Sviluppo e articolazione della città

Storia di Venezia (1997)

Sviluppo e articolazione della città

Elisabeth Crouzet-Pavan

Così come appare negli ultimi decenni del XIII secolo nella descrizione di Martino da Canal (1), Venezia è la città della pienezza. A questa città privilegiata è stato dato tutto: prosperità, pace, potenza. Vi abbondano le mercanzie, vi affluiscono i mercanti. La ricchezza scorre in città come vi scorre l'acqua che permette il commercio e garantisce la bellezza e la singolarità della "forma urbis". La città è piena: piena di uomini, di ricchezze e di bellezza. Una simile descrizione si avvicina solo superficialmente a quella elaborata, a beneficio di un Oriente meraviglioso, dall'autore della Description du monde. Nella cronaca di Martino da Canal, le mirabilia di Venezia segnano piuttosto il trionfo di una città pia, esplicitamente inquadrata nell'ordine della creazione divina.

Insistendo sulle meraviglie di Rialto, la cronaca di Giovanni diacono (2) già richiamava la costruzione degli edifici sacri e profani, inventando così l'immagine dell'"aurea Venetia". Le fondazioni delle chiese, anche se le date fornite dall'Origo (3) vanno prese con cautela, ritmavano al contempo il popolamento e la crescita della comunità, il cui destino si confondeva con quel moltiplicarsi di edifici sacri. Nei testi narrativi posteriori si conserva l'abitudine di redigere cataloghi di reliquie, di evocare le processioni, di enumerare con precisione chiese e monasteri, manifestazioni della estrema devozione degli abitanti così come della ricchezza urbana. Nel testo di Martino da Canal, Venezia tende dunque ad avvicinarsi al modello della città di Dio e l'estetica e lo splendore degli edifici partecipano di questa immagine di armonia e di pienezza, poiché la città ha trionfato sul fango delle origini e sul disordine per presentare, tanto nella disposizione delle sue pietre quanto nelle sue istituzioni, nelle sue strutture sociali e nei suoi costumi, lo spettacolo dell'ordine e della concordia.

Ancora nella seconda metà del XIV secolo, Petrarca descrive nelle sue lettere l'attività del porto con le navi che attraccano alla riva di marmo, ma descrive anche i festeggiamenti sulla piazza S. Marco e, sempre, la concordia civile e la perfetta coesione sociale (4). Negli stessi decenni, i resoconti degli itinerari dei pellegrini che a Venezia attendono un imbarco per i Luoghi Santi, accanto alla tradizionale enumerazione di reliquie e corpi santi, citano le ricche e belle chiese (5) e costruiscono, in testi progressivamente copiati, ripresi e diffusi, la rappresentazione di una città dove si trovano tutte le ricchezze e le manifestazioni di sacralità. Attraverso queste poche descrizioni, Venezia sembra allora fissata, immobilizzata in uno stato di perfezione raggiunto presto, fin dagli ultimi anni del XIII secolo.

Fra questi due punti di riferimento cronologici, la Cronaca di Martino da Canal e i viaggi dei pellegrini della fine del XIV secolo, le deliberazioni del maggior consiglio degli anni 1347-1348 mostrano una città devastata dall'epidemia. I consigli tentano di garantire l'ordine pubblico. Pro conservatione sanitatis, cercano di trattenere o di attirare qualche medico, mettono in atto un primo cordone sanitario e soprattutto eleggono alcuni magistrati straordinari. La questione delle sepolture dei molti cadaveri abbandonati negli ospedali, nelle case e nelle strade occupa il maggior consiglio, sia che vigili nella città sulla profondità delle fosse e sulla loro chiusura con sabbia e terra, sia che organizzi l'evacuazione dei cadaveri verso cimiteri extraurbani (6). Ridotta numericamente e ulteriormente diminuita dalla fuga dei ricchi (7), l'assemblea tenta di gestire un comune sopraffatto dalla crisi.

Ignorando il momento di rottura rappresentato dalla grande mortalità, le descrizioni della fine del XIV secolo fanno eco ai superlativi delle Estoires de Venise. Dunque, nel corso dello stesso secolo, le immagini di Venezia sono contrastanti. Per loro natura e cronologia, le fonti prese qui in considerazione sono assai differenti, anche se tali diversità non spiegano tutto. Queste immagini contraddittorie si contrappongono, ma si completano anche a vicenda. La storia dell'organismo urbano veneziano nel XIV secolo si legge di fatto attraverso la loro associazione.

Lo studio dello spazio urbano nel XIII secolo si organizzava attorno ad alcuni fenomeni maggiori. Un'espansione massiccia, continua, caratterizzava in quel periodo Venezia come una città in movimento. Il sito veniva rimodellato, la terra avanzava a spese degli acquitrini e delle paludi. I grandi proprietari privati, i "vicini" delle contrade (8), i monasteri e in seguito i nuovi conventi mendicanti guidavano la bonifica su ogni frontiera, interna ed esterna. Gradualmente, a partire dalla seconda metà del XIII secolo, il comune tentava di controllare, di dirigere più direttamente questa formidabile crescita. A S. Marco, a Rialto, sul porto, nelle calli, sulle banchine e sui ponti si aprivano grandi cantieri. Il tempo dell'espansione era anche quello delle sistemazioni urbanistiche.

Senza ricorrere a una schematizzazione eccessiva, la storia materiale dell'organismo urbano si divide nel XIV secolo in due periodi chiaramente distinti. I quattro primi decenni del secolo, con sfumature e tonalità proprie, si situano nella continuità del secolo precedente. La seconda metà del XIV secolo vi si contrappone nettamente.

L'espansione urbana

Il controllo del pubblico

Prima realtà, fino agli anni 1340, la città prosegue la sua marcia in avanti. Nelle forme che le sono ormai proprie, e che sono state istituite nella seconda metà del XIII secolo, la bonifica opera in molti cantieri. A partire dagli anni 1250, il comune di Venezia comincia a riaffermare il proprio diritto sulle acque e le paludi, entro i limiti del Ducato, tra Grado e Cavarzere. Ormai ogni prosciugamento deve essere autorizzato da una concessione comunale. Il nuovo controllo pubblico prende piede nel corso di qualche decennio (9). Alla fine del XIII secolo, la bonifica è così il risultato dell'azione congiunta di tre agenti: il comune, i magistrati del piovego e i "vicini" delle contrade. I lotti da conquistare sono assegnati ai "vicini" dal maggior consiglio che vota una grazia (10). L'intervento dei magistrati del piovego (11) diventa costante ad ogni stadio dell'operazione. La grazia è spesso sottoposta all'accordo preliminare di questi ufficiali (12). Oppure, quando l'ispezione del piovego non precede la concessione, l'atto pubblico rinvia alla competenza di quei magistrati per la definizione precisa dei lavori sul terreno.

La storiografia locale sottolinea un fatto fondamentale. Il trasferimento della sede dogale da Malamocco a Rialto e la creazione di una magistratura incaricata delle acque avrebbero coinciso. Per essere edificata Venezia deve strappare agli acquitrini il terreno sul quale è costruita. Le cronache moderne, dedicate alla storia dei magistrati responsabili delle acque, della laguna e delle paludi, individuano delle liste ininterrotte di ufficiali, dal tempo del doge Partecipazio all'anno della loro redazione. Esse provano in tal modo la sicurezza di una continuità istituzionale, di un interessamento, mai smentito, al controllo pubblico dell'espansione urbana. Quando all'inizio del IX secolo, il doge Partecipazio, dall'antico Malamocco, trasferì a Rialto la residenza dogale, tre fra i principali della città furono scelti per vigilare sull'ampliamento della terra, bonificare le lagune, colmare le velme, contenere l'esuberanza delle paludi che formavano la cinta insalubre di quel sito (13). In questo racconto la concomitanza è assoluta. Dall'azione di questi procuratori dipende la creazione stessa della città. Quando le reliquie di s. Marco vengono trasferite a Rialto si decide la fondazione di una basilica che ospiti il corpo santo. Uno di questi magistrati incaricati delle acque deve dirigere la fabbrica. Significativamente, gli stessi uomini vigilano sulla costruzione materiale della città così come ne assicurano la genesi simbolica con l'edificazione di questo reliquiario gigante. Venezia s'identifica nella lotta contro l'acqua e nella conquista della terra e si definisce attraverso il patronato del santo evangelista.

L'istituzione di questi procuratori partecipa così doppiamente del mito delle origini. Le cronache trasmettono i loro nomi. La definizione delle loro competenze, agli inizi della storia veneziana, attesta l'importanza che la Repubblica attribuisce al loro compito. Grazie a questa ricostruzione storiografica viene assicurata una continuità temporale. Fin dagli inizi di Rialto la presa di possesso del potere politico sulla terra e l'acqua e la costruzione del corpo della città sarebbero state affermate e legittimate. Nell'evoluzione delle sue forme il potere politico, accettando sempre l'eredità del passato, avrebbe concepito e diretto i prosciugamenti. L'edificazione di Venezia sarebbe stata dunque consentita solo dall'accordo costante di una società e di un potere.

Ma all'interno della storia lunga dell'espansione urbana, questa bonifica sotto controllo pubblico interessa solo un periodo strettamente limitato. Il suo trionfo, all'inizio del XIV secolo, è il risultato dello sforzo di inquadramento realizzato nel corso del mezzo secolo precedente. Inoltre il dominio della bonifica ad opera del potere politico non entra in gioco immediatamente. Nel silenzio delle fonti si legge uno scarto, un intermezzo di resistenze alle costrizioni del nuovo sistema. Il Novus Liber delle grazie copre il periodo 1299-1305. Primo registro conservato di questa serie, esso non contiene in effetti concessioni di terre da prosciugare. I primi libri del maggior consiglio, pur elaborando un apparato teorico, sono quasi sprovvisti di esempi di bonifica. Le serie delle concessioni pubbliche diventano più fornite intorno al 1310. Alla fine degli anni '20 del Trecento esse testimoniano una copiosità che in seguito rimarrà ineguagliata. Il vuoto degli anni anteriori al 1310 (14) si spiegherebbe allora con le incertezze iniziali del controllo pubblico. Ai bordi della laguna e delle paludi i Veneziani, in cerca di terra e di profitto, probabilmente operano ancora senza permesso preliminare né ispezione del piovego. Durante i decenni 1320 e 1330 le concessioni vengono distribuite massicciamente. La conquista dello spazio è ormai strettamente controllata dall'autorità comunale.

Un primo esempio serve ad illustrare questa profonda omogeneità degli anni 1250-1340 che sconvolge le divisioni tradizionali della cronologia. Per la sua spettacolarità, esso porta anche ad apprezzare l'opera di bonifica nei suoi aspetti materiali.

L'esempio della Giudecca nuova

L'operazione della Giudecca nuova rappresenta la più sistematica azione di bonifica condotta all'inizio del XIV secolo sotto il controllo comunale. Il progetto viene concepito nella seconda metà del XIII secolo (15). A partire dal 1254 il maggior consiglio prevede la bonifica delle paludi fra S. Giorgio e S. Croce e il mantenimento di una via d'acqua tra le due isole della Giudecca così formatesi. Esso prende in considerazione anche la costruzione del ponte che dovrebbe collegarle (16). Nei decenni che seguono, una sentenza del piovego strappa a S. Giorgio la proprietà delle acque vicine a quel monastero. Ma la prima concessione conservata, a beneficio del monastero di S. Croce della Giudecca, è datata 1329 (17). Durante quello stesso anno, e in seguito dal 1330 al 1333, le grazie si susseguono.

In questo caso un canone condiziona la concessione della parcella da prosciugare, segno di quella sovranità che il doge, a nome del comune, esercita su acque e paludi. Tutti i responsabili della bonifica nel settore della Giudecca nuova si impegnano ogni anno a rimettere un paio di guanti di camoscio al doge (18). Paragonati alla massa delle bonifiche del medesimo periodo, questi accordi particolari rappresentano dei casi isolati (19). Dal 1329 al 1334, l'obbligo dei canoni relativi ai lotti ottenuti tra S. Croce e S. Giorgio non si interrompe. Su quelle acque dove la sovranità comunale è stata proclamata solennemente, una simile disposizione è il risultato della manifesta riaffermazione dei diritti del potere pubblico. In questa pratica sopravvive il comune ricordo del tributo dovuto al doge da tutti coloro che sfruttavano il demanio acquatico (20). In effetti il comune guida qui un vero e proprio piano d'occupazione dei suoli che, altrove, è più spesso diretto dai grandi proprietari fondiari, vescovi, canonici e abati (21).

Poiché l'isola sorge dalle acque, la Giudecca nuova (22) costituisce un caso esemplare di una colonizzazione rigorosa. Chi opera la bonifica proviene dai sei sestieri di Rialto. Ma la comunità dei "vicini" si ricostituisce e le grazie si susseguono "sicut concessum fuerit" (23). Il nobile Zaneto Loredan aveva chiesto e ottenuto 50 passi di velma tra i due monasteri di S. Croce e di S. Giorgio, ma il maggior consiglio riduce di 10 passi la superficie in conformità alle misure dei terreni dati a tutti (24). Marco Polo aveva ricevuto, così come gli altri beneficiari del settore, 25 passi. Ne bonifica 27: i 2 passi supplementari, ripresi dal comune, vengono assegnati a Nicolò Soranzo di S. Angelo (25). La divisione in lotti impone la ripetizione di superfici identiche (26): per via delle concessioni pubbliche, si impone una armonizzazione delle superfici. Le difficoltà ambientali e la necessità di rendere accessibili le nuove terre spiegano la configurazione di alcune parcelle. La prima superficie concessa al monastero di S. Croce della Giudecca conta solo 20 passi fino all'indispensabile canale di drenaggio (27). Anche il patronato sfuma la geometria della lottizzazione e la protezione di parenti o di amici influenti ha la sua parte. Francesco, figlio di Nicolò Pasqualigo, riceve così senza ulteriore misurazione la metà di ciò che resta da bonificare tra S. Croce e S. Giorgio (28). Queste poche variazioni non intaccano però la generale quadrettatura dell'isola.

Viene messo in atto un reale sforzo al fine di razionalizzare la lottizzazione e di sistemare le vie di comunicazione. Le prime grazie individuano in principio gli assi della bonifica. I lavori procedono verso ovest e verso la prima formazione della Giudecca. Resta, perpendicolare, un canale necessario al traffico che segna il confine tra antiche e nuove terre. Il fronte avanza parallelamente verso sud-est, in direzione del monastero di S. Giorgio Maggiore, tra la laguna e il Canale della Giudecca. Su questa via d'acqua i cantieri lasciano - è una condizione obbligatoria - una strada pubblica larga 10 piedi. Così si salvaguarda l'accesso al canale e la possibilità di sbarco per uomini e mercanzie. Allo stesso modo si preserva la circolazione terrestre longitudinale. Le sentenze del piovego indicano i limiti dei diversi lotti (29). Un lotto viene assegnato a Marco Passera, conciatore. Ad est troviamo Pietro de Molino, ad ovest Francesco Zeno. Tra questi due vicini, si ha notizia di una calle larga 10 piedi. Altro esempio, a Francesco Zeno, conciatore, 6 passi su 50; da un lato Marco Passera, dall'altro Marco Stamario e due viottoli ortogonali di 10 piedi. Gli atti successivi che descrivono la suddivisione della velma che si estende oltre il terreno di Marco Stamario ripetono la necessità di quello stesso spazio di i o piedi tra ogni parcella. All'altra estremità i lavori avanzano. Oltre la concessione di Pietro de Molino, c'è una calle di 10 piedi. La divisione in lotti prosegue con la parcella di Giovanni Pellatorio e una calle di 10 piedi che si trova presso il terreno di Giovanni Lombardo.

