TEMPIO

Enciclopedia dell' Arte Antica (1997)

Vedi TEMPIO dell'anno: 1966 - 1997

TEMPIO (v. vol. VII, p. 695)

D. Martens
B. Blelelli Marchesini
P. Callieri
C. Lo Muzio
G. Kreisel
M. L. Giorgi

(v. vol. VII, p. 695). Egitto. - La documentazione archeologica relativa alle fasi più antiche dell'architettura religiosa era limitata, fino ad alcuni decenni fa, a un numero esiguo di siti; e ciò perché i monumenti a disposizione degli archeologi nell'ambito dell'architettura funeraria e templare dal Medio Regno in poi erano talmente numerosi che per molto tempo gli egittologi hanno rivolto la loro attenzione prevalentemente alle capitali e ai centri più importanti. Più recentemente, invece, l'indagine archeologica ha ripreso in esame siti già scavati tra la fine del secolo scorso e l'inizio del nostro e ha promosso scavi stratigrafici in zone parzialmente trascurate. Soprattutto per i siti più antichi, il riesame dei materiali, condotto anche sulla base di confronti con rinvenimenti effettuati nel corso di nuovi scavi, ha permesso di collocare alcune realtà archeologiche in un quadrp cronologico più preciso.

Il periodo arcaico. - Scavi recenti (e tuttora in corso) della missione tedesca a Elefantina hanno permesso di rilevare, al di sotto del t. del Nuovo e del Medio Regno, ancora due livelli di costruzione: il primo risalente all'Antico Regno e il secondo al periodo protostorico (la cui architettura è definita da B. J. Kemp come «preformai'», in senso tipologico e non cronologico). Il luogo di culto era protetto da tre grosse masse rocciose che costituivano le pareti di una cappella naturale, chiusa parzialmente sul lato anteriore da un muretto di mattoni crudi. La cappella conteneva un altro locale, sempre in mattoni crudi, che doveva ospitare l'immagine o la statua di culto. Secondo Kemp, questa era collocata all'interno di un naòs «a tenda» in materiale leggero, del genere di quelli dipinti su tavolette coeve o dei modellini in faïence e calcare trovati nei depositi protostorici di Abido. L'intero complesso era preceduto da un cortile recintato con muri in mattoni crudi.

Alla stessa epoca appartiene la fase più antica del t. di Hierakonpolis. Al di sotto delle strutture in mattoni crudi del Medio Regno è stata messa in luce una collina artificiale di sabbia raffinata circondata da un muro di contenimento costituito da lastre di calcare. Nei dintorni è stato rinvenuto anche il montante di un portale in calcare del re Khasekhemui e una stele in granito anepigrafa, alta più di 2,5 m. Entrambi i reperti dovevano appartenere alla cappella, probabilmente in mattoni crudi, che si ergeva al di sopra della collina e che doveva contenere, come la precedente, un naòs con la statua del dio.

A Medamud (c.a 30 km a Ν di Tebe) è stato portato alla luce un complesso religioso sviluppato intorno a due monticoli artificiali in sabbia, circondati da un cortile in mattoni crudi di forma poligonale irregolare, cui si accedeva attraverso un portale aperto sul lato S. Alle spalle di quest'ultimo, un locale più largo che profondo immetteva, attraverso due stretti corridoi posti perpendicolarmente l'uno all'altro, all'interno dei monticoli: uno a Ν (sull'asse dell'entrata), l'altro a E. Benché il complesso sia più tardo del precedente, si rileva la medesima tradizione alto-egiziana della collina primordiale come luogo di culto, non ancora connessa però con l'ideologia funeraria che farà della piramide la tomba del faraone.

Resti di strutture e oggetti proto-dinastici connessi con certezza a un t. sono stati trovati anche ad Abido e a Koptos, ma ciò che resta non permette di definirne con chiarezza i contorni. E probabile comunque che questi primi luoghi di culto presentassero tutti un cortile aperto, seguito da un locale che conteneva il naòs «a tenda» con la statua della divinità e che la forma di questo fosse, come si evince da alcune raffigurazioni, disegnata specificatamente per la divinità che doveva alloggiarvi.

Antico Regno. - Nell'Antico Regno si definisce la necessità di costruire in pietra gli edifici che dovevano durare in eterno in opposizione al concetto di abitazione temporanea proprio delle case in mattoni crudi destinate agli uomini. Abbiamo così il primo monumento regale costruito in pietra, il complesso funerario del re Djoser a Saqqāra (III dinastia) che, oltre alla piramide e al cenotafio meridionale (tomba dell'Alto e del Basso Egitto), presenta una serie di edifici che riprendono in forma monumentale le cappelle del Sud e del Nord e definiscono magicamente la ripetizione eterna del giubileo regale del faraone sui due regni unificati. A Ν della piramide è inoltre il t. funerario destinato ai rituali di offerte al sovrano defunto. Dalla IV dinastia in poi la documentazione si fa più ricca: oltre ad alcuni tracciati di piante rinvenuti nei livelli sottostanti a santuarî del Medio e Nuovo Regno, a questo periodo appartengono i resti dei t. funerarî annessi alle piramidi e i t. solari, entrambi costruiti sulla riva O.

I t. funerarî, dedicati al culto del sovrano defunto, sono addossati alla parete E della piramide; vi si giunge attraverso una rampa proveniente da un t. a valle (in cui si svolgevano i rituali di purificazione, mummificazione e apertura della bocca) dove una banchina permetteva l'arrivo della processione funebre dal Nilo. La struttura del t. funerario varia da piramide a piramide; i più semplici presentano unicamente un locale di dimensioni ridotte con un altare davanti a una stele per le offerte funerarie; i più complessi sono costituiti da una serie di locali sviluppati lungo un asse E-0 in cui trovano posto una sala trasversale d'entrata, un cortile aperto, cinque nicchie per le statue del sovrano, magazzini e infine il santuario per le offerte funerarie. Presso le piramidi della IV dinastia tutti gli elementi architettonici sono massicci e semplici, i soffitti poggiano su pilastri squadrati anepigrafi, per lo più in granito; né bassorilievi, né testi decorano le pareti (solo sui montanti del portale del t. funerario di Chefren, sono stati trovati i nomi del sovrano). Nella V e VI dinastia invece, laddove la piramide stessa diviene più piccola, i t. funerarî si arricchiscono di raffinati elementi architettonici: sottili colonne palmiformi o papiriformi fascicolate sostengono la soffittatura, la caratteristica gola egiziana orna i portali, bassorilievi e testi decorano le pareti. Ciò che si perde in solidità si acquista in eleganza.

Abbastanza simili al complesso piramidale negli elementi costitutivi di base, i t. solari sono luoghi di culto dedicati al dio sole Ra dai primi sei sovrani della V dinastia. Il modello a noi ignoto potrebbe essere stato il t. di Heliopolis; menzione di un santuario solare Skt-Ra è stata rinvenuta in uno dei corridoi degli appartamenti sotterranei di Djoser a Saqqāra. Da documenti egiziani si apprendono i nomi di sei di questi edifici, ma solo due ce ne sono giunti: quello di Userkaf Nekhen-Ra ad Abu Sir; e quello di Niusserre Shesep-ib-ra ad Abū Ghurab (la descrizione che segue è basata su quest'ultimo, del quale è stato possibile ricostruire meglio la struttura). Come il complesso della piramide, il t. solare presenta un t. a valle, una rampa ascendente e un t. superiore, la cui maggior superficie è occupata da un cortile a cielo aperto (asse E-O), elevato su un terrazzamento e chiuso da muri perimetrali. Il cortile è occupato da un altare posto davanti a un grande obelisco non monolitico, che evoca la divinità solare. Lungo la parete S della cinta muraria si sviluppa un corridoio che conduce a un piccolo locale e a una cappella che affiancano l'obelisco. Sul lato opposto sono situati dei magazzini. Particolarmente interessanti sono i bassorilievi del corridoio e dei due locali presso l'obelisco: si tratta di scene connesse al rituale della festa Sed (Giubileo regale) e di rappresentazioni della campagna egiziana durante le due stagioni di Akhet e Shemu. Secondo D. Arnold (1992), il t. solare nasce per far fronte al nuovo status del faraone, il quale dalla V dinastia viene considerato figlio e non più incarnazione di Ra. Dopo la morte, il sovrano viene ricondotto presso suo padre, nel santuario solare, per riunirsi a lui.

Medio Regno. - Nel Medio Regno (XI e XII dinastia) le capitali sono state rispettivamente Tebe (Alto Egitto) e Lišt (Basso Egitto). È importante sottolineare la diversa localizzazione delle due città poiché la loro geografia varia notevolmente: Tebe, a differenza delle capitali del Nord, è limitata sia sulla riva E, sia sulla riva O da massicci montuosi, che soprattutto sul lato occidentale sono abbastanza vicini alla fascia coltivata. Ciò ha dato una particolare conformazione alla sua architettura funeraria, armoniosamente inserita nel paesaggio mediante la scelta di strutture semi-rupestri completate con calcare e arenaria locale. Per il Medio Regno ci resta anche documentazione di un certo numero di t. divini. Lasciando da parte i t. funerarî delle piramidi della XII dinastia - che pur con una serie di variazioni, riprendono la tradizione architettonica dell'Antico Regno - va ricordato il grandioso progetto architettonico di Mentuḥotep Neb-hepet-ra (XI dinastia), riunificatore dell'Egitto dopo il I Periodo Intermedio. Egli, invece di una piramide, si fece costruire sulla riva occidentale del Nilo di fronte a Tebe un t. a terrazze precedute da porticati, nel pieno rispetto della tradizione architettonica locale dell'Asasif. E il primo t. di Deir el-Baḥrīe, secondo molti studiosi, costituisce anche il primo passo verso i t. del Nuovo Regno: dopo di lui Ḥatshepsut e Thutmosis III fecero costruire nella stessa località le loro «Case di Milioni di Anni». Il primo cortile è chiuso da un muro in arenaria, presenta sul fondo un porticato con una doppia fila di pilastri ed è arricchito da un boschetto che affianca una rampa ascendente. Attraverso la rampa si accede a una terrazza quadrata circondata da una doppia fila di colonne protodoriche a otto facce sul lato E e tripla sugli altri lati. Questa era sormontata da una struttura che per lungo tempo si è ritenuto avesse forma piramidale. Oggi, con D. Arnold, si è propensi a ricostruirvi un'altra «terrazza» quadrangolare che riprende la tradizione alto-egiziana. Alle spalle di questa struttura si trova l'entrata del profondo corridoio che a 150 m di profondità lascia il posto alla camera sepolcrale del sovrano. A O dell'accesso alla rampa era una sala ipostila, seguita sull'asse da una cappella rupestre in cui si trovava probabilmente una statua di culto, preceduta da un altare per le offerte. Oltre all'innovazione nella tecnica di costruzione che utilizza, per motivi di statica, strutture in calcare sormontate da elementi in arenaria, di grande interesse è il fatto che per la prima volta la cappella del faraone è realizzata come un santuario di Ammone, di cui il sovrano diviene incarnazione.

Nonostante nel Medio Regno si sia fatto ampio uso di mattoni crudi per gli edifici religiosi, molti dei quali sono solo parzialmente conservati, è possibile descrivere almeno quattro tipi di t. di questo periodo basandosi sugli esemplari in pietra che ci sono giunti.

Il primo tipo è costituito da un'ampia sala, probabilmente preceduta da un porticato a colonne papiriformi fascicolate, sul cui fondo si apre una serie di cappelle. Tale tipo è documentato dai due santuarî rinvenuti nell'oasi del Fayyūm: il t. incompiuto di Qaṣr es-Sagha e quello di Medīnet Mādi (nel primo le cappelle sono tre, nel secondo sette). Il secondo tipo, testimoniato dal t. di Medamud e da quello di Tod, presenta in facciata un porticato largo quanto tutto l'edificio, seguito da una sala più profonda con santuario centrale aperto sui due lati opposti lungo l'asse. Il santuario centrale è circondato da un corridoio su cui si affacciano una serie di locali contigui (così nel t. di Tod, mentre in quello di Medamud l'accesso ai locali laterali avviene dal porticato anteriore). Tra le rovine del t. di Medamud sono stati trovati frammenti di colonne papiriformi. Il terzo tipo è esemplificato dalla cappella bianca di Sesostris I a Karnak, fatta erigere per il giubileo regale: essa costituisce un modello di cappella che avrà grande diffusione nel Nuovo Regno, durante il quale lungo il viale processionale che collegava due t. era inserita una serie di cappelle come reposoir delle barche divine. La cappella di Sesostris è costituita da una pedana quadrangolare su cui si ergono sedici pilastri disposti su quattro file e coperti da soffitto ornato da gola egiziana; due rampe a lieve gradiente conducono ad aperture assiali, una frontale e una posteriore. Infine si deve ricordare il t. rupestre di Ṣerabit el-Khadim (Sinai) dedicato alla dea Ḥatḥor; parzialmente scavato nella roccia è anch'esso preceduto da un porticato.

Per alcuni di questi t. si può ipotizzare la presenza anteriore del pilone, costituito da una singola massicciata, al centro della quale si apriva il portale di accesso (ricostruzione ipotetica del t. di Thot a Hermopolis). Sia la pianta periptera di alcuni dei t. descritti, sia il pilone, sia il t. rupestre avranno notevole sviluppo e diffusione nei santuarî del Nuovo Regno.

Nuovo Regno. - Nel Nuovo Regno i principali luoghi di culto, funerarî e divini, sono denominati con lo stesso appellativo: «T. (o Case) di Milioni di Anni»; ciò è documentato nelle iscrizioni sulle loro pareti e nei testi amministrativi. Viene quindi meno la separazione tra i santuarî a occidente del Nilo e quelli a oriente; anzi a Tebe (la capitale di questo periodo) i t. occidentali sono collegati idealmente al t. di Karnak e a quello di Luxor lungo un asse E-0 che attraversa il Nilo evocando il percorso del dio sole dall'alba al tramonto e che la barca del dio Amon-Ra seguiva in processione nel corso di importanti feste annuali, quali la «bella Festa della Valle». Ciò ricorda la definizione del t. come «Orizzonte del Dio», o «Collina Sacra della Prima volta», il luogo cioè in cui apparve il dio all'origine dei tempi e dove incessantemente egli sorge e tramonta per milioni di anni. Ciò non vuol dire che tutti i t. egiziani del Nuovo Regno fossero «Case di Milioni di Anni», ma semplicemente che la distinzione tra t. funerario e t. divino è meno definita; nei t. della riva O il faraone viene venerato come dio anche in vita e durante le festività si unisce alla divinità attraverso una serie di rituali completamente indipendenti da quelli che dovevano assicurargli dopo la morte il destino ultraterreno.

I principali elementi architettonici sono comuni a tutti i grandi santuarî del periodo, indipendentemente dalla loro denominazione e funzione. Va ricordato inoltre che essendo il t., secondo la concezione egiziana, luogo e oggetto della creazione, i suoi elementi rappresentano parti dell'universo visibile: i soffitti sono cieli stellati, le colonne fusti di piante o fasci di steli di giunchi e papiri; il suolo è la terra nera e fertile d'Egitto. Rispondendo a questa concezione, le mura di cinta in mattoni crudi che racchiudevano il territorio sacro simboleggiavano gli abissi dell'oceano primordiale: esse avevano infatti andamento ondulato. L'entrata del t. era costituita da due grossi bastioni di forma trapezoide, i piloni, uniti al centro da un portale, più basso. Si creava così quella caratteristica forma che ricorda il geroglifico Akhet, simbolo dell'orizzonte. Dopo il primo pilone si trovava un cortile peristilo con colonne fascicolate o, in epoca ramesside, un cortile con un porticato a S con colonne papiriformi e uno a Ν con colossi osiriaci; poteva seguire un secondo pilone, in genere di dimensioni inferiori con un altro cortile ornato da portici (in epoca ramesside) e una sala ipostila in cui alle colonne fascicolate si poteva unire una doppia fila di colonne, lungo il passaggio assiale, più alte delle altre con capitello campaniforme (pianta a «basilica»); da qui si accedeva alle parti più intime del t.: un santuario per la barca del dio e di seguito le cappelle che ospitavano le statue delle divinità (normalmente la triade locale). La parete o il pilone che chiudevano anteriormente la sala ipostila potevano presentare un portico con pilastri osiriaci. Nei t. maggiori piloni e cortili potevano essere reiterati.

Fuori dell'asse principale di sviluppo, anzi creando uno sdoppiamento del processo rituale, a S del sancta sanctorum, vi era un settore dedicato al culto funerario (da notare che ciò avviene anche nel t. di Karnak, sulla riva E), connesso a Sokaris in quanto Osiride che risorge o, sulla riva O, al faraone regnante e a suo padre; mentre a N era situato un cortile a cielo aperto con un altare solare, connesso a Osiride risorto, dove il faraone si univa ad Amon- Ra durante il cerimoniale che lo vedeva salire sull'altare a ricevere i raggi divini. Il complesso era poi arricchito da altre cappelle per la purificazione e la vestizione dei sacerdoti, da magazzini e biblioteche. Un edificio a parte, posto sempre a S rispetto all'asse del t., è il palazzo reale, dove probabilmente il faraone si preparava al cerimoniale.

Rispettano questa struttura, arricchita nei diversi santuarî da altri elementi aggiuntivi, la maggior parte dei grandi santuarî che ci sono giunti in buono stato di conservazione, o la cui pianta sia chiaramente riconoscibile. Oltre al t. di Karnak, che per la sua realtà di t. nazionale è stato rimaneggiato nel corso dei secoli da quasi tutti i sovrani egiziani (i quali comunque non hanno fatto che reiterare gli elementi costitutivi di base), possiamo citare il t. di Luxor (XVIII e XIX dinastia), quello di Seti I a Qurna (XIX dinastia), il Ramesseo (XIX dinastia) e il t. di Medīnet Ḥabu (XX dinastia), per ricordare solo i più noti e rappresentativi. A eccezione di quello di Luxor (Amenophis III, poi rimaneggiato da Ramesse II), i santuarî della XVIII dinastia sono solo parzialmente ricostruibili e il primo di essi, il t. di Hatshepsut a Deir el- Bahrl, che è anche l'unico quasi completamente conservato, si distacca notevolmente da questo schema, pur preannunciando gli elementi strutturali fondamentali dei t. posteriori.

Ḥatshepsut costruì il suo santuario accanto a quello di Mentuḥotep con il chiaro intento di ricollegarsi idealmente al popolare faraone, creando una serie di tre terrazze digradanti dall'anfiteatro roccioso di Deir el-Baḥrī verso la valle. Niente pilone né cortili con peristili nelle prime due terrazze, ma un basso muro di cinta in calcare e cortili aperti con portici sulle pareti di fondo sostenuti da file di pilastri, semi-pilastri e colonne protodoriche a sedici facce. Il portico della terza terrazza presenta in facciata pilastri osiriaci e immette in un cortile peristilo, sempre con colonne protodoriche, seguito da due santuarî assiali (uno per la barca, l'altro per la statua) scavati nella roccia. Ai due lati del cortile però si suggerisce già lo sdoppiamento dell'asse, con un'area à S occupata da due cappelle funerarie (una per Ḥatshepsut e una per suo padre Thutmosis I) e una a N, con cortile a cielo aperto e un altare solare. Sul lato S, prima del complesso funerario, è un locale con finestra delle apparizioni, forse prototipo del «palazzo reale» dei t. posteriori. I porticati della seconda terrazza sono affiancati da due santuari: uno a S dedicato alla dea Ḥatḥor, che presenta una prima sala ipostila con pilastri e colonne protodoriche e una seconda con colonne cilindriche sormontate da capitello hathorico, e a Í una cappella dedicata al dio Anubis con sala ipostila a colonne protodoriche a sedici facce.

Accanto ai grandi santuarî, sono numerosissimi gli edifici religiosi del Nuovo Regno che sono giunti sino a noi sia in Egitto sia in Nubia: oltre ai santuarî più piccoli, alle «stazioni» per le barche divine spesso periptere, come il tempietto thutmoside di Medīnet Ḥabu, particolarmente numerosi sono i t. rupestri, soprattutto in Nubia. In Egitto va ricordato lo «Spèos Artèmidos» fatto costruire da Ḥatshepsut presso Beni Hasan, e 1'«emispèos» di Wādī Miah, voluto da Seti I per ringraziare gli dei di aver fatto trovare l'acqua agli operai nel deserto a E di Edfu. In Nubia sono noti quelli che fece costruire Ramesse II (XIX dinastia) ad Abu Simbel, Derr e Wādī es-Sebwa. La pianta di questi santuarî comprende in genere una parte esterna: una sala ipostila, un pilone, un portico o come nel caso di Abu Simbel la grande terrazza con i colossi di Ramesse; e una parte scavata nella roccia: ripostila che precede il santuario costituito in genere da tre cappelle per le statue del faraone insieme agli dei; nei t. più complessi un vestibolo per le offerte precede le nicchie. Nei tre t. di Ramesse II la sala ipostila è preceduta da un'altra sala con pilastri osiriaci, gli stessi che nei t. tebani introducono alla parte più intima del t. e ai rituali di rinnovamento della divinità del faraone.

Il periodo tardo e il periodo tolemaico-romano. - Tra la fine del Nuovo Regno e l'epoca tolemaica la scarsità di monumenti originali o il cattivo stato di conservazione impediscono un discorso completo sull'argomento. Basti pensare a Tanis e Bubastis, le capitali della XXI e XXII dinastia, i cui t. furono costruiti riutilizzando in buona parte materiali di Pi-Ramesse; o al successivo santuario di Amasis (XXVI dinastia) a Teli er-Rub'a (Mendes), di cui resta in piedi solo il naòs in granito, eretto su una pedana di lastre in calcare; o ancora a numerosi santuarî costruiti durante le ultime dinastie, ma usurpati e decorati in epoca tolemaica. A Karnak vi è tuttavia una serie di edifici, sia indipendenti, quali cappelle costruite all'interno della cinta muraria, sia di complemento al complesso religioso: i propilei bubastidi, la grande cinta muraria della XXX dinastia, il primo pilone e il portico di Taharqa. E a Dendera, a N di Luxor, Nectanebo I fece costruire il più antico mammisi, cappella per la nascita divina del re. Queste strutture ci permettono comunque di identificare alcune innovazioni nell'architettura religiosa che verranno poi riprese e ampliate nel periodo tolemaico-romano: il chiosco costituito da colonne parzialmente imbrigliate da muri; il prònaos anch'esso chiuso da muri che collegano i fusti delle colonne anteriori; i naòi in pietra dura all'interno del sancta sanctorum e il mammisi.

Con il periodo tolemaico assistiamo a una ulteriore modifica della concezione del t.: se esso è comunque preceduto da un vasto cortile dove la folla poteva riunirsi nel corso delle grandi festività, l'edificio sacro vero e proprio appare come una struttura compatta e chiusa, in cui il santuario, una cappella indipendente con proprie pareti e autonoma soffittatura, è celato e protetto. Anche qui le colonne della facciata sono unite tra di loro da muri per metà dell'altezza dei fusti, in modo da proteggere da sguardi profani la prima ipostila. Questa era seguita da una seconda sala a colonne, chiamata «Sala delle Feste o dell'Apparizione», affiancata talvolta da stretti locali. Di qui si accedeva alla «Sala delle offerte», ai due lati della quale generalmente si aprivano i locali delle scale che conducevano sul tetto del tempio. Un portale sulla parete di fondo della «Sala delle offerte» immetteva infine in una sala rettangolare o «dell'Enneade» in cui era collocato il sancta sanctorum, o «Sala venerabile» circondato da un ambulacro, «Corridoio misterioso» nelle cui pareti si aprivano locali. Sul tetto doveva avvenire, in un apposito chiosco a cielo aperto, il rituale dell'unione della statua cultuale con i raggi del sole; per questo rituale la statua veniva preparata in una «sala pura» (uabet) preceduta da un cortile a cielo aperto dove si presentavano le offerte: vi si accedeva da uno dei locali delle scale.

Fuori del t. principale, vi era in genere un'altra cappella, il mammisi, dove si svolgeva il rituale della «Nascita divina del re». La cinta muraria che conchiudeva il complesso era introdotta da un pilone monumentale.

Questa per grosse linee la struttura base del t. tolemaico, come lo ritroviamo a Dendera, Edfu, Kom Ombo; da notare che essendo quest'ultimo dedicato a due divinità, Sobek e Haroeris, buona parte degli elementi appena descritti sono sdoppiati e si sviluppano lungo due assi paralleli.

Gli elementi e le decorazioni architettoniche del periodo tolemaico-romano sviluppano temi e modelli anticipati dalle dinastie immediatamente precedenti: se i capitelli hathorici delle colonne di Dendera richiamano quelli già presenti dal Nuovo Regno, i sistri di una sala del t. di Opet, dell'epoca di Augusto a Karnak, sormontano come nel portico del mammisi di File un capitello floreale composito basato su un fusto fascicolato. I tipi di capitelli si moltiplicano rendendo plasticamente composizioni di fiori e fasci di papiro, di loto e di palma. I fusti delle colonne sono cilindrici per la quasi totale altezza, mentre la parte più alta è fascicolata.

Bibl.: L. Borchardt, Ägyptische Tempel mit Umgang (Beiträge zur Ägyptischen Bauforschung und Altertumskunde, 2), Il Cairo 1938; A. Badawy, A History of Egyptian Architecture, II. The First Intermediate Period, the Middle Kingdom and the Second Intermediate Period, Berkeley 1966; C. Barocas, Egitto, Milano 1970; G. Haeny, Basilikale Anlagen in der ägyptischen Baukunst des Neuen Reiches (Beiträge zur Ägyptischen Bauforschung und Altertumskunde, 9), Wiesbaden 1970; I. E. S. Edwards, The Pyramids of Egypt, Harmondsworth 1972; D. Arnold, Der Tempel des Königs Mentuhotep von Deir el-Bahari (AV, Vili e XXIII), 2 voll., Il Cairo 1974 e 1981; R. Stadelmann, Tempel und Tempelnamen in Theben-Ost und West, in MDIK, XXXIV, 1978, pp. 171-180; id., Totentempel und Millionenjahrhaus in Theben, ibid., XXXV, 1979, pp. 303- 322; AA.VV., I Faraoni, 3 voll., Milano 1979-1981; S. Donadoni, L'Egitto, Torino 1981; Â. J. Kemp, Ancient Egypt. Anatomy of a Civilization, Londra 1981; G. Haeny, La fonction religieuse des Chateaux de millions d'années, in L'égyptologie en 1979. Axes prioritaires de recherches (Colloques internationaux du C.N.R.S.), Parigi 1982, pp. 111-116; D. Arnold, Die Tempel Ägyptens. Götterwohnungen, Kultstätten, Baudenkmäler, Zurigo 1992. - V. anche LA, s. vv. Sonnenheiligtümern Tempel, Totentempel, Pyramidentempel.

(R. Pirelli)

Grecia. - Fin dalla sua riscoperta avvenuta intorno alla metà del XVIII sec., l'immagine del t. greco è stata oggetto di una continua elaborazione critica e di un lavoro costante di integrazione e di diversificazione. Il quadro complessivo delineato in precedenza, soprattutto sulla base dell'edificio periptero, pur costituendo una valida e fondamentale premessa, si è arricchito negli ultimi venticinque anni di alcuni aspetti essenziali, specialmente per quel che riguarda l'età arcaica.

Origine e prime forme. - Per l'edificio sacro greco si distingue comunemente tra l'altare isolato, luogo destinato al sacrificio, e il t., luogo che protegge, contenendola, l'immagine cultuale; questa distinzione viene fatta nonostante esista una stretta connessione tra i due elementi sia dal punto di vista funzionale sia da quello architettonico.

La forma originaria della casa a focolare dell'età geometrica, la cui tipologia risale fino all'architettura elladica, costituisce una delle origini del t. greco. Il nucleo della casa è l’eschàra, il «focolare», sopra il quale è adattato il tetto alto a due spioventi con una apertura per il fumo. Questa costruzione è realizzata con sostegni, generalmente due, che, disposti sull'asse centrale, rendono possibile uno spazio più ampio. Solitamente l'accesso agli edifici è preceduto da un portico in antis, cioè con colonne inserite tra i prolungamenti dei muri della cella. Questa forma primitiva dell'edificio sacro è testimoniata da una numerosa serie di modelli in terracotta (Argo, Perachora). Nelle isole dell'Egeo è testimoniata anche una tipologia distinta dal tetto piatto costruito con travi ricoperte d'argilla (p.es. il modello di Sellada, Thera).

Lo sviluppo dell'edificio sacro verso forme monumentali, che lo distingueranno nettamente da altre tipologie architettoniche, fu provocato dall'inserimento del t. in un contesto cultuale con altari all'aperto. Questi primi santuarî erano al servizio non solo di comunità di fedeli più numerose, ma anche delle loro rispettive organizzazioni politiche. Il t. comincia ora a distinguersi da edifici destinati a un'altra funzione sia per le dimensioni più grandi, che solitamente si estendono in lunghezza, sia per la netta forma rettangolare, come pure per il materiale da costruzione scelto e per la tecnica sofisticata.

