Teatro

Il Libro dell'Anno 2004

Rocco Familiari

Teatro

Il luogo d'incontro

di tutte le arti

(Roland Barthes)

Il teatro italiano oggi:

si può parlare di crisi?

di Rocco Familiari

26 febbraio

Con una conferenza stampa a Roma l'AGIS (Associazione generale italiana dello spettacolo) lancia l'iniziativa 'Vertenza spettacolo' per sollecitare l'attenzione dell'opinione pubblica e delle istituzioni verso un settore che secondo l'Associazione è spesso trascurato, pur svolgendo un ruolo strategico per la crescita culturale ed economica del paese. I problemi organizzativi, legislativi e finanziari penalizzano in particolare alcuni comparti, come il teatro, che ancora attende una normativa specifica che lo riconosca come componente fondamentale del patrimonio artistico e culturale del paese.

Crisi di adattamento e crisi di contenuto

Il numero di gennaio-febbraio 2004 di Sipario, una delle poche riviste di teatro ancora in circolazione, si apre con un editoriale dove si lamenta il sempre minore spazio che la stampa concede alla critica teatrale, un tempo affidata a firme prestigiose, protagoniste sulle pagine nazionali dei quotidiani e con ampi servizi sui settimanali della vita culturale del paese, al pari dei critici letterari o di quelli musicali, e oggi invece, quand'anche il livello dei collaboratori sia rimasto alto, relegata per lo più sulle pagine locali o ridotta a poche righe meramente informative.

Anche questo, se si vuole, può essere considerato un segnale, da un'angolazione molto particolare ma non per questo meno significativo, di una 'crisi' della quale si discute, a torto o a ragione, da almeno una ventina d'anni, da quando cioè si è esaurita la spinta propulsiva di quell'avanguardia formata dai vari Ricci, Nanni, Perlini, Leo e Perla, Bene soprattutto, Vasilicò e altri, che costituì per la scena italiana un momento vivacissimo e irripetibile di creatività, ma che non riuscì a trasformare gli esiti, spesso molto avanzati, della ricerca di un nuovo linguaggio in un effettivo, radicale rinnovamento del teatro, riproponendolo, aggiornato nei contenuti e nelle modalità espressive, quale spazio elettivo di riflessione su ciò che accade.

Per restare alle 'spie' indirette della crisi, la stessa situazione delle riviste di teatro e di drammaturgia è emblematica della disattenzione generale nei confronti di un genere destinato a una progressiva marginalizzazione. Oggi sopravvivono dignitosamente, con grandi sforzi e sacrifici dei redattori, poco più di un paio di riviste e nessuna di esse ha alle spalle una casa editrice di peso, segno inequivocabile del fatto che la situazione generale non è più quella descritta nel trionfalistico editoriale di apertura del primo numero di Comoedia, prima vera rivista di teatro pubblicata nel nostro paese (edita da Casa Editrice Italia nel 1919 e da Mondadori dal 1922): "Il pubblico italiano frequenta oggi, come non mai per lo passato, i teatri: paga, s'interessa, discute, s'anima, s'appassiona. Per alcuni lavori si scinde in partiti e, come per una lotta politica, arriva sino al pugilato. E questo accade anche perché il pubblico si è accorto che un teatro contemporaneo italiano è sorto o sta per sorgere". Se il 'pugilato' costituisce la cartina di tornasole della vitalità del teatro, spiace ricordare come le ultime gare risalgano a una quarantina di anni fa, per una regia di Visconti e per un testo di Squarzina.

Anche le riviste di drammaturgia legate a dipartimenti universitari hanno una vita abbastanza difficile. L'editoria specializzata conta pochi nomi di spicco e le collane di testi teatrali 'classici', salvo qualche rara eccezione, occupano uno spazio limitato nei cataloghi degli editori maggiori e ancor minore, del tutto insignificante, è lo spazio concesso agli autori contemporanei. Dagli ultimi dati disponibili si ricava che nel 2003 sono stati pubblicati complessivamente 268 titoli (la gran parte dei quali riguarda classici) contro i 500 del 2002.

La crisi è una crisi di adattamento, di trasformazione, nell'accezione introdotta da Auguste Comte, e anche di 'mercato', sia pure non più grave di quella che riguarda gli altri consumi culturali del paese, dai quotidiani, ai libri, alla musica, ma è soprattutto una crisi di contenuti (per non dire di 'valori', che sarebbe anche giusto, ma potrebbe prestarsi a dei fraintendimenti) e perciò pericolosamente destinata ad aggravarsi, se non intervengono a contrastarla fatti decisivi.

Sicuramente gli abbonati alle prime di qualsiasi grande teatro italiano, paghi delle performances del mattatore di turno o delle acrobazie interpretative del regista più à la page, respingono decisamente l'idea che il teatro sia in crisi, tanto più che accanto alle messinscene tradizionali dei grandi classici possono spesso assistere a eleganti sperimentazioni su quegli stessi testi, indice certamente di uno sforzo innovativo, ma anche di un grosso equivoco, perché l'enfatizzazione degli elementi 'scenici' nasconde una preoccupante assenza, quella della nuova drammaturgia. La situazione è infatti critica perché il mancato rinnovamento del linguaggio di una forma di espressione comporta il progressivo, ineluttabile smarrimento della ragion d'essere di quella forma, con conseguenze sulla cultura complessiva di un paese che possono essere drammatiche. Il fatto che ogni anno nei teatri italiani vengano riproposte decine e decine di volte opere di Shakespeare, Pirandello e Goldoni e che i testi contemporanei, realizzati da teatri e compagnie di un certo peso, si contino sulle dita di una mano, è l'ultima spia - ma in questo caso non si tratta soltanto di una spia, né di un effetto, ma di una concausa - della crisi.

È necessario, però, a questo punto, ribadire una distinzione fondamentale, che permetta di valutare il fenomeno nella sua complessità. Il teatro, quello che convenzionalmente viene definito 'di prosa', ha una dimensione 'contenutistica' che è, e non può che essere, letteraria - sia pure con una propria specificità di scrittura che differenzia la drammaturgia dalla narrativa piuttosto che dalla poesia o dall'epica (il fatto che parecchi registi contemporanei attingano, per le loro messinscene, al patrimonio letterario, da Carlo E. Gadda a Stefano D'Arrigo, da Proust allo stesso Pirandello romanziere, significa semplicemente che rintracciano ed esaltano la componente drammaturgica, spesso presente nella narrativa o nella poesia) - e una dimensione 'strutturale', che è quella tipica di un mezzo di espressione 'mediato', quale si è venuta formando nei secoli e che è stata rinnovata profondamente nel Novecento.

I due livelli sono strettamente connaturati e interdipendenti. Svincolarli l'uno dall'altro, privilegiando l'aspetto visivo o sonoro o gestuale, significa semplicemente mutare linguaggio espressivo, il che è senz'altro legittimo, nell'ambito di un più ampio genere che può anche definirsi 'spettacolo' in senso lato, ma non ha nulla a che vedere con la species teatro di prosa. E non si tratta, com'è evidente, di un problema nominalistico o epistemologico, ma di una questione che attiene all'evoluzione storica di una specifica forma espressiva ("il luogo d'incontro di tutte le arti", secondo la splendida definizione di Roland Barthes), che costituisce un retaggio fondamentale della cultura occidentale. Il livello letterario del teatro, il 'testo', per intendersi, consente infatti l'apprendimento di quelle che il critico letterario statunitense Harold Bloom chiama (riferendosi a Shakespeare), le "strutture fondamentali dell'umano".

Il 'meccanismo' teatrale è soltanto uno strumento attraverso il quale il testo viene interpretato e trasmesso ai fruitori, in modi che possono essere i più diversi. Se il meccanismo prevarica sul testo, o lo annulla, o addirittura ne prescinde - sono tutte 'gradazioni' riscontrabili nelle messinscene di molti registi attuali - diventa una sorta di macchina célibataire e il teatro non è più in grado di creare e trasmettere 'cultura'. Basti pensare soltanto a cosa sarebbe stato dell'evoluzione spirituale e intellettuale dell'Occidente se i grandi tragici greci o Shakespeare, invece che scrivere testi drammatici, avessero realizzato delle performances musical-visive. Quando nel 1994 Siro Ferroni fondò la rivista Drammaturgia (vissuta fino a pochi mesi fa), si prefisse lo scopo di "contribuire al risveglio della scrittura teatrale superando una concezione e una pratica…di separazione del lavoro testuale dal lavoro scenico non avendo mai creduto in chi teorizzava - con una semplificazione solo in parte dettata dal bisogno di rompere con le convenzioni tradizionali - il primato esclusivo e autoreferenziale della cosiddetta 'scrittura scenica'".

L'uomo di teatro che più di altri, e più drammaticamente, ha incarnato, sulle nostre scene, la contraddizione insita nel fatto che il rinnovamento non può mai giungere al punto di non-ritorno costituito dalla perdita di significato dell'evento, è stato Carmelo Bene. Nelle sue ultime interpretazioni, al limite (o al di là) del solipsismo (adattatore, regista, scenografo, musicista, datore di luci, attore), egli ha inclinato verso una dimensione quasi esclusivamente visiva e sonora dello spettacolo, anche se le sue straordinarie doti avevano sempre bisogno di un 'sostegno' tradizionale, qual era il suo amato, o dannato si dovrebbe forse dire, Shakespeare, utilizzato semplicemente come una sorta di 'basso continuo' per le sue personali, inimitabili, e senza alcuna possibilità di diventare nutrimento comune, variazioni sui temi fondamentali, estratti, scarnificati in un certo senso, dal testo. Del resto, affermava egli stesso che il teatro era morto e che lui ne celebrava i (sontuosi) funerali.

La crisi del linguaggio contemporaneo

Nel primo ventennio del 20° secolo, con la scomparsa di un oggetto 'riconoscibile' dal campo di espressione dell'artista, si è verificata un'autentica rottura rispetto a tutta l'arte del passato. Ciò è avvenuto con l'avvento nell'arte figurativa dell'astrattismo, che ha fatto esplodere il problema della legittimazione del 'soggetto' a essere ancora il centro del fare artistico, mai messa in discussione, a partire dai graffiti delle grotte preistoriche di Altamira in Spagna o dalla Venere paleolitica di Willendorf in Austria, fino ai primi quadri astratti di Kandinskij. Il processo non riguarda però esclusivamente le arti visive (in queste è soltanto più evidente, per ragioni intuitive), bensì tutte le forme di espressione, dalla musica (con l'abolizione della tonalità), alla poesia, alla narrativa.