Gli atti posteriori mantengono questa disposizione: una banchina davanti e due viottoli perpendicolari che fiancheggiano ogni concessione (30). Questo tentativo di lottizzazione geometrica resiste a lungo. Nel XV secolo il monastero di S. Croce precisa nei contratti di locazione gli imperativi che pesano sulle sue proprietà. Nel 1415 il riferimento alla calle comune, larga 10 piedi, e l'obbligo di garantire l'accesso del convento a quella strada rimangono invariati (31). Nello stesso anno, è vietato ogni sconfinamento in usurpazione degli assi che attraversano il tessuto urbano e favoriscono la circolazione trasversale (32). Nel 1500 il grande piano di Jacopo de' Barbari testimonia chiaramente questa organizzazione dello spazio. Un progetto coerente anima dunque questa serie di decisioni la cui realizzazione prende l'avvio alla fine del XIII secolo e si conclude, nelle sue grandi linee, nel corso del terzo decennio del XIV secolo. L'edificazione del ponte che collega le due isole, progettato otto decenni prima, viene così decisa nel 1330 e gli ufficiali del piovego ripartiscono il carico finanziario fra la vecchia e la nuova Giudecca (33). Lungo tutta l'opera di bonifica, il comune vigila sulla rapidità dell'impresa così come sulle condizioni della sua realizzazione. Per questo motivo la concessione delle grazie è condizionata al rispetto dei termini. Sin dagli inizi, scadenze rigorose contraddistinguono l'operazione della Giudecca nuova. Entro due anni bisogna recintare il lotto con pietra e legno e arginare (34). L'anno successivo si deve terminare la colmata. A partire dal 1331 un atto prolunga a quattro anni i tempi di esecuzione, mentre le monache di S. Croce, invocando la loro indigenza, sollecitano ed ottengono due dilazioni (35). Le deliberazioni scandiscono allora le principali tappe dei lavori. Dapprima recintare il lotto concesso, edificare uno sbarramento per contenere le acque. Il diametro dei pali che compongono la palizzata così innalzata varia a seconda della forza della corrente. La stessa parola, "palata", definisce le forti difese erette, di fronte all'Adriatico, al margine dei cordoni litoranei, e lo schieramento delle assi, la fila dei pali rinforzata da un'armatura che segna l'avanzata del suolo nella palude. La palizzata, puntellata con delle pietre, diventa diga se la colonizzazione crea, come nell'esempio qui analizzato, un'isola artificiale e lotta contro la forza delle acque (36). Dietro questo riparo possono cominciare le operazioni di bonifica. Il comune, impegnato nella sistemazione di un ambiente ostile, sorveglia pertanto le tecniche di prosciugamento: elementari quando si colonizza un acquitrino, più lunghe quando si voglia avere la meglio sull'acqua.

Per i suoi metodi, la rapidità, l'estensione e la cronologia, l'operazione della Giudecca nuova costituisce l'esempio meglio riuscito della bonifica sotto controllo pubblico. Le fonti, quasi seriali, che permettono di studiarla, mettono in luce dei fenomeni che sugli altri confini della città sono conosciuti solo più lacunosamente. Pur tuttavia, i caratteri di questa colonizzazione si ritrovano, con differenti sfumature secondo le contrade e i diversi gradi d'occupazione del suolo, in tutti i cantieri dell'epoca.

Modalità, cronologia e assi dell'espansione

Ovunque il comune tende ad armonizzare i lavori. La grazia non viene votata senza che i proprietari vicini siano stati consultati. Il nobile Marco Morosini, di S. Cassiano, proprietario a S. Samuele, vuole estendere il suo terreno in questa parrocchia a spese della piscina pubblica (37). L'avanzare della richiesta è sottoposto all'accordo preliminare dei "vicini". Allo stesso modo, prima che l'ospedale di S. Pietro della Giudecca ottenga l'autorizzazione a fare terrapieni sulla palude, vengono convocati i proprietari della contrada (38). Simili menzioni accompagnano nel tempo il movimento d'espansione.

Talvolta la consultazione non riesce. Una donna tenta di far fallire la domanda di Andreolo, tagliapietre a S. Croce, e dei suoi fratelli. L'avanzare della costruzione nella laguna le toglierebbe sole e luce (39). Sottoposta a verifica, l'obiezione si rivela senza fondamento. Le modifiche del paesaggio sono dunque sottoposte all'approvazione della comunità e la consultazione del gruppo dei proprietari interviene ad ogni stadio dell'operazione. Il permesso comunale può anche essere accordato all'insieme dei "vicini". Una decisione unica segna allora l'inizio dei lavori e la conquista di un nuovo settore, destinato al popolamento e alla sistemazione urbanistica (40). Più spesso, l'espansione è permessa da una serie di grazie votate nel corso di vari mesi o anni.

Nel primo terzo del XIV secolo, quando la crescita demografica del sestiere di Dorsoduro passa per il prosciugamento del lacus di S. Angelo Raffaele, le grazie si susseguono. Nelle diverse tappe del processo - luglio 1330, maggio 1331, gennaio 1333, aprile 1334 (41) - vengono nominati parecchi proprietari e le fonti sottolineano l'identità delle concessioni. Ai confini nord-occidentali, nel caso delle colmate di S. Marziale e di S. Marcuola, un gruppo di proprietari viene dotato di concessioni identiche. Ad Andrea, per esempio, viene concesso di estendersi "per passus duodecim sicut concessum fuit Martino Magno eius vicino" (42). Per l'ampiezza delle conquiste territoriali che li interessano e il numero dei proprietari che sono mobilitati (43), queste due aree rappresentano due esempi particolarmente significativi.

Lotti similari sono concessi in nome di una necessaria uguaglianza di trattamento dei proprietari. Quando Marino Moro viene accusato di usurpazione del demanio pubblico, il caso esige una ispezione per delimitare i diritti reciproci. Sulla via della Barbaria de le Tole tutti i proprietari hanno prosciugato sul retro delle loro costruzioni senza permesso. Insieme a quella di Moro, vengono allora convalidate le usurpazioni degli altri proprietari (44). Il riferimento alla comunità dei "vicini" serve ancora a giustificare la domanda di grazia. La "facilità d'accesso", la "bellezza" della contrada, la "comodità del luogo" impongono la riduzione degli acquitrini. La mancanza di posto quando per un tintore o un conciatore l'esercizio dell'arte esige acqua e spazio, la ristrettezza del giardino se la comunità monastica e l'ospedale vivono dei suoi frutti, costituiscono altrettante incitazioni ai prosciugamenti (45). Ma anche l'interesse del gruppo dei vicini, lo si chiami "commoditas", "utilitas" o "sanitas", influisce sulla decisione. Anche se non viene richiamato esplicitamente nell'enunciato della richiesta, il rapporto della comunità con il suo spazio quotidiano ha un gran peso (46). La bonifica è un affare che riguarda la vita collettiva.

Secondo i casi, la forza dell'impulso locale diverge. Le operazioni di grande levatura si contrappongono alle realizzazioni più modeste. Realizzata a beneficio della proprietà, la bonifica mira a un aumento di superficie o al miglioramento degli accessi (47). Portata avanti per "la bellezza del luogo", essa combatte le acque putride, un acquitrino dove vengono gettate le immondizie (48). Le esigenze private di spazio, igiene o estetica non si confondono con i flussi di colonizzazione interna delle società parrocchiali e con le colmate speculative. Ma attraverso lo spazio urbano, al di là della dimensione dei lavori, interventi circoscritti o più radicali, ormai la comunità dei "vicini" appare sempre sottoposta nei suoi cantieri all'autorità del comune e dei suoi magistrati del piovego.

Acquitrini e acque non si lottizzano senza precauzioni preliminari. I magistrati del piovego ricorrono a proclami pubblici e invitano i possibili detentori di diritti sulla palude che sta per essere bonificata a presentarsi davanti a loro (49). Essi decidono le dimensioni dei lotti da accordare, esaminano il terreno e le conquiste vicine (50). Fanno piantare pali a delimitare le superfici attribuite (51) e misurano il fango e le paludi per evitare futuri litigi (52). Secondo la natura del terreno e del prosciugamento, dettano alcune prescrizioni tecniche (53). Laddove la confusione dei diritti non si opponga alla loro azione, fanno tracciare parcelle rettilinee sulla velma. I prosciugamenti procedono allora "recto tramite" (54). Soprattutto nelle zone di contatto con la laguna il fronte avanza con una certa regolarità. Il progresso delle bonifiche si accompagna dunque ad un tentativo di organizzazione dello spazio. Lo testimoniano gli sforzi per garantire la viabilità.

Si tratta, a seconda dei casi, di creare un rio di drenaggio, traccia dell'antica distesa acquatica, di aprire una calle tra le superfici conquistate. Nei settori fortemente prosciugati di S. Marziale o di S. Angelo Raffaele, l'organizzazione delle vie di comunicazione accompagna la conquista territoriale. In quest'ultima contrada, nelle grazie dell'anno 1332 compare l'obbligo di apprestare un canale largo 4 passi (55). La stessa disposizione, ma per un canale più largo, si ritrova nel 1335. I lavori nella parrocchia riguardano poi la laguna in direzione di S. Secondo (56). Quando il lago di S. Angelo Raffaele viene prosciugato, le colmate lasciano sopravvivere un piccolo rio (57).

Vengono anche garantite le facilitazioni della circolazione terrestre. A S. Basilio si fa un terrapieno dietro la chiesa. Per facilitare l'accesso all'offizio divino, il piovego apre una calle di 4 piedi (58) e su tutta la lunghezza del terrapieno i frati di S. Antonio approntano una riva pubblica, larga 10 piedi (59). La colonizzazione deve assicurare l'equilibrio delle vie d'acqua e di terra e aprire a tutti la strada e il canale appena creati. A S. Nicolò, la calle di recente aperta deve rimanere pubblica (60). A S. Angelo Raffaele, il prosciugamento avanza verso il canale ma prevede una banchina di pietra (61). Al monastero di S. Spirito viene imposto di lasciare libero uno spazio di 5 passi fino al vicino canale, mentre quello di S. Marta riceve il compito di sistemare una via d'accesso larga 5 piedi attraverso i terreni conquistati (62). Queste realizzazioni, anche se appaiono limitate rispetto al sistema della Giudecca nuova, foggiano il tessuto urbano dei "terrena nuova". Esse stabiliscono la natura delle preoccupazioni comunali in materia di urbanistica.

Le bonifiche vengono dunque dirette e sorvegliate dal concepimento iniziale al completamento del cantiere. Per i lavori di grande portata, il comune determina gli assi geografici della conquista. Lottizza e concede le acque e le paludi, stimolando la colonizzazione. Altrove approva le iniziative parrocchiali e autorizza i lavori privati, che siano grandi o piccoli, che modifichino i confini con la laguna o colmino un acquitrino residuo, circondato dalla crescita dell'edificato. L'autorità pubblica tenta di far trionfare dei criteri significativi: la regolarità, l'eliminazione delle enclaves, la facilità di circolazione, la moltiplicazione delle vie terrestri. Alcuni proprietari aumentano indubbiamente grazie a queste operazioni il loro patrimonio immobiliare, come prova la natura chiaramente speculativa di certe colmate. Ma la comunità dei "vicini" si sforza di mantenere una distribuzione equa dei favori e delle concessioni. All'interno delle aree conquistate il potere pubblico regola, al di là dell'espansione, la costituzione della trama urbana.

Ulteriore manifestazione di questa presa di possesso comunale sulla bonifica: se monasteri e conventi svolgono un ruolo sempre importante nel fenomeno espansivo, i loro prosciugamenti sono ormai sottoposti più direttamente al controllo comunale. Qui va sottolineata un'evoluzione. Nel corso del XIII secolo i doni dei diversi dogi avevano aiutato a istituire nuovi conventi degli ordini mendicanti. Nei primi decenni del XIV le strutture pubbliche della bonifica fanno sentire il loro peso. Le comunità fondate in quel tempo bonificano dunque per mezzo della concessione delle grazie del maggior consiglio. Soprattutto, i nuovi stabilimenti non fanno altro che rinforzare le teste di ponte gettate dall'espansione laica. Su un territorio sempre più urbanizzato, nel momento in cui la pratica delle fondazioni negli isolotti della laguna non ha più corso da molto tempo, l'erezione a Rialto di un convento supplementare si scontra con molteplici difficoltà: terreno troppo caro, sovrappopolamento conventuale o ospedaliero. I fondatori scelgono quindi le aree periferiche, le zone di confine poco popolate. Rispetto ai secoli XII e XIII, al ruolo assunto da S. Zaccaria, S. Gregorio o dai SS. Giovanni e Paolo nella trasformazione dello spazio cittadino, i principali protagonisti dell'espansione urbana sono oramai cambiati.

L'esempio di S. Marta può dare la misura di questa evoluzione. Iacobina Scorpioni, monaca a S. Mauro di Burano, dota di monastero e ospedale la propria parrocchia d'origine, S. Nicolò dei Mendicoli (63). Il sito scelto, tra S. Giorgio in Alga e il confine sud-occidentale, sembra già appartenere alla zona lagunare. Periferico, separato dal rio di S. Nicolò dalla contrada omonima, l'isolotto è tuttavia vicino a un antico centro di popolamento, una parrocchia originale, quasi esclusivamente dedita alla pesca.

Le convenzioni successive intercorse tra le monache e il clero secolare di S. Nicolò, le pretese di Filippo Salamon, primo procuratore, e della sua famiglia a un giuspatronato, il compromesso che regola la disputa, segnano gli inizi del nuovo convento benedettino. Sostenuto dalla gerarchia ecclesiastica nel conflitto che spesso si riaccende con i preti della parrocchia, il monastero è favorito anche dall'autorità civile. Nel luglio 1316 Iacobina Scorpioni sollecita l'autorizzazione ad edificare. La "licentia fundandi" viene accordata nel luglio 1318.

A partire dal 1330 il maggior consiglio vota parecchie grazie (64). A causa dell'aumento del suo perimetro, l'edificio invade la strada e innalza le mura di cinta sullo spazio pubblico. I magistrati del piovego sorvegliano l'operazione e piantano tre pali che fissano il limite dello sconfinamento. Di fronte a S. Nicolò devono rimanere liberi 14 piedi di larghezza per il passaggio. Lungo il Canale della Giudecca viene misurata una riva di 15 piedi e 16 vengono lasciati per la riva dal lato di S. Giorgio in Alga (65). Nello stesso anno 20 piedi di palude, su una larghezza lasciata al parere del piovego, permettono una nuova estensione in direzione di S. Giorgio in Alga. Una seconda concessione sembra seguire a beneficio del giardino. Diverse operazioni ordinano e sistemano il perimetro attorno alla chiesa. Le rive instabili vengono consolidate. Ma bisogna notare che i proprietari della contrada spalleggiano quest'opera di bonifica, visto che uno stesso interesse unisce le due comunità separate da un braccio d'acqua. Monache e "vicini" compaiono dunque, insieme o in tempi diversi, nella distribuzione dei lotti da prosciugare (66). A seconda dei casi, l'atto avvantaggia una parte o l'altra, ma la colonizzazione progredisce. Nel 1340 per i lavori in corso si fissa il termine della prossima festa di s. Michele (67).

