La teologia cristiana è, nel suo centro, una teologia della croce; vale a dire: la pietra di paragone di ogni teologia è la risposta ch'essa fornisce al grido di Gesù morente: ‟Mio Dio, perché mi hai abbandonato?".

Gli ultimi sviluppi della teologia hanno posto questa domanda di Gesù a Dio, accanto al problema cristologico, all'inizio della riflessione. È stata in tal modo recepita anche la domanda a Dio dell'uomo sofferente del nostro tempo (H. Urs von Balthasar, H. Mühlen, E. Jüngel, W. Kasper, J. Moltmann). Ciò che è originariamente e inconfondibilmente cristiano fu in ogni tempo e da tutte le Chiese contraddistinto col segno della croce. Il Cristo crocifisso, che con la sua morte redime e con il suo Spirito chiama gli uomini al suo seguito, è l'unico elemento determinante del cristianesimo. In lui Dio si identifica con l'uomo colpevole e sofferente; in lui gli uomini trovano la loro vera identità, un'identità conforme a Dio.

Nell'odierna disgregazione delle consuetudini e sicurezze del Corpus Christianum, l'identità cristiana diviene malcerta e problematica. I cristiani e le Chiese sono costretti a rifarsi a ciò che v'è di originario e di essenziale nella loro fede. In questa strada verso la verità dell'origine essi scoprono nuovamente la Bibbia: la teologia dogmatica deve fondarsi sulla ‛teologia biblica' se vuol dare una risposta alla domanda circa l'origine e l'essenza del cristianesimo. Questa necessità libera la teologia dai condizionamenti sia della cultura cattolica sia del mondo borghese-protestante, le conferisce la sua autonomia e la sua peculiarità cristiana e rende nettamente kerygmatiche le sue formulazioni. Nell'originaria ed essenziale testimonianza biblica la teologia trova colui che ne fa una ‛teologia cristiana': Gesù il Cristo di Dio. La sua missione messianica, la sua dedizione sino alla morte sulla croce e il suo resuscitamento nella vita eterna sono le fonti di tutto ciò che può essere rilevante per un'esistenza cristiana oggi. Gesù Cristo non è un oggetto della teologia, ma l'unico soggetto - che tutto determina - di ogni teologia che si pretenda cristiana.

5. La teologia nell'epoca ecumenica

Con la disgregazione dell'Impero romano si disgregò anche la cristianità, che in esso trovava un'organizzazione unitaria. Nel 1054 avviene la divisione tra Chiesa d'Oriente e Chiesa d'Occidente. Bisanzio e Roma, Oriente e Occidente percorrono strade separate. Nella spaccatura seguita alla Riforma nel Cinquecento andò in pezzi anche l'unità dell'Occidente cristiano. Sul piano politico, ebbe inizio l'epoca delle guerre di religione; sul piano teologico, l'‛epoca confessionale'. L'Europa raggiunse la pace politica dopo la guerra dei Trent'anni soltanto con la formazione del moderno Stato secolare, confessionalmente neutrale, e con il dispiegamento di una cultura della tolleranza religiosa. Con la necessaria separazione della Chiesa dallo Stato, l'‛epoca secolare' dissolse le forme tradizionali del Corpus Christianum. Tutte le Chiese cristiane d'Europa furono dunque costrette a reggersi con le proprie forze e a cooperare con sempre maggiore intensità. Le risposte della cristianità alla fine dell'antico Corpus Christianum furono: 1) il movimento missionario del Sette e Ottocento, il più grande movimento missionario nella storia della cristianità; 2) il movimento ecumenico, con il quale - dopo una storia secolare di scissioni e di separazioni - ebbe inizio una nuova epoca di collaborazione, di comunanza e di riunificazione delle varie Chiese cristiane. Il movimento missionario e il movimento ecumenico sono nati insieme e vanno di pari passo. Per effetto di entrambi le Chiese sono state liberate dal provincialismo europeo e dal particolarismo confessionale e poste sulla strada di una Chiesa universale dei popoli.

