TEODALDO

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 95 (2019)

TEODALDO

Pierluigi Licciardello

(Tebaldo). – Figlio primogenito del marchese Tedaldo di Canossa e di sua moglie Willa, fratello di Corrado (morto nel 1030) e di Bonifacio (marchese di Tuscia dal 1028 al 1052), nacque probabilmente intorno al 990.

Secondo Ferdinando Ughelli (1717) nel 1006 era chierico ad Arezzo e coadiutore del vescovo Elemperto; il suo nome però non compare mai nei documenti aretini di quegli anni, mentre è probabile che egli si sia formato presso la cancelleria imperiale, come suggeriscono alcune sue sottoscrizioni apposte in calce ai diplomi rilasciati in qualità di vescovo di Arezzo scritte in una «elegantissima, aulica e sofisticata cancelleresca» (Nicolaj Petronio, 1977-1978, p. 134).

La sua nomina episcopale dovette cadere tra il 20 maggio e il luglio del 1023 e fu voluta molto probabilmente dall’imperatore Enrico II. Il suo primo atto certo è una donazione all’abbazia di S. Maria a Prataglia nel luglio del 1023, in cui si dichiara «vir excelentissimo sancte Artine Eclesie episcopus» (U. Pasqui, Documenti per la storia..., 1899, n. 117). Il favore di Enrico II fu confermato dal successore Corrrado II, che nel 1028 prese sotto la sua protezione il vescovado aretino (il documento è perduto).

In una data imprecisata, comunque nei primissimi anni del suo episcopato, Teodaldo presiedette un placito come messo di Enrico II, aggiudicando all’abbazia di Farfa alcune curtes nel comitato di Osimo. Intorno al 1030 tenne un placito anche ad Arezzo, confermando i diritti dell’abbazia delle Ss. Flora e Lucilla (S. Fiora) sulla Terra Martinense (ibid., n. 146). In seguito non abbiamo più notizie di una sua attività giudiziaria.

Ad Arezzo Teodaldo proseguì l’opera di ricostruzione del centro religioso di Pionta avviata dai suoi predecessori Elemperto (986-1010) e Adalberto (1014-23), portando a termine e consacrando la chiesa di S. Donato, che Adalberto aveva affidato all’architetto Maginardo perché l’edificasse sul modello di S. Vitale a Ravenna. A Maginardo, «arte architectonica optime erudito», nel dicembre del 1026 Teodaldo confermò le concessioni di Adalberto, accennando anche alla costruzione o ricostruzione del palazzo vescovile (ibid., n. 125). Il ‘duomo vecchio’ di S. Donato fu consacrato solennemente il 12 novembre 1023 o 1032. Il resoconto della cerimonia si legge in un testo aretino del tardo XI secolo, la Translatio sancti Donati, che ci è giunta in due versioni lievemente diverse soprattutto nel finale (α e β, BHL 2295-2296). Come si legge nella Translatio, le reliquie del santo furono prelevate dai vescovi dalla tumba sotterranea in cui si trovavano e furono esposte alla pubblica venerazione. Il giorno seguente si celebrò la dedicazione della chiesa e le reliquie furono collocate in un altare marmoreo. La presenza delle autorità civili ed ecclesiastiche della regione (il marchese Ranieri di Tuscia, i vescovi Lamberto di Firenze, Iacopo di Fiesole, Pietro di Città di Castello e Tedaldo di Gubbio) e il grande afflusso di popolo indicano il rilievo che questa cerimonia ebbe anche fuori Arezzo e il prestigio che conferì al vescovo aretino. Gli ottimi rapporti di Teodaldo con alcuni vescovi delle città vicine fecero sì che fosse invitato a partecipare a cerimonie analoghe fuori città: nel 1023 fu presente alla consacrazione della cattedrale di S. Florido a Città di Castello su invito del vescovo tifernate Pietro (Vita sancti Floridi, cap. XXV) e il 13 dicembre di una data imprecisata consacrò l’altare di S. Giovanni Evangelista nella cattedrale di S. Reparata a Firenze (Le carte della Canonica della cattedrale di Firenze (723-1149), a cura di R. Piattoli, Roma 1938, carta del 4 novembre 1040). Più difficili furono i rapporti con il vescovado di Siena a causa della vertenza, mai sopita, che si agitava fin dall’età longobarda a proposito di diciotto pievi situate al confine tra le due diocesi, nella Berardenga e nella Scialenga, appartenenti alla diocesi aretina ma rivendicate dai senesi. Teodaldo infatti partecipò insieme al vescovo Leone di Siena al sinodo romano del 6 aprile 1027 e in quest’occasione il vescovo senese chiese ancora una volta la restituzione delle pievi. Il pontefice Giovanni XIX affidò la causa a un collegio composto da Benedetto vescovo di Porto e dai vescovi Gunfredo di Volterra e Pietro di Città di Castello, che emisero il loro verdetto nel maggio del 1029: le pievi contese furono confermate al vescovo aretino.