La fondazione di S. Marta anima gli ultimi confini della città. La partecipazione del monastero ai lavori, diretta, misurabile, facilita la conquista. Esempio dell'attività urbanistica di un monastero nel XIV secolo, S. Marta bonifica come i "vicini" di S. Nicolò, spesso anche più di loro. Osservando la topografia delle nuove fondazioni religiose, si comprende a qual punto il movimento d'espansione abbia sconvolto, nel corso del XIII secolo, il quadro della città. Le nuove comunità favoriscono il popolamento sugli ultimi confini con la laguna.

I caratteri della localizzazione della seconda sede dei Domenicani ben confermano questo fenomeno. Nel suo testamento del 1312, il doge Marino Zorzi prevedeva un lascito da 2.500 a 3.000 lire per la costruzione di una chiesa. Dodici frati predicatori dovevano installarvisi e celebrare, come condizione della liberalità, diverse messe di suffragio. Presso la chiesa si trovava un ospedale. I redditi della "commissaria" assicuravano il mantenimento delle due fondazioni (68). Le ultime volontà del doge raccomandavano una localizzazione centrale, solamente a Venezia e specialmente nella "città di Rialto". Il convento viene però costruito al margine sud-occidentale di Venezia. I Domenicani si installano dunque nel 1317 a sud del rio di Castello. La città prosegue così in quel sestiere la sua marcia in avanti. Nel 1317 il chirurgo Gualtieri ottiene la grazia per costruire un ospedale per i marinai (69). Luogo di edificazione previsto, una punta di terra situata tra S. Biagio, S. Elena e S. Anna. Sette anni più tardi il prosciugamento condotto in direzione dello sbocco del rio di Castello è in fase avanzata. Gualtieri e i suoi nipoti creano su questa punta un giardino di erbe medicinali (70).

D'altra parte se si considera che agli inizi del XIV secolo, grazie all'estensione del nuovo Arsenale, il comune intraprende la riduzione della distesa del lago di S. Daniele, la trasformazione del sestiere di Castello può essere apprezzata in tutta la sua portata. Concluso l'"opus lacus S. Danieli" la marginalizzazione dei confini orientali si riduce. La città conquistatrice inizia la bonifica intorno ad alcuni poli.

La fondazione di S. Domenico grazie ai pii lasciti di Marino Zorzi s'inserisce in questa fase, durata quasi un secolo (71), della prima sistemazione del sestiere di Castello. La continuità del movimento di espansione è evidente, lc grazie del maggior consiglio contribuiscono solo a fornire un quadro più preciso di questa progressiva colonizzazione.

Citiamo infine un ultimo esempio di questa disseminazione degli stabilimenti pii alla periferia, quello di S. Andrea de Zirada. Nel 1329 alcune pie vedove, Francesca Corner, Elisabetta Gradenigo, Elisabetta Soranzo, Maddalena Malipiero, ottengono dal vescovo di Castello la licenza di costruire un ospedale e di fondare più tardi un convento (72). In questo settore in cui si perde il Canal Grande domina l'acquitrino, la terra e l'acqua s'incontrano: è il "caò di Zirada" (73). Nel 1331 viene stipulata una convenzione col vicino convento delle Clarisse (74). Subito si sviluppa l'ospedale e si costituisce una congregazione di dodici nobili per assumerne la direzione (75). Due delle fondatrici superstiti scelgono, con altre sette donne, di diventare agostiniane. Il convento di S. Andrea passa, così come quello di S. Maria delle Vergini, sotto il giuspatronato del doge. Ma quest'area, riserva di spazio da dominare e sistemare, dove trionfa ancora il paesaggio della città primitiva, si trasforma solo lentamente. Nel 1334 l'ospedale aveva ricevuto un aiuto finanziario, sul modello di quelle grazie accordate dal potere civile a tutte le comunità religiose troppo povere per effettuare dei lavori indispensabili. Aperto sulla palude, senza recinzione di pietra o di legno, alla mercé delle acque, l'edificio è circondato da una cinta protettrice (76). Ma l'infelice data della costruzione del convento, 1346, spiega come le conseguenze della sua installazione nella zona siano inizialmente scarse.

Quale bilancio si può fare di questa espansione urbana, come essa appare attraverso la massa degli atti pubblici? Durante i decenni 1320 e 1330, quando il comune dirige i lavori della Giudecca, le concessioni vengono distribuite in serie lungo alcune grandi direttrici. Il primo fronte attivo è il confine settentrionale. Quando si tratta di bonifiche a nord della Barbaria de le Tole o attorno a S. Catarina dei Sacchi, la colonizzazione, sotto il controllo pubblico, prosegue di fatto l'avanzata precedente dei conventi. In seguito a una spinta ulteriore, essa continua nel sestiere di Cannaregio, e il numero delle grazie distribuite ai "vicini" di S. Marcuola e S. Marziale testimonia a sufficienza lo spostamento del fronte dei prosciugamenti. E così avviene anche sul fronte di Castello, sebbene la colonizzazione dei proprietari privati qui tardi un po' a sostituire l'opera degli ospedali e dei conventi. Ma la bonifica sembra allora interessare e trasformare con maggior forza il sestiere di Dorsoduro. Le parrocchie di S. Angelo Raffaele, di S. Margherita e di S. Basilio, alle prese con i loro laghi, sono dei veri e propri cantieri. Così sulla frontiera di S. Margherita, per tutto il periodo coperto dai registri delle grazie, i "vicini", al fianco dei Carmelitani, fanno avanzare il confine meridionale della colonizzazione (77).

L'affanno precede lo choc della Peste Nera. Attorno al 1343 si accusa brutalmente il cedimento. Con la peste si osserva un vero e proprio crollo che si prolunga, chiaramente leggibile nel silenzio delle fonti, almeno fino al 1353. Secondo un modello generale, meglio conosciuto in altre città italiane dove le fonti conservate permettono uno studio più preciso della demografia (78), la crescita veneziana raggiunge il suo culmine alla fine del XIII secolo. In questo si deve notare un paradosso. La dinamica della conquista rallenta quando l'autorità comunale assume il controllo delle bonifiche e ne guida, gestisce e dirige il movimento d'espansione. Fino alla fine del XIII secolo la formazione di Venezia sfugge di fatto all'autorità civile. Essa è il risultato di agenti diversi, nasce da progetti e da associazioni multiformi. Quando, alla fine di un mezzo secolo di sforzi, il comune controlla più direttamente le bonifiche, il quadro della città è già stato profondamente trasformato. L'analisi dell'espansione diviene più agevole in quanto non si disperde più tra fonti multiple, talvolta allusive o lacunose, ma non si trova più la straordinaria vitalità del XIII secolo. Fino però a tutti gli anni '40 del Trecento la curva delle bonifiche resta ancora decisamente ascendente. La piena precedente fa sentire i suoi effetti. Il sovrappopolamento delle contrade centrali determina la ricerca di spazio osservata sui diversi confini dell'agglomerato cittadino. Si assiste dunque alla conclusione di un periodo della storia urbana di Venezia: preceduta da segnali precursori, la Peste Nera ne segna nettamente la fine.

La sistemazione dei centri:

spazi pubblici, potere politico e funzioni economiche

Lo studio dei grandi cantieri pubblici rivela, con una rigorosa simmetria, una stessa cronologia. I quattro primi decenni del XIV secolo sono segnati da numerose realizzazioni che prolungano e completano l'opera compiuta nel corso del mezzo secolo precedente.

A S. Marco, a Rialto, sulla riva del porto, l'autorità pubblica si era progressivamente incaricata della sistemazione degli spazi pubblici. La Piazza, investita di funzioni politiche e sacrali, viene ben presto trasformata. Dopo l'opera di Sebastiano Ziani, S. Marco resta a lungo immobilizzata in una struttura assai rigida. Ma a Rialto e sul porto, per effetto dell'adattamento ai bisogni del commercio e del trionfo delle attività economiche, i lavori proseguono. Il comune si fa qui promotore della trasformazione degli spazi indispensabili agli scambi. Nei primi decenni del XIV secolo diviene possibile analizzare parecchi cantieri di una qualche importanza.

Il quartiere del porto

Negli anni 1324-1325 il comune stipula un accordo con il monastero di S. Daniele al fine d'ingrandire il cantiere pubblico delle costruzioni navali. A nord della sua primitiva estensione, l'Arsenale quadruplica la propria superficie (79). Questa operazione si inserisce in una serie ben documentata di grandi realizzazioni ad opera del pubblico. Ma essa corrisponde anche ad una seconda serie di fenomeni. Alla fine del XIII secolo la flotta mercantile veneziana è in piena evoluzione. Nella prima metà del XIV secolo, quando si organizza il nuovo sistema commerciale, l'autorità pubblica prende in mano le linee di navigazione e fornisce le galere mercantili (80). Le dimensioni dell'Arsenale nuovo, la sistemazione a fini industriali di una vasta distesa acquatica, confermano allo stesso tempo, grazie all'iniziativa pubblica, il ruolo prioritario delle industrie della costruzione navale nell'urbanizzazione del sestiere orientale.

Negli stessi anni i lavori interessano vigorosamente la riva del porto. Una serie di misure ne migliora sensibilmente i collegamenti. Nel 1318 i signori di notte e gli ufficiali del piovego avviano il cantiere del ponte di S. Giovanni in Bragora (81). Il rifacimento del ponte di S. Biagio interviene sicuramente nel 1322 (82). Due anni più tardi la riva viene lastricata per tutta la sua lunghezza, da S. Marco a Castello (83). In seguito, nel corso del secolo, vengono rifatti i ponti di S. Zaccaria e di S. Biagio e, a prova del peso oramai accresciuto dell'Arsenale e della sua magistratura di controllo nel quartiere di Castello, i procuratori dell'Arsenale controllano il rifacimento della struttura che s'innalza allo sbocco del rio di Castello. Anche la libertà di accesso alla riva viene difesa e, ad esempio nel 1319, il maggior consiglio tenta di regolare il traffico e lo scarico davanti ai magazzini comunali del sale di S. Biagio (84).

Questo processo riequilibra la situazione del quartiere del porto e migliora i suoi collegamenti con il resto della città. Una tale integrazione, realizzata essenzialmente nel primo terzo del XIV secolo, sarebbe sufficiente a rivelare, nella traduzione spaziale qui privilegiata, le nuove relazioni della città col suo porto. Le modifiche che in quel periodo interessano la topografia della zona le evidenziano più nettamente. I consigli intraprendono la sistemazione dell'isolotto di Terranova, vicino alla Piazza, dove si trovava un attivo cantiere navale. Prevale la decompartimentazione. Rifatta la banchina, nel 1339 i procuratori di S. Marco edificano sul rio della Procuratia un ponte di pietra e aprono una via lastricata dalle Pescherie alla Zecca. Il cantiere navale sparisce (85). L'anno seguente vengono costruiti dei nuovi magazzini a fianco della Zecca, di fronte al bacino lagunare, in perfetta continuità architettonica. Può allora essere precisato lo statuto giuridico e urbanistico di questa zona riorganizzata e provvista di nuova dignità. Il maggior consiglio la ricongiunge allo spazio, e dunque alla specifica legislazione, dell'"insula S. Marci" (86).

Il senso del decoro urbano, la vocazione estetica di S. Marco giustificano un tale sconvolgimento. Gli stranieri arrivano in città da quella riva. Venezia si rivela loro, attraverso la lunghezza della banchina, dall'apertura della Piazzetta. Gli obblighi dell'estetica si aggiungono agli imperativi della viabilità. La ricerca del bello, già presente nella sistemazione della Piazza, sinonimo allora di dimensioni inusuali e di splendore dei monumenti, si diffonde a partire da S. Marco per tentare di applicarsi, in generale, allo spazio comunale.

I lavori interessano al contempo l'altra riva. La punta della Trinità, tra le due vie d'acqua del Canal Grande e del Canale della Giudecca, era stata a poco a poco consolidata, protetta dall'acqua e dallo sgretolamento. Con la terra ricavata dalla pulitura dei canali, Venezia sostiene e colma i propri fragili avamposti, le punte di S. Elena e di S. Antonio. La punta della Trinità è in ordine di tempo la prima a beneficiare di questi trasporti sistematici di terra di riporto. A partire dagli inizi del XIV secolo il suo rafforzamento cessa, in quanto i trasporti di materiale e le frane minacciano la profondità della via d'acqua (87). Per meglio stabilizzare il suolo, il maggior consiglio ordina la costruzione di una banchina di pietra che sostituisca le antiche "fundamenta rippi de lignamine" (88). La sistemazione urbanistica procede di pari passo con l'edificazione dei nuovi magazzini del sale che aumentano le primitive capacità di stoccaggio (89). Il cantiere sembra essere di dimensioni considerevoli se per dirigerlo si procede all'elezione di ufficiali straordinari. Gli ufficiali di Rialto ne controllano l'esecuzione, mentre il comune assicura la totalità del finanziamento. L'impresa è giudicata necessaria per tutta la città e la scelta, come magistratura responsabile, dell'ufficio addetto al mercato, sottolinea l'importanza economica del progetto. I provvedimenti che regolamentano la circolazione e l'ancoraggio delle navi attorno alla punta (90) confermano la sua condizione di frontiera all'entrata del Canal Grande e la sua collocazione nell'area portuale.

Le conseguenze di queste due operazioni contemporanee divergono. Se i lavori di Terranova contribuiscono ad ingrandire l'area di S. Marco e ad arricchire il ruolo polimorfo del centro politico-religioso della città, essi non hanno alcun effetto diretto sulla trama urbana. Diverso è per la punta della Trinità. Le nuove funzioni portuali accelerano la conquista dei confini di Dorsoduro. Con l'apertura graduale di cantieri navali attorno a questa punta, esse comportano la diversificazione economica di un settore nel quale le fornaci di mattoni avevano rappresentato fino ad allora la principale attività.

Il mercato di Rialto

Nella prima metà del XIV secolo, anche il mercato di Rialto conosce delle trasformazioni radicali. Senza procedere ad una ricostruzione esaustiva dei lavori, è possibile mettere in rilievo il senso delle principali operazioni.

Dalla fine del XIII secolo il comune aveva tentato di affermare con più vigore la divisione tra Rialto vecchio e Rialto nuovo e la distribuzione delle attività tra i due "campi". I mercati redditizi e onorevoli erano stati riservati a S. Giacomo mentre l'attività quotidiana di un normale mercato urbano (91) era stata ricacciata verso S. Matteo. Il restauro delle Beccherie comincia nel 1305 (92). Le case della via dei merciai, dei venditori di cera e di pepe vengono fornite di grondaie, sul modello di quelle della via dei pellicciai (93). Il mercato del pesce viene a sua volta modificato. Allo scopo di liberare il vecchio centro, vengono demolite alcune botteghe comunali situate su un lato del portico di S. Giacomo (94). La misura, a scapito degli interessi pubblici immediati, prelude ad una riforma più generale.

Nel dicembre dello stesso anno, l'affermazione della maggior utilità del mercato porta ad investire di un mandato provvisorio i consiglieri e i capi dei quaranta (95). È loro compito esaminare tutti i luoghi non ancora toccati dal rifacimento e redigere un rapporto indicandovi le misure necessarie per la comodità di tutti. Il bene comune, la prosperità della città si confondono con la comodità dei mercanti che affluiscono su quella piazza (96). Fatto il rapporto, vengono votati diversi provvedimenti. Tuttavia questi interventi tendono ancora, malgrado gli sforzi di questa prima commissione, a regolare problemi immediati (97). L'azione si rivolge all'area centrale di S. Giacomo e unisce al rimodellamento funzionale la cura ornamentale e la volontà didattica. Sui muri del colonnato centrale, alcune scene e un mappamondo ricordano il predominio dei Veneziani nei traffici e i legami della piazza realtina con la quasi totalità del mondo conosciuto.