Nella prima età arcaica in tutte le regioni della Grecia si cercò di realizzare un edificio destinato al culto che fosse più complesso e sontuoso. Le grandi dimensioni, l'impiego di materiali durevoli, la ricchezza dell'apparato decorativo e, infine, anche alcuni elementi distintivi e tipologicamente già definiti sono tutti fattori che garantirono al t. una monumentalità che fin da quell'epoca lo avrebbe distinto da tutte le altre tipologie architettoniche. I materiali disponibili - legno e mattoni d'argilla oppure pietra accuratamente squadrata - e il loro modo specifico d'impiego, influenzarono fortemente le prime forme architettoniche e diedero origine a modi diversi di realizzare edifici sempre più complessi. L'impiego della pietra contribuiva nel modo più efficace a creare un effetto monumentale: per quanto durante tutta la prima età arcaica fossero necessari quasi ovunque - a eccezione delle Cicladi, ricche di marmo - legno e tecniche altamente specializzate per la sua messa in opera. Infine la terracotta divenne indispensabile per realizzare una solida copertura dell'edificio.

Dal punto di vista tecnico-formale, la combinazione dei diversi elementi - pareti in pietra, sostegni dapprima in legno e poi in pietra, la trabeazione - divenne il punto centrale di interesse nella realizzazione del tempio.

Eccezionale importanza acquistano i sostegni impiegati per ampliare lo spazio interno e anche, a volte, in funzione della statica delle pareti. La loro disposizione all'esterno dell'edificio sacro, nel pronao e, soprattutto, nel circuito perimetrale, conferisce al t. un'ulteriore connotazione architettonica che lo distingue da tutti gli altri tipi di edifici.

È ancora aperta la controversia se il colonnato che circonda il t. abbia avuto in origine una funzione puramente pratica, cioè di protezione delle pareti dipinte (Isthmia, T. di Apollo) e per gli stessi partecipanti al culto (Vitr., III, 3,9, così anche i primi portici nell’Heràion di Samo) o, piuttosto, sia da interpretarsi come simbolo di dignità, in analogia con il baldacchino di tradizione orientale. Il portico in legno nel grande heròon di Lefkandi, del X sec. a.C. è, comunque, un indizio dell'antichità - del dispositivo.

Il t. períptero come fenomeno dotato di significati ben precisi, ci è testimoniato per la prima volta con sicurezza, in epoca tardogeometrica, dal primo t. nel Santuario di Artemide a Efeso in Asia Minore. Nell'ambiente dorico - è stato scoperto recentemente un prototipo a Mazaraki presso Patrasso. Nel corso del sec. VII si segue, sia nella - sfera egea (Samo: Heràion II), sia nella Grecia stessa (Eretria, Isthmia, Corinto, Argo, Thermos) l'evoluzione del concetto del t. periptero nelle sue linee più essenziali, anche se l'evidenza archeologica in molti casi rimane ancora discussa. L'ambiziosa tipologia di questa tipologia di t. richiedeva la soluzione di nuovi problemi: in primo luogo si trattava di trovare il sistema per una copertura più sicura per t. di grandi dimensioni. A ciò contribuì l'invenzione di tegole d'argilla cotta che permise di costruire coperture leggermente inclinate. In questa fase iniziale troviamo ampî tetti a quattro spioventi, accortamente realizzati con embrici e coppi; le dimensioni e le proporzioni di questi elementi realizzati in serie tradiscono lo sforzo di creare strutture architettoniche complesse e organizzate secondo un preciso ordine.

Tali elementi, che costituiscono le parti architettoniche più antiche realizzate in materiale non deperibile, sono quelli che si sono conservati nei t. di Apollo a Isthmia e a Corinto; a quest'ultima città viene inoltre attribuita dalla tradizione la scoperta del frontone triangolare a bassa pendenza.

Per ciò che concerne altre parti architettoniche in pietra, nel t. di Isthmia sono attestate anche cornici, le cui forme semplicissime non permettono però di capire quali fossero il genere e la disposizione della trabeazione corrispondente. Si suppone che queste cornici costituissero il coronamento delle pareti in pietra della cella, e anche fossero un legame puramente tecnico tra la parete e la copertura del tetto. La parte esterna del naòs è realizzata interamente con materiale non deperibile, e ricche pitture parietali con motivi figurativi contribuiscono alla decorazione dell'edificio.

Solo dopo un lungo sviluppo la peristasi acquistò importanza fondamentale per l'intero aspetto del t.: i varî elementi architettonici che la compongono vennero gradatamente realizzati in materiale sempre più ricercato.

L'ordine dorico e ionico in cui, come sistemi fondamentali, si venne a definire l'architettura monumentale greca del continente e dell'ambito egeo-ionico, sono da considerarsi come risultato di un lungo processo che abbraccia l'intera età arcaica e che è da porsi in rapporto diretto con gli sforzi compiuti dagli architetti greci per attuare la completa monumentalizzazione del tempio. Le dimensioni della costruzione e la collocazione dei suoi varî elementi architettonici sono prevalentemente dovute alle condizioni poste dal materiale stesso. Nonostante molte forme singole in entrambi gli ordini richiamino da vicino quelle realizzate in legno, le forme in pietra non sono da considerarsi «traduzioni» fedeli di modelli originali in materiale non deperibile; esse contengono piuttosto ancora singoli elementi formali senza alcun nesso strutturale. Questo vale soprattutto per l'ordine dorico, apparentemente ancora legato all'edificio in legno, che non per il sistema degli ordini ionici.

Età arcaica. - Peloponneso orientale e Attica. - Nel Peloponneso orientale e nell'Attica, dove era disponibile il pòros, pietra calcarea di buona qualità, si è cercato di realizzare in pietra l'esterno dell'edificio sacro. L'attenzione si concentrò in primo luogo sull'organizzazione dell'ordine dorico stesso.

I primi elementi templari realizzati in pietra furono plinti circolari per l'appoggio delle colonne (Argo, T. di Hera I), capitelli nonché cornicioni. All'inizio del VI sec. a.C. tutto l'edificio è realizzato completamente in pietra. Oltre al monumento «H» dell'Acropoli di Atene, l'esempio più antico è costituito dal T. di Atena Aphàia a Egina. Con la sua facciata prostilo-tetrastila, si presenta articolato in pronao, cella e àdyton, e pone già in luce le caratteristiche essenziali di un periptero di grandi dimensioni. I rapporti non ancora ben proporzionati tra le tozze colonne e l'alta trabeazione testimoniano invece la novità costituita da un edificio in pietra di tali dimensioni. Il fregio a triglifi, a rilievo basso, corre uniformemente sia attorno alle pareti lisce della cella sia al di sopra dell'alto architrave della fronte. Particolarmente evidente è la disposizione di un fregio a triglifi anche all'interno del pronao. La serie interna dei triglifi non si accorda né nelle misure né nella disposizione con quella posta all'esterno dell'edificio: le due serie costituiscono fasce decorative autonome. Questo t. è pertanto una delle testimonianze più importanti della genesi del fregio a triglifi derivato dalle articolazioni decorative nell'architettura pre-monumentale. I colori, conservatisi in buono stato, corrispondono già a un sistema che non verrà più abbandonato: gli elementi che si articolano in senso orizzontale sono in colore rosso, mentre quelli in senso verticale - regulae, triglifi e mutuli - sono colorati in nero. Anche l'articolazione dello spazio interno a tre navate, divise da due serie di colonne sovrapposte in due ordini e disposte per la lunghezza, rimane quella più diffusa.

Per quanto riguarda il t. periptero-esastilo, dopo questa fase preparatoria gli sforzi furono rivolti soprattutto a proporzionare e ad armonizzare tra loro le singole membrature architettoniche. Il nuovo t. eretto nel medesimo luogo a Egina tra il periodo arcaico e la prima età classica esprime già una completa soluzione architettonica in questo senso, così come i grandi t. peripteri di età arcaica a Delfi e a Corinto costituiscono le fasi più importanti di questo processo di sviluppo.

In questa zona l'impiego di elementi in terracotta, di maggiore importanza in altre aree, rimane limitato alla copertura del tetto. Le tegole corinzie - tegole piatte (strotères) e quelle a doppio spiovente (kalyptères) - sono realizzate con grande decisione sebbene si presentino molto sobrie nelle forme decorative.

Peloponneso centrale e occidentale. - L'esempio migliore di realizzazione architettonica di un t. nell'area del Peloponneso centrale e occidentale è offerto dal T. di Hera a Olimpia eretto poco prima del T. di Atena Aphàia I. L'alzato di questo edificio periptero già pienamente evoluto, con la sua cella divisa in pronao, naòs a tre navate e opistodomo, è fortemente condizionato dai materiali da costruzione disponibili. Mentre le pareti della cella erano realizzate con mattoni d'argilla cruda poggianti su ortostati di pietra, la peristasi era costruita interamente in legno con copertura fittile.

Ciononostante, il t. esastilo, nel suo complesso, ha già abbandonato la tradizione degli edifici in legno del VII sec.: le colonne in legno, ampiamente attestate dalle fonti, hanno ormai acquisito le proporzioni delle coeve colonne in pietra; queste vengono inoltre disposte soprattutto in modo che il «conflitto angolare», caratteristico dell'ordine dorico, fosse già parzialmente risolto grazie alla contrazione dell'interasse angolare del colonnato. Da ciò consegue la presenza di un fregio costituito, secondo il solito schema, da due triglifi e da due metope per ogni interasse. Contraddistinto dal cornicione di terracotta, nonché dalla sagoma del tetto di tipo laconico - tegole leggermente ricurve e antefisse dei coppi a forma di disco - il bordo del tetto, rispetto ai t. del Peloponneso orientale, assume un aspetto più vario e dinamico. Sul lato frontale, privo della sima, tutto il peso si concentra su un grande acroterio a disco, posto al centro del frontone e riccamente decorato.

Nell'architettura di quest'area, nell'avanzato VI sec., finora poco studiata, prevale la tendenza ad applicare alle semplici forme doriche, e particolarmente ai capitelli, un tipo di decorazione non prettamente di carattere architettonico, ma peculiare di altre produzioni artistiche. Caratteristiche modanature e altre decorazioni plastiche (Tegea, Sparta, Longa, Amyklai) lasciano supporre che gli elementi strutturali originari di legno fossero arricchiti con fasce decorate in metallo; si otteneva in questo modo una realizzazione estremamente elaborata non tanto con i mezzi della tettonica, quanto piuttosto con l'espediente tecnico di una decorazione applicata.

Grecia settentrionale e nord-occidentale. - Anche questa zona, con Corfù come fulcro di interesse, può giustamente essere definita un'area geografica e culturale con una sua esperienza architettonica autonoma e definita. Nonostante le influenze di Corinto o, in misura ancora maggiore, del Peloponneso centrale e occidentale, è evidente la preferenza per elementi plastici e decorativi. Per questo motivo, accanto alla pietra, acquista grande importanza la terracotta, particolarmente indicata per la decorazione architettonica. Le grandi terrecotte con decorazioni plastiche del tetto di Corfù sono le più antiche testimonianze di una tipologia architettonica monumentale, le cui fasi iniziali rimangono ancora sconosciute. Si tratta di rivestimenti di tetto noti come Gesichterfriese: strotères di tipo corinzio sono provvisti alle grondaie di lastre di sima incurvate che sono coperte a loro volta quasi totalmente da doccioni a forma di protomi leonine. Tra queste si inseriscono antefisse, poste a chiusura di kalyptères, a testa di gorgone o raffiguranti teste femminili, che vanno a costituire con le protomi leonine un fregio che come contenuto e come realizzazione plastica risulta unitario. A questi elementi si aggiungono inoltre metope di terracotta, dipinte a figure, e grossi cornicioni, pure in terracotta, che servono come punti di articolazione tra le varie parti architettoniche. Anche il t. C nel Santuario di Apollo a Thermos della fine del VII sec. viene caratterizzato soprattutto dall'impiego di terrecotte architettoniche dipinte e modellate.

La singolarità del linguaggio architettonico della Grecia nord-occidentale si evince soprattutto in confronto con le tendenze contrastanti che si ritrovano a Corinto. Le peculiarità di quest'area sopravvivono al completo predominio di strutture templari in pietra come dimostra, ancora in età tardoarcaica, l'architettura del t. di Kardaki a Corfù, riccamente decorata e nobilitata da un'ariosa peristasi.

Il desiderio di non sacrificare la preziosità dell'apparato decorativo alla severità dei valori espressivi della tettonica si mantiene vivo in questa zona anche quando, contemporaneamente ad altri centri importanti, si realizza con il T. di Artemide a Corfù un'espressiva struttura in pietra di grande formato. Oltre alle dimensioni grandiose di questo edificio si può notare un'altra caratteristica che lo connota e cioè il numero maggiore di colonne (8 X 17), soprattutto sui lati frontali, che contribuisce a sua volta a creare uno spazio ampio destinato al deambulatorio. Queste due tendenze (numero elevato di colonne e allargamento dello spazio tra peristasi e cella) non ebbero evidentemente seguito nella Grecia continentale. Anche per ciò che concerne il bordo del tetto, invece di riprendere i modelli corinzi, si privilegiano soluzioni locali: gli strotères portano adesso non solo la sima sporgente, ma anche costoloni pendenti la cui funzione originaria consisteva nella copertura dei travicelli aggettanti del tetto. Nel complesso ha così origine un'alta fascia decorata minuziosamente con disegni geometrici invece che figurati ; essa acquista un'importanza fondamentale per l'aspetto dell'intero edificio. Con l'imponente rilievo frontonale viene ulteriormente enfatizzata la facciata del tempio.

Un altro motivo ricorrente, comune a questo t. come a tutta l'architettura dell'isola di Corfù, è costituito dalla caratteristica decorazione di diversi elementi architettonici, in particolar modo nel capitello dorico, ornato con corone di foglie lavorate a rilievo (capitello di Xenvares). È riconoscibile la parentela con le soluzioni peloponnesiache già notate e con le coeve testimonianze delle colonie dell'Occidente greco; Corfù, la testa di ponte della colonizzazione occidentale, diviene da sola un crogiolo delle concezioni architettoniche più diverse che si stavano imponendo un po' ovunque in questo periodo ricco di grandi sviluppi.

Magna Grecia e Sicilia. - Nelle colonie greche di Occidente, soprattutto le città di origine achea tradiscono questa eredità mediata attraverso Corfù con piccole differenze da città a città. A partire dalla fine del VII sec., si sviluppa nelle colonie achee (in particolare a Sibari, Metaponto, Crotone, Posidonia), una ricerca architettonica contraddistinta da una molteplicità di idee e dal tentativo di fondere insieme elementi dorici e ionici, che non erano ancora nettamente distinti nella madrepatria.

I primi t. di queste città, fondate nelle fertili pianure prive di pietra di buona qualità, erano degli òikoi molto semplici, costruiti con pareti di mattoni di argilla cruda e poggianti su zoccoli in pietra. Nel t. più antico di Locri (Marasà I) le pareti, in mattoni d'argilla cruda, erano interamente rivestite e protette da grandi lastre d'argilla che presentavano decorazioni geometriche.

Poco prima della metà del VI sec. anche nella Magna Grecia si impone un impiego più frequente della pietra e un corrispondente salto qualitativo nella ricchezza della decorazione e nelle dimensioni degli edifici; proprio in questa fase si osserva una spinta precisa a creare una struttura architettonica plasticamente più elaborata. Nel primo T. di Hera alla foce del Sele, del secondo venticinquennio del VI sec. a.C., troviamo, assieme alle ricche modanature plastiche, anche una lunga sequenza di metope figurate; il fregio, costituito da lastre piatte di pietra arenaria e lavorate assieme ai triglifi contigui, risulta preziosamente elaborato e circonda l'intero edificio.

Nella seconda metà del VI sec. sorgono in queste città varî t. peripteri di notevoli dimensioni che, per la varietà delle soluzioni architettoniche, riflettono lo spirito innovativo che i nuovi coloni portarono nella ricerca e nella sperimentazione dell'edilizia sacra. I lati frontali dei t. con un numero variabile di colonne da 5 a 9 offrono l'accesso a un nuovo tipo di edificio, connotato da una diversa sistemazione dello spazio interno e dalla presenza di ampi ambulacri. Una serie di t. (Locri, Marasà I-II; Metaponto B I-II; Posidonia, antico T. di Hera I-III; Ciro, T. di Apollo I) costituisce un gruppo a sé in cui è comune il motivo arcaico della cella divisa da un colonnato centrale. Nel t. Β II (T. di Hera) a Metaponto i due ambulacri laterali sono chiusi da pareti e vengono così inglobati nello spazio interno, mentre all'esterno dell'edificio troviamo per la prima volta vere semicolonne.

Nell'alzato le forme canoniche dell'ordine dorico vengono associate a elementi tipici del gusto ionico: al posto delle teniae, delle regulae e dei mutuli, vengono inserite modanature plastiche. I triglifi, arricchiti ora da motivi plastici, perdono la loro funzione esclusivamente tettonica, disponendosi altresì a formare, unitamente alle metope, un fregio a fascia orizzontale di sicuro effetto ottico. Esso è ulteriormente sottolineato talvolta grazie a serie ordinate di metope scolpite, oppure da un fregio continuo a rilievo (Sibari) che circondano l'intero edificio. Il tipo di capitello decorato con corone di foglie, che trova la sua massima fioritura nei t. di Paestum, costituisce un elemento chiave per capire l'origine di questi nuovi modi di realizzazione architettonica. Contemporaneamente a questo sviluppo rigoglioso dell'architettura in pietra, l'eco della primitiva tradizione di strutture in terracotta non subisce alcuna interruzione; i cornicioni continuano a essere realizzati in terracotta secondo le forme e i motivi più svariati. Si sviluppa anzi la creazione di rivestimenti a cassetta, di gèisa da tempo tettonicamente superflui, e alte sime, spesso come doccioni a testa di leone, fin nell'inoltrato V sec. a.C.

L'architettura di età arcaica di queste colonie dell'Italia meridionale, fondate per lo più da gruppi provenienti da zone rurali della madrepatria e quindi senza alcuna tradizione consolidata, si dispiega con una disinvoltura assolutamente senza paragoni, e lontana dalla formulazione di regole secondo un solido canone. In Sicilia, invece, dove già dalla fine dell'VIII sec. le nascenti pòleis della Grecia centrale (Calcide, Corinto, Megara) avevano fondato le loro colonie, concezioni più rigorose sembrano essersi imposte molto presto. Soprattutto le colonie doriche raggiungono prima delle altre la formulazione di una completa monumentalità del t., come mostrano in particolare gli esempî di Siracusa, Megara Hyblaea e Selinunte.

Accanto ad alcuni primi òikoi, dalle forme semplici nei dettagli e caratterizzati da un impiego esteso della tenera pietra calcarea disponibile in loco, alcuni edifici di Megara Hyblaea e Selinunte, datati intorno al 600 a.C., rappresentano molto chiaramente questa prima fase della monumentalizzazione.

L'esempio più antico di tempio periptero in Sicilia rimane il possente T. di Apollo a Siracusa. In una dedica iscritta sullo stilobate si manifesta l'orgogliosa consapevolezza della ricca città coloniale per l'eccezionale risultato. Questo t. (6x17 colonne) esprime le caratteristiche fondamentali che connotano i t. della Sicilia per tutta l'età arcaica: fronte ampia e spaziosa, con doppia fila di colonne orientata verso E, ampio Ambulacro e cella terminante in un àdyton oscuro. In alzato il t. si sviluppa con colonne monolitiche disposte in modo serrato e con capitelli panciuti, al di sopra dei quali si trova una trabeazione eccezionalmente alta, che viene a sua volta coronata da una struttura rivestita in terracotta, formata da lastre di copertura e da una sima a gola. Malgrado il grosso sforzo di realizzazione, nel t. sono ancora trascurati i dettagli più fini. Così il fregio a triglifi si svolge attorno all'edificio ancora come una fascia decorativa scandita con regolarità, ma senza alcun chiaro rapporto con il colonnato.

Il seguente sviluppo si segue molto chiaramente a Selinunte durante tutto il VI sec. Per ciò che concerne il processo di mantenimento e, in parte, di incremento di questi elementi base della struttura architettonica (ampi ambulacri, cella stretta e profonda, chiaro orientamento del t. a E con ampio pronao, scalinate esterne), nella Selinunte del VI sec. si assiste al tentativo sempre più deciso di coordinare in modo più armonico il rapporto tra cella e peristasi. Anche nella trabeazione, coronata sempre da elementi in terracotta, la relazione tra le singole parti si fa più stretta ed equilibrata. La forza dell'aspetto resta l'elemento essenziale nella costruzione del t. greco-occidentale. Questa concezione emerge in maniera impressionante nei due giganteschi t., mai portati a termine, di Selinunte (t. G) e nell’Olympièion di Agrigento.

Asia Minore. - Come per le colonie d'Occidente, anche nell'architettura dell'area ionica della Grecia orientale si può distinguere una prima fase di sviluppo, che si svolge in maniera differenziata a seconda delle aree geografiche. L'area centrale dell'Egeo gravita attorno al santuario di Delo; in particolar modo le isole di Paro e Nasso acquistano un'importanza fondamentale per le loro cave di marmo. All'inizio del VI sec. si sviluppa rapidamente in questa zona un'architettura monumentale, le cui radici devono essere ricercate soprattutto nell'impiego di una tecnica capace di lavorare il marmo di eccezionale qualità. Questa si era già manifestata in grandi opere plastiche (Colosso dei Nassî, leoni di Delo, kouros di Samo).

La preziosità del marmo fu poi sfruttata in tutte le sue qualità tecniche ed estetiche in maniera sempre più consapevole. Oltre alle sottili colonne furono realizzati in marmo anche gli stipiti e l'architrave dei grandi portali, l'architrave, i travicelli del tetto e le tegole. La solidità del marmo rese possibili travi sottili e ampie distanze tra colonne e pareti, in modo da creare una più ampia e luminosa volumetria.

L'opera prima di questo ambito, collocabile intorno al 580 a.C., è già connotata da questi elementi: è il più antico T. di Apollo, detto anche òikos dei Nassî, a Delo. Particolare attenzione viene ancora posta sul volume interno, che si presenta diviso in due navate da una fila centrale di colonne estremamente slanciate. La trabeazione e con essa gli elementi dell'ordine architettonico esterno sono ancora in una fase formativa e si adattano alle necessità di natura strutturale e statica. La struttura caratteristica della trabeazione nell'area ionico-insulare è riconoscibile per la prima volta nel portico prostilo aggiunto al t. sul lato E intorno al 560, mentre la si può totalmente ricostruire nel t. di Sangri a Nasso. In questi monumenti l'epistilio è coronato da una modanatura, generalmente un kymàtion ionico, sopra la quale un fregio nasconde le estremità delle travi del tetto. Un ulteriore kymàtion, per lo più lesbio, segna il passaggio al cornicione aggettante con una semplice gola. La superficie del fregio viene presto utilizzata come potenziale elemento portante di decorazioni plastiche figurate (Thesauròs dei Sifnî a Delfi).

In seguito a queste fondamentali soluzioni inerenti l'ordine architettonico, con il tetrastilo-prostilo di Iria a Nasso del 570 si attuano ulteriori innovazioni nell'aumento delle dimensioni e nella messa a punto delle singole forme. I resti di tre t. che lo precedono, scavati nello stesso luogo, mostrano in modo esemplare l'evoluzione della planimetria a partire dall'inizio dell'VIII sec. a.C., prima della monumentalizzazione nel VI secolo. La Sfinge dei Nassî a Delfi, scolpita molto probabilmente dalla stessa officina, esprime nel modo più evidente questa nuova dimensione. Uno scopo importante rimane ancora la creazione di uno spazio interno luminoso, che viene ora articolato in tre navate. Nel t. di Sangri, databile intorno al 530, ricorrono persino cinque colonne, disposte sull'asse trasversale, a sostenere la copertura a spiovente di questo ampio spazio.

La flessibilità propria della prima architettura ionica si limita alla sistemazione delle colonne (dalle altezze variabili a seconda delle necessità) e dei capitelli dalla forma semplice e (grazie al loro echino circolare) atti a essere visti da tutti i lati. Tali capitelli trovano, per questo motivo, una particolare diffusione nelle Cicladi, a differenza del capitello di tipo normale ionico caratterizzato dalle sue due facce principali.

Nel t. di Sangri, all'ampia cella corrisponde il lato frontale dell'edificio, dove sono disposte cinque colonne tra due ante. L'effetto ottico che l'imponenza della facciata creava doveva poi riflettersi sulle due fronti prostile dei due più grandi t. tardo-arcaici delle Cicladi: quelli di Paro e Nasso. Il T. di Apollo a Nasso è l'unico edificio di questo gruppo a essere concepito come periptero, il cui pronao a due file di colonne e la cella a tre navate, con le loro chiare proporzioni (6 x 13), hanno avuto un duraturo influsso. Questo grande edificio nassio rimase incompiuto; la stessa sorte toccò alla maggior parte dei grandi t. ionici, la cui storia si lega a quella della loro committenza, cioè al fenomeno delle tirannidi e del loro desiderio di autorappresentazione. Queste considerazioni sono valide in particolar modo per i dipteri colossali di Samo e delle città dell'Asia Minore, che non vedono sorgere fino al IV sec. a.C. avanzato alcun ordine architettonico ionico «normale». In questa serie di t., caratterizzati soprattutto da un grande numero di colonne, la trabeazione trova la sua forma canonica soltanto dopo un lungo processo evolutivo.

Mentre nel primo t. di grandi dimensioni, costruito a Samo dall'architetto Rhoikos, la trabeazione è ancora in legno, a Didyma e a Efeso essa appare eseguita già in marmo. Le testate delle travi del tetto non si celano più dietro una parte del fregio, come nell'architettura cicladica, ma vengono evidenziate in maniera ritmica verso l'esterno sotto forma di dentelli articolati. Nello stesso momento il fregio figurato che, secondo la tradizione asiatica, veniva applicato sulle pareti in pietra della cella (Samo, T. di Policrate), viene ora applicato in diversi modi: sull'architrave (Didyma) o su un'alta sima (Efeso).

La struttura di questo tipo di trabeazione, molto più flessibile di quella dell'ordine dorico, ha reso possibile anche una disposizione ritmica delle colonne e un loro rapporto più armonico, rispetto all'impostazione spaziale della pianta. Le colonne non dovevano solo stupire per il loro numero, ma avevano inoltre la funzione di introdurre verso gli spazi interni e più sacri del t. e di renderli visibili.

Come si è potuto accertare a Didyma e, probabilmente, anche a Efeso, questa selva di colonne racchiudeva, al posto della cella, ampi cortili a cielo aperto (sèkoi), mentre la cella del t. di Samo era divisa da due file di colonne. A Didyma, inoltre, un piccolo t. situato al centro di questo spazio aperto accoglieva l'immagine di culto di Apollo. Questo tipo di impianto trova un significativo parallelo, anche se calato in un contesto dorico, nell'estremo Occidente ellenizzato, cioè nel gigantesco t. G di Se- linunte.

In seguito ai rivolgimenti politici delle città dell'Asia Minore, l'esperienza architettonica del mondo ionico d'Oriente, per opera dei profughi, ebbe la sua più logica conseguenza nelle colonie d'Occidente, a Siracusa, a Locri, a Metaponto. Proprio nel t. di quest'ultima città si realizza una combinazione nuova dei due fondamentali ordini ionici, quello cicladico e quello microasiatico, con la presenza coeva del fregio e dei dentelli nella trabeazione. Caratteristica è anche la pianta pseudo-periptera ricca di futuri sviluppi.

Età classica. - A t e n e. - Le concezioni architettoniche formulate nell'ambito delle Cicladi vennero introdotte nel V sec. a.C. ad Atene, dove si giunse a una fusione con l'originario stile dorico e successivamente a una canonizzazione delle forme che ebbe grande fortuna a causa della crescente preferenza per il marmo delle Cicladi, in particolare quello dell'isola di Paro, come materiale da costruzione. Dall'età tardo-arcaica i cantieri di Paro parteciparono alla costruzione dei famosi tesori di Delfi (thesauròi degli Cnidî, dei Sifnî, dei Massalioti, dei Clazomeni e degli Ateniesi), che contribuirono al diffondersi di questo stile architettonico anche sul continente.

La preferenza che Atene e l'Attica ebbero soprattutto nei confronti del linguaggio di ambiente cicladico-ionico produsse nel corso del V sec. la formazione di un linguaggio propriamente attico. Proporzioni più agili delle colonne (in confronto con quelle dell'ordine dorico originario) e un collegamento più dinamico tra i varî membri strutturali costituiscono i nuovi elementi che hanno contribuito alla soluzione dei problemi architettonici più complessi come, p.es., lo spazio esterno (Propilei), il rapporto assiale (Propilei) e la configurazione dello spazio interno (Partenone). Questa fusione consapevole di elementi concettuali e formali che nell'età arcaica erano stati nettamente separati tra i due ordini più importanti contribuisce, a partire da questo momento, a creare uno stile che avrà una grande diffusione. Questa nuova koinè architettonica, «sovraregionale», diviene norma vincolante valida fino all'età tardo-classica. A questo fenomeno si aggiunge una maggiore consapevolezza da parte degli artisti (Ictino, Mnesicle, Callicrate, Fidia) sia per le loro capacità sia per la qualità delle loro realizzazioni. In questo ambito le architetture dell'Acropoli di Atene (in particolar modo del Partenone), si dimostrano, proprio grazie a un ricco ed elaborato apparato decorativo, di grande forza espressiva e programmatica. Il severo dorico della prima età classica si interrompe invece con il T. di Zeus a Olimpia nel momento della sua massima espressione.