Rispetto a tale processo, che non è esagerato definire epocale (si tratta di una delle tante 'rivoluzioni' avvenute nel 20° secolo e che lo rendono, contrariamente alla nota definizione di Eric J. Hobsbawm, il secolo più 'lungo' della storia), il teatro non è stato toccato dai problemi che quella 'perdita del centro' comportava, per ragioni che attengono alla sua natura specifica. Se si scorre, infatti, con un rapido colpo d'occhio, il panorama, peraltro affollatissimo, dei movimenti che hanno attraversato la scena europea e mondiale dalla fine dell'Ottocento a oggi, non vi è un solo esempio (salvo le rare esperienze, legate peraltro strettamente a ricerche di tipo figurativo, di teatro dada o futurista) di teatro del 'non-essere'. Questo non soltanto nell'ambito della letteratura teatrale che, al di là degli innegabili 'slittamenti' formali, da Čechov a Ibsen, da Strindberg a O'Neill o a Pirandello (così acutamente rilevati e interpretati dal filosofo e saggista ungherese Peter Szondi), sembra poco incline ad abbandonare i capisaldi strutturali che da Eschilo in poi hanno reso il teatro una delle forme di espressione più 'conservatrici', ma neppure nell'ambito, senz'altro più vivace, del rinnovamento scenico, dove da Adolphe Appia e Gordon Craig, i maestri riconosciuti del Novecento, ad Antonin Artaud, a Jacques Copeau, a Jerzy Grotowski, a Eugenio Barba, al Living Theatre di Judith Malina, sembra prevalere un orientamento al 'misticismo', che non è certo la negazione del soggetto, ma la ricerca, invece, della sua essenza più profonda.

La verità è che il teatro (così come la letteratura), in quanto ha per struttura portante il linguaggio, la parola, che costituisce l'identità dell'uomo, non può che esprimersi 'positivamente'. La lingua non può, per sua natura, negare l'essere. Tutta la ricerca logica contemporanea conferma questo dato inoppugnabile, che la lingua crea oggetti, quand'anche siano inesistenti (come i famosi 'liocorni' del paradosso di Alfred J. Ayer, filosofo e logico inglese). Il teatro, in altri termini, non può riscattare la propria intrinseca 'impurità'. Neppure le 'opere senza parole' di Beckett possono essere considerate 'insignificanti' (nel senso proprio della musica) e, comunque, non sono un punto di partenza, ma un punto di non-ritorno.

La 'rivoluzione' pirandelliana, con il suo testo fondamentale, i Sei personaggi, è stata radicale, perché, pur rimanendo all'interno di una tradizione consolidata, ha scardinato la convenzione in base alla quale i personaggi dovevano essere 'reali'. La vera innovazione del drammaturgo siciliano (ma anche 'tedesco', essendosi laureato a Bonn) consiste nell'aver riportato i personaggi a una dimensione esclusivamente teatrale. È, in qualche modo, un teatro 'epico' il suo, ancora più 'straniante', in quanto non si limita a modificare il modo di recitare degli interpreti, ma l'essenza stessa dei personaggi. Si potrebbe adattare perfettamente a Pirandello l'aneddoto riferito a Matisse, il quale a un interlocutore che gli chiedeva come mai in un suo quadro la donna ritratta avesse una gamba più lunga dell'altra, avrebbe risposto: "guardi che non si tratta di una donna, ma di un quadro". Ecco, anche Pirandello, a uno spettatore che gli avesse rimproverato una certa schematicità dei suoi personaggi (evidente soprattutto nelle opere 'minori'), avrebbe potuto rispondere che si tratta appunto di personaggi e non di uomini veri. Da questo punto di vista, Pirandello è il più grande drammaturgo 'futurista', avendo portato a compimento la dissoluzione del 'soggetto', all'interno di una struttura classica, senza peraltro mai smarrire la ragion d'essere intrinseca, la mission si potrebbe dire, dell'arte drammatica.

Il teatro del Novecento non soltanto non è stato coinvolto dal processo di ridefinizione dell'oggetto, messo in moto dall'avvento degli 'astrattismi' ma, al contrario, ha speso energie nel tentativo di recuperare quei valori che aveva disperso a partire dal tardo Ottocento. La reazione alla 'chiacchiera' (il "vuoto indaffarato", reso dal termine tedesco Gerede, che Heidegger assume addirittura come 'categoria del negativo'), così ben sintetizzata nella formula 'riteatralizzare il teatro' lanciata da Georg Fuchs (il maggior teorico dell' 'ideologia della parola') e ripresa da Copeau (colui che ha messo in pratica quelle teorie), produce un ritorno al valore della parola, alla sacralità del logos, attraverso il quale avviene una "fusione sublimata di attori-sacerdoti con un pubblico di adoranti". Fuchs fissa i canoni basilari di tutte le teorie e le prassi del 'teatro di parola' che si sarebbero sviluppate nel corso del secolo. Il teatro, cioè, come partecipazione a un culto, a una comunione solenne che rinverdisce il senso proprio del teatro delle grandi civiltà greco-romana e cinese, richiamandosi anche alla tradizione dei Misteri medievali tedeschi. Il dramma è una 'partitura', che ha lo scopo di porre l'animo degli spettatori in uno stato di solenne raccoglimento. Come si vede, vi è un esplicito richiamo alla Drammaturgia amburghese (1767-69) di Gotthold Ephraïm Lessing - il ritorno all'unità aristotelica di forma e contenuto - e su tali elementi avrebbe preso corpo il teatro di Copeau, forse il maggior interprete di questo 'ritorno al sacro' della rappresentazione teatrale. La sua poetica, centrata tutta sul recupero della forma originaria del teatro, dai Misteri alla Commedia dell'arte, presuppone una ricerca in sé stessi e di sé stessi, una dedizione totale all'Entità-Teatro che diventa uno spazio sacro, non soltanto perché tradizionalmente è quello in cui avviene la comunione con il Dio per mezzo della Parola, ma anche perché l'attore-sacerdote crea in sé stesso una condizione di partecipazione al divino. Tutto ciò ha luogo attraverso "coerenza nell'organizzazione, disciplina della compagnia, forte unità della direzione, sincerità della messinscena".

Era inevitabile che una concezione così rigida, più che monastica, del lavoro teatrale producesse insofferenza per lo stesso luogo scenico tradizionale: "Credo che per salvare il teatro, bisogna uscire dal teatro … noi andremo al di fuori, sulla strada, per cercare di incontrarvi ancora il Dio". Sono parole che ripeterà, cinquant'anni dopo, uno scrittore 'mistico' ed 'eretico' al tempo stesso, come Pasolini, nel suo Manifesto per un nuovo teatro (1968) : "Il Teatro di Parola andrà coi suoi testi (senza scena, costumi, musichette) nelle fabbriche e nei circoli culturali".

La concezione del dramma come 'partitura' ritornerà in Grotowski (come egli stesso confida all'autore e critico francese Denis Bablet, in una conversazione del 1967), ma ha trovato il suo massimo teorico nel filosofo polacco Roman W. Ingarden, in Fenomenologia dell'opera d'arte letteraria, del 1931 (Milano, Silva, 1968), e in lavori successivi. La nozione fondamentale è la 'stratificazione' del prodotto artistico (strato fonico, dei significati delle parole e delle frasi, degli oggetti denotati, dell'apparenza degli oggetti). L'interpretazione dell'opera d'arte consiste quindi nel ricostruire l'articolazione dei vari strati. Per quanto riguarda, in particolare, l'interpretazione del testo teatrale, Ingarden attribuisce importanza fondamentale alle parole recitate che servono non soltanto a descrivere l'azione, ma connotano i personaggi attraverso tutta la gamma dei 'segni' utilizzati, gesti, espressioni del viso, timbro, colore, intonazione.

Così egli assimila sulla scena l'esecuzione dell'opera 'scritta', anzi del dramma 'letto' all'esecuzione musicale, che "elimina le lacune o i punti di indeterminatezza che compaiono nell'opera musicale" (L'opera musicale e il problema della sua identità, Palermo, Flaccovio, 1989).

L'evoluzione che non poteva avvenire a livello di linguaggio, di 'testo', pena la perdita di 'significato' del teatro, si è realizzata invece a livello di 'sovrastruttura' sottoponendo il meccanismo scenico a ogni forma di manipolazione possibile. Nei paesi europei, con modalità coerenti con la storia e il ruolo del teatro nelle varie società, ma anche in America, nel corso del Novecento si è prodotto un radicale rinnovamento del linguaggio scenico. I grandi registi, da Mejerchol'd a Stanislavskij, da Appia e Craig a Grotowski, da Malina del Living a Barba, da Brook a Serban, a Wilson e in Italia tutta la cosiddetta 'avanguardia' (che ha costituito senz'altro il fenomeno nazionale più rilevante, per quantità di registi e per originalità di proposte), hanno ampliato a dismisura le possibilità del 'meccanismo' espressivo, creando un'infinita gamma di 'forme' linguistiche.

Resta il nodo dell'integrazione di tali forme con la drammaturgia e soprattutto con quella contemporanea, nodo che non può essere semplicemente 'tagliato', ritenendo che il patrimonio 'classico' sia sufficiente, potendo essere reinterpretato ('tradito') in tanti modi, a tenere in vita il teatro.

I fattori di criticità

Se questo è uno dei punti di crisi, il più rilevante, perché riguarda la sopravvivenza stessa del linguaggio teatrale, l'altro è senza meno lo strapotere della televisione, la sua pervasività, ma anche il suo 'vampirismo', che le impone di appropriarsi dei contenuti e dei moduli espressivi del teatro come del cinema, del gioco e così via.

Sono questi i temi che varrà la pena approfondire, oltre a quello, di fondo, della regolamentazione (o della mancata regolamentazione) del settore dello spettacolo, soprattutto alla luce delle intervenute modifiche al titolo V della Costituzione, attuate con la legge cost.

18 ottobre 2001, nr. 3, e in vista del ruolo sempre più incisivo che le varie realtà locali, soprattutto le Regioni, svolgeranno per quanto attiene alla politica culturale, della quale lo spettacolo, e segnatamente il teatro di prosa, è strumento fondamentale.