Malgrado il trasferimento delle Beccherie a Rialto nuovo nel 1339, la sempre grande confusione delle installazioni e il numero degli intralci alla circolazione esigono nel 1341 l'elezione di una nuova commissione di tre saggi (98) il cui compito è lottare contro il disordine generale al fine di facilitare l'attività commerciale e cercare di conciliare gli imperativi estetici con una modernizzazione economica. Lo sforzo formale individuato a S. Marco si percepisce anche a Rialto. Gli affreschi di S. Giacomo ne costituivano una prima illustrazione. L'atto del 1341 riprende questo progetto. I lavori sono condotti "pro disoccupatione [...> et commodo et pulcritudine terre". Il principio del bello deve dunque essere il metro di giudizio dell'azione comunale. Questa ricerca estetica diviene col tempo un riferimento banale negli atti pubblici, di cui è difficile cogliere il contenuto concreto. Ma essa nasconde, negli anni in cui viene elaborata, preoccupazioni molto concrete. Legittimata dalla ricerca, più sacrale che politica, di una città ideale, l'azione pubblica vuole essere anche opera di armonia e di bellezza.

Eletti in gennaio, in maggio i saggi presentano le loro proposte (99). Dall'ispezione del 1341 risultano lo sgombero della Casaria, della strada che collega la Drapperia alle Beccherie, la sparizione di banchi, tende e tavole che ingombravano le strade. Le botteghe del pane vengono spostate a S. Matteo, di fianco a quelle della carne. La Drapperia viene riorganizzata (100). Il mercato si estende, le attività si distribuiscono di conseguenza attorno ai due poli di Rialto vecchio e Rialto nuovo. Il comune si sforza di delimitare una zona riservata al solo eserciziò del commercio maggiore.

Le vie d'accesso vengono difese dalle usurpazioni dei privati. Più gravi degli sconfinamenti delle tende e dei banchi erano state le pretese dei Sanudo su un tratto della rete terrestre che collegava S. Giovanni Elemosinario a S. Aponal. In seguito a una convenzione con la famiglia, la strada viene restituita all'uso collettivo. Le costruzioni abusive vengono condannate. Viene allora smantellato il banco del piano terreno e le colonne della casa non possono sconfinare sulla pubblica via di oltre mezzo piede (101). Migliorano anche i collegamenti con il settore del mercato posto sull'altra riva: il fondaco dei Tedeschi (102). Nel 1340 gli Zusto e i "vicini" della calle della Bissa reclamano l'apertura di un passaggio in un muro comunale per facilitare l'accesso al Fondaco (103). L'anno seguente, i saggi eletti per allargare la stretta via che conduce da S. Bartolomeo a S. Giovanni Grisostomo trattano con gli abitanti della strada per regolare espropri e indennizzi.

La politica condotta riguardo al Canal Grande si pone come proseguimento delle realizzazioni terrestri. Come a S. Marco e lungo il canale lagunare, si tratta di sviluppare una riva pubblica. Fin dagli ultimi decenni del XIII secolo, un tratto di riva comunale, tra ponte e loggia, era posto sotto l'autorità dei magistrati di Rialto (104). Agli inizi del XIV secolo si delimita un settore più vasto, dal palazzo dove hanno sede gli ufficiali comunali alla pesa pubblica: "il canale di Rialto" (105). Vi sono proibiti il libero passaggio e lo sbarco sulle banchine (106) e, grazie agli introiti dovuti alla locazione delle rive, la città garantisce la manutenzione e la pulitura regolare delle acque. Sulle rive si susseguono i magazzini.

Negli anni 1340-1350, per grandi linee, lo sforzo di sistemazione è compiuto. La riva del porto e l'Arsenale sono legati dall'appartenenza ad un unico sistema funzionale e dall'intervento, frequente in tutta la zona, dei procuratori dell'Arsenale. Il mercato di Rialto si collega a questa zona attraverso l'asse del Canal Grande. È possibile osservare un processo d'estensione che sfocia nella nascita di un vero e proprio spazio economico e di un'area di diffusione normativa. I quattro primi decenni del XIV secolo equivalgono dunque a una fase decisiva di adattamento della città fisica alle sue strutture politiche, alle sue ambizioni commerciali come alle difficoltà di una situazione mediterranea instabile. Le trasformazioni realizzate nella pietra, sulle rive e sui canali, sottolineano e corroborano la pianificazione amministrativa e il perfezionamento dell'organizzazione commerciale.

Ma queste evidenti preoccupazioni funzionali corrispondono anche ad una vocazione della città a ricevere un ordinamento. Il mito della città provvidenziale fa qui da guida. Esso legittima l'avanzata in forze dell'istanza pubblica, impone una razionalizzazione dell'azione mirante a fare di Venezia una città la cui organizzazione sia conforme all'idea della città celeste, o almeno le si avvicini quanto più possibile. Un'interpretazione esclusivamente funzionalista ridurrebbe dunque la portata del fenomeno della trasformazione. Proclamando la necessità dell'ordine, e la bellezza ad esso inerente, il potere comunale manifesta la finalità profonda della propria azione.

Gli spazi dell'attività politica e degli scambi, modellati per primi, rivelano l'intervento diretto della potenza pubblica. A S. Marco, sulla riva del porto, a Rialto, con la messa in opera delle infrastrutture indispensabili si elabora una nuova economia dello spazio urbano. Venezia si struttura attorno ai centri che vengono in tal modo individuati e i principi dell'amministrazione spaziale, operanti in questi settori con rigore relativo e date variabili a seconda dei sestieri, si applicano progressivamente al resto della città.

La cronologia dei cantieri conferma la periodizzazione della storia economica e demografica veneziana. Nei primi decenni del XIV secolo sono infatti documentati lavori sulla terra e sull'acqua, nell'intero spazio di una città che si trasforma.

Il nuovo equilibrio delle comunicazioni

Negli ultimi decenni del XIII secolo il vecchio equilibrio delle vie di comunicazione cominciava a vacillare. I cantieri aprivano nuove strade o miglioravano i primi assi della circolazione terrestre. I magistrati comunali intervenivano sulle strade, le banchine e i ponti. In questo campo, come negli altri settori della politica urbanistica analizzati, le trasformazioni in atto negli ultimi decenni del XIII secolo si intensificano agli inizi del secolo seguente. Fino al 1340 le realizzazioni sembrano quasi ininterrotte. Se la curva dell'espansione inizia a flettere attorno al 1300, nel caso dei lavori pubblici senza dubbio la dinamica non è mai così forte come nei primi decenni del XIV secolo. Lo spazio conquistato, o ancora in via di colonizzazione, nel corso dei secoli precedenti viene allora veramente riorganizzato o pianificato.

La rete dei canali: protezione e manutenzione

La rete dei canali, primo asse dell'intervento comunale, beneficia di una manutenzione più sistematica. In altre città si proteggono i fossati di cinta, il fiume, alcuni bracci d'acqua. I canali penetrano Venezia, delimitando ogni isolotto. La città, in sostanza, vive sull'acqua. L'ordinamento spaziale subisce questa attrazione essenziale mentre il decoro urbano gioca sul riflesso, il prolungamento ottico della terra e degli edifici. Ma tinture, acque sporche e immondizie trasformano le ramificazioni dei canali in una cloaca a cielo aperto da cui si levano vapori fetidi.

A partire da questo momento tutti coloro che gettano fango, letame e rifiuti nei canali vengono condannati. Nei primi anni del XIV secolo, su tutti i barcaioli accusati di inquinamento pesa la minaccia della confisca dell'imbarcazione e della sua distruzione (107). Lo sbocco del Canal Grande nel bacino di S. Marco è quello maggiormente protetto: è vietato gettarvi terra e immondizie e lavarvi i metalli (108). Tutte le successive disposizioni sulla nettezza urbana riprendono, per la totalità della rete, questi primi regolamenti (109). In una città che prosciuga gli acquitrini e costruisce massicciamente, che convoglia la sabbia dai litorali, che evacua verso la laguna le macerie e il fango, un'intera flottiglia di barche trasporta i materiali pesanti della costruzione e della demolizione. I regolamenti comunali si adoperano dapprima a recuperare la preziosa terra e riutilizzano per i prosciugamenti il fango estratto dallo spurgo dei canali. Ma essi tentano anche d'impedirne il possibile riversamento in un altro rio. Alcuni "burchieri" si sbarazzano così, col favore della notte, del loro carico.

L'industria dei tintori è inquadrata in un, regolamento analogo. Nel 1316 il maggior consiglio promulga una prima ordinanza. È proibito lavare le pezze tinte nei canali e gettarvi l'acqua di tintura. La laguna serve dunque da discarica per queste sostanze inquinanti (110). La lunghissima lista di grazie che fanno seguito a questa misura mette in luce i numerosi compromessi che ne attenuano l'osservanza. L'ammenda di 10 lire viene spesso condonata o ridotta della metà dal voto dell'assemblea. Per sbarazzarsi dei rifiuti i tintori ricorrono sempre all'acqua più vicina. A buon diritto quindi i vicini denunciano la molesta prossimità di certe botteghe quando nel rio stagna un'"aqua tincta et deturpata".

Il bacino di S. Marco era stato oggetto di protezione precocemente. A partire dalla fine del XIII secolo in alcuni settori era vietato caricare e scaricare la zavorra, calafatare, riparare le navi più grandi. In pratica, però, si agisce con minor fermezza. I fratelli Morosini vengono assolti contro il parere del piovego. Eppure la pena inflitta, 20 soldi, riguardava un grosso bastimento (111). Stessa indulgenza nei confronti di Lipo de Gimaldi da Ancona, che ha venduto la sua nave alla Ca' Pisani e la àncora sul Canal Grande a S. Vitale. Vi lavorano due carpentieri. La pretesa ignoranza della legge scusa questo straniero (112). Trasgredendo gli ordini, Marino Morosini fa caricare la zavorra delle sue galere sulla riva di S. Marco. Il consiglio revoca la punizione (113) e, contro i regolamenti, le operazioni di carico e scarico della zavorra proseguono. I marinai di Nicoleto Gradenigo si liberano di questo peso nel Canal Grande, di fronte alla riva della Ca' Pesaro (114): una grazia cancella la sanzione. A S. Benedetto, Tomasino stabilizza il suo carico di carne salata con delle pietre e getta in acqua la zavorra inutile. Rispetto alle contravvenzioni precedenti, l'infrazione sembra minima, ma in nome del buon esempio i magistrati del piovego si oppongono al condono della pena (115). Due anni più tardi, per una faccenda simile, prevale la clemenza. In balia delle influenze, l'applicazione delle leggi è variabile.

Le numerose infrazioni, le esitazioni dell'istanza politica riflettono un aspro conflitto d'interessi. Se l'attività marittima assicura la fortuna di Venezia, la sua intensità compromette la conservazione del sito. Il rigore non colpisce in egual misura tutti i contravventori. Nel 1345, l'affare degli armatori delle galere di Romània conferma l'esemplarità del caso di Marino Morosini. Colpevoli della stessa infrazione davanti alla riva di Terranova, i quattro nobili, Cristoforo Contarini, Piero Mocenigo, Nicoleto Querini e Zanino de Priuli, beneficiano di un'incontestabile benevolenza. La necessità di preparare la muda è sufficiente a piegare la legge (116) La forza delle differenti poste in gioco regola dunque l'osservanza dei regolamenti. Similmente la disposizione normativa sugli alleggi che proibisce di installarli tra la riva e la nave, in quanto fissano la terra e i detriti, si sfuma adattandosi al peso politico del colpevole e all'importanza economica dei carichi (117).

L'attenzione regolamentare esiste ed esprime la coscienza della fragilità dell'ambiente. Il tentativo di conservazione del sito si sperimenta negli ultimi decenni del XIII secolo e giunge, limitatamente al bacino di S. Marco, a un effettivo vigore. Sin dall'ultimo terzo del XIII secolo le fonti insistono sull'unicità del sito di Venezia, del legame della città con l'acqua. Essi espongono allora la necessità di una cura particolare da riservare all'ecosistema. Ma nella gerarchia delle determinazioni, la preoccupazione per il degrado ambientale, pur presente e dichiarata, cede spesso davanti alla prospettiva di profitto, alle necessità dei traffici o dell'attività industriale.

Tuttavia la manutenzione della rete dei canali guadagna in regolarità. Nel 1299 il comune aveva lanciato un programma di ripulitura dei canali che si prolunga per tutti i primi decenni del XIV secolo. Venti anni più tardi il comune patrocina un secondo ambizioso programma. Nell'intervallo si ha ancora testimonianza di lavori circoscritti (118). Ma nel giugno 1321 i lavori mutano scala. Quartiere dopo quartiere, i capisestiere redigono la lista delle vie d'acqua da spurgare. Essi localizzano i canali, misurano da un rio ad un altro, da una casa allo sbocco di un piccolo rio, da una chiesa a un forno. Indicano la natura dell'opera da compiere: "cavetur totus, caventur certa dorsa, cavetur amoniciones de ipso rivo [...>". Insieme ai punti deboli della rete, questi elenchi stabiliscono per ogni sestiere un breve stato delle vie di circolazione. Per l'esecuzione del provvedimento viene formato un collegio provvisorio che conta tre membri per sestiere (119). Grazie alle precisazioni sulle vie d'acqua e alle fonti documentarie, quella serie di lavori votati dal maggior consiglio fornisce una vera e propria cartografia della città (120).

Il ritardo urbanistico di Dorsoduro è evidente. Sui versanti meridionale e occidentale del sestiere sono citati i laghi di S. Pantaleone e di S. Basilio, come le "piscine" di S. Trovaso e di S. Vito che vengono ripulite. La bonifica prosegue qui la sua opera riduttrice e la rete dei rii, poiché i laghi servono loro da sbocchi naturali, può essere ancora modificata. Si conferma il più precoce consolidamento dei settori orientali: così a S. Vito, S. Agnese, S. Gregorio. Le attività portuali hanno cominciato a raggrupparsi attorno alla punta della Trinità. Insieme ad alcuni rii di collegamento trasversale, si ripulisce dunque la zona tra i canali principali, il Canal Grande e quello della Giudecca.

Castello richiede le prescrizioni più numerose. Compaiono quattro settori ben diversi. Dalla riva a S. Maria Formosa, tra S. Zaccaria e S. Antonin, si nota un insieme omogeneo, fortemente urbanizzato malgrado la presenza di una vigna e di un giardino attorno al grande monastero femminile. I rii che servono questo polo vengono ripuliti. Su certi tratti, si sgombrano le grandi vie perpendicolari che solcano la zona. Tra S. Maria Formosa e S. Bartolomeo, nelle contrade di S. Marina e di S. Lio, si è cristallizzato un nucleo popolato cui è riservata una viva attenzione. A nord di S. Maria Formosa si delimita l'area dei SS. Giovanni e Paolo. I cantieri riparano i danni occasionati dal galleggiamento e dallo stoccaggio dei carichi di legname. Ad est, oltre S. Giustina, l'agglomerato diviene discontinuo. L'Arsenale e la sua area d'influenza si profilano nettamente. La gestione delle zone vicine al cantiere è affidata ai procuratori dell'Arsenale. Ad est di S. Giustina e di S. Martino i lavori riguardano solamente le grandi vie d'acqua, con direzione est-ovest.