Magna Grecia e Sicilia. - Nonostante i citati esempî di edifici ionici, la ricerca architettonica delle città greche d'Occidente prosegue il suo sviluppo in modo autonomo e conseguente nell'ambito della pura tradizione formale dorica. Gli stimoli provenienti dalla madrepatria all'inizio del V sec. a.C. hanno contribuito da un lato a temperare gli schemi tradizionali che si erano consolidati in modo troppo rigido (Paestum), dall'altro a ripristinare il concetto di t. come struttura architettonica unitaria e chiusa in se stessa. Nel primo quarto del V sec., proprio nell'ultima fase delle tirannidi siciliane, emerge un gruppo di grandi t. che mostrano le stesse caratteristiche monumentali e la medesima preoccupazione di uniformarsi a un modello normativo vincolante: un uguale numero di colonne in preciso rapporto con la cella, interasse normale e problema del conflitto angolare accortamente risolto (Agrigento, Paestum, Selinunte, Siracusa, Himera). Come anche nel caso del coevo T. di Zeus a Olimpia, la progettazione viene realizzata secondo un rigoroso impiego di schemi proporzionali basati su numeri interi. In tal modo vengono creati ad Agrigento una serie di t. uguali, realizzati secondo lo stesso schema ma di minori dimensioni (Hera-Lacinia, Concordia, Dioscuri, Efesto), e dove è già visibile un irrigidimento della forma. Inserito nella stessa temperie artistica, il t. di Segesta rappresenta il punto di sviluppo dell'architettura monumentale templare nelle colonie greche d'Occidente.

Grecia continentale e insulare; Asia minore. - In Attica l'architettura dell'età tardo-classica, oltre che perfezionare il coordinamento delle varie membrature architettoniche e contribuire a un'elaborazione plastica delle forme struttive, ha rivolto una particolare attenzione alla conformazione più consapevole dello spazio interno dell'edificio sacro. Nel Partenone e nell’Hephaistèion il colonnato che, con una serie di colonne disposte a π su due ordini, circonda le statue cultuali rappresenta l'inizio di un insieme di sperimentazioni che trasferiranno dalla peristasi all'interno del t. le esperienze risultanti dalla proficua antinomia tra muro e disposizione delle colonne. Nel T. di Apollo a Bassae viene ricreato all'interno dell'edificio un ordine architettonico concluso con l'applicazione di un colonnato e una trabeazione con fregio. All'interno della cella la dimestichezza con il flessibile ordine ionico spinge all'impiego di colonne ioniche dalle forme slanciate appoggiantisi a pilastri. Sempre nel t. di Bassae appare per la prima volta la colonna corinzia visibile in tutti i suoi lati; la sua funzione si precisa come elemento di collegamento tra il naòs e l’àdyton che contiene l'immagine cultuale. Nella cella del t. di Tegea, decorata anch'essa con semicolonne corinzie addossate alle pareti, si raggiunge il punto massimo di sviluppo dell'età tardo-classica.

Contrapposto a un tale allestimento dell'interno del t., l'esterno comincia, invece, a irrigidirsi in determinate forme convenzionali, le quali nel IV sec. (Epidauro, Tegea, Nemea, Stratos) daranno origine a un fenomeno di classicismo accademico che si ispira ai modelli classici degli edifici dell'Acropoli di Atene. Rispetto al modello, le uniche variazioni riguardano non tanto la disposizione delle varie membrature architettoniche, quanto le proporzioni delle colonne sempre più slanciate e aeree, come pure la diminuzione di forza espressiva delle singole forme. Costituisce l'unica eccezione la configurazione particolare della thòlos (Epidauro, Delfi, Olimpia).

Alcune ripercussioni di questo fenomeno si hanno anche nella progettazione: verso la fine del V sec. si elabora, con l'aiuto di un sistema proporzionale a base numerica, un t. costruito completamente (pianta, alzato, singoli dettagli architettonici) con l'unico e semplicissimo rapporto di 2:3 (Delo, T. di Apollo). Al contempo la scoperta dei numeri irrazionali poneva in discussione, in qualche modo, il valore delle proporzioni costituite da numeri interi; e all'inizio del IV sec. si cominciò a imporre nella progettazione il sistema modulare, che si fondava sul principio dell'impiego di molteplici unità più piccole (embatèr) come, p.es., la metà del diametro delle colonne, oppure, come unità minima della trabeazione articolata in più parti, la via, cioè lo spazio tra i mutuli (Stratos, Ilion).

Nello stesso tempo si mise radicalmente in discussione l'impiego dell'ordine dorico - caratterizzato dal costante problema del «conflitto angolare» - come ordine architettonico per la configurazione esterna dell'edificio. Nel t. più importante di Pythos in Asia Minore (il T. di Atena a Priene, la cui pianta si basa su un rigido reticolo quadrato) si profila in maniera programmatica una nuova soluzione per l'ordine ionico. La trabeazione acquista ora, contro la variabile struttura dell'età arcaica, la sua definitiva forma classica.

Età ellenistica. - Asia Minore. - Mentre nella prima fase dell'ellenismo (III sec. a.C.) non si costruiscono più, in tutta la Grecia, nuovi t. peripteri, risulta un fenomeno estremamente particolare la ricostruzione in Asia Minore dei grandi dipteri al posto dei famosi predecessori di età arcaica. Accanto all’Artemìsion di Efeso e al t. di Artemide a Sardi, anche il nuovo grande complesso del santuario di Didima, con il suo cantiere, diviene uno dei centri più importanti tra i santuarî dell'Asia Minore. Le particolari necessità di questo santuario oracolare influenzano la struttura architettonica e la relazione con gli ordini: il diptero posto su un basamento a gradini racchiude, secondo lo schema arcaico, il cortile (sekòs), che contiene a sua volta un piccolo t. (naìskos). Il collegamento interno-esterno tra i fedeli e il luogo cultuale avviene grazie a un complesso sistema di passaggi sotterranei e porte utilizzate per riti epifanici. La molteplicità degli scopi e delle funzioni conduce ora, però, a un impiego totalmente nuovo degli ordini architettonici: i diversi elementi si trasformano da membri architettonici autonomi in parti decorative capaci di adattarsi a diverse soluzioni.

Ancora nell'ambiente dell'Asia Minore, in piena età ellenistica (II sec.), il t. periptero, per merito dell'opera di Hermogenes di Alabanda (v. hermogenes, 2°), acquista un nuovo valore normativo, il cui influsso perdura fino all'età romana, come dimostrano, oltre agli scritti di Vitruvio, alcuni importanti edifici (p.es. Ankara, T. di Roma e Augusto). Rinunciando al colonnato interno proprio dell'edificio diptero, nel nuovo t. pseudo-diptero si creano portici colonnati aperti e luminosi; la trasparenza di questa disposizione permette ugualmente di riconoscere il preciso sistema razionale che organizza le diverse parti dell'edificio. Il fregio figurato e i singoli dettagli si richiamano, in maniera retrospettiva, ai modelli di età classica. Nelle figure del fregio così come nelle forme architettoniche, spesso lavorate in modo impreciso, il contrasto chiaroscurale assume una certa valenza pittorica più che un valore preminentemente plastico.

Caratterizzati dalle stesse concezioni estetiche, gli ambulacri, in virtù della loro ampia spazialità, contrapposta a una cella stretta divisa in tre navate, assolvono ora la funzione di luogo di riunione destinato ai fedeli, divenendo così la parte più importante del tempio.

In questa nuova definizione delle funzioni (ampi porticati destinati ai fedeli e piccole celle ove era l'immagine cultuale) si preannuncia una tendenza che condizionerà ulteriormente i santuarî ellenistici, provocando la scomparsa del t. periptero come tipologia architettonica. In questo periodo diviene comune un tipo di t. di piccole dimensioni, spesso prostilo o solo con due colonne in antis, in relazione con piazze o corti aperte circondate da portici. Solo in casi eccezionali ci si richiama al t. periptero per mezzo di un rivestimento delle pareti della cella con mezze colonne (Epidauro, t. L), mentre la forma pseudo-diptera è ripresa nella prima età imperiale (Nîmes, Maison Carrée). Nei grandi santuarî concepiti come complessi architettonici unitari (Coo, Lindos), l'inserimento del t., caratterizzato ora da una facciata scenografica decorata con colonne, dà origine a un nuovo sviluppo che culmina nei santuarî a terrazze tardo-repubblicani dell'Italia centrale, e in ultimo nei t. dei Fori imperiali a Roma.

Forme e funzioni. - Accanto al t. periptero esistono altre forme base più semplici che ampliano l’òikos, e più precisamente il mègaron, o trasformano, con l'aggiunta di colonne, in edificio prostilo o anfiprostilo l'antica forma della casa in antis, conosciuta sin dall'età geometrica; questo avviene soprattutto nell'architettura dell'area delle Cicladi, dove sorgono forme di grandi dimensioni che raggiungono il rango di t. peripteri.

Per ciò che concerne la tipologia dell'edificio in antis, non è sempre certo se si tratti di un t. e non, piuttosto, di un tesoro. Una tale funzione può essere indubbiamente assunta anche dal tempio. Molti t. assumono in sé la duplice funzione di fornire una cornice architettonica all'immagine cultuale e, allo stesso tempo, di costituire uno spazio destinato ai preziosi oggetti votivi. Anche la thòlos, con la sua forma particolare a pianta rotonda, conosciuta già dalla prima fase della sua monumentalizzazione (Delfi, Thòlos arcaica), assolve agli stessi scopi; a causa di una complicata concezione architettonica, questa particolare tipologia non ha avuto però la stessa diffusione del t. a pianta rettangolare. Sulla scia dei nuovi concetti di forma, stile e proporzioni elaborati nel corso del V sec., le thòloi più sfarzose (Delfi, Epidauro, Olimpia), costruite nel IV sec., sono simbolo di questa differente consapevolezza del rapporto tra spazio interno ed esterno.

Ai compiti fondamentali del t. (contenere dignitosamente l'immagine cultuale e nello stesso tempo offrire una forma architettonica rappresentativa di fronte alla comunità dei fedeli riunita attorno all'altare) si aggiungono ulteriori funzioni che investono lo spazio. Esempî significativi sono costituiti dallo spazio riservato ai culti oracolari a Delfi, Klaros e Didyma. I grandi portali nei t. delle Cicladi e le aperture nei frontoni del t. di Magnesia fanno presupporre culti epifanici. La presenza di particolari soluzioni architettoniche nei t. dell'Occidente greco (celle molto ampie con àdyta isolati, peristasi parzialmente chiuse) lasciano supporre anche qui culti epifanici, cui partecipava un gran numero di fedeli riuniti all'interno del tempio. Per una migliore definizione delle problematiche riguardanti l'arredo interno del t., tuttavia, non sono sufficienti le fonti storiche disponibili, né i dati archeologici sono in grado di darci informazioni più dettagliate.

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(D. Mertens)

Etruria. - La tematica legata al t. etrusco può essere oggi affrontata con nuovi strumenti di lettura, che derivano dall'affinamento dei metodi di indagine archeologica e di analisi strutturale dei monumenti antichi con il contributo di scienze ausiliarie e dai recenti contributi critici sul trattato vitruviano. Il catalogo della mostra Santuarî d'Etruria (1985) ha segnato una vera e propria svolta nella storia degli studi sul t. etrusco, evidenziando il valore progettuale specifico di ciascuno degli edifici all'interno di una gamma di varianti del modello costruttivo di riferimento, e presentando una serie di proposte ricostruttive, in gran parte frutto di letture interpretative di monumenti conosciuti da tempo; l'approccio analitico, finalizzato a restituire una fisionomia a ciascun edificio, considerato non come pura volumetria (quale espressa dal tempietto di Alatri, ricostruito a Roma nel giardino di Villa Giulia), ma come forma architettonica che si inserisce nel paesaggio, chiamata a esercitare uno specifico richiamo visivo, ha trovato espressione nell'efficace restituzione dell'alzato del t. di Portonaccio a Veio, con una griglia di tondini di ferro appoggiata direttamente sul monumento antico, a suggerirne lo sviluppo in altezza e ad accogliere le terrecotte architettoniche di rivestimento alla quota originaria di collocazione (in base alla proposta ricostruttiva di G. Colonna e ai calcoli strutturali di G. Foglia; Boitani, 1995). La valutazione dei varî aspetti tecnici dell'organizzazione dei cantieri edilizî e dell'aspetto dimensionale degli edifici ha consentito, d'altro canto, di interpretare ciascuna fabbrica architettonica in funzione della capacità politica e tecnologica della città che ne commissiona l'esecuzione, nell'ambito di un sistema vivace di rapporti concorrenziali tra le pòleis etrusche (Rendeli, 1989). In tale ottica occorre pertanto scardinare la visione biunivoca tra strutture che rispondono al canone vitruviano (tuscaniche) e strutture che ne condividono l'impostazione generale (etrusco-italiche), analizzando il modello teorico nella sua progressiva evoluzione e nelle sue possibili varianti, senza sottovalutare il condizionamento delle risorse geologiche disponibili e delle operazioni di cantiere (materializzazione sul terreno di una griglia geometrica di riferimento; lottizzazione del lavoro tra diverse squadre di operai) nell'effettiva traduzione del progetto originario.

L'elaborazione di un modello architettonico strettamente pertinente alla sfera religiosa e sacrale matura con un certo ritardo rispetto allo sviluppo dell'edilizia civile: dopo una fase di culto praticato all'aperto, in aree appositamente delimitate e consacrate alla divinità (sacello,: Fest., 318 L; Varro, frg. Non. p. 13), esemplificate in Etruria dalla serie di recinti individuati a Orvieto nel sottosuolo della chiesa di S. Andrea, i primi edifici di culto si identificano con tipi di strutture abitative, realizzate ancora in materiali deperibili; in seguito, con lo sviluppo di un'architettura stabile, tendono a perpetuarsi nel tempo i modelli planimetrici delle case, soggetti viceversa a una rapida evoluzione, condividendo durante la fase arcaica l'apparato decorativo delle terracotte di rivestimento con altre categorie edilizie (Daamgard Anderson, 1993).

A Roselle, nell'area che successivamente ospiterà il foro della città, verso la metà del VII sec. a.C. sorge un piccolo edificio con vano circolare iscritto in una robusta struttura quadrangolare in mattoni crudi, coperto a thòlos e inserito all'interno di un cortile a pianta rettangolare, per il quale è stato proposto il richiamo all'aedes Vestae (Colonna). La sistemazione, pregna di significato simbolico e riecheggiata dai vestiboli circolari delle tombe medio-orientalizzanti, ricorda concettualmente quella della coeva capanna-tempietto di Sabucina (Romeo, 1989, p. 34, fig. XIII, 5), mentre il singolare abbinamento planimetrico trova anche attestazioni più tarde (p.es., Santuario di Santa Venera, Paestum: Pedley, 1993). Il forte conservatorismo che caratterizza le scelte edilizie in ambito sacrale, ben esemplificato dai periodici lavori di manutenzione cui era soggetta la capanna di Romolo sul Palatino (Dion. Hal., I, 79), si misura peculiarmente nel piccolo sacello evidenziato all'interno del cortile su cui gravita il complesso palaziale arcaico di Murlo (v. palazzo: Etruria), concepito quest'ultimo in forma monumentale e dotato di un ricco apparato di terrecotte di rivestimento. Il sacello, a pianta rettangolare (m 6 X 8 c.a), caratterizzato da una struttura esile e verosimilmente dotato di una copertura in materiale deperibile, si collega all'esigenza di evocare dal passato protezione sulla dimora e legittimazione dei poteri esercitativi, che è espressa con grande efficacia dalle figure di antenati in terracotta dispiegate lungo il crinale dei tetti. Da un punto di vista planimetrico, il sacello attinge da un lato alla tradizione capannicola (villaggio del Calvario, Tarquinia), dall'altro ricalca dimensionalmente i vani di minore modulo alternati lungo le ali del complesso, riecheggiando pertanto il modello della casa quadrata (esemplificato in Etruria nel Borgo di San Giovenale). La destinazione funzionale della piccola struttura è sottolineata dal suo addossamento all'ala NO del cortile e dalla sua posizione assiale rispetto a un vano aperto (interpretato come tablinum) fiancheggiato da due ambienti di minori dimensioni, in una contrapposizione analoga a quella intercorrente tra l'altare del culto gentilizio e il vano tripartito sul lato meridionale del cortile della Regia a Roma, nella formulazione di epoca repubblicana (Torelli, 1985a). Il modello palatino esemplificato a Murlo, contraddistinto da una pianta quadrangolare che concorre a evocarne il significato di locus inauguratus, viene in seguito riesumato intenzionalmente dal dèmos cerite per espiare l'uccisione dei prigionieri focei all'indomani della battaglia di Alalia (535 a.C.), a ribadire la responsabilità aristocratica del gesto: il santuario, parzialmente esplorato, innalzato in località Montetosto al cospetto di un gigantesco tumulo funerario sulla via Caere-Pyrgi mediante una poderosa opera di terrazzamento, risulta incentrato su un cortile sterrato, che accoglie in posizione decentrata un basamento forse di altare ed è fiancheggiato da ali di larghezza diseguale.

I primi edifici di culto in pietra privi di simulacro e forse inaccessibili ai comuni fedeli vengono realizzati a partire dalla fine del VII sec. a.C. (Varro, De vita populi Romani, 1, frg. 13, Riposati; per il T. di Giove Feretrio a Roma: Liv., I, 10,7) e ripetono il semplice tipo dell'òikos a pianta rettangolare, con apertura sul lato breve, che trova un precedente locale nelle dimore gentilizie riprodotte nelle tombe medio-orientalizzanti e un probabile referente iconografico nel modello di edificio con tetto stramineo dalla stipe votiva di Satricum e nelle urnette funerarie ceretane a forma di casa. L'òikos portato alla luce sulla collina di Piazza d'Armi a Veio (l'esempio più antico e meglio documentato) offre per l'appunto interessanti elementi di raffronto con l'architettura funeraria, quali la coppia di pilastri trasversali a sostegno della copertura, di cui rimangono in posto le basi, e la serie di triplici intagli sul filo interno della parete meridionale, che ricordano le lesene scanalate delle tombe. Il piccolo edificio, a pianta rettangolare (m 15,35 x 8,07), conserva i due filari di fondazione e lo zoccolo realizzati in blocchetti di tufo di pezzatura disomogenea e forma tendenzialmente quadrangolare, allineati sul filo interno della parete, secondo la stessa tecnica usata per le strutture abitative. Sacelli di questo tipo, caratterizzati da un impianto piuttosto semplice e da un limitato sviluppo in lunghezza (Dion. Hal., II, 34, 4), coperti con tetti di tegole e privi di partizioni interne (anche se, a rigore, potevano esistere muri divisori in mattoni crudi), sono documentati materialmente da strutture oppure, indirettamente, dal rinvenimento di terrecotte architettoniche di prima fase che attestano fasi edilizie cancellate da successivi interventi di monumentalizzazione (p.es. a Pyrgi). Nel Lazio il tipo architettonico è esemplificato a Satricum, nel tempietto rettangolare (m 10,40 x 6) che precede il t. periptero di Mater Matuta, conservato per l'altezza di due filari di blocchi recanti sulla faccia superiore le tracce delle leve di accostamento; a Gabî, in una struttura di analogo impianto, ma differenti proporzioni (m 8,8 X 4,60); infine, a Velletri e a Lanuvium, in resti di strutture murarie inglobate nei più recenti edifici templari, che lasciano postulare una più ampia diffusione del fenomeno (Colonna, 1984). In territorio etrusco, ulteriori attestazioni sono offerte dal Santuario di Celle a Faleri, nell'ambito del quale il nucleo più antico è stato identificato in un basamento rettangolare in blocchi squadrati di tufo con vano interno di fondazione, adatto a ospitare un piccolo sacello (m 3,60 X 6,20) inquadrabile nella prima metà del VI sec. (Colonna); infine dal santuario di Veio-Portonaccio, dove un muro in blocchi di tufo lungo m 18, ricalcato nell'orientamento dal muro settentrionale della cella dell'edificio templare, suggerisce lo sviluppo longitudinale di un complesso abbandonato intorno alla metà del VI secolo.

In questo specifico stadio di sviluppo dell'architettura templare, il modello dell’òikos è adottato parallelamente in Etruria e nel mondo greco, trovando giustificazione nell'impiego degli stessi materiali edilizi (legno, argilla) per la costruzione di strutture atte a sostenere coperture appesantite dal rivestimento di tegole. Le due tradizioni edilizie sembrano trovare un punto di contatto nell'area sacra di Gravisca dove, a seguito di una fase di frequentazione caratterizzata dalla presenza di tettoie e di strutture più o meno provvisorie, all'inizio del VI sec. a.C. viene impiantato, nel settore che successivamente verrà occupato dell’òikos di Afrodite, un sacello di forma rettangolare ripartito internamente e preceduto da brevi ante, con zoccolo murario in ciottoli e frammenti di tegole ed elevato in materiale deperibile; per le sue caratteristiche il tipo di edificio si qualifica come estraneo alla tradizione etrusca, trovando più puntuali confronti con i sacelli privi di peristasi del mondo greco e magno-greco. Sulla base di quanto proposto recentemente da M. Bonghi Jovino, la recezione di influssi in materia di architettura templare, troverebbe proprio nella pòlis di Tarquinia una compiuta espressione nella prima metà avanzata del VI secolo. Alcuni saggi eseguiti all'Ara della Regina per chiarire le fasi costruttive del monumento hanno consentito alla studiosa di identificare il nucleo arcaico del t. poliadico in un edificio di forma rettangolare (m 27 X 12,20), articolato in una cella allungata e in un pronao piuttosto profondo, realizzato in blocchi squadrati di calcare organogeno locale (macco) connessi con particolare accuratezza; le dimensioni dell'edificio sono eccezionali e trovano confronti con esempî dell'architettura magno-greca (t. di Locri-Marasà), mentre di grande interesse per lo sviluppo del t. etrusco è l'elevazione su podio e l'accesso mediante una gradinata.

Edifici a pianta rettangolare, con cella preceduta da un pronao più o meno profondo, concepiti su scala dimensionale ben più modesta, sono esemplificati in Etruria dal tempietto di Punta della Vipera (m 11,80 x 7,80), forse preceduto da colonne, inquadrabile nella sua prima fase edilizia al 540-520 a.C.; in via ipotetica, dall'edificio F della zona C di Acquarossa, interpretato come edificio sacro in relazione con il complesso monumentale della zona F, in quanto risulta attestato con la fronte sull'allineamento della sua facciata principale (Torelli, 1985a; contra Wikander, 1986, p. 82); infine, dal più tardo T. del Manganello, a Cerveteri.

La formulazione di una categoria architettonica specifica per gli edifici templari costituisce un significativo esito della forte spinta urbanistica che investe i centri etruschi all'inizio dell'età arcaica. Il modello planimetrico di riferimento è mutuato nuovamente dall'architettura domestica, ricalcando lo schema delle case ad atrio trasversale sul quale affacciano più ambienti affiancati, ben documentato dall'evidenza archeologica e riprodotto nelle camere funerarie; schema che negli edifici templari viene inserito all'interno di una griglia dapprima quadrata, in seguito di proporzioni più allungate e talvolta assimilabile al canone vitruviano (larghezza e lunghezza in rapporto 5:6; v. Vitr., vii, 1-2). Il t. si qualifica immediatamente per la presenza di un basamento a podio, che ne accentua la frontalità e al contempo sottolinea l'unicità dell'ingresso, accessibile mediante una scalinata costruita in muratura o lignea, secondo uno schema che ricorda i tumuli funerarî orientalizzanti con le relative rampe di accesso.

Per quel che concerne l'articolazione planimetrica, lo spazio risulta suddiviso trasversalmente in due settori, generalmente di analoga profondità: la pars antica, aperta sulla fronte, scandita al suo interno da file di colonne; la pars postica, occupata al centro dalla cella e ai lati da celle di minori dimensioni o da alae, delimitate da muri talvolta prolungati in facciata. La sistemazione laterale del pronao presenta maggiori problemi interpretativi, tanto in relazione alla lettura dei dati archeologici, quanto del relativo passo vitruviano, che ha suscitato diverse proposte ermeneutiche da parte degli studiosi. Sulla base delle ricostruzioni comunemente accettate, risulta che negli edifici ad alae il pronao era di norma chiuso sui lati; negli edifici a tre celle le soluzioni applicate sono invece più variabili, anche se frequentemente la fronte dell'edificio è caratterizzata dalla presenza di una fila di colonne, disposte sull'allineamento dei muri d'anta e delle pareti divisorie della pars postica. L'apertura laterale del pronao è invece più rara, e sembra trovare applicazione sistematica in una redazione tarda del modello. Pertanto l'edificio templare, che la collocazione sopraelevata rende apprezzabile nella sua volumetria complessiva, di norma non interagisce con lo spazio circostante se non in corrispondenza della fronte, offrendo la visione prospettica dell'apertura della cella, inquadrata dalle file di colonne. Tale concezione spaziale, efficacemente illustrata dai modellini fittili di edifici (Velletri: Staccioli, 1968, tav. XXVIII), trova un interessante parallelo nei thesauròi greci.

La scelta e la distribuzione dei materiali costruttivi è invece determinata da motivazioni di carattere strutturale ed è intimamente connessa all'elaborazione del modello: blocchi di materiale lapideo nelle fondazioni e nella definizione delle strutture portanti perimetrali, mattoni crudi intonacati e dipinti (eventualmente usati come tamponatura di telai lignei) nei muri di partizione della pars postica; pietra da taglio selezionata (ignifuga, a grana compatta) per basi, fusti e capitelli delle colonne, nonché per il rivestimento dei podi. Il legno è impiegato per la carpenteria del tetto: il raccordo della copertura alle strutture in elevato e la redistribuzione del carico sono assolte dagli architravi e da travi orizzontali sporgenti a mensola sulla fronte (traiecturae mutulorum); le falde della copertura sono definite dalla trave di colmareccio (columen), eventualmente integrata da uno o più mutuli intermedi, i cui segmenti sono supportati da sostegni sagomati a sezione piena oppure da cavalletti. L'ossatura delle falde è costituita da puntoni trasversali, su cui poggiano travetti, correnti ed eventuali strati di preparazione per la messa in opera del manto di copertura in tegole (un assito ligneo continuo, necessario almeno lungo la gronda e gli spioventi per inchiodare le tegole di riva e le sime rampanti; stuoie e strato impermeabilizzante d'argilla, o semplicemente grumi di argilla per correggere l'assetto di tegole e coppi); il notevole aggetto della falda di copertura, pari a un quarto del suo intero sviluppo in lunghezza, stigmatizzato da Vitruvio (IV, 7, 5) in rapporto alla necessità di proteggere le strutture in elevato dagli agenti meteorici, non sembra trovare riscontro sistematico, almeno nei casi in cui esistono elementi archeologici di giudizio (p.es., a Veio-Portonaccio). Per garantire un buon isolamento del sottotetto e proteggere le fibre del legno, lungo tutto il perimetro delle falde le travature sono schermate con lastre in terracotta, raccordandone eventualmente le estremità con tavolati continui, mentre in corrispondenza della fronte le testate delle travi longitudinali sono protette da placche in terracotta opportunamente tagliate per adattarsi all'andamento degli spioventi. Lo spazio frontonale è aperto, almeno fino all'età medio-ellenistica (con la significativa eccezione del frontone ellenizzante di S. Omobono, privo di seguito nella tradizione etrusco-italica), e delimitato in basso da un tettuccio spiovente in tegole e coppi, decorato con antefisse. Le terrecotte architettoniche permettono di registrare, dal VI al IV sec. a.C., un progressivo incremento dell'inclinazione delle falde della copertura, fino ad attestarsi intorno ai valori usati nei t. di età repubblicana e imperiale, compresi tra 18° e 20° (Wikander, 1993). Le proporzioni complessive del t. tuscanico dovevano comunque risultare incompatibili con il gusto estetico dell'epoca di compilazione del trattato vitruviano, tanto da determinare il paragone con «l'aspetto di una persona tarchiata piantata a gambe larghe nel terreno» (Vitr., III, 3, 5); all'esigenza di modernizzarne l'aspetto si riferisce la notizia sulla ricostruzione del t. capitolino (Tac., Hist., IV, 53), all'indomani dell'incendio del 69 d.C., rispettandone la pianta ma aumentandone l'altezza. L'elaborazione del modello viene attribuita alla Roma dei Tarquini, nell'ambito di un progetto articolato di definizione urbanistica della città (basti pensare alla costruzione della cerchia muraria in blocchi, avviata da Tarquinio Prisco: Dion. Hal., IV, 67, 4). L'esempio più antico di edificio tuscanico è offerto dal t. arcaico di S. Omobono, costruito per iniziativa del re Servio Tullio (Dion. Hal., IV, 27, 7; Liv., V, 19, 6) e soggetto a rifacimento a distanza di qualche decennio. Secondo la ricostruzione proposta, basata sui limitati saggi effettuati al di sotto della platea dei t. gemelli, l'edificio di culto arcaico si ergeva su un alto podio di forma quadrata (m 10,60 di lato) con cornice modanata, accessibile mediante una scalinata centrale, ampliato nella seconda fase articolandone la sagoma; presentava una cella in mattoni crudi entro alae e, sulla fronte, due colonne lapidee in antis. A Veio-Portonaccio il modello di riferimento viene interpretato, verso il 500 a.C., raddoppiandone quasi le dimensioni: l'edificio, parzialmente devastato dal crollo di cave di tufo in galleria, presenta una pianta quadrata di m 18,50 di lato. Progettato sulla base di un modulo pari a 3 piedi attici, presenta tre celle affiancate nella pars postica, ben distinta dal pronao mediante un muro continuo; la presenza di colonne tra le ante, in numero almeno di due, è suggerita dal rinvenimento di spicchi di tamburi e capitelli di colonna. A Portonaccio l'impostazione quadrangolare dell'edificio trova un significativo precedente nell'òikos inglobato nel muro di peribolo sul versante orientale del santuario, mentre per la formulazione del modello non si può trascurare la Regia nelle sue successive trasformazioni edilizie, con l'addossamento dei sacelli alla parete di fondo del cortile e l'accento posto sulla frontalità delle strutture e l'assialità del complesso, nonostante l'irregolarità dello spazio disponibile. Lo schema del t. a vano unico posto all'interno di un cortile a cielo aperto, ancorato al recinto perimetrale, ricorre in Etruria nel tempietto di Poggio Casetta a Bolsena, databile alla fine del III secolo.