Sotto questo profilo, si può tornare a parlare, come accennato in premessa, di una 'crisi' di trasformazione, nel senso comtiano del termine. In effetti quanto è finora mancato con una politica centralistica, e cioè (al di là delle dichiarazioni di principio contenute nelle varie 'circolari' che sono state lo strumento con cui si è governato dal 1985 in poi) la capacità di indirizzarsi verso obiettivi ritenuti prioritari, di distinguere fra le varie proposte quelle realmente da incentivare con finanziamenti pubblici e quelle da lasciare al libero mercato, forse si potrà realizzare con una politica decentrata che punti a valorizzare le risorse locali e a farle crescere. In ogni caso si avrà una maggiore articolazione, anche in funzione degli uomini che guideranno le varie realtà amministrative, e questo costituirà, già di per sé, un cambiamento di forte rilievo rispetto al funzionamento del sistema teatrale italiano.

Molte di tali specificità potrebbero anche, da un punto di vista 'esterno', essere valutate come ulteriori fattori di criticità, ma sarebbe una conclusione azzardata, in quanto esse costituiscono lo specifico modo di essere di una realtà complessa, evolutasi storicamente in forme assolutamente originali, e non sono isolabili dal contesto. Per fare un esempio, la concorrenza fra i vari Comuni e l'interesse 'clientelare' degli stessi ad avere i migliori spettacoli della stagione, con i migliori interpreti, sono una causa 'oggettiva' di aumento dei costi, ma visti da un'altra angolazione sono ciò che consente agli abitanti anche del più decentrato borgo di non venire penalizzati e di poter partecipare della vita culturale del paese al più alto livello, effetto probabilmente compensativo della lievitazione dei costi, in una logica che dia un rilevante valore ai fattori di crescita di una società. In effetti, uno dei problemi, che a seguito del futuro decentramento delle attività e dei finanziamenti bisognerà risolvere, sarà proprio quello di evitare che le realtà più deboli economicamente debbano accontentarsi di prodotti meno 'eccellenti' di quelli che possono essere consumati dalle regioni più ricche.

Il sistema di finanziamento, nonché quello produttivo e distributivo italiano sono infatti contrassegnati dalla pluralità dei soggetti che agiscono, centrali e locali, pubblici e privati, il che rende quanto mai problematico realizzare un'equa distribuzione di risorse e una sostanziale par condicio delle condizioni di fruibilità del prodotto teatrale.

Accanto al Ministero che ha erogato, finora, i finanziamenti statali, vi sono i vari Enti locali, anch'essi erogatori di contributi, a volte di importo rilevante. Esistono dei Teatri stabili pubblici, con una propria sede, una propria compagnia, che producono e distribuiscono localmente spettacoli, Teatri stabili privati con caratteristiche analoghe ai precedenti. Vi sono inoltre, per tradizione, compagnie private che, senza avere una loro sede, producono spettacoli distribuiti nazionalmente nei vari circuiti. Di contro a queste esistono strutture meramente ospitanti (la maggior parte dei teatri comunali), sostenute dagli stessi Enti locali. Esistono infine i circuiti, organismi semipubblici, che distribuiscono spettacoli, ai quali si affiancano, con lo stesso compito, le agenzie private, quindi le società di produzione, i festival, le rassegne e così via. È la ricchezza, ma anche il caos del teatro italiano.

Per tentare un'analisi comparata, in Germania esistono circa 600 teatri, che producono e distribuiscono spettacoli localmente, nei vari Länder e costituiscono la 'struttura portante' del teatro tedesco. In Italia, al contrario, il nerbo sono le cosiddette compagnie di giro. La 'tenuta' degli spettacoli in Germania, come in Inghilterra o Francia e negli altri paesi europei, è mediamente lunga (lasciando da parte i record, come la famosa Trappola per topi di Agatha Christie, in scena a Londra ininterrottamente da più di cinquant'anni, o La cantatrice calva di Eugène Ionesco, dal 1957 al piccolo Théâtre de la Huchette a Parigi) ed esiste il teatro di repertorio, vale a dire la riproposizione di spettacoli che hanno avuto successo o su cui si è investito, in genere i classici. In Italia, nessuno spettacolo regge per più di quattro settimane e anche se è costato miliardi esce generalmente dalla circolazione dopo una stagione (un caso emblematico, senza voler esprimere alcuna valutazione sul merito dell'operazione, è stato Gli ultimi giorni dell'umanità di Karl Kraus, messo in scena da Luca Ronconi, il cui allestimento prosciugò l'intero budget dello Stabile di Torino, poté contare anche su sostanziosi finanziamenti della FIAT e di altri sponsor privati e 'visse' al Lingotto soltanto per venti giorni).

Come conciliare, in una situazione del genere, le esigenze di un progressivo radicamento territoriale, con la necessità di non soffocare il 'disordine creativo' della scena italiana, è una sfida anche per il più accorto e preveggente legislatore.

Il problema della regolamentazione

Il teatro, o meglio quello che si definisce in maniera onnicomprensiva, lo spettacolo dal vivo (categoria di cui fa parte, oltre all'opera, al teatro di prosa e alla danza, anche il circo, al quale può attribuirsi certamente carattere 'culturale', ma solo in un'accezione malinovskiana del termine) attende una legge che lo regolamenti in maniera organica da parecchi decenni, circostanza questa che non può essere ascritta fra i fattori responsabili della crisi, dato che in questo così lungo arco di tempo si è avuto lo sviluppo impetuoso, irregolare forse, ma tutto sommato creativo, del teatro com'è oggi.

Dopo le leggi risalenti al periodo fascista, infatti, la prima legge organica sullo spettacolo è la cosiddetta legge-quadro nr. 163 del 1985, detta anche 'legge-madre', perché a essa sarebbe dovuta seguire una serie di leggi derivate, o 'figlie' che, a oggi, non sono mai state emanate. In assenza di tali provvedimenti, il teatro si è sviluppato in forme assolutamente originali rispetto all'esperienza europea, ma rispettose invece della tradizione autoctona, mantenendo cioè strutture, usi, prassi, convenzioni, tradizioni, consuetudini e saperi di taglio artigianale, ciò che rende ora, paradossalmente, molto difficile regolamentare l'esistente e ancora più difficile il futuro, quello adombrato dalla riforma del titolo V della Costituzione, riforma anch'essa problematica e forse ancora da riformare a sua volta. Tant'è che esistono attualmente ben otto disegni di legge in discussione alle Camere, elaborati dai vari schieramenti politici, alcuni abbastanza simili fra loro, altri affatto divergenti sia riguardo ai principi di fondo - centralismo, per esempio, o regionalismo - sia riguardo alle modalità di utilizzo dei finanziamenti pubblici o ai criteri individuativi della 'qualità'.

In effetti, la vera novità che impone il varo di una normativa organica è proprio la modifica all'assetto istituzionale, in parte già introdotta con la riforma citata, in parte da consolidare e perfezionare con il pacchetto sulla cosiddetta devolution che sta infiammando il dibattito politico attuale. Si tratta di una questione di enorme rilievo e fino a quando non verrà trovato un accordo, che dovrebbe essere condiviso da maggioranza e opposizione, in grado cioè di avviare una riforma che sia al riparo da eventuali cambiamenti di governo, difficilmente potrà porsi mano alla serie di provvedimenti consequenziali, per modificare le vecchie strutture centralistiche in funzione del nuovo disegno federalistico.

Il teatro, in una situazione del genere, per sopravvivere non può restare immobile e, come sempre, sta trovando propri criteri di adattamento, anticipando, in qualche caso con effetti palesemente 'atipici', quelle che dovranno essere le future linee della riforma. In attesa della legge ordinaria statale, infatti, che dovrà fissare anche i criteri a cui le Regioni dovranno uniformarsi per regolamentare, a loro volta, la materia di propria competenza - quella del teatro è, com'è noto, materia di legislazione 'concorrente' - alcune di esse hanno già varato delle leggi, sostanzialmente conformi alle proposte, o almeno a quelle ritenute più complete, in discussione alle Camere, ma che, appunto per questo, da un lato appaiono pleonastiche, non aggiungendo nulla alla regolamentazione centrale, dall'altro forse anche improvvide, in quanto la futura legge-quadro potrebbe in qualche punto tracciare linee non previste.

Senza entrare nel merito dei vari disegni di legge, i punti cardinali da regolamentare riguardano il rapporto fra organi centrali (quelli già esistenti, da riformare anch'essi oppure altri da istituire ex novo) e organi decentrati e fra questi ultimi, le Regioni per esempio, e quei Comuni che per tradizione, peso demografico ed economico, presenza di strutture, hanno una valenza ben diversa da quella di altri, magari anch'essi dotati di strutture prestigiose, nonché i criteri di attribuzione del finanziamento pubblico, atteso che sia che prevalga una concezione dirigistica dello Stato e della politica culturale sia che invece si consolidi una concezione liberal il teatro continuerà a essere sostenuto economicamente, in maniera determinante, dall'erario.

Fino a una ventina di anni fa si poteva ancora discutere se mantenere in Italia il sistema 'gollista' del finanziamento (è stato il generale De Gaulle il maggior sostenitore del sistema pubblico di finanziamento e controllo della cultura, ma ebbe precedenti illustri: basti ricordare la nota vicenda del Teatro d'arte di Pirandello, finanziato da Mussolini, a seguito di pressanti quanto ossequiose richieste dello stesso drammaturgo) e quindi del controllo pubblico anche del teatro cosiddetto commerciale, ovvero, come proponeva il non ancora Nobel Dario Fo a un convegno tenuto a Sirolo e presieduto da Ghigo De Chiara, lasciare al mercato il giudizio sulla validità, e perciò sulla sopravvivenza, delle varie offerte teatrali. Oggi nessuna forza politica e nessun operatore teatrale riproporrebbe il problema in quei termini e infatti non esiste alcuna proposta di legge che non preveda un ricorso massiccio al finanziamento pubblico, considerando giustamente il teatro un prezioso patrimonio culturale.

L'attribuzione del FUS (Fondo unico dello spettacolo), istituito dalla legge-madre del 1985, è pertanto il problema centrale intorno a cui ruota tutto il resto. In apparenza il problema potrebbe porsi in maniera abbastanza semplicistica, con un'alternativa secca: i finanziamenti o sono attribuiti dal Centro (che sia il Ministero per i Beni e le attività culturali, o una Commissione, o l'Ente teatrale italiano rivisitato nelle competenze, o un'apposita Agenzia cambia poco) oppure dalle Regioni, a seguito evidentemente di una preventiva assegnazione, alle stesse, di fondi dal Centro.

In una concezione federalista dello Stato, quale quella che si sta delineando, la questione sembrerebbe non doversi neppure porre. Dovrebbero essere le Regioni le future, esclusive, autonome protagoniste della politica culturale del paese. Ma, anche in un'ipotesi del genere, sorgerebbe immediato l'ulteriore problema del criterio di assegnazione preventivo a quelle. In base alle strutture esistenti? Al numero di abitanti, prescindendo dalle strutture? Inversamente rispetto all'esistente, in modo da favorire le più svantaggiate? E così via.