a) Superamento del confessionalismo

L'ingresso delle Chiese nell'‛epoca ecumenica' ha per le ‛teologie ecclesiastiche' rilevanti conseguenze, che sono venute alla luce solo lentamente. Le teologie ecclesiastiche non possono più servire all'autocomprensione delle proprie confessioni e alla loro delimitazione rispetto alle altre confessioni. La teologia cattolica e la teologia protestante debbono comprendere se stesse come strade verso una teologia cristiana comune. Nella vecchia ‛epoca confessionale' la teologia serviva a consolidare le varie identità confessionali. Di conseguenza, essa era sempre anche una ‛teologia controversistica', mirante a enucleare le differenze dottrinali, cioè gli elementi di separazione rispetto alle altre confessioni. Nell'epoca ecumenica le diverse teologie ecclesiatiche debbono interrogarsi sugli elementi comuni, per rendere possibili la necessaria convivenza e collaborazione delle Chiese. Ciò non conduce a una mescolanza delle confessioni o all'indifferenza teologica nei confronti della verità, ma a una riflessione sull'essenziale. Viene alla ribalta l'interrogativo circa la vera Chiesa. Se ci s'interroga sulla vera Chiesa all'interno della propria struttura ecclesiale, ci si dovrà porre lo stesso interrogativo anche all'interno di tutte le altre strutture ecclesiali. In tutte le Chiese cristiane, ad onta delle scissioni e delle reciproche condanne, è sempre rimasta viva - sino a che Cristo viene confessato come unico Signore della Chiesa - la consapevolezza dell'unità della Chiesa. Per questa ragione la svolta della teologia dall'ostinatezza confessionale alla concordia ecumenica è stata più facile di quanto molti si aspettassero. La teologia è divenuta oggi in tal misura compito comune di tutte le Chiese cristiane che spesso è ormai impossibile riconoscere l'origine confessionale dei diversi contributi.

Si può esemplificare il cammino della teologia nell'epoca ecumenica attraverso il caso della commissione ecumenica ‟Fede e costituzione", del Consiglio ecumenico delle Chiese, fondata nel 1927. I movimenti per le missioni nel mondo e il movimento ‛per il cristianesimo pratico' erano nati già prima. Per la collaborazione delle Chiese nelle missioni e nel servizio si seguiva la semplice divisa: ‟La dottrina divide, il servizio unisce". La prassi dell'amore e non la dottrina teologica della fede sembrava essere il campo favorevole alla collaborazione e alla comunanza. Era pertanto un rischio ricercare, nel 1927, questa comunanza anche nel campo della dottrina teologica e della costituzione ecclesiale. La Chiesa cattolica romana rifiutò in un primo tempo di collaborare. Dopo oltre cinquant'anni di lavoro comune, può dirsi che il tentativo è riuscito. I teologi cattolici partecipano da lungo tempo come osservatori, come consulenti e ora come membri. I teologi ortodossi sono rappresentati in tutti i gruppi. È oggi raggiunto un primo consenso sugli importanti problemi del battesimo, dell'eucaristia e del ministero ecclesiastico.

Il cammino teologico cominciò nelle prime Conferenze ecumeniche con il tentativo di una ‛dottrina comparata della Chiesa' (Conferenza di Edimburgo, 1937). S'imparava a conoscersi reciprocamente nella speranza che una migliore comprensione delle vedute divergenti in materia di fede e di costituzione ecclesiale avrebbe condotto a un approfondimento del desiderio di riunificazione e a corrispondenti deliberazioni ufficiali delle Chiese. Il primo, sconcertante risultato fu una sorta di ‛consenso negativo': si scoprì che le differenze dottrinali tradizionali non debbono essere necessariamente considerate come elementi di separazione tra le Chiese. Le particolari dottrine delle diverse Chiese non debbono necessariamente avere una formulazione esclusiva, possono anche averne una inclusiva. Non debbono necessariamente condurre all'esclusione degli altri, ma possono anche condurre al loro completamento e arricchimento. In questa fase, le diverse tradizioni teologiche erano bensì mantenute, ma ricevevano però una nuova valenza non più confessionale ma ecumenica. Non si trovavano più ragioni per la separazione delle Chiese, ma non si poteva ancora formulare la fede comune.