All'iniziativa dei Tarquini le fonti storiografiche riferiscono l'apertura del cantiere del T. di Giove Capitolino, portato a compimento sotto il Superbo e dedicato nel 509 a.C.: ne rimane il basamento in blocchi di cappellaccio, di monumentali dimensioni (m 62X53,50: Dion. Hal., IV, 61), che doveva ospitare una costruzione di tipo tuscanico, fasciata sui lati da un portico perimetrale e priva di posticum. Sulla base di un passo di Varrone (Serv., Aen., IX, 488 ss.), all'edificio templare è stato attribuito un tetto a tre falde (Andrén, 1959-60; Colonna, 1981 e 1987; contra Giuliani, 1982; Castagnoli, 1986), secondo uno schema che ricorda la copertura delle grandi capanne ovali dell'Età del Ferro ed è ripreso nelle case gentilizie medio-orientalizzanti, con l'aggiunta di una falda minore absidata al normale tetto displuviato rivestito di tegole. Il T. di Giove Capitolino, privo di confronti nella tradizione edilizia arcaica e tardo-arcaica per le sue eccezionali dimensioni (qualunque fosse il rapporto tra il basamento e l'edificio relativo), esemplifica la commistione tra il modello tuscanico e la peristasi colonnata di stampo ellenizzante e si propone come punto di arrivo di un processo formativo di enorme portata. La medesima convergenza di apporti culturali sottende infatti alla formulazione del sistema decorativo delle terrecotte architettoniche di seconda fase (520-510 a.C.) e, con esse, alla definitiva affermazione del t. come categoria architettonica dotata di una propria autonomia. Il t. B di Pyrgi, di poco precedente (510 a.C.), ben esemplifica la trasposizione di spunti derivati dalla tradizione architettonica dell'Italia meridionale, in una formula che rispecchia formalmente i canoni estetici etrusco-italici. Il t., disegnato sulla base di un modulo di 3 piedi attici, è costruito sopra un terrapieno artificiale di argilla, utilizzando blocchi di tufo rosso ceretano appositamente trasportati dall'entroterra; la tecnica è particolarmente accurata, e prevede l'impiego di ciottoli a inzeppare le commessure dei blocchi. In pianta, il rettangolo (misurante 18,64x28,41 m alla quota dello stereobate) è definito da un robusto muro perimetrale ed è suddiviso internamente in tre parti, la centrale larga il doppio di quelle laterali, mediante due muri longitudinali. Tali strutture, ancorate anteriormente allo stereobate, sono collegate sul lato opposto da un muro trasversale soltanto all'altezza della terza assisa di fondazione, descrivendo una sagoma a ferro di cavallo. Al livello delle assise più profonde, lo stereobate risulta inoltre intersecato da una serie di muri trasversali con semplice funzione di contrasto, annegati successivamente nel terrapieno dei vani di fondazione e in parte smantellati, durante la vita del santuario, per recuperarne i blocchi. La maglia dei muri portanti suggerisce un edificio impostato su un basamento a gradini, a unica cella preceduta da pronao e costruita in blocchi di tufo intonacati, entro un perimetro colonnato con posticum contratto rispetto ai portici laterali. Il modello, giunto in Etruria attraverso Satricum, Minturno e Pompei, trova un'applicazione ben più monumentale nel t. grande di Vulci. L'edificio vulcente, oggetto di ristrutturazione in età romana, è stato assegnato dagli scavatori al IV sec.; l'esistenza di una fase originaria inquadrabile al 510-500 a.C., prospettata recentemente sulla base dell'analisi delle terrecotte recuperate sul fianco settentrionale del t. (Sgubini Moretti), offrirebbe una convincente giustificazione all'impiego del modello, qualificandolo vieppiù come precedente arcaico del peripteros sine postico (Colonna, 1985 e 1987). Il t. vulcente presenta uno stereobate (m 28 x 42,6) realizzato in una tecnica estremamente raffinata, che produce sul paramento un notevole effetto chiaroscurale: i blocchi, alternati in ricorsi per testa e per taglio con legamento in chiave, lavorati ad anathyrosis sui piani di giuntura, presentano in faccia-vista spigoli orizzontali accuratamente resecati e uno dei giunti verticali smussato, a significare la direzione di allettamento dei blocchi in ciascuna delle assise; allo stereobate si appoggia un podio in opera a scacchiera con fodera esterna in blocchi di nenfro (di cui si conservano pochi blocchi del plinto di base e del cuscino inferiore), che sulla fronte sostiene una terrazza accessibile mediante un avancorpo a gradinata. È probabile che il podio non sia pertinente al progetto originario, ma sia piuttosto assegnabile al IV sec., sulla base del confronto con le vicende edilizie dell'Ara della Regina, costituendo, dunque, l'indizio di un intervento successivo. Per quanto concerne la scansione dell'edificio, la presenza di due muri longitudinali collegati da traverse ha permesso di ipotizzare la presenza di un'unica cella prostila (Colonna), circondata sui quattro lati da una peristasi continua di colonne lapidee a fusto liscio intonacato, poggianti su basi in pietra (conservate nei pressi del monumento). Dimensioni analoghe a quelle dello stereobate del t. di Vulci caratterizzano l'Ara della Regina nella sistemazione assegnabile all'ultimo quarto del VI sec. a.C. (m 24,80 X 44), secondo la ricostruzione delle fasi edilizie del monumento formulata su base stratigrafica (Bonghi Jovino). Nella fase di fine secolo, l'edificio viene ampliato mediante l'aggiunta di due alae e di un pronao colonnato al nucleo edilizio già esistente, sfruttando la superficie del basamento originario; indicativa ai fini dello sfalsamento cronologico delle strutture è apparsa anche la diversa tecnica edilizia, in particolare l'impiego di una malta di argilla a forte coesione nelle giunture tra i blocchi. Il podio, accessibile come nella fase precedente attraverso una scalinata, era forse già preceduto da una breve terrazza, successivamente ampliata.

L'importazione dal mondo greco di modelli e di suggerimenti relativi all'organizzazione dei cantieri edilizi (di cui è indizio, tra l'altro, l'adozione del piede attico) contribuisce ad accelerare l'evoluzione dell'edificio templare in chiave monumentale, secondo un processo di cui il t. etruschizzante di Giove Ottimo Capitolino può considerarsi il punto culminante. Sul piano strettamente tecnico, la standardizzazione del materiale edilizio, l'apertura e la gestione di cave sistematiche e la normalizzazione delle varie operazioni di cantiere sono d'altronde i necessari presupposti alla realizzazione di fabbriche di un certo impegno, e risultano ormai saldamente acquisite alla fine del VI sec., come dimostra la politica urbanistica attribuita all'ultimo dei Tarquini.

All'inizio del V sec. a.C., la comparsa di un nuovo criterio costruttivo segna una significativa tappa nell'evoluzione del t. etrusco, ribadendone il carattere originale: lo schema, che si riflette in una migliore tenuta statica della fabbrica, prevede di concepire le fondazioni come una griglia geometrica di strutture murarie portanti, reciprocamente incernierate, innalzate colmando progressivamente i vani di risulta con strati alterni di argilla e di detriti di lavorazione dei blocchi. La sperimentazione del nuovo procedimento, che si affianca ai criteri costruttivi tradizionali, è stata motivata presumibilmente dall'esigenza di ovviare a terreni di base poco adatti all'edificazione. Non a caso, l'esempio più antico sembra offerto dal T. dei Castori a Roma (m 27,50 X 37), dedicato nel 484 a.C. in un sito bonificato dalla cloaca maxima e, nel secondo quarto del secolo, dal t. A di Pyrgi (m 24 X 34), sulla fascia costiera. In questo edificio le fondazioni seguono l'andamento digradante del paleosuolo, descrivendo due significativi salti di quota e, per la frequente mancanza di allineamento nella sovrapposizione dei conci, tradiscono l'intima connessione delle parti costruite con il terrapieno; la tessitura differenziata e la diversa profondità delle strutture stabiliscono una precisa gerarchia all'interno della griglia muraria, tanto nell'assorbire il carico dell'alzato che nell'impostazione geometrica della fabbrica. Nei due edifici, la pianta rispecchia la presenza di tre celle nella pars postica e di un pronao colonnato, chiuso lateralmente, cui si aggiunge in facciata una terza fila di colonne, ricalcando l'impianto di tipo monumentale del T. di Giove Capitolino. Il t. di Pyrgi introduce stabilmente nella formulazione del modello l'accorgimento di ritagliare due ambienti minori sul fondo delle celle laterali, dettato dall'esigenza di ottimizzare l'utilizzazione dello spazio; le celle del t. erano realizzate in mattoni crudi, intonacati e dipinti, le colonne costituite da tamburi di tufo, lisci e intonacati, con capitelli in peperino, materiale quest'ultimo impiegato anche per le modanature del podio (di cui restano poche schegge). Significativa, ai fini della ricostruzione dello sporto della copertura, è la presenza di due pozzi in corrispondenza degli spigoli della fronte anteriore del t., costruiti in blocchi di tufo parallelamente all'innalzamento del terrapieno dell'antistante terrazza. Nel filone della tradizione tuscanica, i due edifici rappresentano una specifica variante del modello teorico, improntata alla dilatazione dello spazio visivo e all'ingigantimento della massa volumetrica, di cui possono cogliersi i riflessi tardi.

La maggioranza dei t. tardo-arcaici interpretano invece il modello attraverso un debole allungamento della pianta e l'inserimento di una duplice fila di colonne all'interno del pronao, chiuso parzialmente; prescindendo dal rapporto tra le misure principali, che si aggira intorno al canone vitruviano, è interessante rilevare una certa omogeneità nelle dimensioni dei singoli progetti architettonici che riflette l'impiego di analoghe maglie geometriche di riferimento. La trasformazione del concetto architettonico di t., rispetto alla formulazione di epoca arcaica, è esemplificata al Foro Boario dalla ricostruzione del complesso sacro agli inizi del V sec. a.C., con i t. gemelli a cella unica e pianta rettangolare, inseriti tuttavia all'interno di un basamento quadrato comune (m 47,50 di lato). L'adozione contemporanea delle due distinte varianti dimensionali del modello, in sintonia con specifiche esigenze di autorappresentazione della città e della destinazione cultuale e funzionale degli edifici commissionati, si apprezza soprattutto a Caere; il fervore edilizio che investe i centri etruschi e laziali all'inizio del secolo, trova espressione tanto nel progetto di monumentalizzazione del santuario costiero pyrgense con l'innalzamento del t. A, quanto nella creazione di edifici monumentali all'interno del perimetro urbano, presumibilmente rafforzato da una cerchia muraria già a partire da quest'epoca (Cristofani). Le indagini promosse nell'ultimo decennio dal C.N.R., in collaborazione con la Soprintendenza per l'Etruria Meridionale, hanno consentito di portare alla luce due complessi sacri. In località Vigna Parrocchiale, in un sito precedentemente interessato da una vasta cava a cielo aperto e da un quartiere abitativo, sono state parzialmente evidenziate le poderose strutture di fondazione (fino a 15 filari di blocchi, nell'ingombro della cavità) di un t. a tre celle (largh. m 27 c.a), orientato a N e che si affianca a un edificio per adunanze a pianta ellittica. In località S. Antonio, sul versante della città antica nel quale la difesa del ciglio del pianoro è assolta mediante una serie di terrazzamenti, è in corso di scavo un complesso articolato, che comprende almeno un t. di minori dimensioni (m 16,80 X 24), tripartito e preceduto da una scalinata di accesso, realizzato mediante una griglia regolare di muri di fondazione (Cristofani). Anche a Marzabotto, l'individuazione di un t. urbano di grandi dimensioni (m 23 X 36) nella regione I (sulla base della lettura dei risultati della prospezione geofisica) sembra suggerire la compresenza di diverse classi dimensionali; ben più modesto sarebbe infatti l'impianto del t. C dell'acropoli di Marzabotto (m 18,20 X 21,40), costruito nel sistema a griglia di strutture murarie in una redazione che privilegia lo sfruttamento dei materiali locali (grandi pietre e ciottoli, commessi a secco). La pars postica si articolava in tre celle affiancate, dotate di un vano retrostante chiuso, mentre il pronao colonnato era schermato lateralmente da muri, conservati parzialmente in elevato. Caratterizzato da un analogo schema planimetrico, il t. orvietano del Belvedere (m 16,30/16,90 X 21,91) è invece impostato sul banco roccioso (matile) entro apposite trincee che consentono di seguire l'andamento delle strutture perimetrali, stabilendo la presenza di due brevi ante sul prolungamento dei muri esterni della pars postica e la posizione delle colonne (fondazione a nuclei isolati); a imprecisioni nell'impostazione delle operazioni di cantiere e al tipo di tecnica impiegata, meno elastica nell'accogliere correzioni in corso d'opera, deve imputarsi la sensibile contrazione della fronte dell'edificio e il mancato allineamento delle colonne rispetto all'asse dei muri di delimitazione delle tre celle. I muri delle celle erano costruiti in mattoni semicotti, dipinti in rosso e bianco, rinvenuti abbondanti nel corso dello scavo; due frammenti lavorati di nenfro sono stati assegnati alla fodera (originaria?) del podio, accessibile mediante una rampa centrale e aperto sull'antistante terrazza.

Alla stessa categoria dimensionale appartiene anche il t. di Pieve a Socana, esplorato solo parzialmente (largh. m 18,40), accessibile mediante scalinata, contenuto da avancorpi e preceduto da una terrazza.

Per quanto riguarda l'articolazione planimetrica e i rapporti proporzionali tra le distinte partizioni, i t. di Marzabotto e di Orvieto, nonché il t. tardo-arcaico di Lanuvium (m 16 X 22: nell'ipotesi ricostruttiva di Colonna) rispondono sostanzialmente alle prescrizioni vitruviane. Nella pianta del t. suburbano di Vulci, in località Legnisina (m 17 X 25 c.a), il rapporto canonico tra pars antica e pars postica (1:1) appare invece notevolmente alterato, con la contrazione dello spazio occupato dalle tre celle di fondo (che, per conseguenza, non presentano partizioni trasversali) e la duplicazione del pronao, dovute alla ritmica scansione trasversale del fabbricato in tre segmenti di eguale profondità. Dal punto di vista costruttivo, le strutture murarie si caratterizzano per l'impiego di blocchi in tufo rosso ben combacianti sul paramento esterno, abbinati a blocchi in tufo grigio o arenaria, separati da larghe intercapedini terrose sul paramento opposto e nelle partizioni interne; le colonne (di cui si conservano due scheggioni) erano in nenfro. Il tipo di planimetria, che tradisce la stretta dipendenza dalle case etrusche ad atrio trasversale nell'accentuazione della porzione interna del pronao, appare elaborato ad Ardea nella prima metà del V sec. (Colonna, 1984). I tre t. urbani di Ardea sono concepiti sulla base di una medesima scala dimensionale (m 24 X 33,40; 23 x 35; 21,50 X 35) che, abbinata all'originalità della pianta, riflette l'esistenza di una scuola architettonica locale, non aliena da suggerimenti dal mondo magno-greco; nel pronao, i cavi di fondazione ritagliati nel banco evidenziano la presenza di pilastri addossati alle pareti in corrispondenza delle due file di colonne, che contribuiscono a restringere il campo visivo e accentuano l'isolamento del settore più interno, ingigantito nel t. di Colle della Noce. Un maggiore sviluppo della pars antica caratterizza anche l'edificio templare prostilo tetrastilo recentemente portato in luce a Lavinium, con fondazioni in opera cementizia che inglobano strutture preesistenti in opera quadrata (risalenti almeno alla fine del IV sec.) e pianta decisamente quadrangolare.

Nella prima metà del V sec. a.C. si concentra la maggior parte delle realizzazioni nel campo dell'architettura templare, destinate a caratterizzare per lungo tempo il panorama delle pòleis etrusche. La nostra conoscenza di questi edifici è comunque parziale, poiché la perdita quasi totale delle strutture in elevato, dovuta al concomitante deterioramento delle parti deperibili e alla spoliazione intenzionale per il recupero di materiale edilizio, rende congetturale qualsiasi tentativo di ricostruzione tridimensionale e non consente di apprezzare le ristrutturazioni periodiche e quelle - certamente più cospicue - effettuate in occasione dei rifacimenti della carpenteria del tetto e del relativo sistema di rivestimento in terracotta. Ben diverso il caso dei t. poliadici di Vulci e Tarquinia, che nel IV sec. a.C. subiscono una radicale trasformazione in chiave monumentale. Per quanto concerne il t. grande di Vulci, in attesa di ulteriori indagini sul monumento, è presumibile che l'intervento abbia comportato almeno la realizzazione del podio foderato in blocchi di nenfro e dell'annessa terrazza. A Tarquinia, invece, la ristrutturazione interessa in primo luogo l'allargamento del podio, realizzato in opera a scacchiera, e la creazione di un'ampia terrazza, accessibile mediante una scalinata delimitata da due avancorpi, che ingloba un basamento e un altare preesistenti; l'edificio, ad alae con muri laterali prolungati in facciata, ampio pronao colonnato e cella preceduta da vestibolo, assume una connotazione peculiare, priva di confronti (tralasciando l'ipotesi ricostruttiva del presunto t. urbano di Marzabotto), per la presenza di tre piccoli ambienti sul fondo della cella e per l'aggiunta contro il muro di fondo di due ambienti trasversali, comunicanti attraverso un piccolo ambiente mediano, accentuando notevolmente lo sviluppo longitudinale del fabbricato (m 24,80 X 48,50). L'uso di blocchi di tufo rosso di dimensioni maggiori, al posto del macco, caratterizza l'ultima modifica dell'assetto planimetrico (III sec.), che comporta la soppressione del posticum, l'arretramento del muro di fondo dell'edificio e lo spostamento verso il fondo dei muri di partizione della cella.

Al IV sec. viene attribuito l'impianto del t. suburbano di Celle (m 28x36) a Falerii, impostato in un'area di culto edificata a partire dalla prima metà del VI sec.; l'edificio, aderente per dimensioni alla categoria dei t. tardo- arcaici di maggiore formato, costruito trasversalmente rispetto all'andamento del pendio e preceduto da una terrazza, è caratterizzato da una pars postica più profonda rispetto alla parte assegnata al pronao, scandito da due file serrate di colonne; la necessità di conservare la visuale del contiguo sacello arcaico ha suggerito, in questo caso, di ipotizzare l'apertura laterale del pronao (Colonna). Per quanto riguarda il t. urbano dello Scasato, gli esigui resti consentono di ricostruire un edificio largo 17 metri. I sedici tamburi in tufo cinerino, con incasso centrale per cavicchi di legno sul piano di posa, raccolti nella vasca a cielo aperto prossima al t., sono stati in parte utilizzati per ricostruire nel giardino di Villa Giulia due delle colonne del pronao; alte 6 m e caratterizzate da èntasis e rastremazione moderate, sono coperte da stucco dipinto a striature rosse verticali. Il t. di Talamone (m 12,84 X 19340), ad alae con muri laterali prolungati in facciata, cella in mattoni crudi e colonne in nenfro su fondazioni a nuclei isolati, sorge sopra un podio foderato in blocchi di calcare, accessibile mediante una scalinata centrale contenuta da due avancorpi. Realizzato nella seconda metà del IV sec. con un'imponente opera di terrazzamento della pendice collinare, contraffortato alla base da una platea a muratura piena, il t. segna una significativa riduzione dimensionale del modello, non giustificabile sulla base della posizione periferica del complesso. Il t. di Fiesole (m 13,45 X 17,20), databile all'inizio del III sec., propone infatti un impianto planimetrico analogo, in cui l'ulteriore schiacciamento delle proporzioni si riflette nella presenza di un'unica fila di colonne su base tuscanica tra le ante; le strutture murarie, conservate eccezionalmente in elevato per l'altezza di c.a 2 m, sono realizzate in blocchetti di pietra impastati con argilla, intonacati e dipinti in rosso nella cella.

A partire dalla fine del III sec. a.C., l'adozione del modello tuscanico nella formulazione dei Capitolia delle colonie e dei municipi romani segna una rinnovata fortuna del t. a triplice cella, anche presso le comunità dei socii; caratteristica dell'assetto planimetrico di questi edifici è l'apertura laterale del pronao, realizzata in maniera più o meno totale, che prevede in facciata la presenza di almeno una fila di colonne, collocate sull'allineamento delle ante e dei muri divisori delle celle. Il t. di Segni (m 25,30 X 40,80), che è stato recentemente attribuito a non prima del pieno III sec. a.C. sulla base della revisione dei dati di scavo (Cancellieri, 1991) e dell'incompatibilità dei moduli delle terrecotte di rivestimento tardo-arcaiche con le dimensioni dell'attuale edificio (Cifarelli), rappresenta una fedele replica del t. capitolino per la presenza di tre file di colonne, impostate su segmenti murari che si collegano a squadro al rettangolo perimetrale. Lo stesso schema planimetrico è ricalcato dal t. B (m 22,40 X 36) dell'acropoli di Volterra, su podio in calcare preceduto da un avancorpo, anch'esso costruito con nuclei di fondazione isolati. Fondazioni a scacchiera, secondo la tradizione dei t. di V sec., compaiono invece nel Capitolium di Minturno (m 17,82X18,60) e in quello di Luni (m 20 X 30,50), a tre celle e pronao completamente aperto, scandito da due file di colonne; a quest'ultimo edificio si contrappone un t. (m 16x20,50) costruito a ridosso delle mura sul lato NE, con pronao chiuso e celle laterali ripartite trasversalmente. Perfettamente rispondente alle proporzioni vitruviane è il t. di Cosa (m 22,5 X 29), che ingloba una piattaforma quadrangolare scalpellata nel tufo, quasi perfettamente orientata (templum).

Ulteriori tipologie edilizie attestate in età ellenistica sono i tempietti prostili distili, esemplificati nel II sec. a.C. in Etruria dal t. A di Volterra (m 13 X 27, 50) e probabilmente dal t. dell'acropoli di Populonia (m 13x18), nel Lazio dal t. di Alatri (m 26 X 33), riecheggiati nei modellini dalla stipe recente di Satricum (Staccioli, 1968, n. 38, tav. xlv) e da Teano (ibid., n. 47, tavv. liv-lv); inoltre il modello períptero ad alae, riflesso dalla «Tomba Ildebranda», che secondo una recente proposta interpretativa (Maggiani) troverebbe un'attestazione archeologica in un edificio scavato dal Mancinelli nel 1895 nella stessa Sovana, confrontabile dimensionalmente con il T. di Giunone a Gabi. Nella tradizione dei grandi santuarî tardo- repubblicani rientra infine il complesso scenografico di Castelsecco ad Arezzo, comprendente un podio templare e un edificio per spettacoli e protetto da un terrazzamento a semicerchio contraffortato da speroni.

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(B. Belelli Marchesini)

Roma. - è difficile inquadrare il t. romano come complesso architettonico. La sua storia è un coacervo di forme eterogenee riferibili a diverse tradizioni artistiche, diverse concezioni o funzioni religiose distinte all'interno della società e del contesto urbano. In primo luogo si potrebbe intendere come «tempio» ogni architettura che racchiude l'immagine o il simbolo di una divinità posta in risalto a scopo di culto rispetto al contesto in cui si trova. Anche considerando i soli edifici autonomi con interno accessibile, nella tradizione degli antecedenti greci ed etruschi, la quantità rende ardua la loro classificazione. Infatti, a differenza dei t. greci, manca una stretta connessione con piante o alzati di tipologia canonica e a ciò si aggiungono le svariate forme di decorazione. Poiché il legame fra le diverse parti costitutive risulta evidentemente del tutto casuale, un'analisi secondo criteri tipologici non avrebbe molto senso.

Età repubblicana. - I primissimi edifici sacri di Roma rientrano pienamente nell'ambito della tradizione etrusca. Il T. di Giove Ottimo Massimo, tra la fine del VI e il V sec. a.C., rivela per la prima volta esigenze nuove: la struttura mostra da molti punti di vista lo sforzo di fornire un effetto spettacolare, che intende misurarsi con i maggiori edifici greci coevi. Per il resto le forme architettoniche di tipo etrusco si affermano fino all'età tardo- repubblicana (Vitr., III, 3, 5) e nella loro modestia furono interpretate come segno dell'antica semplicità (p.es. Liv., xxxiv, 4, 4).

Risulta difficile anche fissare il momento preciso della nascita del tipico t. romano, poiché all'inizio le differenze dalla tradizione italica locale rimangono minime. Tuttavia dalla fine del IV e dal III sec. a.C. si comincia a riconoscere un mutamento evidente nella struttura del t., dapprima solo a Roma e poi progressivamente anche fuori della città. Tali nuove caratteristiche vengono alla luce in tanti particolari come l'altezza del podio (t. C di Largo Argentina; Paestum, t. del Foro) o la disposizione assiale nell'ambito del santuario (fase 5 dei t. di San Omobono). Col tempo i t. offrono possibilità sempre maggiori agli architetti di esprimersi attraverso l'elemento decorativo (T. di Quirino del 325 a.C. e di Salus del 311 a.C., di Consus del 272 a.C.). Da questo mutato interesse nasce lo sforzo di organizzare i t. nel loro contesto in maniera efficace rispetto all'epoca precedente. I varî t. seguirono le tipiche forme architettoniche della tradizione locale, ma a tal proposito mancano sufficienti testimonianze archeologiche.

Intorno alla fine della seconda guerra punica, si iniziano a erigere costruzioni interamente in pietra (T. della Magna Mater del 191 a.C. e della Fortuna Equestre del 180 a.C.), che nella loro struttura si rifanno a modelli greci (Liv., xlii, 3).

Il primo t. di marmo a Roma fu ideato nel 146 a.C. per Giove Statore nella Porticus Metelli dall'architetto greco Hermodoros (v.), il quale poco dopo eresse anche un t. dedicato a Marte. Le forme greche sono evidenti nei particolari degli elementi struttivi, alcuni dei quali importati (t. circolare al Foro Boario) e nella pianta peripterale (t. sotto S. Salvatore in Campo). La concorrenza fra committenti portò rapidamente a un incremento in dimensioni, qualità e disposizione degli edifici (T. di Honos e Virtus di Mario; ricostruzione del T. di Giove sotto Silla; T. di Venere vincitrice in cima al Teatro di Pompeo; di Venere genitrice nel Foro di Cesare; progetto del maggior T. dell'Ecumene sotto Cesare: Suet., Iul., 44).

Nel resto d'Italia, dove la concorrenza fra le città condusse a una crescita qualitativa, si ebbe una situazione simile. Nel III e nella prima metà del II sec. a.C. si ebbero dapprima impianti modesti (p.es. Cosa, Alba Fucente), mentre in seguito si spesero mezzi imponenti soprattutto per la disposizione scenografica degli edifici (p.es. Fregellae e Gabii), cosicché le città con diversi edifici anche eretti attorno al t. poterono chiaramente dimostrare le loro nuove caratteristiche urbane (p.es. Palestrina, Tivoli, Terracina). Tali tendenze sono evidenti anche in complessi templari più piccoli (Ostia, Cori, Pompei).