La verità è che lo sviluppo del sistema teatrale italiano, avvenuto, come si è detto, in assenza di leggi organiche, ha creato una situazione estremamente variegata, difficilissima da inquadrare in un modello di governance unitario, centralistico o localistico che sia. Basti un esempio. Gli Stabili pubblici e privati potrebbero benissimo passare alle Regioni, sul modello dei teatri dei Länder tedeschi. Ma la loro distribuzione sul territorio è fortemente squilibrata. Non si può pensare di ridurre gli stanziamenti a loro favore, ma si deve anche promuovere lo sviluppo teatrale nelle Regioni più disagiate. I disegni di legge in esame alle Camere, presentati dagli opposti schieramenti, cercano di risolvere questo nodo fondamentale in varie maniere, in linea di massima coerenti con l'ideologia che ne ispira l'impostazione di fondo, ma vi sono a volte convergenze inaspettate o posizioni trasversali che potrebbero far sperare in una rielaborazione delle idee più interessanti in un unico testo.

La drammaturgia contemporanea

I dati sono contraddittori. Da un lato, la presenza reale, sui palcoscenici che contano, con realizzazioni dignitose, di testi contemporanei, è oggettivamente rada. Gli autori, a tal proposito, lamentano l'indifferenza di produttori, compagnie, registi verso la drammaturgia contemporanea. Questi, a loro volta, lamentano la scarsità di testi interessanti. Dall'altro lato, la produzione di lavori attuali è numericamente consistente. Si tratta per lo più di piccole produzioni, in teatri marginali, spesso dirette dagli stessi autori.

Le ragioni del mancato incontro fra domanda e offerta sono molteplici e complesse e vanno rintracciate sostanzialmente nell'evoluzione teatrale di questo paese dove, a differenza o più che in altri, a un certo punto si è interrotto il rapporto 'organico', imprescindibile dello scrittore con il capocomico e, tramontata la figura di quest'ultimo, con il regista e gli interpreti. Senza soffermarsi sull'imprescindibilità di tale rapporto, basterà citare la necessità, avvertita dallo stesso Pirandello, di una propria compagnia e ricordare come i soli autori contemporanei affermati siano stati anche attori, Eduardo De Filippo e Dario Fo, oppure in simbiosi con attori-demiurghi, come Giovanni Testori e Franco Parenti.

Come argomento e contrario, credo sia significativa la scarsa fortuna che in Italia, laddove si è tentato di introdurla, ha incontrato la figura del dramaturg, essenziale nei teatri di lingua tedesca, una sorta di diaframma cioè fra il direttore di un teatro e l'autore, che sceglie i testi, ne discute l'adattamento con l'autore e il regista, traccia la linea culturale del teatro.

Che qualcuno addossi le colpe dell'attuale situazione all'eccessivo protagonismo dei registi, che non tollererebbero interlocutori 'scomodi' (forse per il solo fatto che sono vivi) e preferiscono quindi i classici, manipolabili a loro piacere, o alla 'vanità' dei mattatori della scena, esclusivamente in cerca di personaggi 'riconoscibili', mi sembra troppo approssimativo e ingiusto. Come sarebbe altrettanto sbrigativo imputare agli autori una strutturale debolezza di scrittura. Non sembra plausibile, né ontogeneticamente né filogeneticamente, che soltanto nel nostro paese manchi il talento per la scrittura teatrale. Ed è altrettanto improbabile, per gli stessi motivi, che esista invece in tutti gli altri paesi.

La ragione, come spesso accade, è divisa equamente a metà. È abbastanza vero che le proposte 'interessanti' sono poche, ma questo accade non perché nel DNA degli italiani non esista il cromosoma della drammaturgia, ma perché essendovi scarsità di domanda, i potenziali commediografi si dedicano ad altro, alla narrativa, alla sceneggiatura per il cinema o la televisione. Ed è abbastanza comprensibile che in assenza di una politica culturale, a qualsiasi livello, che privilegi decisamente la drammaturgia contemporanea (non limitandosi a una vaga 'promozione' di essa) gli altri 'protagonisti' dello spettacolo, soprattutto i produttori, i registi e i grandi attori, perseguano ognuno il proprio tornaconto, che può essere il guadagno o il successo individuale.

È necessario rimettere insieme scrittori e produzione in senso lato, perché la drammaturgia contemporanea è la spina dorsale del teatro. Se essa è assente dai palcoscenici, il teatro a lungo andare non è più un luogo dove accadono eventi 'significativi', dove si dibattono i problemi contemporanei, si esprimono le idee, i sentimenti degli uomini di oggi, in una forma che permetta, oltre all'immediata fruizione dello spettacolo, anche la 'trasmissione' dei contenuti ad altri contesti culturali e ad altre generazioni. Sarebbe inimmaginabile oggi una polemica per un testo teatrale, come accadde per Il vicario di Rolf Hochhuth. E non perché nessuno sappia scrivere un testo come quello, ma perché non lo scriverebbe per il teatro, ma per il grande o il piccolo schermo, luoghi vivi e vitali del dibattito di idee attuale.

Ecco perché una pessimistica previsione, come quella fatta da Krzysztof Zanussi, il grande regista e intellettuale cattolico polacco, che il teatro si starebbe avviando a diventare come l'opera lirica, da un lato è plausibile e dall'altro, proprio per questo, è allarmante. Anche perché il teatro non è soltanto un mezzo di espressione delle emozioni, ma uno strumento - fino a oggi è stato così - di formazione intellettuale, oltre che spirituale. Come sarebbe il mondo senza Shakespeare? Anche senza cadere negli eccessi di un Oscar Wilde secondo cui "la natura imita Shakespeare al meglio delle proprie possibilità", non si può non convenire con Bloom, che il grande drammaturgo "ha inventato l'umano come lo conosciamo noi". Cosa accadrà, dice sempre Bloom, se nella cultura della realtà virtuale, in parte profetizzata da Huxley e in maniera diversa da Orwell, Falstaff e Amleto non appariranno più come paradigmi dell'umano? Se la scrittura teatrale non sarà più praticata, pian piano si affievolirà il rapporto anche con i grandi classici: è infatti attraverso la continua meditazione e riscrittura dei temi che costituiscono la sostanza dei drammi shakespeariani o sofoclei che si potranno continuare a sentire vicini quei modelli, a capirli addirittura (come sostiene con passione il saggista inglese George Steiner).

Per tornare sul concreto delle iniziative realmente promozionali della drammaturgia attuale, va ricordato che prima della legge-quadro del 1985 i teatri pubblici e anche le compagnie private che volessero ottenere finanziamenti da parte dello Stato erano obbligati a mettere in scena dei testi contemporanei e che tale obbligo fu abolito perché si ritenne che ciò costituisse una sorta di ghettizzazione degli autori. Il fine era nobile, mettere questi ultimi sullo stesso piano dei classici, ma l'esito si rivelò fortemente penalizzante. È vero che l'obbligo veniva facilmente eluso o aggirato, ma è anche vero che molti Stabili e molti produttori privati e grandi registi avevano nei loro programmi almeno un testo di autore contemporaneo. Eliminato il vincolo, si è sostanzialmente interrotto il rapporto.

In nessuno dei disegni di legge attuali è previsto, peraltro, il ripristino di tale vincolo, forse per un malinteso concetto di parità degli autori nazionali a quelli comunitari, ma in tutti vi sono ripetuti accenni alla 'promozione', in varie forme, della drammaturgia contemporanea. Tuttavia ciò non basta. Se si vuole effettivamente raggiungere un risultato concreto, è necessario individuare delle forme specifiche, efficaci, di finanziamento. Esiste in Francia un meccanismo, che pare funzionare egregiamente, per cui una parte dei proventi delle rappresentazioni dei classici, a cui si aggiunge un equivalente contributo da parte dello Stato, serve a finanziare la produzione dei testi attuali.

Si potrebbe ipotizzare qualcosa di simile anche nel nostro paese, agendo per esempio sui diritti d'autore. In Italia tali diritti, generalmente del 10%, sono dovuti soltanto per i testi pubblicati da non oltre cinquant'anni e per i testi più antichi solo per le traduzioni o gli adattamenti. Si potrebbe allora introdurre un diritto ridotto (dal 3 al 5%) su tali testi, che l'Ente preposto alla riscossione, la SIAE (Società italiana autori editori), dovrebbe versare a un Fondo destinato esclusivamente al finanziamento di produzioni contemporanee.

Un ulteriore strumento potrebbe essere la messa a disposizione delle compagnie che producono testi contemporanei, di spazi teatrali, specie quelli piccoli scarsamente utilizzati e comunque non adatti al teatro commerciale, in quanto poco remunerativi.

Teatro e televisione

È l'altro fondamentale fattore di criticità. In due sensi. Per un verso, data la pervasività del mezzo televisivo, che è ormai presente in ogni momento del vivere quotidiano, il teatro non può essere totalmente assente dai palinsesti. Com'è fin troppo noto, oggi non apparire (in televisione) significa non essere. Per un altro, data la natura di mezzo, che in quanto tale ha bisogno di contenuti di cui riempirsi, la televisione non può fare a meno del teatro, del patrimonio di idee, emozioni, in una parola della 'cultura' teatrale. Ma entrambi questi tipi di rapporto attengono alla dimensione 'strumentale' della televisione, come potente mezzo di divulgazione - ed è, in qualche misura, il ruolo più 'scontato' - e come contenitore, che, in quanto tale, va riempito.

Vi è, però, una terza dimensione, forse la più interessante, e riguarda la possibile interazione fra due forme espressive diverse, linguisticamente antitetiche, ciò che rende l'incontro quanto mai problematico (come ricordava Marshall McLuhan, l'uno è un mezzo 'freddo' e l'altro 'caldo'), ma comunque necessario per evitare il pericolo paventato da Bloom, nel brano citato prima, che nella realtà virtuale, Falstaff e Amleto non appaiano più come paradigmi dell'umano.