Allo stesso modo, le direttive degli interventi determinano, ingrandendoli, i tratti della morfologia di Cannaregio. Inizialmente si individua una prima area, organizzata attorno ai SS. Apostoli, a S. Giovanni Grisostomo e a S. Canciano. La sua rete viaria acquatica viene curata sistematicamente. Sulla riva delle parrocchie che si affacciano sulla laguna, alcuni dragaggi di canali segnano i progressi della bonifica. Una manutenzione più attenta isola tuttavia la zona delle Chiovere a S. Sofia (121). Le conseguenze di una tale concentrazione industriale sull'ambiente si fanno sentire. A S. Marcuola, a S. Marziale, i lavori confermano l'urbanizzazione di queste contrade, in movimento verso ovest. Il programma del 1321 aderisce alla realtà urbana e sottolinea, con totale chiarezza, le sue caratteristiche demografiche e morfologiche.

A S. Croce l'operazione privilegia l'ansa nord del Canal Grande e riguarda dunque i rii che, a partire da questo asse, penetrano il sestiere. Il secondo settore interessato dai lavori corrisponde alla zona precocemente popolata del primitivo Luprio. Altrettanto ridotti, i lavori nella circoscrizione di S. Polo interessano soprattutto, attorno al "campo" omonimo, la contrada di S. Polo. La vicinanza con Rialto influisce sulla decisione di ripulire i rii di S. Silvestro e di S. Apollinare. All'altra estremità del quartiere, dietro S. Tomà e S. Maria dei Frari, ai confini di Dorsoduro, il lago di S. Pantaleone frena ancora lo sviluppo. Sulla riva sinistra, il trattamento uniforme riservato al sestiere di S. Marco si contrappone alle discontinuità precedenti. A S. Maria Zobenigo, S. Maurizio e S. Vitale, gli ordini di spurgo mettono l'accento soprattutto sul sistema di raccordo con il Canal Grande. La lunga lista termina con questa arteria centrale. Da Rialto a S. Croce, a Rialto, tra S. Luca e S. Marco, dal ponte della Paglia a Castello, "ubi est necesse", la via d'acqua viene ripulita. La realizzazione non avviene senza ritardi. L'anno seguente, malgrado la regolamentazione in atto, le controversie occasionate dal suo finanziamento richiedono l'elezione di cinque saggi affinché siano fissate le parti di competenza del pubblico e del privato (122). Il cantiere del Canal Grande, di considerevoli dimensioni, anche se interessa solo alcuni tratti, non ha ancora preso il via nel 1323. A quella data il preventivo sembra pronto e prevede la ripulitura per cinque piedi di profondità. Il comune si assume i due terzi della spesa, comprese le rive facenti parte dello spazio pubblico. A Rialto, dal ponte al fondaco delle farine, su un tratto prevalentemente demaniale, esso copre la totalità delle spese. Altrove, i privati sono tassati in misura del costo dei lavori effettuati sui 5 passi, o più, di lunghezza davanti ai loro possedimenti (123). Ma l'esecuzione dei lavori attende ancora due anni. Per pagare la sua parte, nel 1325 il comune chiede un prestito e decide, primo esempio conservato, di ricorrere all'appalto del cantiere (124). Il costo, le modalità e i termini del contratto restano tuttavia sconosciuti.

Gli anni seguenti testimoniano per Venezia un effettivo proseguimento dei lavori. Questi sono spesso complementari all'operazione lanciata nel 1321. Dato che il rio di S. Fosca è stato pulito, si estende la ripulitura a quello di S. Maria Maddalena (125). A S. Zulian, S. Cassiano, S. Stae o S. Maria Mater Domini, al contrario, le operazioni prendono il via dai canali fino ad allora trascurati. Nei primi decenni del XIV secolo la ripetizione, anche circoscritta, dello scavo davanti alla loggia di Rialto testimonia la rapidità dell'interramento (126).

Evocando una competizione tra botteghe specializzate, l'appalto del 1325 provava tanto l'esistenza di una notevole quantità di mano d'opera impiegata in questi lavori quanto la relativa normalità di questi interventi nella laguna e nella città. Però in questi anni i rarissimi documenti ci permettono di conoscere solo imperfettamente l'organizzazione del lavoro. Alcuni ingegneri sono impiegati dall'ufficio del piovego. Reclutati dall'ufficio, senza che si conosca la portata della loro formazione, essi forniscono consulti su tutto quanto riguarda il regime delle acque (127). Dirigono i lavori, ispezionano i cantieri quando il piovego li concede in appalto. Dipendono da un "protomagister": nel 1360 Nicolò Albizio (128). Gli ufficiali inoltre assumono e retribuiscono degli operai, "cavatores", diretti da un "superstans".

Le squadre di operai hanno a disposizione un materiale rudimentale. Si utilizza essenzialmente la pala, anche se le macchine sembrano essere state impiegate in città e nella laguna fin dal XIV secolo. Tuttavia non è possibile precisare niente sulla natura di queste prime draghe. Nel 1360 il canale che raggiunge Mestre, tra S. Giuliano e S. Secondo, necessita di un nuovo scavo (129). La città vota allora l'edificazione di tre piccoli pontoni, poi riduce la sua commessa a due costruzioni, ma di dimensioni superiori, e vi aggiunge rapidamente un "pontonus magnus" per operare sul canale di S. Marco (130).

A quella stessa data un quarto congegno opera nelle darsene dell'Arsenale. Nei mesi che seguono, l'utilizzo di queste zattere è confermato. Il senato, trattando delle ripuliture in corso, fa trasportare gli sterri sul cordone litoraneo. Oppure, di fronte all'urgenza dei lavori da compiere nello Stato da mar, la stessa assemblea decide d'inviare in Istria, con le barche e le "res aptandae ad cavandum", due piccoli pontoni. L'Arsenale costruisce queste piattaforme e i suoi procuratori ricevono, per la commessa del 1361, 1.000 ducati al mese fino al compimento dell'opera (131). Gli stessi procuratori conservano questo materiale tra un'operazione di pulitura e l'altra. Prima di questa serie di testi, non sappiamo niente dell'attrezzatura. È nominata soltanto la flottiglia di barche che evacuano il fango. Quando, per dimensione o numero, le operazioni di ripulitura superano le possibilità dell'ufficio, queste vengono appaltate.

Troppo spesso lacunose o allusive, queste informazioni confermano il profilo cronologico dei lavori pubblici. All'intensa attività dei primi tre decenni del XIV secolo fa seguito una lunga pausa. Lo sforzo di conservazione e manutenzione della rete dei canali è dunque certo e implica, sotto l'autorità del comune e dei magistrati da questo delegati, fino alla rottura degli anni '40 del Trecento, un reale sforzo finanziario delle contrade e dei privati.

A questa prima fase della politica urbanistica del comune veneziano, per determinante che sia per la gestione dell'organismo cittadino, si affianca negli stessi anni un fenomeno più radicale di trasformazione del sistema dei collegamenti. I molti cantieri che interessano strade, banchine e ponti sconvolgono l'equilibrio delle vie di comunicazione. Anche in questo caso è evidente la continuità con gli ultimi tre decenni del secolo precedente. Ma agli inizi del XIV secolo è possibile distinguere un'accelerazione che trasforma realmente il sistema dei collegamenti e, con questo, l'organizzazione stessa del tessuto urbano.

La nuova rete delle comunicazioni terrestri

Nel 1315, è dato mandato ai signori di notte di ispezionare l'insieme delle vie terrestri e di ordinare il rifacimento di tutte quelle che, avvallate, con la pioggia si riempiono d'acqua e d'immondizie rendendo difficile il passaggio (132). I pubblici ufficiali possono, con la stessa competenza, esigere la riparazione delle strade private. Nel 1317 dispute e controversie rallentano l'andamento dei lavori nella città e la suddivisione degli oneri finanziari blocca ogni progresso. Queste difficoltà d'applicazione provano pur sempre che all'esame del 1315 è stato dato un seguito concreto e mostrano il rilevante numero di cantieri aperti (133). Nel 1320 l'acqua e il fango, che piova o meno, intralciano la circolazione a S. Samuele e S. Angelo. Il riattamento deve essere effettuato entro un anno (134). Nel 1331 i magistrati decidono il restauro, ai SS. Giovanni e Paolo, dell'asse della Barbaria de le Tole (135). Nel 1340 e 1341 vengono migliorati i collegamenti nella contrada di S. Bartolomeo (136).

Questa serie di esempi riflette anzitutto l'importanza dell'attività in questi anni. Gli archivi dei signori di notte sono lacunosi. A meno di difficoltà particolari - problemi di finanziamento o interferenze con la proprietà privata che, come nel caso della Barbaria de le Tole, comportano il ricorso alla competenza del maggior consiglio - le conseguenze concrete dell'atto del 1315 non sono visibili. In nome di una necessaria armonizzazione tra i lavori intrapresi sulle strade, le banchine e i ponti, i signori di notte sano responsabili della totalità dei cantieri. Dunque attraverso le decisioni del maggior consiglio si delinea un vero e proprio progetto d'insieme. Per quanto solo un'infima parte delle realizzazioni possa essere inquadrata storicamente, nondimeno si deve sottolineare la logica della prospettiva comunale.

Ai pubblici ufficiali spettano la decisione e il controllo dei lavori. Le competenze vengono allora divise tra parecchi organi. La tutela delle strade è affidata ai signori di notte (137). Questi decidono dei lavori ma, per una migliore esecuzione, ne delegano la sorveglianza concreta all'autorità locale dei capicontrada (138). La ripartizione delle spese spetta a questa stessa magistratura dei signori di notte, ma nel 1317 a S. Moisè gli ufficiali del piovego si affiancano loro per procedere alla stima. Dall'ambizioso programma del 1341, operante sul collegamento S. Bartolomeo-S. Giovanni Grisostomo, risulta l'elezione da parte della signoria di savi che, entro un mese, giudichino sugli espropri e sui loro compensi (139).

A Rialto e a S. Marco queste giurisdizioni ordinarie sono sospese a favore delle magistrature responsabili di queste due isole: procuratori di S. Marco, ufficiali di Rialto, poi provveditori al sale quando questi ultimi si sostituiscono all'ufficio precedente. L'autorità generale del piovego sulla proprietà pubblica spiega inoltre la presenza episodica di questi magistrati a fianco dei signori di notte. Poiché questi ultimi agiscono nei limiti del loro sestiere di appartenenza, i capicontrada seguono quindi logicamente le operazioni nel quadro della circoscrizione di base. Questa semplice descrizione delle strutture amministrative prova la realtà dello sforzo d'inquadramento e, col numero e l'efficacia dei suoi agenti, mostra l'ampiezza della politica urbanistica comunale.

Se la "via communis" costituisce sicuramente il principale campo d'intervento di questi pubblici ufficiali, questi ultimi possono anche esigere che la strada privata, fangosa, malandata, impraticabile, venga riparata. Dunque l'azione del comune non si riduce alla sola rete delle vie pubbliche. In questi decenni l'interesse della comunità, così definito, passa per la generalizzazione della manutenzione e la sistematica difesa della viabilità. In tal modo i diritti del privato si assottigliano e gli obblighi finanziari che pesano su tutti i proprietari impongono il rispetto nei confronti di queste magistrature comunali sempre più potenti.

Agli inizi del XIV secolo le modalità del finanziamento hanno acquisito una reale stabilità. L'onere della via pubblica, da riparare o lastricare, è a carico dei proprietari (140). Se il lavoro concerne una via maggiore, destinata ad un rifacimento completo che comporti costi considerevoli, la contrada, attraverso la comunità dei proprietari, sostiene le spese (141). Nel caso in cui l'arteria serva due parrocchie, la somma viene divisa tra queste (142). Quando il comune è direttamente interessato alla realizzazione vi partecipa finanziariamente. Il principio di questa imposizione - il "getum" -, adattato alle circostanze e alla natura dei cantieri, resta costante. La contribuzione si calcola dunque secondo gli estimi della proprietà immobiliare e il loro aggiornamento regolare determina, per tutto il periodo esaminato, la quota-parte di ogni proprietario. I "vicini" si sottomettono a questa contribuzione. Quando l'interesse del sestiere e il decoro della città giustificano il rifacimento o la pavimentazione di una strada la maggior parte di loro sostiene la petizione della contrada. Questa assicura allora i lavori e la manutenzione futura. Nel caso contrario i proprietari sono costretti a pagare, anche se a malincuore, il rifacimento della strada che essi non hanno deciso.

L'esempio dei lavori nella Barbaria de le Tole rivela nel 1331 (143) tanto il dominio crescente dei magistrati di tutela quanto i negoziati che accompagnano l'intervento pubblico. La via si prolungava fino alla laguna con un tratto di strada privata. Si dà inizio ad un riattamento globale. Il "getum" finanzia la totalità dei lavori sui due spazi, pubblico e privato. Questa concessione finanziaria comunale assicura al privato solo una vittoria apparente e a lungo termine la confusione amministrativa minaccia lo statuto della strada privata. Altri esempi, fuori dal demanio comunale, illustrano questa generalizzazione del ricorso ai pubblici ufficiali. Per allargare di un piede una delle loro calli, i Morosini e i Duodo sollecitano un'autorizzazione preliminare (144). Volendo riunire, per un miglior uso, due stradine private, Marco Marino e il priore di S. Maria dei Servi chiedono e ottengono un permesso, ma la strada così costituitasi diviene pubblica (145). Si può dunque constatare come il privato rinuncia a una parte dei suoi diritti a favore del pubblico, a beneficio di una migliore armonia tra l'edificato e gli uomini. L'ordine urbanistico si presenta come un'opera collettiva.

I lavori su banchine e ponti concorrono alla decompartimentazione e all'unificazione ed evidenziano questa nuova supremazia della via terrestre nella circolazione degli uomini. Ovunque i capisestiere ricevono il potere di far riparare le "ripae fractae" (146). L'irregolarità della riva nuoce al corso del rio. A S. Croce ai "vicini" convocati viene dunque ingiunto di rettificarne l'allineamento (147). Nel canale di Castello, la forza della corrente attacca il terrapieno poco solido. I giudici del piovego si consigliano con l'ingegnere del loro ufficio e, dopo aver riunito i "vicini", autorizzano l'edificazione di un piccolo sbarramento che moderi la portata delle acque (148). Altrove, quando la riva sprofonda e l'accesso terrestre diviene impossibile, un trasporto di terra permette la colmatura (149).

Gli aiuti accordati ai monasteri e alle comunità del ducato servono a consolidare le rive erose dalla corrente. Quando i conventi dei SS. Filippo e Giacomo, di S. Marta o di S. Michele di Murano si mostrano incapaci di far fronte alle spese, i consigli votano un sussidio (150). Il comune consente anche un prestito alle isole della laguna che non possono intraprendere le riparazioni necessarie. Attraverso le grazie, il maggior consiglio riduce le ammende di coloro che sono condannati dal piovego, dei proprietari che, malati o poveri, non hanno dato inizio al restauro entro i termini previsti (151). Queste molteplici tracce documentarie evidenziano, anche indirettamente, il numero di lavori in corso nello spazio veneziano.