A Pionta Teodaldo accolse anche Guido Monaco, uscito da Pomposa perché in disaccordo con i suoi confratelli, e gli dette modo di insegnare la Sacra Scrittura e di perfezionare il suo metodo di insegnamento del canto sacro. Al suo protettore Guido dedicò, intorno al 1030, una delle sue opere più celebri, il Micrologus, chiamandolo «divini timoris totiusque prudentiae fulgore clarissimo, dulcissimo patri et reverendissimo domino Theodaldo, sacerdotum ac praesulum dignissimo» (Guido d’Arezzo. Le opere, a cura di A. Rusconi, 2005 p. 4).

Il vescovo aretino è noto anche per la sua attività di riforma della Chiesa, che si espresse nella promozione della vita monastica e nella lotta contro la simonia e il nicolaismo. Agì anzitutto a favore dei monasteri di S. Fiora e di S. Maria di Prataglia (Badia Prataglia), che costituivano i due Eigenklöster dell’episcopato aretino. Teodaldo fu generoso nei loro confronti: ci sono rimasti 18 atti tra donazioni e permute (su 27 documenti emanati dal vescovo) indirizzati all’uno o all’altro monastero. Se le donazioni intendevano arricchire il patrimonio dei monasteri, le permute avevano lo scopo di razionalizzarlo, anche a vantaggio dell’episcopato stesso: così si può leggere una permuta del 1031 che lo portò ad acquisire il castrum di Tramuscano e la curtis di Gregnano nella Massa Verona (Pieve Santo Stefano), una zona in cui l’episcopato aveva già una consistente base patrimoniale. Due approvazioni di permute fatte dall’abate di S. Fiora nel 1030 e 1031 (U. Pasqui, Documenti per la storia..., cit., nn. 140, 151) indicano invece la volontà di controllare più strettamente il patrimonio monastico. All’abate Sigizo di Prataglia nell’aprile del 1031 Teodaldo affidò anche la riforma di una chiesa cittadina, S. Clemente, allora in rovina, che fu trasformata in monastero e in seguito affidata ai camaldolesi (ibid., n. 148). In tutti questi atti il vescovo agì con il consenso dei canonici e dell’aristocrazia capitaneale, quei «nobiles vassi Aretine Ecclesie» citati nella sentenza di Benedetto di Porto del maggio del 1029.

In campo monastico l’atto più significativo di Teodaldo fu la fondazione dell’eremo di Camaldoli, realizzata da s. Romualdo tra il 1023 e il 1025 e confermata da un diploma vescovile dell’agosto del 1027. Il 20 maggio 1033 il vescovo donò all’eremo anche le decime dovute dai mercanti aretini al vescovado, come si legge in un diploma sottoscritto e molto probabilmente redatto da Guido Monaco, che rappresenta l’ultimo atto noto del celebre musicologo.

La fondazione di Camaldoli è il frutto dell’incontro tra due forti personalità, entrambe attivamente impegnate nella riforma della Chiesa e nella promozione della vita religiosa; ma in quel periodo Camaldoli, come pure Badia Prataglia, rappresentò anche lo strumento per estendere il controllo del vescovado di Arezzo sulla parte settentrionale del territorio diocesano, stabilendo dei centri che rappresentassero materialmente e simbolicamente la presenza della Chiesa aretina in quei luoghi periferici (Tabacco, 1970).

Buoni furono i rapporti di Teodaldo anche con la canonica aretina. L’antica istituzione di epoca carolingia, rinnovata da Elemperto alla fine del X secolo, aveva una mensa separata da quella episcopale e godeva di propri privilegi imperiali, confermati da Corrado II il 31 marzo 1027. Intorno al 1025 il vescovo provvide a una ristrutturazione e razionalizzazione degli ambiti di competenza della canonica, alleggerendo la scuola dagli affari temporali e affidandone la direzione al primicerio Gerardo. Questi coordinò il lavoro dei notai al servizio dell’episcopato e fece ricopiare i documenti più antichi, di età longobarda e carolingia, presenti nell’archivio e riguardanti la contesa delle pievi. Teodaldo inoltre scelse un prete forestiero, Teuzo, proveniente dalla vicina Città di Castello, come suo visdomino; vincendo la resistenza dei canonici o di una parte di essi, Teuzo tenne ininterrottamente il suo incarico dal 1025 al 1064. Il vescovo cercò anche di porre fine alle malae consuetudines dei custodi laici di Pionta (cioè i discendenti dei vecchi canonici), che si spartivano le rendite ecclesiastiche e i doni dei fedeli, ma non riuscì a estirparle né a evitare che i nuovi canonici prendessero moglie e generassero figli: lo stesso primicerio Gerardo ebbe un figlio a cui dette il suo nome.