Non si tratta, come pigramente e piuttosto incautamente si continua a sostenere, di ottenere (ricorrendo magari allo sciopero degli utenti, proposto tempo fa da un arrabbiato Maurizio Scaparro) che la televisione riprenda a trasmettere delle commedie, cosa che penalizzerebbe gli ascolti televisivi e renderebbe anche un pessimo servizio al teatro, ma di individuare il modo di 'tradurre' il linguaggio teatrale in quello (specifico) televisivo. Albertazzi, con la sua autorità di attore di prosa e anche di televisione, in una dichiarazione all'agenzia ADN Kronos, non ha usato mezzi termini: "Il teatro in televisione? Una noia mortale. Bisogna cambiare moduli e linguaggi e soprattutto trovare nuovi attori", dichiarazione assolutamente condivisibile, salvo forse l'ultimo inciso, in quanto si tratta più che di trovare nuovi attori, adatti al linguaggio televisivo, di dirigerli in modo consono al mezzo (tant'è che, per esempio, quando i nostri attori doppiano interpreti stranieri di film tratti da commedie, sono totalmente credibili, segno che si adattano automaticamente al modulo recitativo specifico del mezzo cinematografico).

La 'resistenza' dei responsabili della televisione, pubblica o privata non cambia, alla trasmissione di commedie è dovuta al basso indice di ascolto. Non c'è dubbio che, dal punto di vista delle leggi del mercato televisivo, un'audience di 700-800.000 spettatori (tanti ne totalizza mediamente una commedia, a prescindere dal tipo, sul piccolo schermo) è un flop. Certo, qui gioca un ruolo decisivo la relatività dei parametri, dato che per raggiungere lo stesso numero di spettatori una commedia dovrebbe restare in scena per ben cinque 'anni teatrali', in sale con una capienza di 700-800 posti esauriti ogni sera, cosa che in Italia si è verificata soltanto per qualche commedia musicale di successo.

In effetti, lo specifico linguaggio teatrale non può essere reso dal mezzo televisivo, se non opportunamente 'tradotto'. Per tornare a McLuhan, quando afferma che "un minuto di televisione equivale a tre minuti di teatro", non sta quantificando una dimensione esclusivamente temporale, ma 'stilistica'. Sulla scena contano anche i silenzi, il buio, cose non trasponibili, se non appunto con un diverso 'stile', sullo schermo. Basti un esempio. Spesso, nelle commedie cosiddette 'di genere', a sipario chiuso, si sentono dei passi, dei rumori, poi una volta aperto il sipario, la scena resta al buio per qualche minuto. Se ci si limita a riprendere tutto ciò, sia pure con perizia tecnica, e a trasmetterlo in televisione, in quei pochi minuti anche lo spettatore più appassionato di teatro avrà cambiato canale. Ora, non è che sullo schermo, grande o piccolo, non si usino effetti simili, ma è il linguaggio che è diverso. Come lo è la recitazione, cardine dello spettacolo teatrale, ma in uno stile, quello definito proprio così, 'teatrale', che sullo schermo appare artificioso, ridondante, non 'efficace'.

Bastano queste differenze e queste difficoltà a far venir meno la ragione di un tentativo di 'traduzione'? Le considerazioni precedenti farebbero propendere decisamente per una risposta negativa. Ma è più pericolosa un'altra possibile obiezione e cioè che non vi sia alcuna ragione per un simile 'matrimonio', essendo la specificità dello spettacolo di prosa la sua 'realtà', contrapposta alla 'virtualità' di quello televisivo. Il fascino, la bellezza, l'unicità del teatro è che si deve uscire di casa, ritrovarsi in uno spazio fisico dove attori in carne e ossa, a pochi metri, sulle tavole del palcoscenico, recitano, interagendo con le emozioni degli spettatori. Nessuno vuole smarrire il senso profondo del teatro, ma la televisione può far bene al teatro, così come - per citare altri due casi nei quali, dopo iniziali incomprensioni, la ritrovata armonia è stata di reciproco aiuto - è avvenuto con il cinema e il calcio.

Il teatro in televisione aiuterebbe la diffusione della cultura teatrale e porterebbe più spettatori nelle sale teatrali, senza dimenticare la funzione di 'memoria' e quindi di riproposizione ai giovani del 'repertorio', che il mezzo televisivo può assolvere con maggiore efficacia, specie con l'avvento del digitale e quindi con la moltiplicazione dei canali monotematici. Per fare ciò è necessario reinventare i testi, nati e scritti per la scena, per lo schermo. Non è facile, ma non è nemmeno impossibile. Soccorrono le esperienze felicemente riuscite di 'traduzioni' cinematografiche, dai classici Shakespeare di Laurence Olivier ai più recenti di Kenneth Branagh, ma soprattutto, a mio parere, il Riccardo III di Richard Loncraine, con Jan McKellen, quello di Al Pacino, e lo splendido Zio Vania nella 42° strada di Louis Malle, che può costituire un utile modello di riferimento (considerando a sé stante, assolutamente inimitabile, L'ultima tempesta, di Peter Greenaway).

La difficoltà maggiore consiste nel fatto che generalmente i responsabili della televisione hanno una cultura specialistica, e così gli uomini di teatro, i quali guardano al mezzo televisivo, appunto come a un mezzo, utile a informare, divulgare, rendere popolari, ma non come a un linguaggio che valga la pena adottare per rivitalizzare il loro amato teatro.

Far colloquiare queste 'due culture' è molto più difficile, o altrettanto, che riunificare quelle (la umanistica e la scientifica) di cui parlava Charles Percy Snow nel suo libretto diventato rapidamente celebre qualche decennio fa (Le due culture, 1959). Ma è necessario provare. Si potrebbe, con un'iniziativa congiunta del Ministero, o meglio dell'ETI, e della TV pubblica, affidare ad alcuni registi scelti fra i più attenti anche al teatro, italiani e non, il compito di realizzare per la televisione una serie di testi, fra classici, moderni e contemporanei e utilizzare tale esperimento quale base per l'avvio di una produzione che arrivi a essere, mantenendo inalterata la (alta) qualità, di routine.

repertorio

Il teatro italiano nel Novecento

Il primo Novecento

Agli inizi del 20° secolo nel panorama teatrale italiano si manifestano più linee di tendenza. C'è la produzione dannunziana orientata verso il teatro di poesia con tematiche di estrazione decadente (celebrazione di una morale superumana, voluttà e morte) come in La figlia di Jorio, 1904; La nave, 1908; Fedra, 1909. Sopravvivono modalità veristiche o naturalistiche (S. Di Giacomo, Assunta Spina, 1909, e 'O mese mariano, 1910) accanto a un teatro intimista, 'crepuscolare' (G. Giacosa, Come le foglie, 1900; R. Simoni, Congedo, 1910; D. Niccodemi, La maestrina, 1918).

Si impone poi con la sua carica eversiva il teatro dei futuristi - cronologicamente i primi 'avanguardisti' - che attraverso manifesti e clamorose polemiche propugnano un'arte e un costume rivolti a fare 'tabula rasa' del passato, proiettandosi verso il futuro e la civiltà meccanica, e fornendo il modello a tutte le successive avanguardie (dada, espressionismo, surrealismo). T. Marinetti teorizza il teatro futurista nei manifesti Teatro di varietà (1913), Teatro sintetico futurista (1915), Teatro della sorpresa (1921), in cui si ripudiano la rappresentazione naturalistica, il realismo psicologico, l'illusione scenica, la tematica borghese incentrata sulla vicenda d'amore e sul triangolo adulterino, perché opposti alla libera espressione della creatività e della fantasia. Le 'serate futuriste' (dal 1909 al 1914, sostituite poi dal 'teatro sintetico') riempiono le cronache dei giornali e inventano una nuova struttura di spettacolo. Gli scrittori salgono sul palcoscenico, polemizzano con il pubblico e, ormai vicina la Guerra mondiale, immettono forti dosi di propaganda interventista. Si pratica un diverso rapporto palcoscenico-platea; in luogo della 'quarta parete' che convenzionalmente separa gli attori dal pubblico, il teatro futurista propone di attivare lo spettatore e di farne un attore mediante un contatto continuo e una 'confidenza senza rispetto'. Prima dell'invenzione della radio e della televisione, utilizzando il teatro o teatralizzando altri luoghi (caffè, università, strade), i futuristi si aprono a una società in cui tutto sia spettacolo. La scena è intesa come 'evento plastico': uno spazio attivo, provocatorio, 'irradiante'. Le situazioni assurde e irreali si risolvono in tempi brevissimi, spesso in un unico quadro; le scenografie e la coreografia sono astratte o metaforiche. Nell'azione giocano i rumori, le luci, i colori accesi, la gestualità e i movimenti del corpo. I dialoghi sono fulminei, ridotti a poche battute (8-10 in omaggio al canone del dinamismo e della velocità) o in quadri muti con un procedimento che nega la funzione del dialogo. In Indecisione Marinetti arriva all'abolizione della parola e al teatro 'del silenzio'. Il dramma che si intende recitare riguarda spesso gli oggetti, non le persone, e la materia ha il predominio sulla psicologia, come in Vengono ove Marinetti presenta una sintesi di oggetti animati, otto sedie e una poltrona che acquistano una strana vita fantastica nei mutamenti delle posizioni. Si dedicano al teatro i futuristi G. Balla, U. Boccioni, L. Russolo, F. Depero, attirati dalla scena perché sollecita tutti i sensi e coinvolge simultaneamente letteratura e arti visive. Nel 'teatro di varietà' vengono utilizzati diversi tipi di spettacolo, proiezioni cinematografiche, ballo, azioni mimiche. Marinetti proclama la necessità di ravvicinare il teatro al music-hall e di sostituire l'analisi psicologica con l'esuberanza ginnica degli acrobati: velocità contro lentezza.

L'eco delle inquietudini delle avanguardie trova espressione nel 'teatro grottesco' di L. Chiarelli (La maschera e il volto, 1916), L. Antonelli, (L'uomo che incontrò se stesso, 1918), P.M. Rosso di San Secondo (Marionette che passione, 1918) che mettono in scena situazioni stridenti e disarmoniche della società del tempo: dai personaggi di Chiarelli sdoppiati fra la realtà dell'esperienza vissuta e la 'forma' di un decoro da salvare per gli altri, a quelli di Rosso di San Secondo (espressionisticamente indicati come 'il signore in grigio', la 'signora dalla volpe azzurra') desiderosi di un'evasione fantastica che compensi l'interno disagio. Il motivo del contrasto tra 'forma' e 'realtà' porta a Pirandello che compie un salto di qualità rispetto alla produzione coeva.