Con la bonifica, nei settori prosciugati si moltiplicano le banchine. I permessi e le sovvenzioni mostrano la tenace avanzata dei lavori. Così avviene a Castello, davanti al monastero di S. Anna e a S. Catarina dei Sacchi, sul rio omonimo (152). A S. Angelo Raffaele la fondamenta viene allargata di tre passi (153). A S. Eufemia della Giudecca viene ricostruita in pietra (154). Altrove, su 20 passi di lunghezza, si apre un primo passaggio fino al canale, avvio di migliorie future (155). Le numerose autorizzazioni ripetono prescrizioni identiche che unificano questi esempi aneddotici. A S. Agnese, sul Canale della Giudecca, Rugiero Belobon deve allineare la propria banchina sull'esempio dei "vicini" (156). Marino Storlado lavora "diretto tramite ab uno capite in aliud" (157). Le preoccupazioni che presiedono l'organizzazione dello spazio in questi territori prosciugati si esprimono anche nelle zone di antica urbanizzazione. Ai SS. Apostoli i fratelli Trevisan possono sistemare una banchina "equaliter [...> recta linea" (158). Per la costruzione di Domenico Dolfin a S. Salvador vengono fissate le misure della vicina fondamenta Bembo (159). Pietro Alberegno non rispetta il prescritto allineamento dei lavori e viene condannato (160). All'origine della grazia sta un'unica constatazione: la banchina non è diritta, "non vadat recto tramite, non est rectum [...>" (161).

Malgrado le difficoltà ambientali, l'attenzione per la linearità caratterizza dunque il paesaggio e si diffondono banchine senza sinuosità né sporgenze. A S. Margherita nuove fondamenta bordano il rio che segna il confine con S. Barnaba. Alla fine dei lavori, si sopprime un ultimo tratto in cui l'acqua ristagna e dove si deposita la sporcizia (162). Da quel momento le acque possono circolare più liberamente. La regolarità del paesaggio progredisce e quando la costruzione avanza sulla melma e sull'acqua del canale, la nuova fondamenta, sebbene finanziata dal privato, estende vieppiù il demanio pubblico (163). Ormai di pietra, la banchina sostituisce la riva. Ma nella maggior parte dei casi essa costeggia solo uno dei lati del canale, per conciliare la nuova circolazione terrestre con l'attività della via d'acqua e le necessità del carico e dello scarico delle mercanzie.

La moltiplicazione dei ponti accentua questo sconvolgimento del sistema dei collegamenti e la cronologia delle costruzioni conferma la sequenza già individuata dall'esame degli altri lavori. Nel 1315 signori di notte dirigono il cantiere di tre ponti nella contrada di S. Angelo Raffaele (164). A S. Sofia nel 1316 il ponte che permette di accedere alle Chiovere sprofonda. La comunità parrocchiale chiede di poter procedere ad un immediato restauro (165). La riparazione della struttura di S. Giovanni in Bragora inizia nel 1318 (166). Nel 1320 i signori di notte devono decidere entro quindici giorni a chi spetti il restauro del ponte della Bissa (167). L'onere finanziario è a carico della comunità di S. Giovanni Grisostomo. Nel 1330 si nota la ricostruzione di un ponte tra S. Marina e S. Maria Formosa e quella di un'altra passerella in quest'ultima contrada (168). Per prolungare la strada pubblica, tracciata fino alla chiesa parrocchiale, nel 1337 viene costruito un ponte sul rio di S. Barnaba (169).

Parallelamente, negli stessi anni si moltiplicano le costruzioni private. La domanda di grazia è subordinata all'ispezione del piovego, secondo le procedure già analizzate. Solitamente il maggior consiglio vota il permesso nelle modalità prescritte (170) e i rari esempi di rigetto non esplicitano le ragioni di un simile verdetto. Due permessi nel 1305, ancora due nel 1310, uno nel 1324, 1326 e 1329, tre nel 1330, una grazia nel 1333 e 1334, due nel 1335 e 1336, tre nel 1338, cinque nel 1339, una nel 1340, due nel 1342, tre nel 1345… L'andamento delle costruzioni sembra inizialmente vivace, come mostrano, anche se lacunosamente, i registri delle grazie.

La passerella privata, gettata al di sopra del rio per un accesso più rapido alla casa, sbocca sulla fondamenta pubblica. Quasi altrettanto frequentemente, l'"ala pontis" si raccorda ad una struttura vicina. A S. Trovaso, S. Zuanne Novo o S. Canciano, la costruzione, ridotta talvolta a pochi gradini, raggiunge in tal modo un ponte pubblico (171). Altrove le grazie documentano il raddoppio o la triplicazione graduale delle passerelle private. Le particolarità morfologiche di certi complessi immobiliari favoriscono la concessione del permesso da parte del piovego. Così avviene per due gruppi di case separati da un canale. Il primo è costruito su una riva dipendente da S. Maria Mater Domini, il secondo sorge sull'altro lato della via d'acqua, a S. Stae. La grazia autorizza il proprietario a realizzare il collegamento delle due rive (172). Nella sua finalità, la struttura è più simile a quei passaggi, costruiti al primo piano, sopra la strada, tra due corpi di uno stesso edificio. I permessi di costruzione li descrivono, il patrimonio immobiliare li conserva. Alla Giudecca un rio separa talvolta le case dei conciatori dagli edifici annessi, riservati all'esercizio della loro arte. La passerella risolve la difficoltà (173).

A parte queste eccezioni, i ponti privati, voluti dai proprietari, e da questi costruiti e mantenuti, raggiungono lo spazio pubblico. Sempre più numerosi, essi sottolineano i progressi ormai incontestati della via di terra. Mostrano, quando la banchina costeggia una sola riva, se un rio separa gli edifici dalla strada o dal "campo", la necessità di raggiungere la pubblica via, di dotare la casa di un altro accesso terrestre. Il ponte regola gli equilibri, risparmia i lavori più sistematici e costosi che una banchina comporterebbe, assicura la sopravvivenza dell'entrata per via d'acqua. Le altezze, calcolate con cura e dopo attento esame dai magistrati del piovego, proteggono la circolazione sui canali. Con la serie di costruzioni che attraversano i rii, la città organizza un'armonia, cronologicamente definita, e assicura non tanto la transizione da un sistema di comunicazioni ad un altro, quanto una coesistenza dei modi di circolazione terrestre e acquatica, con una ripartizione coerente delle rispettive funzioni.

Privati o pubblici, i ponti partecipano di uno stesso schema spaziale e sottolineano il nuovo peso dei collegamenti via terra. Con diversa portata, il loro è un ruolo unificatore. Richiesta e pagata dalla contrada, la struttura assicura la congiunzione di due parrocchie e crea un "iter publicum", ormai indispensabile. Edificata dai privati, la passerella salda la casa al resto dell'agglomerato e il ponte privato non ha allora altro scopo che quello di facilitare la comunicazione tra lo spazio domestico e il territorio urbano, pubblico.

È possibile dunque individuare un periodo nel corso del quale il comune, le contrade e i proprietari privati riorientano i flussi della circolazione a Venezia. Lo sconvolgimento introdotto durante i primi decenni del XIV secolo modifica la concezione, comune fino ad allora, di vicinanza e di lontananza, così come i meccanismi degli itinerari. Prolunga e sviluppa le realizzazioni degli ultimi decenni del XIII secolo, imperfettamente messe in luce dalla documentazione pubblica, ma già numerose come provano le transazioni immobiliari e le precisazioni in esse contenute relative agli accessi alla casa. Quella che opera nel corso di questa fase attiva della politica urbanistica è dunque una trasformazione sconvolgente. Queste modificazioni, che comportano utilizzi diversi dello spazio, sono il segno dell'affermarsi del potere politico sulla città. Condizioni dell'adattamento di Venezia al proprio sviluppo, esse traducono e accelerano l'evoluzione sociale. Rese necessarie dalle funzioni economiche veneziane, le favoriscono. Permettendo il declino delle frammentazioni urbanistiche e sociali, contribuiscono alla formazione di una città unitaria.

L'intervento del comune sull'organismo urbano non si misura solamente sulla scala dei cantieri pubblici. L'azione pubblica sembra assumere meno rilievo quando concerne, attraverso molteplici regolamenti, la gestione quotidiana del "corpo" della città. Tuttavia, l'abbondanza degli atti pubblici mostra l'ampiezza del campo regolamentare e la tenacia dello sforzo amministrativo. Contro lo sgretolamento dei diritti e gli abusi dei privati, la legislazione urbana descrive il progressivo successo di un'autorità decisionale. Talvolta inoperante, soggetta a compromessi più o meno netti, si instaura una gestione centralizzata dell'organismo urbano.

La gestione dell'organismo cittadino

Primo asse dell'intervento, i magistrati del comune proteggono lo spazio pubblico contro le usurpazioni dei privati. Gli effetti delle delibere pubbliche si possono vedere nei giri d'ispezione dei magistrati, nelle ammende e nelle deroghe che questi ultimi infliggono o tollerano. Si delimita allora una prima geografia d'applicazione delle misure pubbliche.

La legislazione urbana e la ridefinizione delle sfere del pubblico e del privato

Quando si tratta di frenare la proliferazione di tende e cavalletti, di tutte le strutture leggere che prolungano la bottega o installano la bancarella sulla carreggiata, gli ufficiali infliggono punizioni, con diversa fortuna, a Rialto, a S. Marco, nelle Mercerie. L'amministrazione del mercato è causa di molte limitazioni, già segnalate. Così nel 1345 l'Arte dei merciai, nella sua totalità, viene condannata dall'ufficio del piovego. Il ritorno d'attività commerciale e l'afflusso di visitatori per la fiera dell'Ascensione non giustificano la posa di tettoie di tela, tuttavia il maggior consiglio concede una riduzione della pena (174). Nel giugno dell'anno seguente una grazia equivalente rivela, per motivi identici, l'attenuazione di una stessa pena pecuniaria (175). Merciai e calzolai vengono ancora puniti individualmente quando espongono le loro mercanzie sulla sporgenza di una bancarella a S. Zulian o S. Bartolomeo (176). Nei mercati parrocchiali, nelle strade in cui si effettuano i normali commerci le magistrature operano più discretamente. Fuori dalle zone centrali non c'è traccia d'ammenda. Venezia protegge solo le piazze essenziali della funzione economica.

Il dispositivo sembra più repressivo contro le usurpazioni stabili. I banchi, ai quali i portici della Merceria sono stati interdetti fin dal 1269, dopo il 1303 in ogni "via communis" cadono sotto i colpi di un costante divieto. I regolamenti si rivolgono allora alle numerose iniziative della costruzione privata, a quei paramenti di pietra e legno che prolungano l'edificio, stabilendo tutta una gerarchia di proibizioni e concessioni.

Di città in città statuti e regolamenti si rivolgono più comunemente contro certe usurpazioni. A Venezia i balconi ornano la facciata principale che si apre sul canale, la fondamenta o il "campo". I permessi di costruzione ne limitano le dimensioni solamente sulle stradine più strette. I portici riducono solo in modo discontinuo la larghezza della calle e i permessi dei magistrati del piovego richiamano assai eccezionalmente una tale struttura (177). A Murano, caso unico, le autorizzazioni formano una serie, ma le costruzioni, benché vicine, non sono necessariamente contigue. La prossimità non unisce i portici e le loro aperture intermedie. A Venezia l'altana è severamente regolamentata. Questa terrazza di legno (178) costruita sopra i tetti è sottoposta, quando essa domini la terra e l'acqua pubblica, al divieto del piovego. La competenza originaria di questi magistrati viene ulteriormente rinforzata da un atto votato nel 1316 che precisa le ragioni di questa proibizione. Più che strapiombare l'altana tende verso l'alto e dunque l'usurpazione invocata non sembra manifesta. Il pericolo che queste costruzioni farebbero correre ai passanti per eventuali cadute o sprofondamenti influisce solo secondariamente sulla richiesta di demolizione.

Quando il corpo del portico, e in misura minore quello del balcone o del "liago", prolungano la costruzione sulla strada e sfumano le frontiere del pubblico e del privato, l'altana riproduce in altezza lo stesso modello. Se le arcate, le colonne, le balaustre, le imposte debordano e invadono, se restringono la carreggiata con il grave rischio di impedire la circolazione, di nuocere all'estetica, di creare disordine, la molestia causata dall'altana è di diverso tipo, non complica la circolazione o il trasporto. In questo caso non contano le esigenze, frequenti nella città medievale, del passaggio delle carrette o di un uomo a cavallo. La legge condanna la natura stessa di questa terrazza e le sue caratteristiche di appendice.

Nel periodo considerato tutti gli statuti urbani esaminano, con prolissità variabile, gli intralci e le costruzioni abusive. Nelle città in cui sono conservate più redazioni statutarie è possibile misurare le modificazioni dell'area geografica prevista per l'applicazione di queste misure. L'importanza della città, la sua morfologia, giustificano sicuramente il numero relativo dei capitoli e la maggior quantità di ingiunzioni presenti a Bologna o a Parma. Tuttavia tutti gli statuti espongono la stessa necessità del "comode ire et redire". La città amministra in maniera identica la "via publica".

A Venezia la legislazione è sottoposta a questa interpretazione generale. Le condanne colpiscono in serie le terrazze. Attraverso queste si osserva la realtà dell'applicazione delle pene. I registri delle grazie conservano numerose remissioni di pena, complete o parziali, accordate dopo una sanzione del piovego. Talvolta un voto del maggior consiglio sopprime l'ammenda - 100 soldi nel corso di tutto il secolo - o la riduce a 20 soldi, ma questo favore è subordinato all'impegno per una rapida demolizione (179). La grazia non mitiga la totalità delle condanne pronunciate. Lo stesso numero di queste remissioni rivela allora lo zelo dei magistrati pubblici e la realtà delle loro ispezioni. Nel 1329, affinché nessuno possa più invocare la propria ignoranza, gli ufficiali comunali fanno proclamare dovunque l'interdizione delle terrazze (180). Nel giugno dello stesso anno le grazie riducono due contravvenzioni inflitte nella parrocchia di S. Basso (181) e nel settembre, altre due che interessano S. Apollinare (182). Nel maggio 1344 tre altane vengono condannate a S. Basso (183), nel giugno due a S. Stae (184). La ricomparsa delle pene testimonia dunque una volontà di sradicamento.

Nella seconda metà del XIV secolo l'ondata repressiva sembra rallentare per estinguersi nel secolo seguente. Come provano sia migliaia di atti pubblici o privati sia le pitture della scuola veneziana, l'altana è allora una costruzione comune, costitutiva del paesaggio della città. Con essa resiste un elemento architettonico originale e le abitudini che questo comporta.

Agli inizi del XIV secolo la legislazione comunale esprime pur sempre, nelle rappresentazioni del potere, una definizione più chiara degli spazi rispettivi del pubblico e del privato. Il settore pubblico acquisisce una nuova consistenza. In cerca di una delimitazione fisica quanto giuridica dello spazio pubblico, l'autorità sanziona tutte le sporgenze "super rivum", "supra viam communem", "super piscinam", che mettono in pericolo la frontiera tra i due settori e sono espressione dei rinnovati abusi del privato.

Gli sforzi per rendere effettiva l'introduzione della licenza di costruzione illustrano in altro modo questo tentativo di controllo della costruzione privata. Secondo gli statuti veneziani, nel caso in cui costeggino il demanio pubblico, strada o calle, i lavori sono sottoposti a un'autorizzazione preliminare. Quando le trasformazioni, di portata consistente, operate dai Bollani toccano una zona centrale, attorno al fondaco dei Tedeschi, il maggior consiglio elegge un collegio di cinque saggi per definire i diritti rispettivi e le proprietà del comune e del nobile casato (185). Se il cantiere è di dimensioni minime, per questo incarico sono sufficienti gli ufficiali del piovego. Ancora una volta, le grazie permettono di seguire la realtà della pratica e i suoi limiti in quanto esse mitigano la punizione che colpisce i proprietari negligenti, tutti coloro che demoliscono o costruiscono "sine licentia" (186). Prima di eseguire la commessa, i capimastri sono sottoposti a questa "licentia". Se il loro lavoro non è stato prima autorizzato, muratori e carpentieri sono considerati responsabili e pagano delle ammende fisse (187). Una pena di 100 soldi colpisce ugualmente il cliente e gli artigiani assunti. Talvolta il maggior consiglio riduce la somma a 10 o 20 soldi (188).