La Conferenza mondiale delle Chiese a Lund nel 1952 produsse una svolta dalla dottrina comparata della Chiesa alla ‛dottrina cristologica' della Chiesa: ‟Abbiamo riconosciuto che non possiamo fare alcun reale progresso verso l'unità se compariamo tra di loro le nostre diverse concezioni della natura della Chiesa e le tradizioni a esse associate. È risultato invece evidente che la nostra vicinanza reciproca aumenta quando ci avviciniamo a Cristo. Per questa ragione dobbiamo, al di là delle nostre divisioni, aprirci la via verso una più profonda comprensione del mistero dell'unità - dataci da Dio - di Cristo con la sua Chiesa". Da allora il cammino ecumenico ha condotto dalle diverse tradizioni ecclesiali e teologiche a quella tradizione originaria della fede cristiana che è contrassegnata col nome di Cristo. Su questo cammino dai bracci ramificati del fiume alla fonte comune, le Chiese oltrepassano le loro divisioni storiche e scoprono la loro comunione nell'Una Chiesa di Cristo. Proprio la concentrazione cristologica delle discussioni teologiche ha condotto alla scoperta della comunanza ecumenica nella Chiesa una e universale, la cui unità non risiederà nell'uniformità delle concezioni della fede e degli usi religiosi, bensì nella comunione eucaristica di tutti i cristiani. L'eucaristia è stata sempre la fonte di forza della Chiesa. La comunione eucaristica è anche la meta di ogni comunanza ecumenica dei cristiani. Per questa ragione, i documenti presentati nel 1981 a tutte le Chiese sul ‛battesimo', l'‛eucaristia' e il ‛ministero' sono idonei alla formulazione di quel consenso teologico positivo, che è necessario alla piena comunione eucaristica.

Il cammino del movimento ecumenico è abbastanza chiaramente riconoscibile: ha condotto dall'‛anatema' al ‛dialogo' e quindi dal dialogo alla ‛cooperazione'; condurrà dalla cooperazione alla ‛comune confessione di fede'. La decisione a questo proposito può essere presa soltanto da un concilio cristiano generale. È vero che l'idea di un concilio ecumenico, pancristiano, e la speranza che l'intera cristianità vi parli con un'unica voce appartengono ancora al regno dell'utopia; un'utopia che però sin d'ora illumina con la sua luce: già oggi le Chiese cominciano a ‛vivere in modo conciliare', cioè a instaurare tra loro la comunanza suscettibile di condurre a un concilio di tal natura.

‟Vivere in modo conciliare" (Lukas Vischer) non vuol dire una vita senza conflitti, bensì una vita che accolga nuovamente i conflitti che portarono un tempo alla separazione e lavori alla loro soluzione. La soluzione dei conflitti attraverso la separazione delle parti contendenti può servire provvisoriamente alla pace, ma non è affatto una soluzione del conflitto reale. La soluzione dei conflitti reali implica la restaurazione della comunione. Nella vita conciliare non ci sono più problemi separati ‛intracattolici' o ‛intraprotestanti', ma unicamente problemi comuni, problemi cristiani. Ogni Chiesa prende parte ai problemi interni delle altre. Viene dunque abbandonato il vecchio principio della reciproca non ingerenza tra le confessioni.

L'altra idea ecumenica legata alla vita conciliare è quella della ‛molteplicità riconciliata'. È un'idea coltivata soprattutto dalle grandi associazioni confessionali mondiali: la Federazione luterana mondiale, la Federazione riformata mondiale, l'Alleanza mondiale metodista, ecc. Con l'espressione ‛molteplicità riconciliata' si vuol sottolineare il diritto all'autonomia nella ricercata unità della Chiesa, unità che d'altra parte non viene annacquata nella riconciliazione.

Nel Vaticano II, e ancor più in seguito, la Chiesa cattolica romana si è aperta alla comunanza ecumenica con le Chiese ortodosse ed evangeliche, come lasciano riconoscere le istituzioni e le dichiarazioni ufficiali. Papa Giovanni XXIII apri all'ecumenismo nuove possibilità, quando formulò un aperto invito ad assistere al Concilio Vaticano II. Da quaranta (durante il primo periodo del Concilio nel 1962) il numero degli ‛osservatori' non cattolici romani salì a oltre un centinaio nel quarto periodo nel 1965. Già nel 1960 era stato fondato il Segretariato per l'unione dei cristiani. Commentando l'andamento conciliare con propri rapporti e consigli, gli osservatori esercitarono anche un influsso attivo sul Concilio, e persino su vari testi conciliari. Con ragione Yves Congar poteva affermare nel 1965: ‟La Chiesa cattolica è finalmente entrata nella vita dell'ecumene, la quale comincia là dove si è pronti a cessare di pensare e di vivere come se gli altri non ci fossero, e ci si vuole invece impegnare con loro nell'attesa del giorno, naturalmente ancora lontano, in cui potremo finalmente avere la piena comunione nello stesso pane della verità e del corpo del Signore".