La rivoluzione di Pirandello

Attorno agli anni Venti del Novecento Pirandello si inserisce nell'attività teatrale con effetti dirompenti e soluzioni che sconvolgono le tradizionali strutture drammatiche, delineando una visione relativistica della vita e del mondo, opposta al modo statico, aristotelico di concepire l'oggettività del reale, e concentrando l'interesse sulle discordanze che si rivelano, nei personaggi e nelle vicende, tra l'essere e l'apparire. Prende rilievo un'inquietudine nuova propria del decadentismo: l'ansia dell'uomo che invano cerca di sottrarsi agli schemi della società per essere soltanto sé stesso e inutilmente si sforza di comporre il dissidio tra 'forma' (maschera) e 'vita' (autenticità). Maschere nude è il titolo della raccolta completa delle opere teatrali.

Il teatro di Pirandello, così come la narrativa da cui deriva la maggior parte degli spunti drammatici, si muove dapprima sulle orme della commedia borghese allora in voga, di cui accetta i canoni, sia pure per piegarli al nuovo contenuto e colorirli di un umorismo grottesco (Pensaci Giacomino!, 1916; Il berretto a sonagli, Il giuoco delle parti, 1918). Poi alcuni schemi cambiano e si passa alla 'seconda maniera'. In Sei personaggi in cerca d'autore (1921), opera scenicamente rivoluzionaria che insieme a Ciascuno a suo modo (1924) e Questa sera si recita a soggetto (1930) costituisce la trilogia del 'teatro nel teatro', in Enrico IV (1922), Come tu mi vuoi (1930) fino a Non si sa come (1935), superata l'angustia dell'ambiente provinciale, quel dramma di vita e forma, del frantumarsi della personalità è visto sub specie aeternitatis, quasi fuori del tempo e dello spazio. Il realismo allucinato diventa simbolo mentre si accentua la propensione al dialogo sofistico.

Pirandello sottopone a critica i diversi elementi del teatro classico. L'affermazione che la verità è impossibile da conoscere e ciascuno esiste solo nell'opinione altrui conduce, già in Così è (se vi pare) del 1917, alla rottura del principio della stabilità e immutabilità del personaggio, che qui è il contrario di un 'carattere' in quanto ridotto a un profilo, a un'immagine senza precisa identità. In Sei personaggi lo spettatore quando entra nella sala trova il sipario alzato e gli attori che stanno provando: lo spettacolo non è un mondo concluso in sé stesso; finisce l'illusione dell'opera assoluta e autonoma ed è impossibile l'identificazione con gli attori che si presentano come attori e non come personaggi. L'arrivo dei 'sei personaggi' propriamente detti che fanno irruzione nel mezzo delle prove e si presentano come prodotti di una finzione potrebbe ristabilire l'illusione teatrale, ma Pirandello la dissolve, con effetti stranianti: i sei personaggi non vogliono esprimere ciò che provano, fuggono il luogo dell'azione; il dialogo e il comportamento non possono considerarsi espressioni adeguate dell'essere umano, perché inafferrabile. In Questa sera si recita a soggetto nel corso della rappresentazione le attrici invecchiano la protagonista truccandola sulla scena; finisce l'identificazione dell'attore con il suo ruolo e anche quella dello spettatore con il personaggio. Cade anche la subordinazione della regia al testo scritto: il regista afferma di essere l'autore del dramma e di voler far vivere la storia con l'aiuto di attori e spettatori. Risultano negati i principi fondamentali della drammaturgia classica.

Gli anni Trenta: dall'attore-creatore all'attore-interprete

La base di un teatro fascista è da ricercarsi non nei testi elaborati in quegli anni ma nelle innovazioni apportate nel linguaggio scenico. Il fascismo era per molti versi un prodotto dell'industrialismo e il teatro si colloca nel solco dell'industrialismo e della serialità nel fornire uno spettacolo ripetibile, sempre uguale a sé stesso. Soprattutto viene affrontato il problema della regia e dell'istituzione di una nuova figura di regista, cui è affidato il compito di realizzare l'armonico equilibrio dell'insieme. La riflessione sulla regia drammatica (rivista Scenario, 1936) porta ad affermare che il regista deve penetrare nell'opera d'arte fino a interpretarla dentro di sé interamente, senza fare 'sopracolore'. Lo stesso atteggiamento deve avere l'attore: è il momento del passaggio dall'attore-creatore all'attore-interprete, portatore del linguaggio scenico della naturalezza e definito come "maestranza perfettamente addestrata agli ordini del regista". Il 'regno del regista' prevede una compagnia composta di attori-maestranze possibilmente stabile. Emerge l'esigenza di sottrarre il teatro italiano al nomadismo che lo aveva sempre caratterizzato, con il suo repertorio ricco ma casuale, poche prove e scene di scarso valore, pieno affidamento alle capacità dell'attore ('regno dell'attore'). Il dominio della regia presuppone invece prove lunghe e concertate, poche opere in repertorio con l'attenzione concentrata su una sola da rendere al meglio, cura dei costumi e delle scene.

Nel periodo fascista si discute a lungo di un teatro di Stato ma non si giunge a una soluzione. Nascono diversi piccoli teatri tra cui il Teatro d'arte di Pirandello. L'esperimento ha vita breve e Pirandello come regista forma una compagnia regolarmente viaggiante, prima attrice M. Abba. Ma il tentativo che vede congiunti in un'unica persona autore e regista è importante anticipando quella che sarà l'evoluzione del teatro italiano.

La scena di prosa negli anni Trenta accusa sintomi di disagio dovuti alla concorrenza del cinema sonoro, a ingerenze e principi politici imposti dall'alto, a un protezionismo esercitato con criteri non qualitativi ma quantitativi. Il regime non riesce ad attuare interventi efficaci e insieme alla frequenza del pubblico diminuisce la popolarità dell'arte drammatica. Caduto il fascismo, il bilancio dei suoi atti anche positivi appare viziato da tare: si era istituita a Roma una scuola d'arte scenica, l'Accademia d'arte drammatica di S. d'Amico (1935) con sistemi moderni ma senza il suo logico sbocco in un teatro moderno; si erano promossi grandi spettacoli all'aperto ma riservati a un ristretta élite; si erano lanciati i 'Carri di Tespi' ma affidandoli ad artisti mediocri che eseguivano un cattivo repertorio. Cessate le sovvenzioni alle ultime compagnie, queste si disperdono senza che gli invocati e mai fondati Teatri stabili ne prendano il posto. Morto nel 1936 Pirandello, l'autore di maggior prestigio e risonanza mondiale, non emergono altri drammaturghi e nelle città italiane quasi tutti i teatri di prosa offrono ospitalità al cinema e alla rivista. Più regolare e ripetibile rispetto al caffè-concerto di età giolittiana, la rivista rappresenta il passaggio all'industrializzazione dello spettacolo. Accanto a questa nasce l'avanspettacolo, in auge negli anni Trenta-Cinquanta, che precede la proiezione cinematografica, con ballerine, un comico e un cantante, fondato sulla parodia e la macchietta caricaturale. In entrambi i casi sono spettacoli leggeri e d'evasione allineati con la politica del regime.

Il dopoguerra: nascita dei Teatri stabili

All'indomani della guerra si realizza fino in fondo quanto impostato in precedenza: il trionfo della regia e la nascita dei Teatri stabili con il concorso dei Comuni e dello Stato, a Genova, Torino, Napoli e soprattutto a Milano con il Piccolo teatro, fondato nel 1947 da P. Grassi. Fa eccezione Roma, dove il Piccolo teatro retto dal 1947 al 1954 da O. Costa, maestro di generazioni di teatranti, non conta su appoggi comunali.

Il regista diviene il protagonista dell'evento scenico e ciò garantisce la ripetibilità e omogeneità dello spettacolo nel tempo. La genialità e sensibilità del grande attore che lo portavano a recitare di volta in volta in modi differenti sono ingabbiate. I testi, tratti dal repertorio di tutti i secoli e paesi, vengono piegati alle esigenze del regista e d'ora in avanti si avrà una serie di interpretazioni del medesimo testo diverse tra loro e spesso contrapposte.

L. Visconti e G. Strehler sono i protagonisti della svolta epocale che segna il passaggio dall'attenzione per l'attore a quella per il regista. Nel 1945 Visconti firma una serie di lavori tra cui I parenti terribili con A. Pagnani capocomica, A porte chiuse di J.-P. Sartre. Le novità sono un estetismo raffinato e una recitazione intensa e realistica che distanziano il suo teatro da quello d'intrattenimento d'epoca fascista. La pretesa di una totale sottomissione delle maestranze lo porta a lavorare sempre con gli stessi attori, P. Stoppa e R. Morelli. Il regista domina tutti i sottocodici del linguaggio della scena: i costumi, le luci, le musiche con effetti di spettacolarizzazione. Anche in questa cura e amplificazione del ruolo Visconti è un anticipatore, come nell'allestimento del Matrimonio di Figaro di P.-A. Caron de Beaumarchais rappresentato nel 1946 al Teatro Quirino a Roma, in quello di Delitto e castigo messo in scena all'Eliseo nello stesso anno, o nell'Oreste, del 1949, con V. Gassman e R. Morelli. Il Piccolo di Milano diventa 'tempio della regia' grazie all'abilità di G. Strehler. Tutti gli spettacoli sono segnati dalla sua cifra interpretativa, da L'albergo dei poveri di M. Gorkij ad Arlecchino servitore di due padroni (1947) che farà il giro del mondo con grande successo (nuova versione nel 1997). Dall'incontro con B. Brecht derivano le regie di Opera da tre soldi nella stagione teatrale 1955-56 e poi di Vita di Galileo, con messinscene basate su effetti stranianti, spezzature e asprezze, tipici del drammaturgo tedesco; la ricerca artistica di Strehler è continuata per decenni fino a Brecht Festival (1995-96).

Negli anni Cinquanta-Sessanta emerge una folta schiera di registi, F. Enriquez, G. De Lullo, L. Squarzina, M. Scaparro, F. Zeffirelli; fra le più apprezzate formazioni che per continuità e scelta di repertori si possono considerare sotto il segno della stabilità, vi sono, oltre la Morelli-Stoppa, la De Lullo-Falk-Albani-Valli, la Albertazzi-Proclemer, le varie compagnie con S. Ferrati prima attrice.

Con l'imporsi del teatro di regia tutte le attenzioni di critica e studi sono concentrate sul nuovo demiurgo dello spettacolo, mentre sempre finali e sbrigativi sono gli accenni all'attore; persiste però in alcuni casi la figura del grande interprete. Fra questi M. Benassi, della generazione precedente (già nella compagnia di E. Duse nel 1921, poi primo attore nelle compagnie da lui formate con I. ed E. Gramatica), al punto più alto della carriera nel dopoguerra, quando impersona il Tartufo di Molière, l'Avaro di Goldoni, Amleto e Re Lear di Shakespeare. La recitazione, sempre diseguale, è portata all'enfatizzazione antinaturalistica, estrema, in un periodo in cui si tende a toni più smorzati.