Le serie di licenze individuano così delle sequenze cronologiche. Ai lavori regolari di manutenzione fanno seguito alcune modifiche che, a ondate, trasformano il patrimonio immobiliare. Per prime compaiono costantemente le ricostruzioni dei muri. La città concede alcuni piedi di terreno comunale, una frazione di "campo", a beneficio di una chiesa o di un monastero, per il servizio della fede (189). Più spesso, anche ai fini dell'allineamento con gli edifici vicini, la rettifica viene monetizzata. L'avanzata sul rio o sulla calle, sempre minima, si ottiene solo dietro indennizzo (190). La relativa frequenza di queste domande conferma la diffusione di una nuova attenzione verso il rigore e contemporaneamente getta luce sulle tappe della diffusione di una politica urbanistica. Le petizioni che sollecitano una rettifica "recto tramite", che reclamano di "equare" i distacchi di un muro di recinzione o di raddrizzare un edificio "obliquus" (191) riproducono, con un leggero ritardo, le norme imposte dall'autorità pubblica nelle zone prosciugate. Esse segnano l'appropriazione collettiva dei criteri, inizialmente imposti dagli ufficiali comunali, che ridefiniscono l'estetica urbana.

Un esempio concreto di queste modifiche si ha nei primi anni del XIV secolo, quando numerose concessioni provano i progressi dell'installazione delle grondaie, o più esattamente della sorveglianza comunale su questi lavori. Una licenza di costruzione, accordata nel 1294, stabilisce le regole allora in vigore (192). Riferendosi a licenze precedenti, che non ci sono pervenute, questa evoca il pagamento di un'indennità prefissata e costituisce, insieme ad alcuni articoli del "capitulare" dei magistrati "super canales, rivos et piscinas", la prima traccia documentaria concreta. Il "proicere canes extra", limitatamente ad un'opera di due piedi e mezzo, designa dapprima la gronda e la doccia (193). La precisione "ponendo gornas", caratterizza le licenze del decennio 1320 (194). Nei documenti ben presto il secondo termine si sostituisce al primo per applicarsi alla totalità dell'apparato: "compiere in gurnis", "ponere in gurnis". In cambio dei soliti 100 soldi dovuti alla "ratio comunis", i proprietari ottengono il diritto alla sistemazione. Tuttavia l'installazione della grondaia sul canale non giustifica il suo sfocio diretto nel rio (195).

Le prime serie di licenze interessano ampie case-fondaci sul Canal Grande oppure le residenze dei nobili nelle contrade. Dapprima sembra essenzialmente interessata la costruzione nobiliare. La posa delle grondaie (o, per questi edifici residenziali, il loro probabile restauro o ricostruzione in pietra) accompagna allora spesso altri lavori che la grazia descrive dettagliatamente o segnala allusivamente (196). Tali menzioni testimoniano un attivo ringiovanimento del patrimonio immobiliare nei primi decenni del XIV secolo stimolato dal comune. Dopo il 1334 il maggior consiglio esige che tutte le case di nuova costruzione ne siano dotate. Gli ufficiali del piovego, incaricati del controllo, infliggono ai contravventori la solita ammenda. L'autorità pubblica dà l'esempio nel 1341 a Rialto (197). Sui territori bonificati, quando l'urbanizzazione fa seguito alla conquista del suolo (198), nelle contrade dove si ricostruisce e dove si diffondono le coperture di tegole (199), la "gorna" entra a far parte del paesaggio urbano. La grondaia non serve solo a disciplinare lo scorrimento delle acque, ma fa parte anche del sistema di approvvigionamento idrico. I condotti alimentano il pozzo, privato, situato nel cortile, o comunitario e utile al gruppo delle case vicine. La storia della "gorna" si pone allora tra le mutazioni generali dell'approvvigionamento e della distribuzione dell'acqua nella città alla fine del medioevo.

Anche la ristrutturazione della porta terrestre, della scala e del camino è subordinata alla licenza comunale. Così, per quanto indispensabile all'apertura delle finestre sulla calle o sul canale, l'accordo pubblico è meno vincolante per tale apertura che non per le cornici di pietra, l'avanzata dei colonnati e tutte le arcature della costruzione gotica. Alcune sanzioni colpiscono le ristrutturazioni abusive, accentuando ancora con la loro datazione la clamorosa singolarità dei primi decenni del XIV secolo (200).

Senza dubbio si devono rilevare anche delle deficienze del controllo pubblico. Così le licenze e le condanne sparse che concernono la costruzione di camini mettono in evidenza queste debolezze. Apparentemente gli ufficiali rilasciano sempre l'autorizzazione quando misurano la sporgenza del muro esterno che racchiude focolare e condotto. La rarità degli esempi conservati non può rinviare solo alle lacune della documentazione. Il camino è al centro di innumerevoli processi civili che mettono in causa il vicinato e la comproprietà. I quadri di Bellini, Carpaccio o Mansueti, anche se non descrivono necessariamente una Venezia reale, manifestano tuttavia la diffusione incontrastata dei camini, il loro numero come la loro ricchezza decorativa. Per quanto largamente distribuito, il permesso comunale doveva essere poco sollecitato. Allo stesso modo gli atti pubblici ignorano apparentemente le cornici che, scandite da modiglioni, circondano massicciamente gli edifici. Essi non si occupano neppure dei motivi scolpiti che, all'angolo delle case, mascherano in parte lo spigolo, come una colonna o, per i più decorati, l'immagine di un santo protettore.

Tuttavia queste restrizioni producono solo piccoli mutamenti. La legislazione urbanistica, pur conosciuta imperfettamente e piena di falle e lacune, nondimeno cristallizza i rispettivi domini del pubblico e del privato. Al dinamismo dei prosciugamenti urbani, all'impresa pubblica sulla rete delle vie di comunicazione, corrisponde cronologicamente una netta vigilanza sull'applicazione dei regolamenti urbanistici. Gli ufficiali responsabili sono presenti nella città, sorvegliano e giudicano. Se i criteri che guidano la loro azione sono stati elaborati oltre mezzo secolo prima (lo prova l'istituzione delle diverse magistrature), gli anni 1290-1340 vedono svilupparsi l'intervento comunale, non più solo in alcuni cantieri centrali ma nell'intera città. La piazza, la strada, il canale, nella loro costituzione fisica come nella loro difesa quotidiana, rientrano nel campo del potere politico. L'autorità pubblica intende controllare almeno una parte dell'edificato, delle strutture materiali della città. Nelle ripetizioni del discorso normativo veneziano si possono cogliere nuove regole spaziali. Le loro conseguenze sociali sono pesanti, modificàndo nel lungo periodo i comportamenti all'interno della città.

La nascita di un programma d'igiene pubblica

La relativa attenzione all'igiene traduce ancora, con l'imposizione di norme più ferme, la ridefinizione della differenza tra tollerato e insopportabile e, con questo cambiamento concettuale, una nuova economia dello spazio. Agli inizi del XIII secolo era stato proibito lo sfocio diretto dei condotti di scarico. Nel 1315 il maggior consiglio riprende e precisa questa disposizione (201). La ripresa di questa misura, nel pieno dei decenni fecondi della politica urbanistica, conferma la lunghezza dei tempi d'applicazione. L'assemblea esige il rifacimento entro un mese del sistema dei collettori. Lontano dal canale, sulla pubblica via, le deiezioni devono confluire in una fossa coperta. Sulla via d'acqua lo sfocio diretto, proibito, deve essere sostituito da un condotto sotterraneo. Nel dicembre dello stesso anno il termine fissato per il compimento dei lavori viene spostato alla Pasqua successiva mentre i primi contravventori puniti vengono graziati (202).

La diffusione di queste prime regole igieniche, che si possono rintracciare nei corpi statutari italiani contemporanei, sembra difficile a Venezia. Le grazie descrivono la conformità di alcuni lavori, che comportano allora delle canalizzazioni sotterranee che colleghino, "de subtus viam communis", i condotti delle latrine al rio più vicino (203). Più spesso i magistrati condannano il mantenimento delle vecchie fognature o il rifacimento dei collettori che lascia in funzione il vecchio sistema. D'altronde, anche se interrate, le canalizzazioni non risolvono tutti i problemi. Nel XIV secolo il legno costituisce il materiale più utilizzato, quindi i condotti necessitano di una continua manutenzione. Inoltre, spesso sui canali le bocche delle fogne sono coperte solo dalle maree più alte. Dato che l'acqua e le correnti purificatrici le raggiungono solo irregolarmente, esse contribuiscono all'inquinamento dell'aria. Oltre ai perniciosi miasmi, la sporcizia e la melma che queste scaricano concorrono all'interramento dei canali. Il sistema fognario pesa sul sito. Il progetto amministrativo tende a guidare le forme dell'infrastruttura urbana, ma, nella minuzia delle sue ingiunzioni, esso elabora un modello che le realtà dell'evoluzione delle strutture materiali faticano a raggiungere. Tuttavia, malgrado questo sfasamento, la crescente sensibilità alle necessità dell'organismo urbano così come il peso, qui a mano a mano sempre maggiore, della singolarità dell'ambiente costituiscono dei fenomeni determinanti.

Sono quelle stesse necessità del sito, esplicite sin dalle origini, che decidono delle esigenze di pulizia della città. L'esame della legislazione nelle città del tempo sottolinea ovunque lo stesso abbozzo di un programma d'igiene pubblica e di protezione dell'ecosistema, in nome di un ripetuto appello alla comodità, alla salute, all'estetica urbana. Queste preoccupazioni si ritrovano anche a Venezia, ma subordinate a un oggetto principale, assente nelle altre città. Qui il problema della sopravvivenza della città influisce pesantemente. Quando nel 1295 vota un primo testo generale, il maggior consiglio mette pienamente in luce questa preoccupazione. "Quia propter immundicias que proiciuntur in canalibus et rivis canalia et rivi et portus devastantur" (204). In causa è l'insieme del regime delle acque. Con la sua conservazione si gioca l'esistenza stessa della città.

Per un più stretto controllo della pulizia della città il piovego delega le sue competenze ed elegge tre responsabili in ogni contrada. Più volte per settimana due barche raccolgono le immondizie in ciascuno dei sei sestieri e le trasportano dove questi depositi non possono nuocere alle acque, sui cantieri della bonifica o su una "sacca" destinata ad essere colmata. La tutela amministrativa varia nel tempo. Gli ufficiali di Rialto, quelli addetti al "frumento" e i magistrati del piovego sono successivamente responsabili di queste barche (205). Infine questo compito passa ai capisestiere. Ma l'"habere unam de scaulis" viene anche talvolta attribuito come un favore, uno di quegli incarichi che il comune assegna regolarmente, votando una grazia, a uno dei suoi fidi senza risorse (206).

Condotte inizialmente da un solo uomo e dal suo aiutante, le barche assicurano la pulitura della città (207). All'inizio del XIV secolo a ciascuna barca si aggiunge una squadra di spazzini (208). Fino a questa decisione gli abitanti spazzavano e raccoglievano la sporcizia soltanto il sabato e unicamente sulle vie lastricate. Le decisioni tuttavia distinguono ancora tra i vari spazi e affidano allo zelo delle squadre il "campo" o la "salizzada" (209). Una cura più attenta viene riservata all'ossatura stradale, al sistema degli assi pubblici e, accessoriamente, alle immediate vicinanze delle chiese (210). Prescrizioni particolari riguardano S. Marco, Rialto, i centri dello spazio pubblico (211). Per quanto limitato possa apparire questo primo tentativo di igiene pubblica, nondimeno occorre sottolineare la sua importanza e originalità. Perseguita ovunque, la conservazione della salute della città e dei suoi abitanti assume a Venezia un rilievo speciale a causa della particolarità del sito. Senza analizzare qui le caratteristiche dell'ecosistema e la loro evoluzione, bisogna sottolineare questa preoccupazione veneziana chiaramente ontologica. Con i suoi effetti espliciti sulla sopravvivenza stessa dell'ambiente, questa legislazione trova posto nel sistema di rappresentazione del potere politico. Essa si situa al centro dello sforzo amministrativo.

L'approvvigionamento idrico e la lotta contro gli incendi, altrettanto imperativa, sono evidentemente determinanti per l'organizzazione di una città. L'autorità si confronta qui direttamente con la comunità e i suoi bisogni, mette in atto o controlla un'infrastruttura. Essa si sforza di difendere, di preservare il corpo urbano. Questi due settori della legislazione pubblica sono stati in genere ben studiati. In effetti essi appaiono, quale che sia il loro grado di sviluppo, come due espressioni significative della gestione della città medievale. È nostro intento ricondurli all'interno della più vasta analisi della politica urbanistica per sottolineare la profonda unità di questa amministrazione dello spazio.

L'approvvigionamento idrico

Quando Venezia aumenta il numero dei suoi pozzi, conferendone la cura ai magistrati responsabili delle strade e dei ponti, agisce sull'organizzazione stessa del tessuto urbano. L'allestimento di pozzi supplementari segna le ondate della crescita urbana e, nei settori bonificati, scandisce le conquiste della colonizzazione. Ma la localizzazione precisa di queste opere orienta anche gli itinerari di un quartiere. Gli ufficiali responsabili visitano i ponti e le strade, le banchine e i pozzi. Attraverso un'eguale vigilanza e una manutenzione simile, essi riconoscono lo stretto legame che, al di là dell'identità dello statuto pubblico comune a queste diverse infrastrutture, unisce i differenti elementi della struttura urbana.

Quando il comune affida ai suoi capisestiere la competenza sui pozzi (212), la città dispone già di una vera e propria rete pubblica. Questa viene rinforzata a misura che il pozzo privato si racchiude nei limiti di un cortile domestico, di uno spazio chiuso e riservato, che serve più alla cerchia ristretta degli abitanti di una casa che non a un gruppo di familiari e di clienti. Per la sua destinazione collettiva, il suo essere ancorato al territorio pubblico, il pozzo pubblico partecipa dell'impresa di unificazione urbana. Esso facilita la distribuzione dell'acqua e crea nuovi itinerari.

L'azione del potere politico non elimina la coesistenza dei due accessi all'acqua. Gli atti di vendita citano questo servizio per ogni "domus a statio". Le comunità monastiche costruiscono e riparano i loro pozzi e il primo livello del loro rapporto con la realtà locale coincide spesso con la distribuzione d'acqua che queste cisterne assicurano a un vicinato più o meno vasto (213). Ma sempre più il pozzo, parte della casa nobile, serve esclusivamente alla famiglia. Le divisioni immobiliari che frammentano l'unità abitativa primitiva regolano strettamente gli usi e i diritti "de accipiendo acquam". Dunque la costruzione comunale supplisce alle conseguenze di una tale evoluzione. Agli inizi del XIV secolo il sistema dei pozzi pubblici cambia scala.