Con l'ingresso nell'‛epoca ecumenica' le Chiese hanno abbandonato l'assolutismo (siamo i soli a possedere la verità) e il trionfalismo (noi siamo già ‛il cielo sulla terra'). Esse hanno imboccato insieme la strada - attraverso la storia - verso quel futuro che rappresenta, in quanto Regno di Dio, il loro compimento. La ‛dottrina cristologica della Chiesa', nella quale, partendo da tradizioni diverse, si perviene a un'origine comune, ha condotto d'altra parte alla ‛dottrina escatologica della Chiesa', che concepisce la Chiesa come il popolo storico di Dio, che avanza pieno di speranza verso il compimento nel Regno di Dio. È questo riconoscimento della propria provvisorietà nei confronti del Regno di Dio che crea tra le Chiese una ‛comunanza del cammino'.

Quest'ultima idea ha inoltre attirato l'attenzione di molti teologi che pensano in chiave ecumenica sul primo scisma da cui è uscita la stessa Chiesa cristiana; ha cioè attirato l'attenzione su ‛Israele' e sul ‛giudaismo'. Il movimento ecumenico è un grande movimento di svolta: le divisioni e le spaccature della cristianità nel passato sono superate per guadagnare il futuro comune. Su questa strada s'incontra inevitabilmente la prima spaccatura, quella tra cristianesimo e giudaismo. Senza un rapporto nuovo col giudaismo, con la Sinagoga e con Israele, il movimento ecumenico non raggiungerà la sua meta. Senza una nuova ‛comunanza del cammino' di cristiani ed ebrei, il popolo di Dio non acquisisce una figura storica. Di conseguenza, il ‛dialogo con gli ebrei' non può più essere condotto nel quadro dei ‛dialoghi con le religioni non cristiane'; esso deve essere posto al centro della teologia cristiana. Troppo a lungo il cristianesimo si è limitato a rifiutare, respingere e perseguitare il giudaismo, per sostituirsi a Israele come il vero popolo di Dio. L'ingresso nell'epoca ecumenica significa, non da ultimo, abbandonare ogni antisemitismo cristiano e volgere l'attenzione alla comunanza cristiano-giudaica. Sulla base della riscoperta del significato del Vecchio Testamento per la Chiesa cristiana e sulla base dell'olocausto di Auschwitz, si è avuto in Europa negli ultimi vent'anni un gran numero di colloqui cristiano-giudaici, e si è giunti da parte cristiana al riconoscimento - invero ancora cauto ma teologicamente chiaro - della fede giudaica. Cristiani ed ebrei sono in verità, in virtù dell'‛ecumene biblica', legati gli uni agli altri assai più strettamente di quanto non abbiano avuto consapevolezza. La Chiesa e la Sinagoga sono le due facce della vivente speranza messianica nell'unico Regno di Dio. La riscoperta del significato del Vecchio Testamento e la riscoperta della speranza cristiana nel futuro hanno fondato teologicamente un nuovo positivo rapporto delle Chiese col giudaismo.