L’attività di riforma della Chiesa di Teodaldo è celebrata in un brano della Vita Matildis di Donizone (libro I, cap. 5). Il brano è un elogio di Teodaldo, chiamato «Christi amicus», di cui si ricordano la castità e l’odio contro i simoniaci. Vi si legge che un giorno i medici gli prescrissero di avere rapporti carnali con una donna per curare una certa malattia ed egli dapprima accettò di far venire una prostituta, ma quando vide il fuoco del camino il pensiero delle fiamme infernali gli fece decidere di respingerla. Contro i simoniaci invece fece un discorso paradossale: sarebbe stato pronto a dare mille lire per ottenere la dignità pontificale e poterli così scacciare da tutto il mondo! Il brano si conclude con il ricordo della protezione offerta da Teodaldo a Guido Monaco, che gli ha dedicato il suo Micrologus. La lotta contro il nicolaismo e la simonia è un tema tipico della riforma dell’XI secolo, che qui troviamo anticipato alcuni decenni prima che si diffondesse nella cerchia di Gregorio VII e dei suoi collaboratori. È possibile che il biografo di Matilde abbia attribuito, con un certo anacronismo, a un vescovo dei primi decenni dell’XI secolo delle idee che sarebbero maturate più tardi, ma sappiamo che tali idee in qualche modo erano già in circolazione in Italia al tempo di Teodaldo. Certamente comunque l’idea di riforma di Teodaldo non è ancora quella dei gregoriani, non mette in discussione i rapporti con i poteri laici, ma si richiama all’assetto ecclesiastico di età carolingia, cui egli e altri vescovi guardano come a un modello ideale.

L’ultimo atto noto di Teodaldo è del 20 maggio 1033. Il vescovo morì il 12 giugno 1036 e fu sepolto, con ogni probabilità, a Pionta, in quel ‘duomo vecchio’ di S. Donato che lui stesso aveva consacrato.

La sua fama fu grande e la sua memoria persistente: la carta fiorentina del 1040 lo chiama «gloriosus bone memorie Teudaldus reverentissimus Aretinus episcopus» e intorno al 1077 il diacono aretino Arnolfo lo ricorda nella sua Vita di s. Florido di Città di Castello con le parole: «Theobaldus Aretinus praesul, qui eo tempore tam generis nobilitate quam et sapientiae claritate necnon et eloquentiae venustate omniumque morum probitate inter omnes Italicos praesules praecipue eminebat» (F. Licciardello, La Vita sancti Floridi..., 2004, p. 178). Anche le Constitutiones camaldolesi di Rodolfo parlano di lui come di un «reverentissimus episcopus». La conclusione della Translatio (nella versione β) sembra alludere al proposito di scriverne una biografia: «His peractis, fecit alia plura bona, quae infra, praestante Domino nostro Iesu Christo [...] ponam»; ma questa biografia, a quanto ci risulta, non fu mai realizzata o è andata perduta.

Di Teodaldo ci è rimasta anche una breve omelia, pronunciata dal pulpito nel giorno della festa di s. Donato, il 7 agosto di un anno imprecisato; è riportata in una lettera del 1063-1064 indirizzata da Pier Damiani all’abate Desiderio e ai monaci di Montecassino (Die Briefe des Petrus Damiani, a cura di K. Reindel, 1983-1993) e narra di un filosofo dialettico (loicus) che appare in una visione mentre brucia tra le fiamme dell’inferno, tormentato da terribili draghi. Abbiamo anche due raffigurazioni del vescovo aretino in miniature del XII secolo: la prima è nella Vita Matildis di Donizone (Città del Vaticano, Biblioteca apostolica Vaticana, Vat. lat. 4922, c. 21v), in cui compare accanto ai fratelli Bonifacio e Corrado di Canossa; la seconda è in un codice contenente le opere di Guido Monaco (Wien, Österreichische Nationalbibliothek 51, c. 35v), in cui è seduto accanto al musicologo mentre si esercita con il monocordo, entrambi con l’aureola della santità.