I maggiori fenomeni attorali si sviluppano nel teatro dialettale napoletano, prima con R. Viviani, poi con i fratelli De Filippo e con Totò. Viviani, attore e scrittore di commedie della prima parte del secolo, innova il teatro regionale della farsa e del sentimentalismo, propone testi asciutti tendenti al realismo e una recitazione fredda e distaccata, e mette in scena la guerra tra poveri in una Napoli sottoproletaria ('Nterra 'a Mmaculatella, 1918, divenuta nel processo di italianizzazione del dialetto Scalo marittimo). Titina, Peppino ed Eduardo De Filippo, figli naturali dello scrittore drammatico E. Scarpetta, formano dal 1929 al 1944 la Compagnia del teatro umoristico con propri testi. I migliori sono quelli composti da Eduardo nel primo dopoguerra, come Napoli milionaria (1945), esempio di teatro neorealista in cui è rappresentata la crisi di una città che lotta per la sopravvivenza, Questi fantasmi e Filomena Marturano (1946). Nella recitazione Eduardo mette in atto uno stile sicuro e incisivo, naturale, che sfuma spesso nel sentimentalismo e populismo, lontano dai modi antinaturalistici di Totò, epigono della Commedia dell'arte e del teatro del grottesco nella commistione di comico e tragico.

Il teatro di sperimentazione negli anni Sessanta-Settanta

L'Italia in questi decenni è una sorta di laboratorio internazionale di tutto ciò che avviene nel teatro mondiale, luogo di scambio di esperienze multiformi. Il luogo teatrale trova altri sbocchi al di fuori delle sale tradizionali e mentre si consolida il fenomeno dei Teatri stabili (Roma ha dal 1966 il suo nel rinnovato Teatro Argentina) si recuperano antichi teatrini andati in disuso, palestre, magazzini e altri spazi underground (espressione che trae origine dai sotterranei di New York, corrispondenti alle caves parigine e alle 'cantine' romane). Poi i complessi, spesso giovanili e d'avanguardia, si trasferiscono in luoghi più ampi, capannoni, garage e, imitando il circo, nei teatri tenda. Mutano anche la materia e la maniera dello spettacolo che si fondano su gestualità, visività, attoralità, politicità, e in senso più lato sperimentalità, con sottovalutazione del testo. Rimane in ombra l'autore tradizionale, creatore di situazioni, di intrecci, di caratteri scolpiti per far posto all'elemento visivo, corporale e sonoro della rappresentazione.

Similmente alle avanguardie storiche (dal futurismo al surrealismo) che avevano trovato nelle arti figurative nuove possibilità di teatralizzazione, il teatro sperimentale cerca uno dei fondamenti nella pittura e nelle altre arti privilegiando il gesto e l'immagine. Affonda le proprie radici negli spettacoli francesi di fine Ottocento, nelle 'serate' di Marinetti, nello spettacolo di cabaret mitteleuropeo, parigino e italiano (L. Fregoli, autore di pantomime e trasformista, ed E. Petrolini), guarda al teatro della crudeltà, della derisione e dell'assurdo (A. Artaud, A. Adamov, S. Beckett), accetta come maestri J. Grotowski e il suo allievo E. Barba, fondatore dell'Odin Teatret a Oslo (1964) e poi a Holstebro in Danimarca, dà vita a un teatro del 'gesto' e dell''urlo' di derivazione brechtiana, riprendendo da Brecht anche l'idea del teatro didattico - contro quello della 'chiacchiera' - praticato da molti complessi di avanguardia aderenti a ideologie rivoluzionarie. Scopre l'originalità e la vitalità libertarie del Living Theatre di J. Malina, sorto a New York nel 1947 e attivo in Europa dal 1964, con i suoi spettacoli basati sull'improvvisazione collettiva e la commistione di vita comunitaria e pratica teatrale. In questo nuovo scenario il regista diventa sempre più autore e l'attore oggetto tanto che per riaffermare la propria personalità l'attore diventa regista e autore, come V. Gassman, D. Fo, C. Bene.

Gassman debutta nel 1943 con La nemica di Niccodemi e affronta come primo attore i personaggi del repertorio classico e novità come Il giocatore di U. Betti e Kean di J.-P. Sartre, proponendo una nuova figura di attore-mattatore dalla recitazione alta, magniloquente. Insofferente del teatro di regia diventa presto autore-regista e fonda nel 1960 il Teatro popolare italiano, una struttura monumentale che avrebbe dovuto essere viaggiante, come un tendone da circo, ma che si rivela poco agibile. Con la sua macchina itinerante presenta Un marziano a Roma di E. Flaiano a Milano e l'Orestiade di Eschilo tradotta da P.P. Pasolini al teatro greco di Siracusa. Per le scarse sovvenzioni statali e l'ostilità delle istituzioni teatrali, il Teatro popolare in breve tempo fallisce.

A metà degli anni Cinquanta tre giovani attori portano nei teatri della prosa la comicità pungente del varietà: F. Parenti, G. Durano e D. Fo (Il dito nell'occhio, 1953, e Sani da legare, 1954). Poi Fo forma una compagnia in proprio con F. Rame scrivendo commedie leggere e brillanti venate di satira politica. Caratteristiche dell'attore sono la duttilità del corpo, capacità mimiche e foniche, il gusto della 'fabulazione', del raccontare storie tipiche della tradizione orale e popolare. Fo crea pure uno speciale linguaggio che ha radici nella giulleria medievale, il gramelot, impasto di dialetto padano e voci inventate, onomatopee, emissioni vocali caotiche che simulano i discorsi con esiti farseschi. Dopo Mistero buffo (1969), monologo in cui l'attore dà vita a più parti contemporaneamente, scrive e porta in scena, ancora fuori dai circuiti normali del teatro, i testi a sfondo politico Morte accidentale di un anarchico (1970), Johan Padan e la descoverta delle Americhe (1991), Marino libero (1998).

C. Bene, l'interprete più innovativo e più controverso dell'avanguardia, debutta come attore nel 1959 (Caligola di Camus, regia di A. Ruggiero) rivelando subito un'incontrollata tendenza all'eccesso. Poi è presente nella doppia veste di attore e regista compiendo la violazione di ogni convenzione accreditata. Dissacra i classici con tagli e contaminazioni con altri autori; nega ogni forma di immedesimazione interpretativa, riduce l'apparato scenico a pochi oggetti puramente allusivi, fa uso di più linguaggi scenici eludendo la comprensibilità della sintassi e del testo scritto. Nelle frasi spezzate, nelle sillabe accentuate e nei gesti essenziali un po' meccanici si rifà in modo originale ai modelli brechtiani. Le sue rappresentazioni, con frequenti incursioni in Shakespeare, fanno sempre 'scandalo' (Pinocchio, 1961; Salomè, 1964; Manfred, 1979; Romeo e Giulietta, 1976; Hommelette for Hamlet, 1988; Hamlet suite, 1994); lo spettacolo è concepito come scontro tra il testo e la creatività del regista-attore che solo 'profanando' sulla scena la pagina scritta può attribuirle significato. Con il suo 'teatro di contraddizione' Bene recita l'impossibilità di proporre ancora sentimenti in una realtà che ha distrutto tutti i valori e la stessa impossibilità di rappresentare la tragedia in un'epoca che non può tollerarla: scattano in lui l'irrisione e la furia iconoclasta.

Su Beckett si appunta la ricerca del gruppo guidato dal regista C. Quartucci, formatosi nel 1961. Più tardi, concluso il sodalizio (1966), gli attori diventeranno capocomici e fonderanno proprie compagnie: L. De Berardinis, R. Sudano, C. Remondi. Il gruppo mette in scena al Teatro Brancaccio Aspettando Godot e al Festival di Prima Porta a Roma Finale di partita e Atto senza parole II. La recitazione del teatro dell'assurdo è estremizzata e denuncia l'assurdo del teatro: l'intento è svelare la miseria del teatro contemporaneo, l'impossibilità dell'arte in un mondo che l'arte ha mercificato. Lo spettacolo Cartoteca, allestito nel 1964 alla Fiera del Mare di Genova in uno spazio aperto delimitato da una staccionata, più che una rappresentazione è un'esperienza in atto, evento diverso ogni sera che trova un nesso con gli happening americani; il dispositivo scenico, innovativo, è fatto da collages di materiali diversi, visivi, musicali, che annullano il diaframma con il pubblico. Nei primi anni Settanta Quartucci approda all'esperienza di Camion con cui inizia un viaggio nei territori teatrali riproponendo il modello nomade delle carrette dei comici. De Berardinis mette in luce doti di attore grottesco e dà vita al binomio con P. Peragallo (Leo e Perla), Remondi ripete la stilizzazione beckettiana sull'impossibilità ad agire, Sudano giunge quasi all'afasia, a un teatro di parola spogliata di senso che interrompe definitivamente ogni tipo di comunicazione.

M. Ricci nel 1964 avvia nel Teatro club di via delle Orsoline a Roma un indirizzo di ricerca autonomo immettendo nel linguaggio teatrale strumenti di comunicazione visiva come il cinema e il mezzo fotografico. Recuperando poi la presenza dell'uomo sulla scena, impiega l'attore come una Supermarionetta, un oggetto, negandogli lo statuto di interprete e affidando a una voce fuori campo il compito di scandire i passaggi dell'azione; ne nasce una coinvolgente macchina cinetica nel ritmo serrato di attrezzi colorati, proiezioni filmiche e manichini. Su una linea trasgressiva si pone l'esperienza di G. Nanni che sulle tracce del dadaismo e della riscoperta del 'caso' frantuma il linguaggio riducendo la parola a fonemi (L'imperatore della Cina, 1969).

Nelle idee di Marinetti sul 'teatro totale', in movimento, si ritrovano gli antecedenti dell'Orlando Furioso messo in scena a metà anni Sessanta da L. Ronconi che, sperimentando il fenomeno del coinvolgimento, porta lo spettacolo in mezzo agli spettatori obbligandoli a seguire ora l'uno ora l'altro interprete o gruppo recitante, in una sorta di collaborazione. Più radicale e umile nelle finalità, l'esperienza di teatro-vita-verità o 'autodramma' condotta nel 1969 in un paese del Senese (Monticchiello) coinvolge il popolo intero nella stesura dei copioni che rispecchiano la cultura e i dibattiti della comunità.