b) Superamento dell'eurocentrismo

Con l'ingresso nell'epoca ecumenica la Chiesa cristiana supererà anche il suo - sempre più irrealistico - eurocentrismo culturale e politico per divenire universale. D'altra parte, la sua presenza in tutti i popoli e in tutte le culture la costringe inevitabilmente al colloquio con le religioni universali. Sinora, tali colloqui si proponevano scopi di evangelizzazione, oppure nascevano da un interesse puramente scientifico per fenomeni religiosi lontani. Oggi, il cristianesimo deve però acquisire ‛capacità di dialogo' e ‛disponibilità al dialogo', se vuol sopravvivere e dare il suo contributo al futuro dell'umanità. In precedenza, ogni religione aveva la sua propria storia. Se è vero che le religioni hanno passati diversi, oggi il loro futuro sta invece nella loro nuova comunanza. Le concezioni teologiche circa l'atteggiamento del cristianesimo riguardo alle altre religioni derivano ancora interamente dall'epoca pre-ecumenica. Sussiste pur sempre l'‛assolutismo ecclesiastico', per il quale fuori della Chiesa non c'è salvezza e nelle altre religioni non può esserci altro che il male. E sussiste pur sempre l'‛assolutismo della fede', per il quale le religioni non cristiane sono nient'altro che idolatria e superstizione. Anche la ‛pretesa sincretistica alla totalità', con cui abbastanza spesso nella storia il cristianesimo ha fatto proprio il patrimonio di altre religioni per assorbirle in sé, non costituisce un'autentica offerta di dialogo. Se vuole acquisire capacità di dialogo, il cristianesimo deve superare quest'assolutismo e confidare nella verità di Dio piuttosto che nella propria rappresentanza di questa verità. D'altro canto, la fede cristiana non può scadere in un ‛relativismo scettico', privo di un vero interesse a un colloquio religioso con le religioni universali. Un'autentica comunanza mondiale delle religioni è pensabile soltanto se le religioni entrano in uno scambio fruttuoso e si aprono all'influsso reciproco. Un autentico interesse per un'altra religione nasce quando c'è un bisogno creativo dell'altro. Per i cristiani il dialogo con gli uomini di altre religioni non è un mezzo per un fine predeterminato, ma l'espressione - in fondo naturale - della loro vita nell'amore e del loro desiderio di comunanza con gli altri.

L'ingresso nell'epoca ecumenica è infine anche l'ingresso nell'‛epoca dell'umanità'. Se vogliono sopravvivere, i popoli sono oggi chiamati allo sviluppo di una comunità mondiale giusta e all'instaurazione di una pace mondiale duratura. L'alternativa è: ‛un solo mondo o nessun mondo'.

La Chiesa cristiana, oggi presente in tutti i popoli e in tutte le culture, può diventare un fermento per la promozione della giustizia e della pace sulla terra. Per questo i cristiani hanno sostenuto con grande energia il riconoscimento e la diffusione dei ‛diritti umani'. Tutte le maggiori Chiese si sono impegnate con ‛dichiarazioni teologiche' a favore dei diritti umani in quanto fondamento di una futura comunità mondiale. Nella fusione dei diritti individuali e di quelli sociali, dei diritti economici e di quelli ecologici, i diritti umani sono il punto di partenza sia per un'etica sia per una politica della futura comunità mondiale. In questa situazione, le Chiese diventano il portavoce della coscienza del mondo dinanzi alle clamorose violazioni dei diritti umani nelle dittature e nei regimi fondati sul dominio di classe. Quanto più le Chiese, oggi, spezzano i loro vecchi legami con determinati popoli, Stati e classi e diventano consapevoli della loro comunanza ecumenica e della loro responsabilità nei confronti dell'umanità, tanto più chiaramente diventano l'elemento profetico nella politica della futura società mondiale. L'universalità ecumenica addossa loro questa nuova responsabilità politica.

È possibile parlare sensatamente di un futuro per i popoli solo se s'instaura e si mantiene la ‛pace mondiale'. La pace è la prima condizione per la sopravvivenza dell'umanità. Quanto più la Chiesa si libera dagli interessi dei popoli e delle classi dominanti, tanto più può operare per la pace di tutti gli uomini. La riunificazione ecumenica delle Chiese separate è la base del loro impegno per la pace mondiale. È vero che tutte le Chiese si sono pronunciate per la pace; ma una ‛dottrina teologica della pace' nell'epoca della minaccia nucleare e della crescente crisi ecologica sta muovendo solo i primi passi. In essa debbono essere sottoposte a revisione le vecchie dottrine della ‛guerra giusta' e del ‛dominio degli uomini sulla natura'. I diritti umani e la pace sono i più urgenti temi politici della teologia alla fine del nostro secolo. (V. anche cattolicesimo, ecumenismo, ortodossia, protestantesimo).

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