Fonti e Bibl.: Il regesto di Farfa compilato da Gregorio di Catino, V, Roma 1892, n. 1280; U. Pasqui, Documenti per la storia della città di Arezzo nel medioevo, I, Arezzo 1899, nn. 117-154 passim, IV, 1904, pp. 277 s.; Gregorio da Catino, Chronicon Farfense, a cura di U. Balzani, I-II, Roma 1903, I, pp. 253 s.; Regesto di Camaldoli, I, a cura di L. Schiaparelli - F. Baldasseroni, Roma 1907, nn. 75, 82, 107, 124; Historia custodum Aretinorum, a cura di A. Hofmeister, in MGH, Scriptores, XXX, 2, Lipsiae 1934, pp. 1468-1482; Le carte della Canonica della cattedrale di Firenze (723-1149), a cura di R. Piattoli, Roma 1938, n. 42, p. 118; J.F. Böhmer, Regesta Imperii, III, 1, Die Regesten des Kaiserreiches unter Konrad II, 1024-1039, Wien-Köln-Weimar 1971, nn. 76, 123, III, 5, Papstregesten 1024-1058, 1, Lieferung, Köln-Weimar-Wien 2006, nn. 95, 114, 131-132; Die Briefe des Petrus Damiani, a cura di K. Reindel, I-IV, München 1983-1993, III, n. 102; P. Licciardello, La Vita sancti Floridi di Arnolfo diacono (BHL 3062), in Bollettino della Deputazione di storia patria per l’Umbria, CI (2004), 1, pp. 141-209; Consuetudo Camaldulensis. Rodulphi Constitutiones. Liber Eremiticae Regulae, a cura di P. Licciardello, Firenze 2004, p. 2; Guido d’Arezzo. Le opere, a cura di A. Rusconi, Firenze 2005, pp. 4-6, 130-134; P. Licciardello, La Translatio sancti Donati (BHL 2295-2296), agiografia aretina del secolo XI, in Analecta Bollandiana, CXXVI (2008), 2, pp. 252-276; Donizone, Vita di Matilde di Canossa, a cura di P. Golinelli, Milano 2016, p. 48.

F. Ughelli - N. Coleti, Italia sacra, I, Venetiis 1717, col. 415; G.B. Mittarelli - A. Costadoni, Annales Camaldulenses Ordinis Sancti Benedicti, I, Venetiis 1755, pp. 342-346, 412, 423, Appendix, nn. CXIV, CXXVII; II, 1756, pp. 6-11, 30-32, 34, 37 s., 42-45, 57, Appendix, nn. IV, XVIII, XXIII; G. Schwartz, Die Besetzung der Bistümer Reichsitaliens unter den Sächsischen und Salischen Kaisern. Mit den Listen der Bischöfe (951-1122), Leipzig-Berlin 1913, pp. 200 s.; P.B. Gams, Series episcoporum Ecclesiae catholicae, Leipzig 1931, p. 462; I. Grotti, Vescovi di origine germanica in Arezzo nei periodi carolingio e franco-sassone, Arezzo 1941, pp. 92-107; G. Miccoli, Chiesa gregoriana. Ricerche sulla riforma del secolo XI, Firenze 1966, pp. 62 s.; G. Tabacco, Espansione monastica ed egemonia vescovile nel territorio aretino fra X e XI secolo, in Miscellanea Gilles Gérard Meersseman, Padova 1970, pp. 57-87; R. Davidsohn, Storia di Firenze, I, Firenze 1972, pp. 198, 266 s., 501, 1101; A. Tafi, La chiesa aretina dalle origini al 1032, Arezzo 1972, pp. 331-359; G. Rossetti, Origine sociale e formazione dei vescovi del ‘Regnum Italiae’ nei secoli XI e XII, in Le istituzioni ecclesiastiche della Societas Christiana dei secoli XI e XII: diocesi, pievi, parrocchie. Atti della VI Settimana internazionale di studio, ... 1974, Milano 1977, pp. 57-84 (in partic. pp. 67-70); G. Nicolaj Petronio, Per una storia della documentazione vescovile aretina dei secoli XI-XIII. Appunti paleografici e diplomatici, in Annali della scuola speciale per archivisti e bibliotecari dell’Università di Roma, XVII-XVIII (1977-1978), pp. 65-171 (in partic. pp. 132-138); A. Tafi, I vescovi di Arezzo dalle origini della diocesi (sec. III) ad oggi, Cortona 1986, pp. 52 s.; G. Tabacco, Romualdo di Ravenna e gli inizi dell’eremitismo camaldolese, in Id., Spiritualità e cultura nel Medioevo. Dodici percorsi nei territori del potere e della fede, Napoli 1993, pp. 195-248; G. Vedovato, Camaldoli e la sua congregazione dalle origini al 1184. Storia e documentazione, Cesena 1994, pp. 16-26, 126-130; J.P. Delumeau, Arezzo. Espace et sociétés, 715-1230. Recherches sur Arezzo et son Contado du VIIIe au début du XIIIe siècle, I-II, Rome 1996, passim; C. Caby, De l’érémitisme rural au monachisme urbain. Les Camaldules en Italie à la fin du Moyen Âge, Roma 1999, pp. 72 s., 94; M.G. Bertolini, Studi canossiani, Bologna 2004, pp. 4 s., 15, 19, 186, 190; P. Licciardello, Agiografia aretina altomedievale. Testi agiografici e contesti socio-culturali ad Arezzo tra VI e XI secolo, Firenze 2005, pp. 182-188.

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