L'aspetto esteriore dei t. si richiamava essenzialmente ai modelli greci. Un'innovazione riguardava la ricca decorazione degli interni. Esempio di ciò si può riscontrare nel T. della Magna Mater del 191 a.C., ma in seguito ricorre più frequentemente composta da file di colonne sui lati lunghi (Brescia, t. del foro a Pompei e T. di Ercole a Tivoli) e da edicole per l'immagine di culto (Cori, Ancona).

I t. dell'età repubblicana evidenziano alcune caratteristiche strutturali che semplificano l'architettura del t. romano: dipendendo da un singolo committente essi servono alla sua autorappresentazione. Tale circostanza porta a una ricchezza di manifestazioni formali differenti, che soltanto entro certi limiti sono ancora sottoposte a norme più generali.

La prima età imperiale. - Con l'età augustea si impone progressivamente un nuovo modello. La decorazione marmorea diviene una norma, perciò si aprono le ricche cave di Luni, da cui proviene il materiale per le costruzioni.

Si giunge a una prima canonizzazione delle singole forme decorative fra le quali prevalgono capitelli corinzi e trabeazioni a mensole. Nella prima fase del dominio del princeps (fin quasi al 20 a.C.), nella tradizione repubblicana vengono in luce tentativi estremamente diversificati, che vanno da una decorazione fortemente stilizzata, addirittura povera (T. del Divo Cesare, di Saturno e di Apollo sul Palatino), fino a forme più ricche ed elaborate che prevedono l'impiego di varî tipi di marmi (T. di Apollo in Circo, Pantheon di Agrippa). Sia in pianta sia in alzato vengono utilizzate soluzioni del tutto eterogenee, p.es. dipteri (T. di Quirino) e peripteri con una fitta serie di colonne nel pronao (T. di Diana Cornificiana).

Al di fuori di Roma la tradizione della tarda età repubblicana si mantiene viva ancora a lungo in età augustea, sia in Italia (Assisi, Fiesole, Minturno, Aquino) sia nelle provincie occidentali (Vernègues, Vienne, Barcellona, Merida, il c.d. T. di Diana a Leptis Magna): ciò si vede soprattutto nella decorazione e nelle strutture più semplici. Anche in altre località la situazione non appare diversa, giacché i t. in Egitto (File), Asia Minore (Mylasa) o Grecia (Samo, Corinto) mostrano, in parte, forme architettoniche singolari. Ma in questo campo colpisce il fatto che i vecchi t., dove questi ancora esistevano, furono ricostruiti oppure reintegrati di nuovo nel tessuto urbano della città (Atene, Eretteo; T. di Ares nell'Agorà). Specialmente in zone di confine, si nota che questo rapido sviluppo dell'urbanizzazione romana riesce a imporsi anche al di fuori dell'impero, anche se, spesso in relazione a tradizioni locali, sorgono soluzioni estremamente singolari (Palmira, regno dei Nabatei e di Erode).

Al più tardi col T. di Marte Ultore (dedicato il 2 a.C.) si è imposto a Roma lo stile corinzio, che nel I sec. d.C. nelle provincie d'Occidente rimane vincolante per il t. di tipo monumentale. Caratterizza questi edifici una struttura armoniosa dei suoi motivi decorativi, come pure una netta distinzione tra una ricca decorazione interna e una esterna più modesta, come si può notare in modo particolare confrontando il T. di Marte Ultore e quello di Apollo in Circo. Queste nuove caratteristiche emergono anche nel T. della Concordia e in quello dei Dioscuri nel Foro. Tratti importanti che contraddistinguono tali edifici sono l'integrazione delle decorazioni plastiche, che nella prima età augustea appaiono ancora come aggiunte successive, e il loro inserimento nel contesto urbano, mentre in precedenza i t. si erigevano isolati nelle piazze (Teatro di Pompeo, Foro di Cesare).

Gli edifici eretti nella capitale valgono come prototipi per l'Italia e le provincie, anche se in queste ultime non si arrivò mai alla qualità dell'arredo nei t. della capitale. Tuttavia nel T. di Roma e Augusto a Ostia, in quelli di Terracina e Pozzuoli o in quello della Fortuna Augusta a Pompei si avverte lo sforzo di emulare tale qualità. Al di fuori dell'Italia ne sono esempî i t. a Pola, la Maison Carrée a Nîmes o i t. di marmo a Merida e Cordova; accanto a questi una quantità di esemplari sparsi mostra che praticamente in ogni città della parte occidentale dell'impero romano furono eretti tali edifici. Anche in Oriente sorgono edifici templari, in genere funzionali al culto dell'imperatore (Ankara, T. delle Neocorie a Pergamo, Corinto, Cesarea Marittima, Samaria Sebaste); il che non esclude altri culti (Ba'albek, Pessinunte).

In età augustea i t. acquistano un nuovo significato con il tentativo di ancorare il principato a una religiosità solo esteriore, ma condivisa da tutti i cittadini. La nuova dignità dell'edificio sacro viene in luce nell'uso frequente della locuzione «aurea templa». A Roma, p.es., Augusto appoggia soprattutto i tradizionali culti di stato, e non restaura, se non in misura limitata, santuarî di divinità orientali (T. della Magna Mater sul Palatino); analogamente mancano grandi t. per Dioniso o le divinità misteriche. Invece al di fuori di Roma, gli edifici per il culto dell'imperatore o di una delle sue qualità specifiche (Fortuna, Virtus, ecc.) divengono di primaria importanza. In molti luoghi, oltre ai grandi t., sorgono piccoli santuarî con edicole e nicchie di culto (culti compitali a Roma). Inoltre anche molti edifici pubblici vengono forniti di relativi sacelli (p.es. basiliche, teatri e simili), che potevano essere completamente diversi tra loro .

La media età imperiale. - Nel periodo successivo alla dinastia giulio-claudia, le manifestazioni di una religiosità espresse in forme monumentali si indeboliscono di nuovo. Nei santuarî gli edifici templari non hanno più un ruolo primario, ma costituiscono soltanto una delle componenti di tali complessi. Tale concezione si può riconoscere già nel santuario, sorto sotto Nerone, per il Divo Claudio, ma essa si esprime meglio in seguito, nel T. della Pace eretto da Vespasiano, dove il pronao viene inserito nel portico a colonne che cinge il santuario. Stando alle fonti la decorazione mette in ombra complessivamente l'edificio. Altrettanto si può dire per il Santuario di Iside (di età flavia) nel Campo Marzio, in cui una serie di cappelle si alterna con altri elementi preziosi, ma in questo caso va considerato anche il condizionamento delle tradizioni del culto orientale. Infine con Domiziano, a Roma, vengono restaurati o eretti ex novo un'intera serie di templi. In essi si coglie una nuova qualità di decorazione architettonica, che sostanzialmente si mantiene fino all'età severa ed è contraddistinta da una forte semplificazione delle forme che nel passato erano più differenziate. La mancanza d'interesse per i t. in questo periodo ne giustifica la posizione nella città e le dimensioni: se non si tratta proprio di nuove costruzioni come nel t. del Campidoglio e in quello di Venere Genitrice, altri t. rimangono piuttosto piccoli e in posizione subordinata, come, p.es., quello di Vespasiano al Foro o di Minerva nel Forum Transitorium.

Anche in Italia e nelle provincie centro-occidentali dell'impero è possibile riscontrare una tendenza analoga. Spesso si tratta di restauri (Pompei, T. di Iside; Brescia, Foro), ma tranne rare eccezioni (Benevento, T. di Iside) mancano nuovi edifici di grande rilievo. La recessione che colpì le attività edilizie corrispondenti si manifesta anche nella distribuzione statistica delle parti della decorazione architettonica ancora rimaste. Nelle provincie la situazione è differente tra zone centrali (Tarragona, Avenches) e periferiche (Colonia, e città della Britannia), ma nel complesso anche qui divennero più rari gli edifici che potessero competere per qualità d'esecuzione e posizione dominante nell'ambito cittadino con quelli dell'età augustea. Ciò vale anche per la parte orientale dell'impero, dove si possono trovare solo pochi esempî di notevole importanza (Efeso, T. di Domiziano).

Qui come altrove nell'impero romano, l'epoca di Traiano, e soprattutto quella degli imperatori successivi, porta nuovi impulsi, che si esprimono principalmente nelle dimensioni e nella forma degli edifici piuttosto che nella qualità della realizzazione, per la quale ci si attiene a quella della prima età imperiale. In tal modo il T. del Divo Traiano del foro omonimo e quello di Venere e Roma forniscono per la prima volta, come edifici di culto, caratteristiche nuove e fondamentali per la città. Lo stesso vale anche per il Pantheon e i t. eretti nelle sue vicinanze per i membri deificati della famiglia imperiale. Ma questa nuova costruzione del Pantheon fornisce anche a livello formale una soluzione completamente inedita, offrendo alle tendenze della prima età imperiale una nuova dimensione espressiva, in modo particolare con l'arricchimento della decorazione dell'interno. Tuttavia a Roma si affermano tendenze alquanto convenzionali, come mostra il T. di Antonino Pio e Faustina. Probabilmente anche l'edificio più grande di Roma, il c.d. T. di Serapide sul Quirinale, presentava un aspetto tradizionale. Anche se l'impianto globale del santuario come le vaste scalinate è insolito, l'edificio centrale appare vincolato a piante tradizionali. In età severiana si provvederà ancora a una serie di restauri e ricostruzioni, p.es. al Pantheon, al Portico d'Ottavia e al T. di Vesta nel Foro.

Nel II sec. la vita religiosa si sviluppò in misura crescente attorno a santuarî minori, quali quelli di Mithra, Attis e Cibele o delle divinità di Heliopolis. Ciò potrebbe valere analogamente per tutta l'Italia, in cui si riserva un'attenzione particolare a minuscoli santuarî rurali (Plin., Ep., IX, 39). Nella parte occidentale dell'impero durante il II e gli inizi del III sec. vengono eretti solamente pochi t. monumentali mentre in Italia se ne trovano rari esempî (p.es. Ostia, Capitolium), tuttavia anche t. come quelli di Italica (Traianeum) o Carnuntum (Pfaffenberg) non sono particolarmente numerosi. Ciò non vale per il Nordafrica, dove continuano a sorgere t. monumentali in quasi tutte le città. Si ricordino solamente il grande t. per la triade capitolina a Timgad, quello a Dugga e l'edificio a Tebessa, già di età severiana. Sulla posizione predominante nel foro o già nella città (p.es. i t. a Gemila) influiscono fattori diversi, fra cui gli alti podi (t. nel Foro di Settimio Severo a Leptis Magna), una serie di edifici diversi, allineati in modo da ottenere una visione frontale del t. (Dugga), singole forme insolite (Tebessa), o porticati che danno direttamente sulle piazze.

Praticamente in tutte le provincie occidentali, analogamente a quanto riscontrato in Italia, si può osservare la crescita di importanza dei piccoli santuari, che spesso sorgono anche fuori della città, in campagna. Assieme a essi riprendono nuovo rigore culti per lo più indigeni e si affermano anche nuovi tipi di costruzioni, come, p.es., il c.d. t. gallico. In Africa per tali strutture isolate e familiari va menzionato il santuario presso la sorgente di Zaghwan o quelli di Esculapio a Balagrae o Lambesi.

Assai più ricco è il quadro che in questo periodo offre la parte orientale dell'impero romano. In Grecia va menzionato il completamento dell’Olympièion ad Atene, mentre in Asia Minore quasi tutte le città principali hanno nuovi templi. Fondamentalmente vanno distinte due tendenze: da un lato si copiano elementi decorativi e piante (diptere e pseudodiptere) della prima età greca e, come ad Atene, vengono portati a termine progetti analoghi (Sardi, Didyma), oppure si costruiscono nuovi t. ricorrendo soprattutto a forme ellenistiche (Aizanoi, Cizico, Euromos). In questo periodo alcune città hanno costruito intere serie di nuovi t. (Termesso, Efeso, Side), ed evidentemente proprio il t. diviene il simbolo di una nuova, acquisita coscienza civica. Dall'altro lato una serie di t. rimane nella tradizione dei modelli romani (fra essi, a Pergamo, il Traianeum e l'edificio circolare nell’Asklepièion; a Efeso, il T. di Serapide; Tarso), cosicché è difficile poter stabilire tendenze complessive di uno sviluppo formale. Infine si riscontrano, soprattutto in relazione ai culti orientali, costruzioni assolutamente singolari, riparate verso l'esterno da grandi recinti in muratura, come, p.es., nel c.d. Kizil Avlu a Pergamo, o formate da una sala chiusa come il Serapèion di Mileto. Anche in Siria si può osservare un ulteriore incremento nella costruzione di t., dopo l'età augustea. Essi si differenziano dalla solita forma fondamentale soprattutto nella disposizione degli interni, con l’àdyton nella parte posteriore della cella, che poggia su una sorta di cripta. Nei t. dello Hawrān si ritrovano anche altre inusitate divisioni degli spazi interni. Infine vanno rammentate forme notevoli come nell'edificio circolare di Ba'albek. Le costruzioni spesso imponenti dominano con la loro posizione le città (Gerasa, T. di Artemide; Damasco, T. di Giove), ma ci sono anche santuarî che si ergono isolati (Hösn Suleiman).

Santuarî rurali o piccoli, intimi impianti di culto in città, quali si diffondono in quest'epoca nella parte occidentale dell'impero romano, si trovano soltanto raramente in Oriente. Anche se, secondo la tradizione, nell’Asklepièion di Pergamo dovette esserci un'attività di culto particolarmente florida, a giudicare dalla sua struttura esso rientra piuttosto nella tradizione di analoghe istituzioni più antiche a valore sovraregionale. Altrettanto lussuosi sono anche gli edifici connessi con il tempio.

I t. del III e IV sec. d. C. - Fra le pratiche di culto del periodo tardo-antico, il t. come edificio perde di significato. Per quanto è possibile giudicare dagli impianti, i santuarî di questo periodo sono forniti solamente di piccole costruzioni, mentre le piazze e i loro dintorni aumentano d'importanza: ciò si vede dall'edificio circolare di età severiana del Phrygianum Vaticanum, della cerchia di Eliogabalo, o anche più tardi nel T. del Sole di Aureliano. Anzi, i t. possono essere intesi come simbolo della concezione del mondo che avevano i loro costruttori, senza bisogno di esibire un'utilizzazione accurata e completa dei varî materiali. Caratteristico a tale riguardo è il confronto fra mausoleo e T. di Giove nel Palazzo di Diocleziano a Spalato. Allo stesso modo vanno interpretati gli edifici di Massenzio in Roma (risistemazione del T. di Venere e Roma, gli annessi al T. della Pace, il mausoleo a forma di t. sulla Via Appia). Pertanto i t., privati completamente della loro funzione religiosa, possono essere interpretati soltanto come segni di una tradizione urbana (restauro del T. di Venere e Roma, più tardi quello di Saturno). Con i grandi edifici cristiani di culto dell'età costantiniana si afferma infine una nuova concezione religiosa che si riflette in una diversa architettura sacra e rende superflua la concezione del t. quale si era venuta delineando in epoca greco-romana.

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(H. von Hesberg)

Iran. - Dai Medi ai Sasanidi. - Lo studio dell'architettura religiosa in Iran è strettamente legato a quello della religione stessa, a sua volta profondamente dipendente dagli studi filologici: i numerosi problemi ancora aperti sulle religioni dell'Iran preislamico, dal mazdeismo degli Achemenidi allo zoroastrismo di stato dei Sasanidi, trovano un parallelo in campo archeologico nelle incertezze relative all'interpretazione di molte delle strutture per le quali è stata proposta una funzione templare. Questioni di fondamentale importanza, quali p.es. l'esistenza di un culto autonomo per Ahura Mazdā, Mithra, Anāhitā o ancora per altri yazata, con le possibili implicazioni iconografiche e architettoniche, o l'iconoclastia zoroastriana, sono ancora oggetto di discussione tra i filologi e gli storici delle religioni. A ciò si aggiunga che la conquista islamica interruppe in Iran la tradizione architettonica dello zoroastrismo, soprattutto nei suoi aspetti monumentali, cosicché un confronto con gli edifici del periodo moderno e contemporaneo o con quelli dei Parsi dell'India occidentale può essere proposto solo tenendo conto della profonda differenza di ordine sociale e politico.

Dai testi zoroastriani di epoca sasanide o islamica emerge tuttavia un concetto che condizionò profondamente la storia dell'architettura religiosa dell'Iran antico: come ha mostrato M. Boyce (1975), i t. destinati a ospitare immagini di culto erano definiti «dimore di dēv (esseri malvagi)», poiché le immagini, soprattutto quelle a tutto tondo, erano considerate una forma vuota di cui il male avrebbe potuto impossessarsi. L'ortodossia zoroastriana rispose alla diffusione di t. con immagini, iniziata da Artaserse II (404-359 a.C.) e proseguita in epoca seleucide e partica, con l'istituzione di un tipo di edificio di culto che sarebbe poi diventato il t. iranico per antonomasia: il t. del fuoco.

L'importante monografia di K. Schippmann, Die iranischen Feuerheiligtümer, costituisce un inventario di tutti i monumenti sacri noti fino al 1971, dal periodo achemenide a quello sasanide, volto a individuare eventuali tipologie architettoniche proprie dei diversi ambiti cronologici e culturali. L'opera, che a causa dell'arresto delle attività archeologiche nell'Iran della rivoluzione islamica (1979) può essere considerata ancora sufficientemente completa per quanto concerne la documentazione, è invece in parte superata dalle più recenti indagini di revisione critica degli scavi effettuati nel passato, che hanno condotto a riesaminare le datazioni e le interpretazioni già proposte per molti dei monumenti sacri o presunti tali.

Il quadro che oggi si può tracciare sulla base delle testimonianze archeologiche è complesso e articolato, più ricco di dubbi e problemi aperti che di certezze: molti di quelli che venivano considerati t. di epoca pre-islamica, non risultano più tali o perché aventi altra funzione o perché di epoca posteriore. In particolare, è stata dimostrata l'infondatezza della teoria sul t. del fuoco di epoca sasanide articolato in una struttura aperta a baldacchino per l'esposizione del fuoco sacro ai fedeli durante i riti (čahār tāq) e in un piccolo ambiente chiuso adiacente a esso per la conservazione del fuoco (ātešgāh), formulata indipendentemente da A. Godard e K. Erdmann negli anni '40 e fino a ieri comunemente accettata: l'evidenza archeologica al contrario conferma l'ipotesi proposta da E. Herzfeld già nel 1941 sulla base delle evidenze testuali, secondo la quale il t. del fuoco è costituito sempre da un edificio chiuso, in cui l'ambiente di pianta quadrata o cruciforme coperto dalla cupola sorretta dai quattro archi (čahār tāq) è separato dall'esterno da muri che chiudono gli archi o da corridoi coperti a volta. Sono tuttavia rilevanti le differenze tra i diversi monumenti portati alla luce (v. infra), legate forse a una gerarchia tra i fuochi, in parte confermata dai testi zoroastriani, o più semplicemente alle esigenze cultuali delle comunità di fedeli. Purtroppo i due complessi meglio noti grazie alle indagini archeologiche, Takht-e Solaymān e Turang Tepe (v.), per dimensioni e complessità planimetrica si collocano agli estremi opposti di tale gerarchia, mentre il gran numero di čahār tāq di media dimensione resta conosciuto solo in modo incompleto, senza un'indagine archeologica dell'area attorno al corpo centrale, ed è verisimile che in molti casi si possa trattare di rovine di monumenti islamici, come proposto da D. Huff. La mancanza di un'ampia documentazione archeologica costituisce ancora l'ostacolo principale per una conoscenza dell'architettura sacra dell'Iran, poiché se è vero che l'evoluzione dell'ideologia religiosa e delle pratiche cultuali attestata dalle fonti scritte non può non aver influenzato l'architettura, solo una completa e corretta restituzione planimetrica e cronologica dei monumenti potrà condurre al chiarimento dei numerosi problemi relativi alla loro funzione.

Le più antiche strutture templari di epoca storica portate alla luce sull'altopiano iranico sono quelle di Tepe Nuš-e Jān, presso Hamadan, uno dei principali siti archeologici della Media. Qui il complesso architettonico fondato intorno alla metà dell'VIII sec. a.C. sulla sommità del colle comprende due t.: il T. Centrale e il T. Occidentale, entrambi articolati in un vestibolo con rampa d'accesso al tetto o a un piano superiore e una cella con altare spostato rispetto all'asse centrale. Mentre il T. Occidentale è aperto a E e ha cella e vestibolo di pianta rettangolare, con la cella più larga del vestibolo, il T. Centrale è aperto a SO e presenta un perimetro esterno dalla caratteristica pianta cruciforme: il vestibolo occupa il braccio S, la cella quello centrale e quello N, uniti a costituire un ambiente di pianta triangolare con lati scalari decorati da nicchie triangolari. L'altare in mattoni crudi, a O dell'accesso alla cella, presentava la sommità concava per contenere fuoco o offerte da bruciare. Con l'abbandono intorno alla metà o alla fine del VII sec. a.C., questo t. fu colmato con strati di pietrame e argilla per un'altezza di 6 m e poi coperto da uno strato di mattoni crudi, analogamente a una prassi attestata nella Mesopotamia neo-babilonese, forse in previsione di una ricostruzione che non ebbe mai luogo.

Per il periodo achemenide, l'immagine tramandata da Erodoto (I, 131 ss.) e poi da Clemente Alessandrino (Protr., V, 65, 1) di un popolo, quello persiano, che non ha t. né statue di culto ma adora Dio all'aperto sui monti, non sembra molto lontana dal vero, dopo che il riesame critico delle testimonianze archeologiche ha mostrato che le terrazze con i podi e i due t. di Masjed-e Solaymān, il c.d. Āyadanādi Susa e il complesso di Kuh-e Khwāja nel Sistan sono di epoca post-achemenide. Il tipo architettonico rappresentato da questi ultimi due monumenti - la sala con quattro colonne o pilastri, circondata da ambienti allungati o da un corridoio su tre o quattro lati e comunicante con l'esterno attraverso un portico - era stato visto come prototipo del successivo čahār tāq; ma il confronto con le dimore patrizie di Ai Khānum rende verisimile che anche Āyadanādi Susa possa aver avuto una funzione di residenza e non di tempio. Per le due «torri» della Zendān-e Solaymān di Pasargade e della Qa'aba-ye Zardošt, di fronte alle tombe achemenidi di Naqš-e Rostam, pressoché uguali nelle dimensioni della pianta quadrata su basamento a gradoni, nell'alzato in blocchi di pietra bene squadrati con lesene agli angoli e finestre cieche, nella monumentale scalinata perpendicolare che conduce al piccolo ambiente rettangolare, sono state proposte diverse interpretazioni: t. del fuoco, monumenti funerari, depositi per i regalia della dinastia achemenide o per testi sacri. Non ci sono particolari ragioni per supporre che possa trattarsi di quei «luoghi per adorazione» (āyadanā, dalla radice yad-, «adorare»), che Dario I nell'iscrizione di Bisotun (dove nel testo babilonese sono resi con bītātēša ilāni, «case degli dei») afferma di aver restaurato dopo la loro distruzione da parte dell'usurpatore Gaumata: luoghi per i quali sono state proposte le interpretazioni più disparate, tutte in verità scarsamente fondate. Al contrario, sembra pertinente la notizia di Plutarco (Art., III, 1-2) secondo cui il re archemenide riceveva l'iniziazione reale a Pasargade in un santuario (hieròn): come sottolinea H. Sancisi-Weerdenburg, per questa cerimonia un monumento funerario o un cenotafio, chiuso sì ma con una porta, avrebbe rappresentato la continuità dinastica e insieme avrebbe permesso la conservazione del fuoco personale del re, acceso al momento dell'intronizzazione. La duplicazione esatta di Naqš-e Rostam avrebbe inoltre permesso a Dario I di celebrare il proprio ramo dinastico senza tuttavia abbandonare la precedente tradizione achemenide. Oltre a queste due «torri», gli unici edifici sacri di epoca achemenide sembrano essere i due podi di pietra a Pasargade (in un secondo momento racchiusi entro un grande recinto rettangolare addossato a una collina artificiale di terrazze di mattoni crudi progressivamente aggettanti), la piattaforma con scalini tagliati nella roccia sulla sommità del monte in cui sono tagliate le tombe achemenidi a Naqš-e Rostam e l'Edificio 3 con i tre altari a Dahan-e Gholamān, tutti luoghi di culto a cielo aperto. Per i podi di Pasargade è stato proposto che fossero destinati uno all'officiante, forse lo stesso re, l'altro a un altare per il fuoco sacro, così come mostrano i rilievi con scena di culto sulle tombe rupestri achemenidi, un'ipotesi questa che però lascia irrisolto il problema del luogo di conservazione del fuoco. Nell'edificio di Dahan-e Gholamān, che oltre ai tre altari centrali presenta in tre dei quattro portici affacciati sulla corte interna pirei o lunghe «vasche» per l'offerta al fuoco di sacrifici animali, si è vista la presenza di culti locali solo in parte collegati con lo zoroastrismo o con il mazdeismo achemenide.

Come accennato sopra, per Masjed-e Solaymān, così come per gli altri santuarî dell'Elimaide, la regione dell'Iran sud-occidentale che per la sua continuità con l'antico Elam appare più legata alla Mesopotamia che all'altopiano iranico, le datazioni al periodo achemenide delle terrazze con i podi per il culto all'aperto proposte dal Ghirshman non sono sufficientemente fondate sui dati archeologici, che risalgono non oltre l'epoca ellenistica.

Mancano tracce archeologiche dei t. dedicati al culto di Anāhitā diffuso, secondo le fonti classiche, da Artaserse II (404-359 a.C.), tra i quali erano famosi quello di Estakhr nel Fārs, così come quello di Ecbatana in Media, quest'ultimo saccheggiato dai soldati di Antioco III nel 209 a.C.

Ancora fortemente dibattuto per quanto riguarda sia la datazione sia la funzione è il c.d. T. dei Fratadāra di Persepoli, un complesso di strutture scavato da E. Herzfeld negli anni '30 a NO della Terrazza achemenide, da cui provengono cinque blocchi di pietra con i nomi in greco di cinque divinità olimpiche: le rovine che l'archeologo tedesco interpretava come un unico complesso dedicato a culti sincretistici irano-ellenistici dalla dinastia locale, nota con il nome di Fratadāra (lettura poi emendata in Fratarakā, «custodi del fuoco») dalle leggende su alcune serie numismatiche e a suo avviso rappresentata dai due personaggi di aspetto sacerdotale raffigurati sui due stipiti di una porta, sono in realtà due complessi distinti, separati da una strada. Di questi solo uno, per la presenza di un ambiente quadrato con quattro basi di colonna e con un podio che potrebbe aver sorretto una statua, si presta alla possibilità di una funzione cultuale, peraltro messa in serio dubbio dalle osservazioni di P. Bernard: la sua pianta con quattro colonne centrali e ambienti all'intorno su tre lati richiama quella del t. di epoca partica di Bard-e Nešānda, ma anche quella delle case ellenistiche di Ai Khānum. Mancano dati sul luogo esatto di rinvenimento delle iscrizioni greche, ancora inedite. Il riutilizzo di elementi architettonici in pietra provenienti dalla vicina terrazza di Persepoli e la presenza di un tipo di basi lì sconosciuto rendono assai probabile una datazione all'epoca post-achemenide: la datazione della dinastia dei Fratarakā è comunque incerta, e recenti studi (M. Alram, J. Wiesehöfer) abbassano il suo inizio dalla prima metà del III sec. a.C. alla prima metà del II sec. a.C. La teoria che identifica il complesso con un t. di epoca achemenide (G. de Francovich, M. Boyce) non trova valido riscontro nel dato archeologico.

La penetrazione di elementi culturali ellenistici nei periodi seleucide e partico deve aver senza dubbio favorito la diffusione di immagini di culto estranee allo zoroastrismo e dei relativi t., come mostrano alcune fonti greche, anche se i Persiani restavano fedeli, secondo Strabone (XVI, 1, 18), all'antico costume di adorare all'aperto gli elementi della natura. Rilevanti, p.es., sono gli accenni a santuarî (ἰεροί) contenuti nell'iscrizione greca del 193 a.C. rinvenuta a Nehāvand, l'antica Laodicea di Media, che riporta le istruzioni di Antioco III relative all'istituzione del culto di Laodice, accenni che potrebbero trovare conferma nelle sei colonne ancora visibili all'inizio del secolo in questo sito, mai scavato. Anche Isidoro di Characene (Stationes Parthicae, 6) ricorda un T. di Artemide a Konkobar (l'attuale Kangāvar presso Kermanshah) e un T. di Anāhitā a Ecbatana in Media, già saccheggiato da Antioco III e menzionato anche da Polibio (X, 27, 12) e Plinio (Nat. hist., XXXIII, 4, 24, 82 s.). Per l'Elimaide, Strabone dà notizia di t. da lui attribuiti a divinità che portano nomi semitici o greci, ma che verisimilmente corrispondono a divinità locali a quelle assimilate: un T. di Bel, che Antioco il Grande tentò invano di saccheggiare, e i t. di Atena e di Artemide (quest'ultimo ricordato anche da Eliano, Var. hist., XII, 23), che fruttarono al re dei Parti, verisimilmente Mitridate I, un bottino di 10.000 talenti.