Tra la fine del 1972 e l'inizio del 1973 si afferma il Teatro Immagine, visionario e antinarrativo, che si rifà a quello americano di R. Wilson e ha come protagonisti il gruppo Carrozzone (La donna stanca incontra il sole), G. Vasilicò (120 giornate di Sodoma), M. Perlini (Pirandello chi?).

Questa nuova tendenza della 'neoavanguardia' dà risalto agli elementi visivi utilizzando come citazioni le arti. Il linguaggio è iconico, il commento musicale serve ad amplificare le suggestioni dell'immagine in una trama onirica che risponde ai dettami dell'inconscio. Intento esplicito di questo teatro del dissenso è 'esorcizzare' il disagio esistenziale attraverso il potere liberatorio dell'immaginazione. La scenografia è ridotta a pochi oggetti simbolici in un'atmosfera indefinita; soppressi il dialogo e la mimica, gli attori diventano 'mute presenze' in una trama di apparizioni e dissolvenze; i tempi e i movimenti sono molto rallentati. Su questa linea si pone il gruppo Ouroboros di Firenze condotto da Pier'Alli, soprattutto nella messinscena Giulia round Giulia (1972), rilettura del dramma La signorina Giulia di August Strindberg in chiave visionaria.

Intorno al 1976 si delinea un altro filone che all'insegna della 'postavanguardia' contesta non solo il teatro ufficiale ma gli stessi modelli dell'avanguardia, da Grotowski a Barba, a Bene, Ricci fino al Teatro dell'Immagine. Termini di riferimento possono essere l'Arte concettuale, tutta quell'area di confine tra arti visive e teatro costituita dagli happening e dalla Body Art, orientata a valorizzare le possibilità espressive del corpo, la new dance americana, fonte di stimoli per le tecniche di movimento legate al linguaggio corporale. In questo contesto il più 'mentale' è S. Carella che in Autodiffamazione (1976), presentato al Beat 72 a Roma, elimina il testo, gli attori, ogni presenza fisica concreta eccetto una sedia vuota su una pedana; affidando l'azione al mezzo astratto della luce che definisce le categorie di tempo e spazio secondo regole stabilite dal regista, autore unico dello spettacolo. Sempre al Beat 72 il gruppo della Gaia Scienza con La rivolta degli oggetti (1976) trova invece il suo riferimento centrale nella figura dell'attore, deprivata comunque del suo ruolo tradizionale. Il testo è quasi annullato, il dialogo si compone di frasi frammentarie che si sovrappongono o si ripetono in varie intonazioni, il corpo si espande nello spazio con movimenti che alternano esplosioni di energia e cadute di tensione come nella new dance. Gli oggetti dell'attrezzatura scenica (sedie sospese sul muro e funi) diventano strumenti per prodezze da funamboli. La ricerca di altri, più ampi spazi alla spettacolarità caratterizza un successivo allestimento del gruppo, Cuori strappati (1983).

Successivamente la ricerca converge verso i comportamenti massificati della civiltà urbana uscendo dalle esperienze iniziatiche. Falso Movimento, Spazio Libero di Napoli, Teatro Studio di Caserta lavorano sul repertorio di immagini fornite dai luoghi dove si consuma il rito di massa (lo spazio delle discoteche e del concerto rock), sfruttano l'intera gamma dei mezzi tecnologici, forzano al massimo l'intensità percettiva attraverso l'utilizzo di un sound martellante.

Scettico verso un teatro popolare perché sostituito dal cinema e dalla televisione, e in polemica con lo spettacolo borghese della 'chiacchiera' e con quello underground del gesto o dell'urlo, P.P. Pasolini nel Manifesto per un nuovo teatro (1968) recupera il 'teatro di parola' come ricerca di uno "spazio teatrale nel cervello". Nella linea di una drammaturgia di parola operano D. Fabbri che usa come opportunità scenica il 'processo morale' (Processo a Gesù, Processo di famiglia), G. Patroni-Griffi con temi a vocazione tragica (Anima nera, In memoria di una signora amica), ancora E. De Filippo (Gli esami non finiscono mai), B. Joppolo che sviluppa il genere metafisico (Le acque, I minozoi), C. Cecchi che fonda la compagnia Granteatro con un repertorio efficace (H. Pinter, V. Majakovskij), G. Lavia, M. Martone. Nascono anche gruppi grintosi come il Teatro della Rocca e la cooperativa Attori e Tecnici di A. Corsini.

Gli ultimi orientamenti

Nel corso degli anni Ottanta la vita dei teatri paralleli diventa difficile per congiunture economiche, scelte d'indirizzo liberista che limitano l'intervento dello Stato a protezione delle arti economicamente deboli, soprattutto nei campi 'sperimentali' o 'di ricerca', e per la caduta delle tensioni ideologiche che avevano animato il periodo precedente. Il decennio che si apre è contrassegnato da atti mancati e prospettive chiuse. Al varo della legge relativa al Fondo unico dello spettacolo nel 1985 non fanno seguito normative valide di finanziamento, con esclusioni soltanto nelle zone di frontiera. Così il fenomeno del teatro itinerante per strade e piazze, che prima aveva conosciuto un forte impulso estetico, tende a sparire dalla pratica. In controtendenza, De Berardinis, caposcuola dell'avanguardia nel Sessanta-Settanta ma poi rimasto ai margini del sistema teatrale, riesce a ottenere una sede a Bologna ed è chiamato a dirigere il Festival di Santarcangelo. Raduna intorno a sé una scuola di giovani e rappresenta Novecento e Mille (1987), spettacolo che rievoca il secolo quasi trascorso attraverso scene di teatro e pagine di libri (i 'sei personaggi' di Pirandello entrano in scena interrompendo le prove di Aspettando Godot).

I tagli alla spesa pubblica e l'assenza di una politica culturale rendono ancora più incerto, negli anni Novanta, l'assetto del teatro italiano. La drammaturgia assume una forte valenza politica con il 'teatro in carcere', un teatro non di storie marginali ma che emerge dalla marginalità all'arte. La Compagnia della Fortezza, risultato dell'incontro fra i reclusi del penitenziario di Volterra e il piccolo teatro del regista A. Punzo, vicino alle ricerche parateatrali di Grotowski, inizia questo tipo di esperienza con il testo di R. De Simone La gatta Cenerentola, poi mette in scena Masaniello (1990) di E. Porta e Marat-Sade (1993) di P. Weiss.

Nella cultura di fine Novecento il teatro può anche prescindere dalla rappresentazione nel senso che l'attore stesso può essere il fruitore della sua azione, senza bisogno di finalizzarla a chi deve vederla dall'esterno. Nel 1986 Grotowski si sposta in Italia, presso Pontedera, dove fonda il suo Workcenter. È ormai lontana l'idea di fare spettacoli; si lavora piuttosto sul canto, sugli impulsi, sulle forme in movimento, su elementi testuali, riducendo tutto allo stretto necessario, in un'esperienza quasi iniziatica: la più radicale trasmutazione di valori che abbia mai avuto luogo nel teatro del Novecento, dopo le vicende degli anni Sessanta.

Barba si orienta verso una pratica teatrale a vasto raggio, identificando con il manifesto Terzo teatro una realtà scenica diffusa in tutto il pianeta ed estranea alla opposizione Tradizione/Avanguardia, cui è sotteso il messaggio politico del rifiuto di ogni forma di fanatismo e intolleranza. Barba raccoglie studiosi di discipline scientifiche e teatrali (mimo, danza) nell'ISTA (International school of theatre anthropology) per condurre analisi di antropologia teatrale con sessioni in vari paesi, tra cui l'Italia. La ricerca empirica sul campo di lavoro si alterna a momenti di spettacolo di tipo interculturale con attori di diverse tradizioni (Talabot, 1988; Kaosmos, 1993) nell'intento di realizzare "una sacralità senza la violenta pretesa di capirsi".

Emerge anche la tendenza verso lo spettacolo-progetto che modifica l'unità di misura teatrale e si diluisce in un lungo arco di tempo senza una distinzione tra processo e punto d'arrivo. Nello spettacolo-progetto la dimensione dell'opera conclusa e quella del laboratorio, la rappresentazione e le prove tendono a confondersi e il prodotto si distribuisce in più fasi, come accade nel Progetto Faust diretto da Strehler per il Piccolo di Milano dal 1987 al 1991. Il Teatro Magazzini fondato da F. Tiezzi elabora un progetto che prevede la messinscena di tre spettacoli dedicati alle cantiche della Divina commedia adattate da poeti italiani. E. Sanguineti prepara la Commedia dell'Inferno che va in scena al Fabbricone di Prato nel 1989; seguono nel 1990 Purgatorio, la notte lava la mente di M. Luzi, e nel 1991 Il Paradiso, perché mi vinse il lume d'esta stella di G. Giudici.

Un caso significativo nel panorama teatrale di fine secolo è costituito dall'alta capacità produttiva di Ronconi che esplora un amplissimo repertorio teatrale, classico e moderno, sperimenta la teatralità di testi mai rappresentati prima e lavora sulla teatralizzazione di spazi non teatrali. Direttore del Teatro Stabile di Torino (1989), del Teatro di Roma (1994) e dell'Argentina (1995), del Piccolo di Milano (1999), Ronconi porta in scena buona parte del patrimonio letterario drammatico, da Euripide a Racine, Shaw, O'Neill e tanti altri, fino a La vita è sogno di Calderon de la Barca (2000) e Peccato che fosse puttana di J. Ford (2003). Allestisce spettacoli d'eccezione che dilatano il tempo e lo spazio normalmente dedicati al teatro, come Gli ultimi giorni dell'umanità di K. Kraus (Teatro Lingotto, Torino 1990) che si snoda in un labirinto di eventi, di voci simultanee e scenari mitteleuropei sullo sfondo delle vicende della Prima guerra mondiale.

Quali esempi di un teatro artigianale, circoscritto ma vitale, a Settimo, vicino Torino, il gruppo Laboratorio teatrale mette in scena da alcuni anni un repertorio classico; a Bergamo il Teatro Tascabile sviluppa tecniche di spettacolo extraterritoriale di strada; a Cesena il gruppo Raffaello Sanzio presenta un teatro 'della crudeltà' giocato sulla patologia e l'abnorme. Nel suo centro di Pontedera R. Bacci, contro la logica del teatro-azienda, costruisce in più anni una trilogia (Laggiù soffia, Era, In carne ed ossa) che prevede la presenza di non più di cinque o dieci spettatori: lo spettacolo non è la rappresentazione di una storia ma un lavoro sulla propria percezione, mentre gli attori con abilità consumata fanno attraversare al pubblico, più volte, la sottile linea di demarcazione che divide il finto e il vero.

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