Poche sono però le testimonianze dell'architettura sacra attribuibili senza dubbio a quest'epoca. A Šami, un sito dell'Elimaide indagato solo preliminarmente, era una piattaforma di mattoni, forse coperta solo in parte per ospitare immagini, come mostrano la base per statua e il piccolo altare antistante rinvenuti assieme a numerose testimonianze di scultura in bronzo di epoca ellenistica e partica; incerta è la funzione delle statue, cultuale o votiva, così come l'eventuale identificazione con uno dei t. distrutti da Mitridate I. Una grotta scoperta a Karafto nel Kurdistan era utilizzata per culto: l'iscrizione greca ivi rinvenuta, dedicata a Eracle, viene variamente datata tra la fine del IV sec. a.C. e l'epoca partica. Al periodo seleucide il Ghirshman attribuì la fase più antica dei due t. scoperti a Masjed-e Solaymān in Elimaide (Iran sud-occidentale): il t. principale (Grand Temple), noto in questa fase solo da alcuni limitati sondaggi, per la presenza di due immagini bronzee identificate con Atena e di numerose figurine di terracotta raffiguranti cavalieri macedoni sarebbe stato dedicato, secondo l'archeologo francese, ad Atena Hippìa; immagini identificate con Eracle rinvenute nei pressi del secondo t. nella sua fase partica, avrebbero comunque indicato una dedica a questo eroe anche nella fase seleucide. Un più attento esame dei dati, tuttavia, mostra l'infondatezza di tali attribuzioni e datazioni. Se le terrazze all'aperto potrebbero risalire al periodo ellenistico, per i t. portati alla luce mancano prove certe di una datazione anteriore all'epoca partica, così come per l'analogo santuario di Bard-e Nešānda, dove i materiali che datano un riempimento tra la prima e la seconda fase della terrazza superiore, con un podio quadrato per il culto all'aperto, oscillano tra la fine del IV e la metà del ΙΓ sec. a.C. Anche il grande complesso architettonico di Kangāvar (v.), presso Kermanshah, un tempo attribuito al periodo seleucide e considerato come il T. di Artemide che Isidoro di Cha- racene ricorda a Konkobar, è stato invece meglio identificato da M. Azarnoush con un complesso palaziale tardo- sasanide. Problematica è parimenti l'identificazione del T. di Eracle negli strati di epoca seleucide della c.d. Ville des artisans di Susa, proposta dal Ghirshman.

Di incerta datazione e funzione è l'edificio con colonne di tipo ionico modificato, individuato a Khurha, nella regione di Qom (Iran centro-occidentale), da Herzfeld attribuito all'epoca seleucide e interpretato come un T. di Dioniso. Indagini archeologiche condotte dal Dipartimento Iraniano di Archeologia negli anni '50 hanno mostrato che mancano dati certi per una datazione anteriore all'epoca partica e per una sua interpretazione come tempio.

Come già indicato, la maggior parte delle strutture templari portate alla luce nell'Elimaide sono ascrivibili alla fase finale del periodo partico. A Masjed-e Solaymān il t. principale, orientato a SE, presenta cella e antecella larghe, aperte con due porte sulla grande corte quadrata, su cui affacciano altri ambienti; questo blocco centrale è circondato da un corridoio che lo isola, con ingresso principale a NE su un portico che ospita tre gradini che corrono lungo la larghezza della facciata. La pianta mostra marcate affinità con i t. mesopotamici, confermando la posizione eccentrica dell'Elimaide rispetto all'altopiano iranico: l'interpretazione di Ghirshman, che per la presenza nella cella di due altari vorrebbe questa fase del t. dedicata ad Anāhitā e Mithra, risulta pertanto poco credibile. Anche il secondo t., che in questa fase sarebbe a giudizio di Ghirshman attribuito a Eracle assimilato all'iranico Verethragna, mostra una pianta di ispirazione mesopotamica, orientata a SE, con una cella larga preceduta da un'antecella e da una piccola sacrestia, con altri ambienti a NE e SO: tre gradini corrono lungo la facciata esterna dell'antecella. Datato alla fine del II sec. d.C. è il t. costruito nel santuario di Bard-e Nesānda, sulla terrazza inferiore, addossata nella fase III alla facciata della prima: il t. è costituito da un ampio vano quadrato con quattro colonne centrali, circondato da tre ambienti di forma allungata non comunicanti tra loro - quello in asse con l'ingresso verisimilmente costituente la cella - e con un quarto ambiente a NO accessibile solo dall'esterno, e preceduto sulla facciata a NE da un portico con due file di otto colonne.

Problematica è anche l'interpretazione dei tre «edifici cruciformi» (siti IV, VII e XIII) portati alla luce a Šahr-e Qumis, sito dell'Iran nord-orientale identificato con l'antica capitale partica di Hekatompylos, per i quali è stata proposta una funzione cultuale, almeno nella fase iniziale del sito. L'unico dato su cui si basa la proposta interpretativa è però costituito da un braciere, collocato in un angolo dell'ambiente SO di uno solo dei tre edifici (sito IV), mentre la stessa funzione viene estesa anche agli altri sulla base delle affinità planimetriche.

Nel periodo sasanide, l'evoluzione che porta all'affermarsi del tipo di t. del fuoco descritto nel paragrafo iniziale sembra prendere avvio con il c.d. Takht-e Nešin di Firuzābād, datato all'epoca di Ardašīr I (223-241 d.C.), che per D. Huff costituirebbe il primo esempio di t. del fuoco sasanide: in passato erroneamente interpretato come un čahār tāq aperto, al contrario è un ambiente di pianta quadrata su podio, coperto da una cupola sorretta da quattro archi che incorniciano le pareti nelle quali si aprono passaggi verso altrettanti ambienti o iwān. Anche Šābuhr I (241-272 d.C.) avrebbe costruito un grosso complesso templare a Bišāpur, città di cui il sovrano è considerato il fondatore. Qui già nei primi scavi francesi della fine degli anni '30 era stato parzialmente portato alla luce un edificio semisotterraneo, denominato «t. del fuoco», il cui scavo fu completato dagli archeologi iraniani negli anni '70: costruito in muratura con paramento di blocchi di pietra ben squadrati, l'edificio è costituito da un ambiente o corte centrale di pianta quadrata di incerta copertura, circondato sui quattro lati da un corridoio voltato. La presenza di un sistema di canalizzazione collegato al vicino fiume e di paratie per l'allagamento dell'ambiente centrale avevano suggerito a A. A. K. Sarfaraz una funzione templare connessa con Anāhitā, la dea zoro- astriana delle acque, i cui t. sono definiti nel Denkart come apān khanak, la «casa delle acque»: un'ipotesi già avanzata da R. Ghirshman ma negata da R. N. Frye, che invece riteneva l'ambiente una sala estiva del palazzo. Un recente studio di D. Huff (1993) non soltanto conferma la funzione rituale dell'edificio semisotterraneo, ma la estende a tutto il complesso, comunemente considerato il palazzo di Šābuhr I: la grande sala centrale di pianta cruciforme, in origine cupolata, sarebbe perciò un čahār tāq circondato da corridoi. Alla luce di questa nuova interpretazione, e comunque tenendo conto della mal definita successione cronologica delle diverse parti del complesso, è ancora da valutare la presenza della decorazione figurata a mosaico negli ambienti circostanti la sala cupolata, con immagini di personaggi femminili, suonatrici e danzatrici, teste maschili e femminili e uccelli. Essa potrebbe trovare un confronto negli stucchi raffiguranti figure femminili ignude o drappeggiate ma anche putti con grappolo d'uva, che decoravano un ambiente del settore C del complesso architettonico di Hājiābād (Fārs, IV sec. d.C.?), interpretato da M. Azarnoush come un luogo di culto sulla base dell'identificazione con Anāhitā delle figure femminili, oltre che delle affinità planimetriche tra un attiguo ambiente dello stesso settore C con pianta cruciforme e la sala centrale di Bišāpur. Anche se l'identificazione con Anāhitā non è fondata, ed è più prudente limitarsi a una lettura generica di immagini di tipo «dionisiaco», l'interpretazione cultuale, che D. Huff estende a tutto il complesso, appare senz'altro accettabile. La presenza nei due complessi cultuali di Bišāpur e Hājiābād di iconografie di tipo «dionisiaco» acquista un significato particolare, legato verisímilmente all'ambientazione delle numerose feste zoroastriane. Rilevante è comunque l'esistenza di una decorazione figurata in complessi cultuali zoroastriani che sembra corrispondere alla notizia dell'autore arabo Mas udì secondo la quale attorno al t. del fuoco di Estakhr, in origine un t. di Anāhitā, era un muro con rilievi figurati.

Gli altri principali t. di epoca sasanide, i grandi complessi di Kuh-e Khwāja nel Sistan, fondato in epoca partica, e di Takht-e Solaymān nell'Azerbaigian, costruito sotto Khosrow I (531-579 d.C.) per il culto del fuoco Atur- Gušnasp, così come il piccolo t. del fuoco scavato a Tu- rang Tepe nel Nord-Est dell'Iran, datato al VII sec. d.C., presentano lo stesso schema, con la sala cruciforme cupolata circondata da corridoi e ambienti. A Takht-e Solaymān troviamo due complessi distinti: il complesso minore PA-PD, con la sala cruciforme dotata di zoccolo per altare del fuoco, al fondo della sala di preghiera e degli ambienti per le cerimonie, è riconosciuto unanimemente come un t. del fuoco; il Complesso principale con le tre sale cruciformi A, Β e X, al contrario, è variamente interpretato come luogo di culto per il fuoco e per le acque (Naumann), o come luogo di purificazione e di preghiera (Boyce) collegato al vero t. del fuoco PD.

Secondo D. Huff, anche la grande sala quadrata con quattro porte del palazzo di Qasr-e Širin, attribuito a Khosrow II (591-628 d.C.), costituirebbe l'ambiente centrale di un complesso templare del fuoco in larga parte distrutto.

Per altri famosi t. del fuoco, quali quelli che ospitavano il culto dei fuochi Atur-Farnbag e Atur-Burzen Mihr, o quello di Estakhr, dobbiamo accontentarci di notizie nelle fonti letterarie.

In Elimaide, il complesso di Masjed-e Solaymān, che secondo Ghirshman avrebbe continuato a essere in funzione anche nel primo periodo sasanide, utilizzato da una comunità zurvanista, per essere poi distrutto da Šābuhr II, presenta un'ultima fase che lo studioso data alla fine del IV sec. d.C.: il c.d. Santuario O, costruito sul luogo del t. di Eracle (ora coperto da una nuova terrazza artificiale) e costituito da cella e antecella oblunghe analoghe a quelle del t. precedente, ma coperte con volte.

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(P. Callieri)

Asia centrale . - Lo studio dell'architettura religiosa dell'Asia centrale è stato a lungo condizionato dalla convinzione, ancora avvertibile nei lavori di taluni studiosi, secondo cui l'intera area geografica sarebbe stata intimamente legata ai destini dell'Iran e della sua fenomenologia religiosa. Si pensava comunemente che l'Asia centrale fosse stata interessata assai per tempo dalla diffusione dello zoroastrismo; anzi, secondo un'opinione ormai obsoleta, ma non del tutto abbandonata, ne sarebbe stata la patria. Le scoperte effettuate negli ultimi decenni, e una costante revisione dei risultati ottenuti dall'archeologia, rendono le nostre conoscenze sull'architettura culturale centroasiatica ben più articolate che in passato, sebbene il quadro che se ne può ricostruire sia ancora tutt'altro che esauriente. Se è innegabile l'appartenenza della religiosità centroasiatica per gran parte dei suoi aspetti e delle sue manifestazioni a un fondo comune iranico, non vi sono prove certe che attestino la diffusione dello zoroastrismo canonico; al contrario le ricerche sulla cultura religiosa e artistica della regione fanno emergere l'importanza dei culti indirizzati a divinità locali e della venerazione delle loro immagini. È pertanto apprezzabile il tentativo di un numero crescente di studiosi di affrancare anche l'Asia centrale dal «mito» archeologico del t. del fuoco che, sulla base di una tesi oggi contestata, individuava in una determinata tipologia architettonica (sala tetrastila preceduta da un portico e circondata da un corridoio) lo schema tipico del più importante luogo di culto zoroastriano e che ha influenzato lo studio dell'architettura religiosa iranica (v. supra, irAn). Come si vedrà, tuttavia, è sostanzialmente al suddetto modello interpretativo che continua a ispirarsi l'esegesi di uno dei più importanti edifici di culto dell'Asia centrale, il «t. dell'Oxus» di Takht-e Sangin (v.).

Dal II millennio a. C. all'epoca achemenide. - L'esistenza di ambienti domestici destinati al culto è documentata in Asia centrale sin dal Neolitico (p.es., a Gonur, in Turkmenistan), tuttavia solo a partire dal Bronzo Recente (II millennio a.C.) sono testimoniati edifici di culto comunitario, già dotati di un impianto planimetrico relativamente complesso e articolato. A Jarkutan, nella Battriana settentrionale (Uzbekistan), è stato riportato alla luce un complesso templare di pianta rettangolare (60 X 44,5 m) racchiuso da un muro spesso 4,5 m. L'area interna era suddivisa in due settori separati da un muro, a E il settore cultuale, a O un gruppo di ambienti adibiti, come sembra, ad attività produttive. Secondo la ricostruzione di A. Askarov, nel corso dei tre periodi in cui la vita del monumento si sarebbe articolata, tra il XIV e il X sec. a.C., la planimetria non subì trasformazioni radicali, soprattutto nel settore cultuale. Questo era accessibile tramite un corridoio che immetteva in una corte rettangolare con portico, sul lato N, al centro del quale era un pozzo, nella seconda fase colmato e coperto da un altare; dalla corte si aveva accesso a una piattaforma di 400 m2 in mattoni crudi nella cui parte meridionale si sono conservate le tracce di un altare di pianta quadrata, originariamente coperto da una sovrastruttura sostenuta da quattro colonne. Tra la piattaforma e la corte è stato individuato un ambiente destinato alla deposizione delle ceneri sacre. Nella parte NE del complesso è un gruppo di locali paralleli disposti su due file ai lati di un corridoio, probabilmente la tesoreria del tempio. È opinione di Askarov che l'edificio fosse dedicato al culto del fuoco (nella prima fase collegato a quello dell'acqua, come indicherebbe la presenza del pozzo), come proverebbero il gran numero di altari ivi rinvenuti, la deposizione rituale delle ceneri e, inoltre, la presenza di un piccolo vano di pianta circolare ricavato nello spessore del muro E, cui l'autore è propenso ad attribuire una funzione simile a quella dell’ ātešgāh zoroastriano, ossia il luogo in cui veniva conservato il fuoco perpetuo.

Di indubbio interesse è il complesso templare di Togolok-21 (1250-1000 a.C.), nel bacino del Murghab (Turkmenistan), scavato da V. I. Sarianidi. L'insediamento (140 X 100 m) è difeso da tre cinte murarie di pianta rettangolare rinforzate da torri di pianta circolare agli angoli, e semicircolare, lungo i lati. Uno dei settori di maggiore evidenza è situato in posizione periferica, in prossimità dell'angolo NE; vi è stato riportato alla luce un gruppo di ambienti comprendenti due grandi altari di forma simile, ma di dimensioni diverse, ciascuno preceduto da un ambiente di forma rettangolare. Il più grande (diam. 8 m) ha rivelato, al di sotto della superficie concava foderata di mattoni crudi con focolare centrale, una struttura costituita da due muri incrociati tra i quali erano collocati cinque pìthoi rovesciati. La fortezza interna era suddivisa in due settori (N e S), dei quali quello a N ha rivelato ambienti caratterizzati da un accurato rivestimento parietale e pavimentale di gesso bianco. Il medesimo tipo di rifinitura è stato riscontrato nell'ambiente 34, nel settore S, che ha fornito indizi utili per precisare la natura del culto praticato nel complesso: all'interno di alcune giare inserite nella muratura di una sorta di basamento a tre livelli sono stati individuati resti di efedra, una pianta con proprietà allucinogene. Da qui l'ipotesi, che sembrerebbe suffragata dal rinvenimento :in questo e in altri locali di una cospicua quantità di pestelli, mortai e filtri, che l'ambiente 34 fosse un laboratorio per la preparazione di una bevanda allucinogena, utilizzata nei rituali officiati nel settore degli altari (un rituale che prevedeva libagioni sembrerebbe ipotizzabile per l'altare maggiore, come suggerisce una grande chiazza di un liquido individuata sul pavimento), e che il t. di Togolok-21 si debba identificare come un centro del culto indo-iranico dell' haoma/soma.

Testimonianze di architettura templare sono state portate alla luce dalla Missione afghano-sovietica nella Battriana meridionale (Afghanistan). La più antica è il t. Dašlï- 3, risalente al XII-XI sec. a.C. Il nucleo del complesso, racchiuso da una fortificazione di pianta circolare (diam. 40 m) attraversata da un corridoio e dotata di nove torri di pianta quadrata aggettanti verso l'esterno, occupa il centro di un'area difesa da una cinta muraria quadrata (130 X 150 m) e suddivisa al suo interno da due ulteriori cerchie concentriche di mura. L'interno della costruzione principale ha rivelato un gruppo centrale di ambienti ben rifiniti e di probabile utilizzazione cultuale, e altri gruppi di locali adibiti a funzioni diverse. Gli spazi compresi tra l'edificio centrale e la cinta più esterna erano quasi interamente occupati da costruzioni abitate, secondo V. I. Sarianidi, dalla classe sacerdotale e dal personale impiegato nel santuario, nonché dalla popolazione civile dedita allo sfruttamento agricolo del territorio circostante. Sulla natura del culto praticato a Dašlï-3 non è stata fatta chiarezza, tuttavia è degna di considerazione l'ipotesi di K. Jettmar (1981), secondo cui piuttosto che di una struttura templare usata e abitata continuativamente si tratterebbe di un «centro cerimoniale» utilizzato in occasione di determinate festività. Si ricorda infine che sulla destinazione cultuale di Dašlï -3 sono stati espressi dubbi da H.-P. Francfort, il quale inoltre rileva l'assenza di elementi utili a differenziare, da un punto di vista funzionale, il t. circolare dal vicino «palazzo» (Bernard, Francfort, 1979).

A una tradizione diversa, che sembra sia da ricollegare alla diffusione della «cultura del Khorasan orientale» (fine lI-prima parte del I millennio a.C.), appartiene il t. di Tillyā Tapa (v.). L'edificio (36 X 28 m) sorge su un'alta piattaforma di mattoni crudi, difesa da una cinta muraria con torri di pianta circolare. Lo spazio interno è suddiviso in due settori, il più ampio dei quali ha rivelato la presenza di nove colonne e un altare, che Sarianidi ritiene funzionale al culto del fuoco. I confronti più pertinenti sono offerti in questo caso dall'architettura monumentale di Yaz Depe (Turkmenistan), Kučuk Tepe (Uzbekistan) e Nad-e 'Ali (Afghanistan).

Di presunta destinazione templare, ma di epoca più tarda, è infine un monumentale edificio scoperto a Kutlug Tepe. Costruito intorno alla metà del I millennio a.C. su una elevazione naturale, il monumento ha rivelato tre cerchie concentriche di mura in blocchi di argilla pressata (le due più esterne provviste di una serie regolare di feritoie), racchiuse da un'ulteriore cinta di pianta pentagonale, circondata da un fossato. Nella parte centrale della corte interna era una struttura di pianta rettangolare, suddivisa in piccoli vani, e nella parte Ν un ambiente al quale la presenza di un altare presso l'angolo Ν e di sei piccole nicchie nella parete SE fa attribuire una non meglio precisabile funzione cultuale. Per la sua planimetria, dominata dalla circolarità, Kutlug Tepe sembra ricollegarsi alla tradizione del Bronzo Recente rappresentata dal t. circolare di Dašlï -3, con il quale, secondo Jettmar, esso potrebbe aver condiviso la funzione di «centro cerimoniale».

Dall'Ellenismo all'Alto Medioevo. - Battriana. All'epoca in cui l'Asia centrale meridionale entra nell'orbita politica e culturale dell'ellenismo si data la costruzione del c.d. t. dell'Oxus di Takht-e Sangin, in Battriana (Tajikistan meridionale). Questo monumento, che deve il suo interesse anche alla varietà e alla qualità dei manufatti artistici contenuti nei suoi depositi votivi, pone in evidenza le incertezze che ancora pesano sullo studio dell'architettura templare centroasiatica. Fondato nell'ultimo quarto del IV sec. a.C. e rimasto in funzione fino al II o inizi del III sec. d.C., questo edificio, al cui interno è stato rinvenuto un altare con dedica in lingua greca al dio Oxus, mostra uno schema compositivo (sala tetra- stila preceduta da un portico, a colonne affiancata da due sacrestie collegate a due ambienti allungati situati sul retro) che rifletterebbe il presunto modello iranico del t. del fuoco (Pičikjan, 1987; 1992). Tuttavia i principali termini di confronto sono due edifici iranici di cui attualmente viene contestata non soltanto la destinazione al culto del fuoco, ma la stessa natura cultuale, il c.d. Āyadanā di Susa e il «T. dei Fratarakā» di Persepoli (v. supra, iran). Una testimonianza a favore dell'attribuzione del t. al culto del fuoco viene indicata nella presenza, ai lati del portico, di due gruppi di vani uguali e simmetrici che l'autore identifica come ātešgāh, nonché nel gran numero di altari di forme e dimensioni diverse, rinvenuti in varí punti del complesso. Di recente P. Bernard (1994) ha espresso delle riserve su questa interpretazione; oltre a posporre la datazione del t. al III sec. a.C., egli ritiene non vi siano prove sufficienti a dimostrare che l'edificio fosse dedicato al culto del fuoco, soprattutto nelle sue prime fasi di utilizzazione (l'allestimento dei presunti ātešgāh risalirebbe all'epoca dei Grandi Kuṣāṇa; una parte degli altari potrebbe essere interpretata come basi per statue); il dio fluviale Oxus sarebbe il vero destinatario del tempio. Dalla visione del Pičikjan dissente in maniera radicale H. Koch (1993), secondo la quale il complesso di Takht-e Sangin sarebbe sorto nel V sec. a.C. come sede amministrativa achemenide, e avrebbe conservato una funzione politica anche nei secoli successivi.

Ai Khānum (v.) ci offre la testimonianza emblematica della complessità e della varietà degli influssi attivi in area centroasiatica. Importante fondazione ellenistica, la città non ha tuttavia restituito esempî di architettura templare riconducibili alla tradizione greca, rappresentata, invece, all’ heròon di Kineas e da edifici civili. L'analisi della planimetria dei due t. principali ha posto in rilievo affinità con alcuni monumenti mesopotamici d'epoca partica. Il t. a nicchie scalari, situato all'interno di una vasta corte, è costituito da un ambiente di pianta rettangolare con accesso perpendicolare all'asse maggiore da cui si accede a una cella comunicante con due vani laterali; anche nel t. extra muros la cella è affiancata da due ambienti, ma tutti e tre i vani comunicano solo con una corte antistante. In entrambi i casi l'edificio poggia su una piattaforma a gradini con scalinata sulla fronte e ha le pareti esterne decorate da nicchie scalari. Le planimetrie dei suddetti t. di Ai Khānum trovano i confronti più pertinenti a Dura Europos, rispettivamente nel T. di Artemide (terzo quarto del I sec. a.C.) e nel T. di Zeus Mègistos (I sec. d.C.) ed esemplificano, secondo Bernard (1990), un'architettura «coloniale» seleucide di origine mesopotamica nella quale è tuttavia presente l'influsso della tradizione locale. Non è inoltre definitivamente chiarita la natura del culto in essi praticato; per il t. a nicchie scalari è stata di recente avanzata l'ipotesi di un culto di Mithra assimilato a Zeus (Grenet, 1991).

Anche nell'impianto originario del «T. del Dioscuri» di Dilberjin (v.), nell'Afghanistan settentrionale, troviamo elementi in comune con la tipologia architettonica suddetta (Kruglikova, 1986). L'edificio, la cui fondazione viene attribuita all'epoca del re greco-battriano Eucratide (seconda metà del II sec. a.C.), ha rivelato una cella di pianta rettangolare circondata su tre lati da un corridoio e preceduta da un piccolo portico; questo è affiancato da due vani che comunicano con una corte a forma di Ð. A motivo della presenza di un dipinto raffigurante i Dioscuri sulle pareti del portico, il t. si suppone fosse in questa fase consacrato al loro culto. Successivamente (periodo II; epoca di Kujula Kadphises), l'edifìcio avrebbe subito una trasformazione radicale mediante l'aggiunta di un ambiente sul retro della cella, che del primo diviene ora il vestibolo; un corridoio circonda entrambi gli ambienti. Nel periodo III (epoca di Kaniṣka), il t. sarebbe stato sede di un culto dinastico, come attesterebbe il rinvenimento di parti di un'iscrizione kuṣāṇa nella muratura di un altare costruito nell'ambiente principale. Relativamente al periodo IV (Vāsudeva I) si ipotizza un nuovo cambiamento del culto, di cui sarebbe prova la presenza di un dipinto raffigurante Śiva e Pārvatī seāduti sul toro, che la Kruglikova interpreta come segno di un influsso buddhista e Bernard come testimonianza dell'impiantarsi di un culto induista (rec. a Kruglikova, 1986). Il periodo V (kušano-sasanide) coincide con la decadenza. L'esegesi di questo monumento dà adito a perplessità sotto diversi punti di vista; in particolare sarebbe auspicabile una revisione della sua impalcatura cronologica e, in definitiva, della sua forse troppo variegata storia cultuale.

Tra i monumenti di maggiore interesse storico, architettonico e religioso dell'Asia centrale, il santuario di Surkh Kotal (v.), in Battriana, è l'unico di cui sia comprovata la committenza dinastica kuṣāṇa. Accessibile tramite una triplice scalinata monumentale, il t. principale, «t. A», che da una celebre iscrizione sappiamo essere stato dedicato a «Kaniṣka il Vittorioso», o, come vuole G. Fussman, alla «Vittoria di Kaniṣka», ossia a una dea assimilata alla Śrī indiana, sorge all'interno di una vasta corte (6 ha) recintata da un muro e si compone di una sala tetrastila con piattaforma centrale, circondata su tre lati da un corridoio. Tra le altre strutture di carattere cultuale scoperte nel sito, è opportuno menzionare il «t. B», composto da una sala di pianta quadrata circondata da un corridoio; costruito in epoca kuṣāṇo -sasanide sul lato S della cinta, ma all'esterno di essa, è forse l'unico edificio centroasiatico sicuramente dedicato al culto zoroastriano del fuoco.

Parthia. Le nostre conoscenze sugli edifici cultuali, o presunti tali, di Nisa (v.), nel Turkmenistan meridionale, sono praticamente ferme ai risultati delle indagini degli anni '40. Il c.d. T. Circolare di Nisa Antica, di pianta circolare interna e quadrata esterna, sarebbe stato, secondo G. A. Pugačenkova, una sala per ricevimenti, divenuta poi «casa degli antenati divinizzati», e la sua planimetria si presterebbe a un confronto con quella dell’Arsinoèion di Samotracia. G. A. Košelenko (1985) propone invece un parallelo con altri monumenti del mondo classico («Tomba dei leoni» di Cnido, Mausoleo di Alicarnasso, heròon di Palatitsa) e non esclude che la funzione dell'edificio fosse stata quella di mausoleo regale arsacide. Rimane non chiarita la destinazione della Torre-Tempio, enorme piattaforma di mattoni crudi (20 X 20 m; alt. 8 m) con resti di ambienti alla sommità, da uno dei quali provengono frammenti di una grande statua d'argilla, e quella del t. adiacente la cinta muraria di Nisa Nuova, poggiante su una piattaforma in mattoni crudi a gradini e circondato su tre lati da un portico a colonne.

Nuovi risultati sono stati ottenuti dagli scavi di Mansur Depe (Gaibov e altri, 1991), non lontano da Nisa. Vi è stata riportata alla luce una corte rettangolare (140 X 110 m) delimitata da un muro; sul suo lato O si trovava il «T. principale», il cui settore settentrionale comprendeva un ambiente di pianta rettangolare (11 X 8 m), aperto sulla corte e circondato da un corridoio, e una cella retrostante di pianta quadrata (9 m di lato) con porta, alquanto disassata, sul lato E. Entrambi gli ambienti hanno rivelato diversi strati di rivestimento pittorico, del quale, tuttavia, non si conservano che resti insignificanti. Un nucleo costituito da un ambiente circondato da corridoio caratterizza anche un altro edificio di presumibile funzione cultuale, situato nell'angolo NO della corte. La datazione del complesso, per il quale sono state sottolineate analogie con l'architettura religiosa di Hatra, è compresa tra il II sec. a.C. e il II-III sec. d.C.

Chorasmia. L'ipotesi di Ju. Rapoport secondo cui il palazzo di Toprak Kala avrebbe assolto anche la funzione di t. del culto dinastico è stata contestata da F. Grenet (1986). Si segnala tuttavia la recente scoperta di una costruzione («edificio V») di probabile funzione templare situata nel vasto complesso scavato a N della cinta urbana. L'edificio è di pianta rettangolare (fronte di 49 m), con scalinata centrale sulla fronte di accesso al secondo piano; la parte centrale del primo piano è interamente occupata da una piattaforma che ha rivelato un riempimento di mattoni e sabbia, contenuto da un reticolo di strutture che, secondo Rapoport (1993), costituirebbero le fondazioni del nucleo centrale del secondo piano (il t. propriamente detto), i cui alzati sono meno conservati. Si ricostruisce così uno schema composto da una sala (160 m2) che un muro separa da una sorta di anticamera, preceduta da un vestibolo affiancato da due coppie di ambienti; dal muro di fondo della sala si accedeva a un ambiente quadrato con due imponenti colonne di mattoni (secondo Rapoport sede del culto della divinità principale), mentre ai suoi lati erano due ambienti di forma allungata (probabilmente dedicati a due divinità assistenti). La cella, la sala e gli ambienti laterali erano circondati da corridoi.

S o g d i a ç a. In questa regione hanno avuto luogo negli ultimi decenni importanti scoperte relative ai periodi che precedono la fioritura altomedievale. Si segnala innanzitutto il t. scavato da G. A. Pugačenkova nel sito di Kurgan Tepe, c.a 20 km a NO di Samarcanda (Pugačenkova, 1987). L'edificio (12 X 11,5 m), situato all'esterno della prima cinta muraria, sorge su una piattaforma in pakhsādi cinque gradini e presenta al suo interno una cella di pianta quadrata (4x4 m) con banco di argilla lungo le pareti e tracce di un altare al centro; la cella è circondata su tre lati da un corridoio.

Tuttavia, la restituzione planimetrica dell'edificio, che avrebbe subito diverse ristrutturazioni nel tempo, non è sufficientemente chiara, e generica sembra la sua attribuzione al culto del fuoco; inoltre, la cronologia proposta (II sec. a.C.-I sec. d.C.) è fondata su elementi discutibili.

A Erkurgan, importante sito urbano della valle del Ka- ška Daryā (Uzbekistan), sono stati portati alla luce due t., di cui, tuttavia, si attende ancora una pubblicazione definitiva (breve resoconto in Sulejmanov, 1986). Dei due edifici, situati nel centro cittadino a poca distanza l'uno dall'altro, è stato oggetto di studio dettagliato quello orientale, consistente in una sala di pianta rettangolare a due colonne in mattoni cotti, preceduta da un portico aperto a S. Originariamente (III-IV sec. d.C.) la sala presentava numerose nicchie alle pareti, delle quali quella situata di fronte all'ingresso si suppone contenesse l'immagine scolpita di una divinità. Erano decorate da pitture sia le nicchie sia le colonne, una delle quali conserva la rappresentazione di una probabile scena rituale su fondo rosso. Successivamente (V-VI sec.?), nella nicchia principale sarebbe stato collocato un altare del fuoco; il luogo di deposizione delle ceneri è stato individuato nell'area a O del tempio.

Nel 1989, nella cittadella di Paykend, presso Bukhara, è stato scoperto un edificio cultuale. G. L. Semenov (1995), che ha condotto gli scavi, ritiene di poterlo identificare con il t. che, secondo una tradizione riportata dallo Sāhnāma e da altre fonti islamiche del X-XI sec., sarebbe stato costruito nella città dal mitico re Feridun. Situato tra un complesso palaziale (a E) e un quartiere amministrativo (a O), il t. è una costruzione di pianta rettangolare (30,75 X 24 m), con muri spessi fino a 3,5 m, e si compone di due ambienti rettangolari, con podio centrale (4 X 3,5 m; alt. 0,60 m), circondati da sei corridoi.

Le monete e la ceramica datano la costruzione al IV-VI sec.; durante questo arco temporale essa avrebbe subito numerosi rimaneggiamenti, tra cui la trasformazione in nicchie (probabilmente per sculture) di alcuni degli accessi dagli ambienti ai corridoi. Semenov è incline a ricondurre l'impianto planimetrico del t. di Paykend al modello del t. del fuoco sasanide, dunque alla sfera zoroastriana; tra i reperti si segnalano resti di ossa animali in una delle nicchie e oltre 280 coppette (diam. 8 cm) sul pavimento dell'ambiente orientale. È inoltre accertato che il t. poggiava sulle rovine di un edificio preesistente di pianta analoga, ma caratterizzato dalla presenza, in ciascun ambiente, di una struttura massiccia di mattoni crudi (3x3 m) conservatasi, come i muri dell'edificio, fino a un'altezza di 1,7 m, e che ha suggerito un confronto con la Torre- Tempio di Nisa Antica.

Le indagini archeologiche condotte negli ultimi decenni nei due t. urbani (I e II) di Penjikent (v.) hanno consentito di delinearne con maggiore chiarezza la storia architettonica e cultuale (Škoda, 1987). Nel corso di cinque periodi costruttivi, tra il V sec. d.C. e il primo quarto dell'VIII, l'impianto dei due santuari, entrambi aventi come fulcro un t. composto da una sala tetrastila con cella sul retro, corridoio a forma di Π e portico a colonne (nel t. II solo a partire dal quarto periodo), subì ampliamenti e modifiche che testimoniano dell'evoluzione del culto (o dei culti) praticato in essi. In particolare, relativamente al periodo II (V sec.) sembra accertato, almeno per il t. I, un rituale basato sull'adorazione del fuoco, funzionale tuttavia al culto indirizzato a divinità (di cui il t. ha conservato le rappresentazioni dipinte); nell'ambiente 19, situato presso l'angolo S del t., è stato individuato il luogo in cui veniva conservato il fuoco perpetuo, che, in occasione di particolari cerimonie, veniva trasportato, tramite altari mobili, nella sala principale del t. secondo un preciso percorso rituale (Škoda, 1990). Le successive ristrutturazioni, che a partire dal VI sec. comporteranno la scomparsa degli ambienti a S del t. I (tra cui il 19), ma anche la creazione di cappelle secondarie in altre parti dei complessi (tra cui due ambienti cultuali disposti ai lati del portico di accesso al t. II, nei quali sono state rinvenute sculture raffiguranti la dea Nana sul leone e la coppia hindu Śiva e Pārvatī seduta sul toro, v. Skoda, 1992), denotano una evoluzione del culto, sebbene non ancora chiaramente interpretabile.

Architettura religiosa buddhista. - In questo campo sono stati ottenuti risultati di notevole interesse dagli scavi condotti negli ultimi decenni in centri buddhisti dell'Asia centrale occidentale, tra i quali si segnalano soprattutto il complesso di epoca kuṣāṇa di Kara Tepe (v.), nell'oasi di Termez (Uzbekistan meridionale), e il t. alto-medievale di Qal'a-ye Kāfirnigan (Tajikistan meridionale). A Kara Tepe troviamo attestato per la prima volta, in ambito buddhista, un modello planimetrico caratterizzato da una cella centrale circondata da tre o da quattro corridoi (esemplificato rispettivamente dal t. all'aperto del complesso A e dai t. rupestri C I, C II e C IV), nel quale Staviskij (1986) vede il contributo di una tradizione locale (battriana) manifesta anche in edifici di culto non buddhista. Evidenti affinità con tipologie architettoniche locali denota pure il t. di Qal'a-ye Kāfirnigan. Nella sua terza fase (inizi VII-metà VIII sec.) esso ripropone uno schema planimetrico che, con le dovute varianti, si può considerare ormai radicato nella tradizione centroasiatica: portico a colonne, sala quasi quadrata con basamento centrale (per stūpa?) circondata da un corridoio a Π, cella quadrata con una grande nicchia al centro di ogni parete. Ricorderemo che strutture cultuali buddhiste sono state portate alla luce anche ad Airtam, Dalverzin Tepe, Khišt Tepe, Ušturmullo, Ajina Tepa, e in altri siti.

Nel Xinjiang (v.), una delle tipologie più diffuse nell'architettura rupestre, soprattutto nell'area di Kučā, è quella consistente in una pella di pianta quadrata o rettangolare, con copertura a cupola o a volta o ancora a Laternendecke, nel cui muro di fondo è tagliato lo stūpa- pilastro, circondato da un passaggio per la circumambulazione rituale (pradakṣinā). Le grotte di datazione più recente presentano spesso una planimetria semplificata, ossia un ambiente di pianta rettangolare che può ospitare una cappella sul fondo o più cappelle lungo tre dei suoi lati.

Nell'oasi di Turfan, le testimonianze di architettura rupestre si concentrano soprattutto a Bäzäklik, Murtuq, Toyuq, dove troviamo tipologie similari a quelle di Kučā, qui in genere dotate di portici o di terrazze di accesso.

Edifici cultuali costruiti sono stati rinvenuti in gran numero a Qočo e a Yār. Il più comune tipo di impianto presenta una corte circondata da alti muri, all'interno della quale (al centro o sul fondo) è una piattaforma quadrangolare sostenente uno stūpa di forma turrita (a Qočo, p.es., i t. γ, π, A, C e W). Un altro tipo di costruzione cultuale è costituito da una cella contenente uno stūpa- pilastro, al cui interno si apre una nicchia che assume le dimensioni di un piccolo vano, circondato su tre lati da un corridoio voltato (p.es., il t. V di Qočo).

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(C. Lo Muzio)

India. - Secondo il pensiero hindu, il t. è uno dei luoghi di presenza della divinità. Questa vi risiede permanentemente oppure vi si manifesta come una visione (darṣana), nella quale «discende» per la durata del rito prendendo posto nel simbolo cultuale o nell'immagine divina. Dunque il t. è in primo luogo la dimora ove collocare l'immagine del dio e solo secondariamente è un luogo per le riunioni dei fedeli. Nel periodo che va dalla nascita dell'induismo intorno al II sec. a.C. sino all'età gupta - quindi c.a 600 anni - il t. indiano non si allontana nel suo sviluppo, se non in maniera insignificante, dall'originario concetto funzionale. Soltanto nel VI sec. d.C. un diverso atteggiamento cultuale portò a un ampliamento strutturale dello spazio templare. Attraverso una sala di riunione antistante e un padiglione ordinato assialmente, si creò uno spazio per i varí rituali collettivi della comunità, comprese le rappresentazioni di musica e di danza. Questo sviluppo ebbe come esito, nell'epoca post-gupta, edifici con aule che ricordano le cattedrali.

Storicamente il t. viene in genere edificato su un luogo tradizionalmente sacro: un grande albero, una grotta o una sorgente che devoti fondatori forniscono di un'immagine di culto e di strutture architettoniche, e che alla fine viene riconosciuto da tutti come luogo di culto e meta di pellegrinaggio. Così la cella di un t. (garbhagṛha, letteralmente «dimora della radice», nel senso di «grembo materno») - di qualsiasi dimensione esso sia - è quasi sempre un ambiente ristretto, quadrato e privo di finestre, simile a una grotta, dove l'immagine divina, ovvero il simbolo cultuale, è illuminata solamente da una luce fioca. L'ingresso alla cella è permesso di regola soltanto al sacerdote del t. (pūjāri, da püjā «servizio divino») e al brahmano sacerdote che, per la sua appartenenza di casta, conosce il rituale di offerta e i testi da recitare. Nei t. più antichi, che non possedevano ancora la grande sala interna - la «sala delle assemblee» (mahāmaṇḍapa), con piccolo vestibolo (antarāla), tra portico (maṇḍapa) e cella - i fedeli e i pellegrini sostavano nello spazio delimitato del cortile interno del complesso templare. A seconda del fine e dell'entità delle donazioni al t., l'intera area sacra veniva circondata da mura (o recinti) con portali, ed era riccamente decorata con sculture, pannelli decorativi e vasche. Le donazioni erano ricordate da iscrizioni su lastre di pietra; molte sono le testimonianze epigrafiche di questo tipo, databili tra la fine del I sec. a.C. e l'inizio del I sec. d.C., rinvenute nei dintorni dell'importante metropoli di Mathurā, e a Nagari/Ghosūṇḍī presso Chittoṛ-gaṛh, nel Rajasthan.

L'inizio relativamente tardo dell'architettura templare indiana si spiega con lo sviluppo storico-religioso dell'induismo, sorto dalla precedente religione vedico-brahmanica degli indo-arî, dalla quale però si differenzia nei principi basilari. Mentre l'induismo è caratterizzato da un marcato culto delle immagini, la religione vedica degli Arî - che conquistarono il subcontinente indiano intorno al 1200 a.C. - era fondata su un insieme di rituali che non necessitava di un t., inteso quale «casa del dio», o di edifici per il culto. I più antichi testi della letteratura religiosa degli Arî, gli inni del Ṛgveda, attestano offerte rituali agli dei, per i quali, in determinati luoghi nei pressi degli abitati, venivano eretti, secondo regole precise, altari in mattoni per fuochi sacrificali diversi. L'offerente affidava l'esecuzione dei complicati riti e delle invocazioni alla casta sacerdotale (brāhmaṇa). Soltanto i membri della sua famiglia prendevano parte al sacrificio, non una comunità di credenti. I luoghi dei rituali non erano concepiti per un uso permanente, e non vi era alcun bisogno di costruzioni stabili. Ancora oggi si praticano rituali secondo le prescrizioni tradizionali, quali i consueti riti nuziali hindu che si svolgono, come un tempo, sotto tettoie a forma di baldacchino, innalzate su pali. È comprensibile dunque che non ci siano giunte direttamente dal passato tracce di simili strutture.

Di grande significato per la comprensione del successivo sviluppo dell'induismo sono le concezioni rituali vediche relative all'orientamento dei luoghi di culto secondo l'asse E-O e la consacrazione del luogo a una o più divinità, che di volta in volta sono aggiunte in relazione a un determinato spazio. Nei tardi trattati scientifico-religiosi di architettura (Śilpaśāstra), viene definita una suddivisione mistica della superficie edificata in quadrati dei quali è posto ciascuno a disposizione di una diversa divinità del pantheon. Tale «cerchio cosmico» (maṇḍala) serve al fedele come supporto per la meditazione.

Intorno alla metà del I millennio a.C. si affermò gradualmente una tendenza alla venerazione di dei creatori concepiti come persona. Da qui cominciò - parallelamente all'inizio dell'insegnamento filosofico buddhista e jaina riguardante la salvezza - una forma di fede negli dei, di cui si riconobbe la presenza duratura o temporanea in determinati luoghi. Per delimitare l'«ambito sacro» si recintava l'area e vi si erigevano altari. Grotte venivano dotate di muri di protezione e trasformate in ambienti abitabili. Qui gli asceti potevano sia cercare la vicinanza del dio con la meditazione, sia anche effettuare, per i fedeli, rituali graditi al dio. Questi «luoghi del numinoso» sotto forma di grotte o alberi cultuali e santuarî rupestri, spesso con scarse decorazioni architettoniche, si sono conservati sino ai giorni nostri. Così antichi luoghi di culto di importanza regionale sono stati ricoperti da edifici e destinati a luogo di pellegrinaggio. All'interno del t. ligneo di Dunghri presso Manali (Himachal Pradesh), alle pendici dell'Himalaya, dedicato alla dea Hirmā Devī (Hi- dimbā), sono stati rinvenuti frammenti di roccia usati ritualmente, datati al 1553 d.C., testimonianti un ben più antico luogo di culto e di sacrificio a carattere popolare.

Raffigurazioni di luoghi di culto e resti corrispondenti di edifici religiosi si trovano in India a partire dal II sec. a.C. circa, inizialmente soltanto in ambito buddhista e jaina. Sui pilastri in pietra dei recinti degli stūpa buddhi- sti di Bhārhut, Pauni, Sāñcī e Bodh Gayā, alti fino a 3 m, e sui rilievi rupestri delle grotte di Bhājā, Pitalkhorā e Kārlī, sono rappresentati scenograficamente, accanto a edifici urbani e palazzi, anche magnifici edifici singoli a più piani con altari e basamenti a forma di trono, innalzati intorno a un albero sacro quali forme riconoscibili di architettura religiosa.

Sebbene nella scultura hindu manchino le testimonianze di tali grandi costruzioni, vennero comunque usati, come luoghi di culto brahmanico-hindu, recinti di pietra. L'esempio più antico è fornito dalle piccole placche di terracotta del II-I sec. a.C. con la rappresentazione di Gajālakṣmī, cioè Lakṣmī, la dea della Fortuna, ancor oggi venerata, con gli elefanti, che l'aspergono con acqua per la consacrazione. I rilievi raffigurano la dea stante su fiore di loto entro una vasca o un bacino circondato da una balaustra con pilastri, traverse e cimase.

Su un architrave scolpito di un portale di pietra con luce di c.a 2 m, databile agli inizi dell'era cristiana (Government Museum, Mathurā), è rappresentato un santuario con un albero, sotto il quale si trova, a cielo aperto, un'immagine cultuale di Śivaliṅga (v. liga). Un'immagine altrettanto antica su pietra e circondata da lastre a mo' di recinto è il noto liṅga con l'immagine a rilievo del dio Siva, conservato nel (recente) t. di Gudimallam (v.), nell'India meridionale.

Non esistono attestazioni archeologiche anteriori al II sec. a.C. di costruzioni templari dedicate agli dei principali dell'induismo o a culti che si possano assimilare a esso, come quelli indirizzati ai Nāga (v.), Yakṣa (v.), o alla dea Lakṣmī. A eccezione di frammenti scultorei quasi tutti di arte mathurena, e delle già menzionate iscrizioni su pietra di Nagari/Ghosūṇḍī e Mathurā, che confermano l'esistenza di impianti cultuali in quest'epoca, vi sono soltanto pochi scavi che documentano o suggeriscono la presenza di resti templari: nella stessa Ghosūṇḍī, a Besnagar (distretto di Vidiśā, v.), a Sonkh (v.) presso Mathurā.

Il significato e l'interpretazione del sito di Besnagar sono stati resi possibili grazie alla colonna rinvenuta in situ con un'iscrizione dell'ambasciatore greco-battriano di Taxila, del II sec. a.C., Heliodoros. L'iscrizione ricorda come egli, in occasione della visita al locale t. di Vāsudeva, fece erigere una colonna votiva con l'immagine di Garuḍa (Garuḍadhvaja), con la quale si riconosceva come seguace della religione devozionale degli dei Saṃkarṣaṇa e Vāsudeva-Kṛṣṇa. Nel 1963-1964 furono rinvenute, in un piccolo scavo nelle vicinanze, le fondazioni di una struttura a due pareti con curvature absidali su entrambi i lati e un portico laterale, attribuita in via ipotetica al III sec. a.C. L'edificio, lungo complessivamente 13 m, corrisponde nel complesso alle costruzioni a pianta ellittica raffigurate sui rilievi, anch'esse con curvature absidali e con copertura a botte. L'ipotesi ricostruttiva degli archeologi ha restituito una struttura di questo tipo realizzata probabilmente con materiale deperibile (legno o ramaglie, ricoperti di argilla o intonaco). L'ambiente non conserva alcun resto di costruzione che sia simile a un altare o altri indizi di un uso cultuale. In una successiva fase di utilizzazione, direttamente riferibile alla colonna votiva con Garuḍa e alle fondazioni di altre colonne, il luogo venne circondato da un muro in conci di pietra. Ciò lascia supporre una seconda fase costruttiva del t., archeologicamente non ancora documentata. Considerando unitariamente le due fasi, possono essere ritenuti indizi di una destinazione templare dell'impianto l'apertura della struttura verso E, il recinto di conci e il collegamento alla colonna votiva.

A Nagari/Ghosūṇḍī si trova in situ un imponente muro, alto sino a 3,15 m, costruito con pietre regolarmente squadrate, che racchiude un'area pianeggiante di 100 X 50 m. Su tre identiche iscrizioni in caratteri brāhmīdel I sec. a.C. scolpite in differenti parti del muro, si ricorda che questo luogo di culto in pietra è dedicato alle divinità del bhaktismo hindu Saṃkarṣaṇa e Vāsudeva (due dei cinque eroi-fratelli del clan di Vṛṣṇi, identificabili con Balarāma e Kṛṣṇa).

A Sonkh (Mathurā) sono state condotte ricerche archeologiche dal 1966-67 al 1974. In due luoghi distanti c.a 700 m l'uno dall'altro sono state rinvenute due strutture absidate in laterizio che presentano numerose fasi costruttive, databili nei decenni a cavallo dell'era cristiana. Una delle ultime fasi costruttive osservabili di uno dei t., appartiene alla tarda età kuṣāṇa, al tempo del sovrano Vāsudeva I (c.a 200 d.C.).

Il «t. 2», al di fuori dell'insediamento vero e proprio, presenta due fasi costruttive; la più antica risale all'inizio del I sec. a.C., come confermano le misure del muro in laterizio e i mattoni d'argilla cruda delle fondazioni. La seconda fase, che presenta un ampliamento dell'area cultuale, è databile all'inizio dell'età kuṣāṇa.

I corsi di mattoni, conservatisi per un'altezza di 0,6 m, sono relativi a un'aula aperta a E, lunga 7,3 m, con abside a O (diam. esterno di 3,85 m). Intorno all'edificio si erge una fila di 23 colonne di mattoni, che sostenevano la grondaia del tetto. L'intera costruzione templare era circondata da un basso muro rettangolare, da interpretare come balaustra di una grossa piattaforma. L'area interna all'abside consisteva di una bassa piattaforma circolare aggettante bordata da una fila di mattoni; non vi è stato rinvenuto alcun altare.

La forma dell'aula lascia supporre che fosse coperta con volta a botte e con semicupola absidale. Negli scavi sono state rinvenute tegole rettangolari di terracotta con tacche di connessione, grondaie per il deflusso dell'acqua piovana e fastigi. Si può supporre che la volta fosse sostenuta da una travatura lignea, analoga a quelle documentate nell'architettura rupestre dei caityagṛha buddhisti come, p.es., a Bhājā. Esternamente vennero imitate le coperture delle case dei villaggi, rivestite con paglia, che spiegano i fastigi che originariamente proteggevano i fasci di paglia dall'acqua piovana. Simili forme di copertura sono riconoscibili anche negli ambienti interni delle grotte delle colline di Barābar nel Bihar, dell'epoca del sovrano maurya Aśoka, III sec. a.C. (ν. LOMĀŚṚI).

La seconda fase costruttiva si imposta quasi esattamente sulle fondazioni dell'edificio antico di due secoli. La parte absidata sorge tuttavia su una piattaforma più larga, accessibile per mezzo di scalini. L'edificio di culto (c.a 43 X 34 m) era circondato da un recinto del tipo noto a montanti, traverse e cimasa. A S si trovava un alto portale di pietra, con tre architravi sovrapposti. La decorazione a rilievo dell'architrave, con la rappresentazione di processioni in onore di una coppia divina di serpenti, identifica il t. come un santuario dei Nāga.

Il secondo t. di Sonkh si trova al centro della più importante area di scavo (c.a 10.000 m2), densamente edificata con abitazioni con corte, disposte lungo la strada una accanto all'altra, i cui muri sono in parte conservati per più di 1 m. Anche questo t. presenta la semplice forma a U, ma l'area d'ingresso è distrutta e non è possibile osservare alcun portale. Nell'abside si trovava un podio murato a mo' di altare, nei pressi del quale fu rinvenuta una piccola immagine di culto in pietra raffigurante una dea seduta. Il t. era circondato, a poca distanza, da un alto muro di pianta rettangolare in mattoni (10x9 m). Sono state individuate diverse fondazioni sovrapposte, ma non è stato possibile osservare la prima fase costruttiva. Le nove fasi riconoscibili sono databili dalla prima alla tarda età kuṣāṇa.

Piccoli reliquiari a forma di t. absidato sono frequentemente raffigurati su rilievi e altri oggetti d'arte. I reliquiari hanno un carattere rustico e semplice, ma i rilievi indicano anche l'esistenza di grandi edifici urbani nei quali è possibile ravvisare una forma architettonica che, nel corso della tarda età kuṣāṇa sino alla prima età gupta, caratterizza lo sviluppo dell'architettura: la costruzione a torre. Questi edifici a più piani sembrano essere costruiti almeno parzialmente in pietra.

I più antichi t. in pietra che ci sono pervenuti risalgono alla prima epoca gupta (c.a inizi-metà del V sec.) e non presentano ancora elevazioni a torre. Il t. 17 a Sāñcī (6,7x4,2 m) sebbene buddhista, può essere considerato prototipo anche dei t. hindu. Esso si compone di un ambiente quadrato edificato con grosse pietre squadrate, senza finestre e con un solo ingresso: le pareti laterali, leggermente aggettanti, sono provviste di pilastri. Davanti alla cella è una fila di quattro colonne a formare un portico che si ergeva, insieme all'ambiente di culto, su una piattaforma di pietra con triplice modanatura. Tre gradini su entrambi i lati conducevano a questo atrio (antarāla). Il tetto del portico ha una copertura piatta di lastre di pietra, e il tetto della cella, anch'esso piatto, è leggermente più alto grazie a due corsi in più di conci e a una cornice. Gli abachi delle quattro colonne e i due pilastri presentano il motivo dei due leoni attergati, noto già nell'architettura templare rupestre. I fusti delle colonne sono articolati nelle consuete fasce, a sezione quadrata in basso, quindi a otto e a sedici lati, per terminare in alto con un capitello scanalato a campana (o c.d. lotiforme) a sezione circolare.

Un altro esempio di questo tipo templare in conci con una fila di colonne - che al posto del capitello a campana hanno un vaso panciuto da cui escono elementi vegetali (pūrṇaghaṭa), simbolo di fertilità, presente anche nelle grotte buddhiste come ad Ajaṇṭā - è il t. di Tigawa. La facciata esterna della cella presenta sui due stipiti del portale un motivo scultoreo che in seguito ricorrerà in tutti i t. hindu: le immagini a rilievo delle dee fluviali Gaṅga e Yamunā. Anche in questo t. il tetto della cella, sopra una cornice, è leggermente più alto e piatto. L'edificio poggia su una piattaforma di pietra, molto più grande che nel t. 17 di Sāñcī e pertanto forse destinata al rito della circumambulazione (pradàkṣinā).

Per gli sviluppi immediatamente successivi dell'architettura templare del V e VI sec. d.C. furono determinanti tre tendenze: a) il deambulatorio (pradakṣināpatha) divenne un corridoio chiuso da pareti e quindi un passaggio interno, in modo tale che la cella si trovò entro un ambiente più largo; b) il tetto si innalzò dapprima in due o più piani piatti, per divenire in seguito un'alta torre (śikha-ra); c) la faccia esterna dei muri venne in una prima fase scandita da grandi nicchie con immagini, in seguito costruite in aggetto lungo gli assi del modulo quadrato.

Queste linee di sviluppo non si susseguono, bensì si svolgono come tendenze parallele nel tempo, per sfociare poi in epoca post-gupta nei tre gruppi stilistici dei t. nāgara (India del Nord), drāviḍa (India del Sud) e vesara (forma «mista»).

Il passaggio interno come il criterio ricordato al punto a) è rappresentato dal T. di Śiva a Bhumara e da quello di Pārvatī a Nāchnā Kuṭhara. Il t. di Bhumara possedeva un alto muro esterno che circondava un grande plinto,

in modo tale che la cella costituiva un vano interno separato dall'ambiente esterno. Questo sistema fu portato a compimento dai costruttori del T. di Pārvatī, nel quale il muro esterno (10,5 X 10,5 m) fu incluso nella copertura. La cella (misura esterna di 4,65 m) presenta allo stesso tempo un secondo piano che, come nel T. di Śiva, era ricoperto da un tradizionale tetto piatto su una cornice scolpita.

Il tipo a śikhara è documentato nel più significativo t. in pietra di età gupta, quello dei Daśāvatāra a Deogarh, e nel principale t. in mattoni, quello di Bhītārgaon, conservatosi quasi per intero. Il t. di Deogarh (v. lalitpur) si compone di una costruzione quadrata (5,6 m) su largo plinto modanato (pīṭha) con gradini d'accesso su ogni lato. Il portale sul lato O è racchiuso tra fasce decorate da figure a rilievo e immette nella spoglia cella quadrata (2,95 m). Le altre tre pareti, costruite con una spessa muratura in pietra (1,2 m), presentano al centro nicchie con pannelli di pietra scolpiti (1,6 X 1,2 m) annoverabili tra le più notevoli opere dell'arte indiana. Sopra queste nicchie racchiuse da pilastri la muratura mostra numerosi fori, forse pertinenti a travi, per tettoie a mo' di veranda. Sopra i muri s'innalzava la copertura in forma di piramide a gradini, della quale rimane ancora un piano e mezzo costruito in conci su otto filari, con finte nicchie e finestrone centrale a ferro di cavallo a chiusura del primo piano. Era probabilmente a tre piani, coronati da un monolito a forma di «cuscino» rotondo (āmalaka), terminante in un elemento a forma di vaso (kalaśa).

Il t. in mattoni di Bhītārgaon, primo edificio indiano a ricevere una vera copertura a volta, aveva forse cinque piani progressivamente rastremati verso l'alto a formare una torre. Nei tre o quattro punti meglio conservati vi sono file di nicchie, cornici e pseudoterminazioni di tetto, riconoscibili come elementi modulari via via ripetuti. Il t. di Bhītārgaon (lati di c.a 11 m con entrata aggettante di 4,5 m) rappresenta anche la terza tipologia architettonica templare, in quanto le parti mediane delle pareti, costruite in aggetto su tutti i quattro lati, producono un'articolazione in verticale dei muri esterni, che proseguivano verso l'alto sino alla torre a piramide. L'architettura successiva moltiplica quest'articolazione verticale fino a tre, cinque e anche sette aggetti simmetrici con altrettante nicchie per statue di divinità e rilievi.

La torre e la sottostante cella quadrata costituiscono sempre un'unità che adombra volutamente l'asse del mondo, che unisce verticalmente cielo e terra. I fedeli vedevano in ciò il monte Meru, che secondo la cosmografia hindu si trova nel centro della terra ed è dimora degli dei. Per questo sui muri in mattoni della torre trovavano posto rappresentazioni di diverse divinità ed esseri celesti, sotto forma di pannelli in terracotta. Nel tipo dell'edificio a terrazza si rispecchia anche la suddivisione dei varí livelli del mondo: il mondo sotterraneo, dimora di demoni, esseri anguiformi e animali acquatici, da non intendersi comunque nel senso di «inferno»; il regno degli uomini e quello degli dei si dispongono uno sull'altro, in un rapporto separato ma strettamente collegato. In tutti i t. più tardi si conserva questa unità costituita da plinto, cella e torre come nucleo dell'intero t. (vimāna o prasāda), a prescindere da quante altre parti costruttive vi si aggiungano e da quale sia la loro relazione, e si definisce così il classico t. hindu come luogo di meditazione e di riunione dei fedeli.

Bibl.: Architettura religiosa: A. K. Coomaraswamy, La sculpture de Bodh Gaya (Ars Asiatica, XVIII), Parigi 1935; S. Kramrisch, The Hindu Temple, I-II, Calcutta 1946 (19762); A. K. Coomaraswamy, La sculpture de Bharhut, Parigi 1956; P. Brown, Indian Architecture, Buddhist and Hindu Periods, Bombay 19655, p. 48, tav. xlii; M. D. Khare, Discovery of a Vishnu Temple near the Heliodoros Pillar, Besnagar, in Lalit Kala, XIII, 1967, pp. 21-27, tav· VI, fig. 1; P. K. Agrawala, Gupta Temple Architecture, Benares 1968, tav. IX a-c; H. Härtel, J. Auboyer, Indien und Südostasien (Propyläen Kunstgeschichte, XVI), Berlino 1971, p. 51, figg. 22, 29; V. Dehejia, Early Buddhist Rock Temples, a Chronology, Londra 1972; H. Härtel, Excavations at Sonkh. 2500 Years of a Town in Mathura District, Berlino 1993, pp. 64-69, 413-427. - Rappresentazioni di Siva: G. Kreisel, Die Siva-Bildwerke in der Mathurä-Kunst, Stoccarda 1986, tavv. la, 2a-2b. - Terrecotte con rappresentazioni di Gajälaksml: P. Pal, Indian Sculpture, I. Catalogue of the Los Angeles County Museum of Art Collection, Los Angeles 1986, p. 138, n. 17. - Tempio di Hirmä Devi a Dunghri: P. Chetwode, P. Kulu, The End of the Habitable World, Londra 1972, fig. 171. - Tempio di Bhltärgaon: M. Zaheer, The Temple of Bhitar- gaon, Nuova Delhi 1981. - Epigrafia: D. C. Sircar, Select Inscriptions, Calcutta 1942, fig. 91; H. Lüders, in K. Janert (ed.), Mathura Inscriptions, Gottinga 1961, pp. 154-157.

(G. Kreisel)

Cina. - Dei più antichi t. cinesi abbiamo notizie dai testi che ne citano alcuni dedicati a varie divinità e al culto degli antenati. Più tardi, t. furono adibiti alle pratiche taoiste, ai riti confuciani, e altri furono costruiti per le comunità buddhiste. Tuttavia, a causa dell'impiego di materiale deperibile, quale il legno, e delle distrazioni causate da calamità naturali e dalla mano dell'uomo, sono pochi i t. all'aria aperta a noi giunti.

Nel 1983 sono stati scoperti a Niuheliang (Liaoning) i resti di una struttura denominata «t. della dea», per il rinvenimento in situ dei frammenti di una statuina femminile. Il sito appartiene alla civiltà neolitica di Hong- shan, localizzata nelle zone della Mongolia Interna e della Manciuria meridionale, risalente al 4000 a.C. circa. Il t. era situato su un'altura e circondato da sepolture. È costituito da due edifici, di cui uno lungo m 18,4 e largo m 6,9, composto da più ambienti, con una sala centrale principale, e sale secondarie tutt'intorno. L'altro, distante dal primo c.a 2 m, è anch'esso a pianta rettangolare, ma molto più piccolo, con un solo ambiente. Il complesso è orientato secondo la direttrice S-N; le pareti, costruite con pali lignei, paglia e argilla erano decorate con motivi a impressione o a rilievo, oppure con pitture. Sul sito sono state rinvenute anche statuine di forma animale e umana, queste ultime riproducenti forse gli antenati, il cui culto è uno dei più antichi e importanti in Cina.

L'attribuzione di questi resti architettonici a un t. è di grande importanza per la storia degli edifici religiosi. Infatti, non è stato possibile riconoscere con sicurezza altre strutture di carattere religioso relative al primo periodo di sviluppo della civiltà cinese, benché sia noto che gli Shang (c.a XVI-XI sec. a.C.) praticavano la divinazione e veneravano gli antenati. Essendo però l'autorità religiosa strettamente connessa a quella politica, è verosimile che i t. si trovassero nell'area dei complessi palatini del tipo di quello rinvenuto ad An'yang, l'ultima capitale della dinastia. Qui una parte dell'area scavata è stata identificata come il quartiere cerimoniale, separato dalla zona residenziale, dove erano ubicati i t. reali in cui si conservavano le tavolette degli antenati e si svolgevano i riti. Una delle ipotesi circa la loro forma è che avessero pianta a croce greca, come sembrerebbe indicare anche uno dei caratteri che li designa, e che comprendessero più sale. Sembra tuttavia che gli edifici religiosi avessero in genere pianta rettangolare e che fossero situati su piattaforme in terra battuta su cui si innalzavano le colonne in legno con basi litiche che sorreggevano le coperture di paglia.

Dei t. dei Zhou (IX sec.-22i a.C.) abbiamo notizia dai testi, i quali affermano che già nell'antica capitale esistevano t. degli antenati in terra battuta dove si svolgevano i rituali del culto. Sembra che il t. degli antenati del re fosse costituito da un santuario centrale, quello del fondatore della dinastia, ai cui lati sorgevano altri sei santuari, tre a destra e tre a sinistra, dedicati agli antenati remoti. I t. dei signori feudali avevano invece solo due santuarî per parte, ai lati di quello centrale. I resti di un t. risalente all'ultimo periodo Zhou sono stati recentemente scavati a Yongcheng (Shaanxi). L'area di 7.000 m2 comprende tre edifici la cui forma e disposizione, per confronto con le notizie riportate liei testi, ha portato gli studiosi a ritenere facenti parte del t. degli antenati di un principe feudale. Le tre costruzioni, simili tra loro, hanno pianta quadrangolare con due colonne centrali. Sul lato S c'è un'apertura rientrante.

Piccoli t. degli antenati (ci) venivano eretti durante la dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.) sui luoghi delle sepolture, e servivano principalmente per i riti sacrificali in onore dei defunti. Sono costruiti di solito con lastre di pietra scolpita, e riproducono strutture lignee. Edifici in legno per il culto degli antenati erano già comparsi su alcune tombe di epoca Shang e Zhou, come dimostrato tra l'altro dalla pianta bronzea della necropoli reale del regno di Zhongshan (prov. Hebei; v. monumento funerario).

Verso la fine degli anni Cinquanta sono stati scavati, alla periferia S della Chang'an (odierna Xi'an, v.) di epoca Han, i resti di tre complessi rituali. In uno di questi gli studiosi cinesi hanno riconosciuto gli altari del dio della terra e del dio delle messi, entrambi risalenti probabilmente agli inizi della dinastia Han. Nel secondo complesso sembra siano da identificarsi i grandi templi in onore degli antenati fatti costruire dall'usurpatore Wang Mang (9-23 d.C.). Questo insieme consta di una grande cinta muraria di 1.400 m di lato, comprendente al suo interno undici edifici a pianta quadrata, ognuno circondato da una propria cinta di mura di m 260-280 di lato. Gli edifici sono allineati su tre file: quattro a N, tre al centro e quattro a S. A 10 m di distanza dalle mura esterne, in corrispondenza del centro del lato S, sorge un altro edificio simile ai precedenti e anch'esso fortificato. Tutte le mura hanno un'apertura al centro di ogni lato e una costruzione ad ogni angolo. Per quanto riguarda il terzo complesso rituale di Chang'an, la situazione merita un'analisi più approfondita.

Molti antichi testi, tra cui il Li Ji e il Zhou Li, parlano del mingtang, grande t. imperiale in uso sotto i Zhou e forse anche prima, in cui si svolgevano i sacrifici alle divinità e ai fondatori della dinastia, e altre cerimonie religiose e civili come le udienze dei feudatari. Le descrizioni dei testi circa questo edificio sono però discordanti, e già sotto gli Han non se ne conosceva più la forma originaria. L'imperatore Wu Di ne fece costruire uno nello Shandong nel 109 a.C., che si diceva progettato sul modello del mingtang del mitico Imperatore Giallo, ed era in realtà influenzato da concezioni taoiste in voga all'epoca. Un mingtang fu eretto dall'usurpatore Wang Mang nel 4 d.C. a Chang'an. Sicuramente si tratta di un tipo di t. molto antico e altamente simbolico, di cui si è tentata più volte una ricostruzione congetturale sulla base dei testi, che lo descrivono tra l'altro come quadrato in basso e tondo in alto, con riferimento alla forma della terra e del cielo secondo la cosmologia cinese, con nove sale e il tetto in paglia. I numeri implicati nella sua struttura, come quelli delle sale, delle porte e delle finestre, hanno valenze simboliche. Diverse piante sono state proposte dagli studiosi, tra cui quella quadrata suddivisa in nove parti uguali, o a croce greca. Nei resti del terzo grande e peculiare edificio rituale scavato a Xi'an nel 1956-57 si è voluto riconoscere il mingtang, risalente probabilmente all'epoca dell'imperatore Han Ping Di (1-5 d.C.). All'interno di una vasta area delimitata da un fossato circolare sorge una piattaforma quadrata di c.a 205 m di lato circondata da un muro di cinta con una porta al centro di ciascun lato. Al centro di questo spazio, su una terrazza circolare rialzata, è situato un edificio con pianta a croce greca dai bracci molto corti, simmetrico nelle quattro direzioni. La costruzione aveva un nucleo in terra battuta intorno al quale sorgeva la struttura lignea. Sulla base dei dati di scavo si è tentato di ricostruire l'alzato dell'edificio, arrivando a concepire una struttura a tre piani, dei quali il primo consistente di quattro sale, ognuna con un portico che forma un avancorpo al centro di ogni lato. Il secondo piano consta di una sala centrale con verande aperte a E e a O, mentre a S è a Ν c'erano altre due sale; ai quattro angoli sorgevano alcune torrette. Al terzo piano c'era solamente una sala centrale circondata sui quattro lati da una terrazza. Gli studiosi cinesi hanno identificato il secondo piano di questo complesso come il famoso mingtang, mentre negli altri piani sono state riconosciute altre strutture rituali citate dai testi, come il daxiao, l'accademia, al piano terreno, il taimiao, il t. per i sacrifici agli antenati e il lingtai, la piattaforma per l'osservazione astronomica, al terzo piano. Dopo gli Han il mingtang perse progressivamente di importanza, anche se sappiamo dai testi che se ne continuò la costruzione nei secoli seguenti. Questa tipologia avrà influenza su alcuni t. buddhisti.

Con l'introduzione del buddhismo cominciano ad apparire i t. propri di questa religione. Nel 67 d.C. fu costruito a Luoyang il T. del Cavallo Bianco (Baima Si), dove risiedevano due monaci provenienti dall'India. Sembra però che, anziché costruirlo ex novo, siano state adattate allo scopo le strutture dell'ufficio governativo preposto a ricevere gli ospiti. In questo caso dobbiamo presumere che la disposizione del t. non si discostasse molto da quella di un complesso amministrativo o residenziale. Sotto la dinastia dei Wei Settentrionali (386-534 d.C.) i t. buddhisti divennero sempre più numerosi, raggiungendo il numero di 30.000 nella sola Cina settentrionale. Per molti di questi furono utilizzate dimore signorili donate da nobili e facoltosi benefattori, per cui i complessi religiosi e quelli laici non dovevano essere molto dissimili gli uni dagli altri. Di tutti i t. all'aperto costruiti in questo periodo oggi non resta praticamente nulla, e solo i t. scavati nella roccia si sono conservati a testimonianza della ricchezza dell'architettura, della scultura e della pittura buddhiste cinesi pre-Tang.

La pratica di costruire t. in grotta fu introdotta dall'India via Asia centrale, diffondendosi nel Ν della Cina a partire dal IV sec., e raggiungendo in seguito anche alcune regioni meridionali. Soprattutto sotto le Dinastie Settentrionali (420-589 d.C.) e sotto i Tang (618-907 d.C.) furono realizzati moltissimi t. rupestri quali quelli di Dun- huang, Yungang (v.), Longmen (v.), Bingling Si, Maiji Shan (v.), Gong Xian, Tianlong Shan, Xiangtang Shan, per citare solo i complessi più grandi e più conosciuti. Alcuni di questi comprendono centinaia di grotte e di nicchie che si aprono sui fianchi di alture prospicienti corsi d'acqua. All'interno sono decorate con dipinti murali, bassorilievi e stucchi policromi rappresentanti Buddha, Bodhisattva, episodî della vita di Sākyamuni e delle sue vite precedenti, donatori, divinità di origine indiana e cinese. Per quanto riguarda l'architettura, la pianta delle grotte si ispira per lo più a quella del caityagṛha, poche sono quelle a vihāra con sala centrale e celle laterali per i monaci, come le nn. 268, 285 e 487 a Dunhuang. È probabile che i religiosi vivessero in monasteri non rupestri nelle vicinanze. Le grotte sono di forme diverse, a seconda del sito e dell'epoca. Nel c.d. corridoio del Gansu, zona di collegamento con l'Asia centrale, ci sono molti siti con grotte, le più antiche delle quali sembra risalgano alla dinastia dei Liang Settentrionali (401-439 d.C.), e sono del tipo con pilastro centrale. I primi esempî a Dunhuang e a Yungang, risalenti alla metà del V sec. circa, hanno piante quadrangolari e grandi immagini di Buddha addossate alla parete di fondo. Ma mentre a Dunhuang, nelle grotte 268, 272 e 275, le più antiche, risalenti all'ultimo periodo dei Liang Settentrionali, la forma è più regolare, la decorazione parietale è disposta su registri orizzontali e c'è già una trattazione architettonica del soffitto, nelle grotte più antiche di Yungang (nn. 16, 17, 18, 19, 20), risalenti ai Wei Settentrionali, le piante sono irregolari, i soffitti a volta e la decorazione parietale disposta liberamente. Nella seconda metà del V sec., al centro di alcune grotte a pianta quadrata o rettangolare, come la n. 254 a Dunhuang, compare, sul modello delle grotte di Qïzïl, lo stūpa-pilastro circondato da corridoio per la circumambulazione, che sarà successivamente ripreso anche a Gong Xian (grotte 1, 2, 3, 4), e a Xiangtang Shan (grotta 1) dai Qi Settentrionali (550-577 d.C.). A Yungang però, situata più addentro nel territorio cinese rispetto a Dunhuang, posto di frontiera, lo stūpa-pilastro assume la forma di una pagoda in stile cinese, come nelle grotte 1, 2, 11, 21. I soffitti in alcuni casi riproducono la copertura cinese a spioventi, come nelle grotte 275 e 254 a Dunhuang mentre altre volte hanno decorazione a «Laternendecke». Alle pareti si possono aprire nicchie per immagini grandi e piccole. Dall'inizio del VI sec. i t. scavati in roccia sono di dimensioni minori, hanno spesso forma quadrata, con soffitto piatto o a piramide tronca e statue poste su altari contro la parete di fondo, a ricordare la disposizione interna della sala del Buddha. A volte, specialmente in epoca Tang, la sala principale è preceduta da un'anticamera. In generale si assiste a una semplificazione della struttura architettonica delle grotte, a vantaggio della decorazione scultorea e, soprattutto, pittorica. Questa tendenza è riscontrabile in molte grotte a Dunhuang, a Longmen, a Bingling Si e a Maiji Shan.

La decorazione, anche quella architettonica, delle grotte trae in parte ispirazione da motivi indiani, iranici e perfino classici. Tuttavia un elemento ricorrente è anche il t. all'aria aperta, in stile cinese, che spesso funge da nicchia per le immagini, o la cui facciata è scolpita, con colonne, mensole e copertura, sulla parete rocciosa all'en- trata di alcune grotte, come le nn. 9, 10, 12 a Yungang, le nn. 4, 5, 28, 30 a Maiji Shan, la n. 16 a Tianlong Shan. È possibile quindi ricostruire l'aspetto di strutture che oggi sono andate perdute: la sala del Buddha, forse non molto grande, su piattaforma, era colonnata, ed era coperta da un tetto a spioventi di tegole. I più antichi complessi costruiti dovevano essere cinti da un muro che racchiudeva uno spazio aperto quadrangolare, al centro del quale sorgeva la pagoda, dietro cui era situata la sala del Buddha contenente le immagini sacre. Questa disposizione è chiaramente visibile nella grotta 6 a Yungang: la pianta è quadrata, al centro sorge una pagoda, e sulla parete di fondo si apre una grande nicchia rappresentante la facciata della sala del Buddha, di cui contiene un'immagine. Sulle pareti laterali è raffigurata, in basso, una veranda che circonda lo spazio sacro.

Questo tipo di impianto è stato confermato dagli scavi dello Yongning Si, uno dei principali complessi di Luoyang, costruito nel 516 d.C. per ordine dell'imperatrice Ling Taihou dei Wei Settentrionali e che, essendo un t. imperiale della capitale, può essere considerato rappresentativo dell'epoca. I ritrovamenti dimostrano che il t. era di pianta quadrangolare, circondato da mura, e orientato secondo l'asse S-N. Al centro di ogni lato si apriva un ingresso; nel mezzo del cortile sorgeva, su una piattaforma rialzata, la pagoda lignea di nove piani, e subito dietro c'era la sala del Buddha. Questa disposizione si avvicina a quella di alcuni vihāra indiani e centroasiatici, con i quali condivide l'impianto quadrangolare a cortile cinto da mura, con lo stūpa al centro. Molti dei principi informatori di questo tipo di pianta sono mediati dall'architettura secolare cinese, quale si era venuta già definendo nel corso dei secoli: l'entrata principale a S, considerata la direzione fausta; la disposizione degli edifici principali al centro del complesso, lungo la direttrice S-N; la simmetria e l'ordine dell'insieme. L'unico elemento estraneo era la pagoda (v.), versione cinese dello stūpa indiano. La sua collocazione all'interno di un complesso architettonico tradizionale costituì sempre un problema di non facile soluzione. Non sempre la pagoda era presente all'interno del t.; essa comunque andò perdendo d'importanza, sostituita dalla sala del Buddha, l'equivalente del dian, la sede del sovrano: doveva sembrare infatti questo il luogo più adatto a diventare l'ambiente in cui si trovavano le immagini sacre e il centro rituale della comunità dei monaci. Con il termine «tempio» (si, siyuarì) intendiamo il complesso di edifici cinto da mura comprendente varie sale di culto e di riunione, la biblioteca, a volte la pagoda, le abitazioni dei monaci, e le altre costruzioni che ospitano i servizi necessari alla comunità monastica, oltre a giardini, alberi e laghetti. Un insieme insomma che si avvicina al concetto occidentale di monastero. Le sale che all'interno del complesso erano dedicate propriamente al culto sono chiamate genericamente «sala del Buddha» (Fodian).

Nei dipinti murali delle grotte di Dunhuang sono spesso rappresentati dei complessi templari. Per l'epoca Sui (581-618 d.C.) e Tang iniziale sembra che la disposizione più usata, attestata dalle pitture delle grotte 423, 433, 338, 205, fosse quella formata da un edificio centrale e due edifici laterali collegati al primo da una veranda. Questa pianificazione è confermata anche da un t. risalente alla dinastia Sui, recentemente scavato alla periferia di Xi'an. Eretto nel 582 d.C. col nome Linggan Si, fu distrutto una prima volta nel 621, poi, dopo varie ricostruzioni e distruzioni, cambiato nel 711 il nome in Qinglong Si («T. del Drago Azzurro»), fu ricostruito nell'846 dai Tang. Per ora è stato possibile identificare le fondazioni di una pagoda e di una sala nella parte O, e di un'altra sala nella parte E del complesso, che doveva comprendere originariamente anche una pagoda orientale. Il t. copriva una superficie di 132.500 m2, e l'ingresso principale si apriva a S. Nel Qinglong Si la pagoda, risalente ai Sui, e forse non ricostruita dopo la distruzione, era situata subito dietro al portale mediano, davanti alla sala del Buddha, secondo la stessa disposizione dello Yongning Si. Quindi lo spostamento della pagoda dalla sua posizione preminente di fronte alla sala deve essere stata un'innovazione di epoca Tang. Rimossa dall'asse centrale del complesso, la pagoda sarà duplicata, secondo una pianificazione detta «a pagode gemelle», e posta all'esterno della cinta. In seguito la si può trovare situata anche dietro la sala del Buddha.

Dai dipinti di Dunhuang si può avere qualche altra informazione sui t. Tang. La cinta muraria è talvolta munita di torrette ai quattro angoli, e al centro del recinto ci sono uno o più edifici che a volte raggiungono i due o tre piani. Sembra infatti che sotto questa dinastia il centro del t. fosse spesso costituito non dal dian, edificio a un solo piano, ma da una costruzione a più piani (ge). I complessi di quest'epoca potevano essere di grandi dimensioni, e arrivare a comprendere fino a una decina di cortili cinti da verande colonnate, entro cui trovavano posto i varî edifici. Per quanto riguarda la disposizione dei cortili, a giudicare dai dipinti, questi potevano essere disposti l'uno dietro l'altro o l'uno accanto all'altro.

L'incisione sull'architrave della grande pagoda dell'Oca Selvatica (Da Yan Ta) a Xi'an, risalente al 700 d.C. circa, ci mostra la facciata di una sala del Buddha di cinque jian di larghezza (nell'architettura tradizionale cinese si intende con jian lo spazio compreso tra quattro colonne portanti), eretta su una bassa piattaforma cui si accede tramite pochi gradini posti davanti all'ingresso. Molti particolari, come la forma del tetto, le basi delle colonne a forma di fiore di loto, le mensole a tre bracci sulle colonne e quelle intercolonnari a V rovesciato, sono simili a quelli degli edifici scolpiti o dipinti nei t. in grotta dei Wei Settentrionali e dei Sui.

I resti di un t. di grandi dimensioni, che si suppone risalga alla metà circa della dinastia Tang (618-907 d.C.), sono stati rinvenuti a Yangzhou (Jiangsu), ma i primi esempî di sala del Buddha ancora esistenti sono situati sul monte Wutai Shan (v.), una delle montagne sacre del buddhismo in Cina. La più antica è la sala principale del Nanchan Si. La struttura attuale è stata datata al 782 d.C. grazie a un'iscrizione su una trave, che ricorda una ricostruzione dell'edificio avvenuta appunto in tale data. Questa sala, di dimensioni inferiori rispetto a quelle dei principali t. Tang, e situata in posizione periferica, è sopravvissuta alla persecuzione dell'845 d.C., che causò la distruzione di ben 44.600 monasteri buddhisti. E posta su una piattaforma leggermente rialzata, ed è orientata secondo la direttrice E-O, a causa della morfologia del pendio sul quale è situata. Ha pianta quasi quadrata: è larga 11,75 m e profonda 10 m. Consta di tre jian per lato; quello centrale è più ampio dei due laterali, come si può riscontrare anche nel rilievo dell'architrave della Pagoda della grande anatra. Sulla facciata, nell'intercolumnio centrale, c'è la porta, e nei due laterali le finestre. Le colonne, presenti solo lungo il perimetro esterno e assenti all'interno dell'edificio, terminano in un capitello su cui poggiano le mensole che sostengono il tetto e ne scaricano il peso sulle colonne portanti. Le mura esterne, in mattoni, sono di tamponamento. Sulla copertura di tegole, a spigolo e a timpano, alle estremità della trave di colmo, spiccano gli acroteri «a coda di civetta» che compaiono in una forma molto simile nelle riproduzioni di edifici dei Wei Settentrionali. All'interno della sala non c'è il soffitto, per cui è visibile la travatura del tetto. Al centro è un grande altare su cui sono collocate le immagini di culto: diciassette sculture in argilla dipinta, rari esempî di plastica Tang, tra cui un Buddha in meditazione assiso in trono, circondato dai discepoli Kāśyapa e Ānanda, da Bodhisattva e lokapāla. L'edificio, di proporzioni modeste ma armoniose, è un mirabile esempio di semplicità e di eleganza anche nei particolari architettonici, come le mensole.

Il Foguang Si, anch'esso situato sul Wutai Shan, fu fondato alla fine del V sec. d.C., ma la struttura attuale della sala del Buddha risale all'857. Di alcuni decenni posteriore alla sala del Nanchan Si, è più grande di quest'ultima: ha infatti pianta rettangolare con sette jian in larghezza e quattro in profondità. Anch'esso è posto su una bassa piattaforma, ma l'intera struttura è più complessa di quella del Nanchan Si. Al centro della facciata si aprono cinque porte, affiancate ai lati da due finestre; il tetto è a quattro spioventi. All'interno c'è una seconda fila di colonne, assente nel Nanchan Si. Il sistema mensolare ha un'altezza pari alla metà circa di quella delle colonne, e comprende quattro livelli di mensole, compresi i bracci inclinati (ang); vi sono anche gruppi di mensole intercolonnari. La piattaforma su cui sono poste le immagini del culto è arretrata verso la parete posteriore, lasciando così più spazio nella parte antistante, mentre ai lati e dietro c'è uno stretto ambulacro dal soffitto più basso che al centro. Gli elementi strutturali della copertura sono sottratti alla vista da un soffitto ligneo a cassettoni, e l'inclinazione degli spioventi del tetto è molto graduale. Le statue in stucco policromo, tre grandi Buddha assisi al centro, circondati da Bodhisattva stanti o inginocchiati su fiori di loto, sono coeve alla sala. Sia la forma dell'altare sia la disposizione delle immagini differiscono da quelle del Nanchan Si: mentre in quest'ultimo le statue erano disposte a semicerchio su un altare quasi quadrato, qui sono allineate verso il fondo, di fronte al visitatore. L'intera struttura interna della sala tende a sottolineare la posizione preminente dell'altare. Alle pareti vi sono tracce delle pitture che una volta dovevano decorare tutto l'interno.

Un altro edificio per il quale è stata proposta l'attribuzione all'ultimo periodo della dinastia Tang è la sala del monastero femminile di Tiantai An, nel distretto Ping- shun (Shanxi). Di tutto il complesso è sopravvissuta solo la sala principale, di pianta quadrata e piuttosto piccola (64 m2), strutturalmente simile a quella del Nanchan Si. Ha tre jian per lato, di cui quello centrale più ampio dei laterali. All'interno non vi sono colonne, e c'è un solo livello di mensole. Sebbene restaurata successivamente, sembra che la sala conservi ancora la struttura originaria. Una stele in pietra di epoca Tang posta nel recinto del t. ne ricorda la costruzione.

I t. dedicati al taoismo esistenti oggi in Cina risalgono a tempi relativamente tardi. Secondo i testi, il primo t. taoista fu fondato all'epoca degli Stati Combattenti (475- 221 a.C.). In seguito, alcuni imperatori Han e Tang ordinarono la costruzione di t. per fare sacrifici a Laozi, il fondatore del taoismo. Dell'aspetto di questi t. si sa poco: una loro caratteristica doveva essere là struttura a più piani di almeno uno degli edifici che lo componevano, come indica il nome stesso che designa il t. taoista, guan. Sotto i Tang sembra si coltivassero al loro interno piante di peschi, frutto ricorrente nei miti di questa religione. A parte ciò, i t. taoisti, come quelli confuciani, dovevano essere simili a quelli buddhisti. L'unico edificio piuttosto antico conservatosi di un complesso confuciano sembra essere quello del distretto di Zhengding Xian (Hebei), databile alla fine della dinastia Tang. La sala, piuttosto piccola con cinque jian in larghezza e tre in profondità, ha struttura semplice e rigorosa.

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(M. L. Giorgi)