Nel 1322, riconosciuta la carenza d'approvvigionamento, il minor consiglio riceve mandato per esaminare la creazione di cinquanta pozzi supplementari (214). Nei mesi che seguono il progetto si concretizza. I capisestiere che, dopo il 1324, sono responsabili dei rifacimenti necessari, su richiesta dei "vicini" avviano un programma di riattamento, sulla base delle somme concesse dal comune (215). Alcune misure d'accompagnamento mirano a proteggere le vere e i loro accessi. Alla fine del 1324 il comune accorda un credito di 1.000 lire di grossi (216). La ripartizione dei nuovi servizi tra le contrade si effettua durante l'inverno del 1325, ma solo la contrada di S. Marziale viene specificamente nominata negli atti pubblici. La distribuzione topografica dei nuovi pozzi resta perciò sconosciuta. Nel 1325 il maggior consiglio decide la sospensione dell'operazione. La deliberazione parla dunque di lavori concreti ma realizzati parzialmente (217). Il programma resta incompiuto. La mancanza di denaro spiega questa interruzione.

Mentre per la strada, il ponte o il canale il "getum" colpisce i proprietari della contrada, in questo caso il comune conduce l'operazione da solo. Il solo onere finanziario non spiega tuttavia il suo relativo fallimento. A S. Marziale, nei settori dell'espansione urbana, il pozzo è associato all'organizzazione della divisione in lotti in corso. Altrove la costruzione è spesso più difficile. I "campi" sono stati attrezzati già da molto tempo. Nelle strade strette gradualmente collegate le une alle altre, il tessuto urbano lascia alle nuove cisterne solo un piccolo margine nelle sue fitte maglie.

La contemporanea ricerca di fonti di approvvigionamento diverse sottolinea queste carenze strutturali. Nel 1318 il maggior consiglio descrive i meccanismi di un secondo sistema di rifornimento d'acqua potabile. I pozzi non sono sufficienti ai bisogni, perciò si trasporta l'acqua dai fiumi vicini in barca. A questa data i battellieri preferiscono al Brenta il meno lontano Bottenigo. Essi non riempiono le barche a monte, ma vanno più vicino, allo sbocco del fiume nella laguna, mettendo così in pericolo la salute pubblica. Il comune progetta perciò un canale di derivazione che, "de bonis locis", senza dubbio dal Brenta, condurrebbe l'acqua potabile verso il bacino di Venezia (218). Il progetto di studio preliminare, con uno stanziamento di 20 lire di grossi, non giunge a termine. Le costruzioni di nuovi pozzi previste nel 1322 costituiscono una risposta parziale a questo insuccesso e all'acuirsi del problema dell'approvvigionamento. Tuttavia i due provvedimenti non devono essere collegati oltre misura. Coesistono due fonti di approvvigionamento e la città intende agire sull'una e sull'altra.

Benché senza effetto, l'atto del 1318 rappresenta per la gestione dell'ambiente, la questione fluviale e lagunare, un'importante tappa teorica. Il rifacimento dei pozzi, ordinato nel 1342, mette ancora in luce la specificità dei problemi veneziani. Gli ostacoli sono qui moltiplicati dalle caratteristiche del sito. Così, se con l'acqua alta le bocche dei pozzi non vengono chiuse in tempo, l'improvvisa invasione dell'acqua salmastra provoca temibili danni. Nel maggio 1342 una subitanea alta marea primaverile rovina i pozzi, senza che gli abitanti abbiano avuto il tempo di mettere in atto le protezioni abituali (219). I capisestiere si dividono 6 lire di grossi per far vuotare le cisterne interessate e pulire la sabbia inquinata per mezzo di immissioni successive di acqua dolce.

La peste blocca l'iniziativa comunale e, anche se il sovraccarico demografico si attenua, aggrava queste difficili condizioni. Fino al XV secolo il progetto di una fornitura idraulica fluviale regolare sembra essere accantonato. Le primitive raccomandazioni sui luoghi d'approvvigionamento migliori vengono dimenticate. Nel 1364 una deliberazione chiede la costruzione di nuovi pozzi (220). Ma, se si esclude questa testimonianza isolata, è ovvio che la politica avviata negli anni 1320 non viene veramente ripresa che nel secolo seguente.

La curva delle decisioni riproduce dunque strettamente i ritmi demografici. Essa illustra anche il grado di autorità e di previdenza del comune come le relazioni, spesso difficili, della città col proprio sito. La distribuzione dell'acqua e le sue modalità permettono inoltre di seguire l'evoluzione delle esperienze spaziali della comunità. La parte dei pozzi privati, di capacità ridotta rispetto alle cisterne pubbliche ma infinitamente più numerosi, continua ad essere preponderante. Nondimeno l'autorità si sforza di aumentare la capacità pubblica, di sovrimporre una seconda rete di cisterne collettive. Si tratta di scelte politiche. La coesione sociale, così come l'onore della città, passa attraverso l'abbondanza d'acqua potabile. Poiché la penuria costituisce una costante minaccia, i pozzi devono, come i mercati, essere strapieni, permettere quella ricchezza celebrata dalle cronache e dagli elogi della città. Inoltre, il numero crescente dei pozzi pubblici fa parte di quei cambiamenti che sconvolgono la morfologia della città. Nel corso di questa fase attiva della politica urbana, essi segnano il tentativo concreto di adattare, imponendo un altro sistema di fornitura dell'acqua, la struttura della città alle sue nuove funzioni.

La lotta contro gli incendi

Anche se le tecniche di costruzione cambiano, compiendo la lavorazione della pietra e delle tegole progressi notevoli, il legno ha ancora una parte predominante. Perciò la città va in fiamme regolarmente. Cronache e atti pubblici permettono di individuare per il XIV secolo una lunga lista di sinistri, per quanto con evidenti lacune.

Il comune offre il suo aiuto finanziario come prima risposta a questa fragilità del corpo urbano. Non potendo sradicare il flagello, l'autorità municipale se ne accolla in parte i danni. La concessione di un beneficio economico, l'esenzione provvisoria dai diritti di dogana o l'assegnazione diretta di sussidi pubblici aiutano i privati come le comunità religiose ad affrontare le spese dei rifacimenti. Se la concessione di parecchie decine di lire ai monasteri o alle comunità della laguna, troppo poveri per riparare i guasti, dipende da una pratica corrente, attestata per altre cause, l'aiuto individuale sembra un elemento più originale. Esso si applica ai privati in difficoltà, ma capaci di far avanzare la loro richiesta nei consigli. Il numero limitato di queste largizioni presuppone all'origine, oltre a veri problemi economici, l'influenza di protettori o di parenti, a seconda dei casi.

Anche la prevenzione e l'organizzazione pratica della lotta animano gran parte dello sforzo pubblico. Il "periculum ignis" legittima per primo il coprifuoco che segna l'inizio della notte ufficiale. La sorveglianza notturna a Venezia è attribuita alle sole forze di polizia. Essa è affidata, come avviene in genere per la guardia diurna, a un corpo di ufficiali retribuiti, quello dei signori di notte. Insieme ad una vastissima sfera di responsabilità, questi ultimi hanno competenza sugli incendi, prevenendo e sorvegliando, reprimendo e punendo. Il fuoco e le sue cause, quando la città tenta di tenerli lontani, appaiono in origine legati alla notte. La necessità del controllo si impone dunque durante tutto il pericoloso tempo in cui gli uomini riposano. La responsabilità che il primo corpo di polizia veneziano esercita sugli incendi, come sulle violenze e gli oltraggi all'ordine pubblico, stabilisce il posto assunto dal fuoco all'interno delle rappresentazioni contemporanee.

Le prime misure di polizia tendono dunque a impedire l'associazione delle tenebre e dell'incendio. A partire dal 1291 il maggior consiglio vieta a merciai, cambiavalute, tagliatori, venditori di frutta e di formaggi, a tutti i locatari di botteghe del comune a Rialto, di tenere accese candele, lanterne o fuochi dopo la "marangona" della sera (221). Nel 1307 la proibizione si estende a tutti i bottegai del mercato, con la sola esclusione di coloro che vi risiedono con la propria famiglia. L'eccezione fatta subito per i barbieri e i macellai (222), confermata nel 1320, a quest'ultima data viene estesa ai venditori di olio e di formaggio (223). Essa dimostra i cambiamenti di una politica e il cedimento delle proibizioni più severe davanti alle esigenze commerciali.

Le grazie che, quasi contemporaneamente, attenuano le sanzioni comminate, precisano questi accomodamenti spiegabili con le necessità del commercio. Un'ammenda di 100 soldi colpisce coloro che lasciano accesa una candela o un fuoco dopo il coprifuoco. Per ottenere una remissione della pena, alcuni citano un permesso che avrebbero ottenuto da uno degli ufficiali di Rialto o da un caposestiere, altri invocano l'urgenza di un lavoro da portare a termine (224). La povertà e gli oneri familiari sono ripetutamente motivo della grazia. La maggior parte dei postulanti avanza solo una pretesa ignoranza della legge senza neppure appoggiare le proprie richieste su circostanze attenuanti (225). Il suono della "marangona" di sera non paralizza la vita del mercato, che continua. A riprova di ciò, nelle prime ore della notte ufficiale la produzione e gli affari proseguono, conferma locale della generale flessibilità del coprifuoco. La coscienza del pericolo - "totus Rivoalto fuisse combustus " (226) - non esclude le deroghe.

La prevenzione non riguarda il solo mercato. I signori di notte hanno pieni poteri di far sgombrare i depositi pericolosi di erba, fieno e paglia (227). Gli isolotti veneziani non impediscono la circolazione a cavallo, regolata dalle deliberazioni comunali. I ponti, con la loro arcatura inizialmente ristretta e la frequente assenza di gradini, si sforzano di conciliare il passaggio delle barche sotto una volta sufficiente e il comodo attraversamento dei cavalli. Nelle strette vie, che le relazioni dei viaggiatori descrivono ingombre e affollate, gli incidenti sono numerosi. Esigenze di sicurezza spiegano così il divieto di circolazione a cavallo nelle Mercerie (228). Nel 1350 la zona vietata si estende al centro di Rialto come alla piazza S. Marco, molto frequentati (229). Ma questa disposizione viene sospesa nel 1358 "pro honore terre" (230). La Piazza resta chiusa ai cavalieri solo nelle festività (231). L'uso del cavallo dunque continua, dimostrando l'importanza per lo statuto sociale di questo animale di prestigio, anche nel quadro urbano meno propizio. Tutto questo spiega perché la scuderia può fiancheggiare la casa o la locanda, infatti i visitatori imbarcano anche i propri cavalli (232).

Se la trama del tessuto urbano si infittisce colmando gli spazi vuoti, nelle contrade periferiche essa ospita ancora delle attività marginali di allevamento. Così a S. Nicolò dei Mendicoli, S. Lucia, S. Geremia o S. Gregorio si trova qualche stalla e il piccolo gregge che fornisce di latte il commercio del "pestrin", o l'unica vacca che una povera donna può, per grazia e contro i regolamenti, allevare (233). Con queste stalle e questi fienili Venezia si espone allora agli stessi pericoli di una città della terraferma e vi fa fronte in maniera simile. Ritroviamo per esempio il banale divieto di coprire di paglia le case nuove, ma a Venezia sembra effettivo visto che per costruire un tetto del genere a S. Trovaso occorre l'autorizzazione di un permesso speciale (234).

Ogni città affronta le conseguenze pericolose di certe attività. Venezia deve confrontarsi con il calafataggio e la carbonizzazione del legno. Secondo le deliberazioni pubbliche, ad eccezione dell'Arsenale, la preparazione della pece è riservata ai cantieri navali più decentrati. I calafati possono bruciare la pece a S. Trovaso, poiché almeno 20 passi separano lo "squero", coperto di tegole, da ogni abitazione. Viene votata una stessa concessione a S. Marziale, dal momento che l'acqua lambisce il cantiere su tre lati (235). Tale spartizione secondo le contrade presenta indubbiamente delle eccezioni, dato il numero degli "squeri". Nondimeno essa costituisce la prova di una reale attenzione alla prevenzione.

Gli atti normativi danno inoltre disposizioni per la lotta contro il fuoco. I signori di notte e i capisestiere dispongono nella loro circoscrizione di una sede dove dormono le guardie, si sbrigano gli affari generali e dove le pattuglie conducono inizialmente i loro prigionieri. Dopo il 1325 in queste postazioni sono conservati venti secchi, dieci asce, dieci mastelli e le loro barre (236). Con l'aiuto di questo materiale i due corpi di ufficiali dirigono congiuntamente la lotta contro i sinistri e questa doppia competenza amministrativa non varia lungo l'arco di un secolo. Ma oltre all'insieme delle guardie delle due magistrature, la lotta richiede l'evidente partecipazione del vicinato (237). Avvertita dalla chiamata al fuoco, la comunità della contrada si riunisce. Tutti i facchini, i portatori d'acqua e di vino sono convocati con i loro recipienti. Malgrado questi sforzi di inquadramento e di equipaggiamento, la capacità d'intervento pubblico rimane però limitata. L'autorità tenta di porvi rimedio con questo appello alla solidarietà e anche con il ricorso alle istanze più simboliche. Così, fino al secolo successivo, sui luoghi del disastro vengono chiamate le prostitute: la donna pubblica estingue i fuochi...

Però questi limiti, queste debolezze, queste carenze esecutive dell'intervento comunale non sono che sfumature di un fenomeno principale. Attraverso questi differenti risvolti dell'azione pubblica sulla città, finisce con il prendere forma un intervento d'insieme. Questo può casualmente perdere la sua fermezza, può essere sacrificato a vantaggio di esigenze politiche o di necessità finanziarie immediate. Nondimeno esso coglie la pluralità delle realtà veneziane per tentare di organizzarle. L'espansione urbana si modella all'interno di nuovi quadri giuridici e amministrativi. I cantieri pubblici sgombrano e completano la rete delle calli, creano in gran numero banchine e ponti. La protezione della strada, la sua difesa materiale e giuridica accompagna nel tempo il cammino di questi cantieri. Questi due fenomeni traducono insieme tanto l'importanza crescente dell'asse terrestre nella struttura urbana quanto l'espansione dello spazio pubblico a Venezia e la conseguente ridefinizione delle sue frontiere con il privato. Inizialmente l'autorità tenta solo di controllare alcuni settori privilegiati: l'isola di S. Marco, il porto, quello costituito dal mercato di Rialto. In seguito le decisioni concernono le strade e le piazze, le fondamenta e i ponti, riguardano la terra e il canale, con la precisa intenzione di estendersi all'intera città. È dunque il rapporto dell'istanza politica con il suo spazio materiale che si trasforma. L'aspetto fisico della città ne esce sconvolto.

I due secoli XIV: un tentativo di bilancio

A questo continuo movimento della città, a questa sostenuta attività di tutti i cantieri durante i primi quattro decenni del XIV secolo fa seguito, come si è già più volte sottolineato, una lunghissima pausa. Rallentata a partire dagli anni 1340-1350, l'espansione urbana viene fermata dalla Peste Nera fino al 1353. A quella data alcune grazie segnalano un debole miglioramento, ma l'epidemia del 1361 mette fine alla leggera ripresa dei quattro anni precedenti. Dal 1366 al 1370 si osserva un certo movimento. La bonifica sembra ripartire. Sebbene per numero e dimensioni non siano assolutamente paragonabili a quelli analizzati all'inizio del secolo, i cantieri riprendono su quei fronti dove la colonizzazione si era precedentemente fermata. Il ripresentarsi della peste nel 1377 e nel 1381-1382 spiega senza dubbio il successivo silenzio delle fonti.

Questa stessa pausa, che ritarda la ripresa dei lavori fino agli ultimi anni del secolo, può essere osservata nel cuore dello spazio pubblico. Nel 1340 a S. Giacomo di Rialto il vecchio orologio era stato sostituito con uno nuovo e inoltre erano stati stanziati 50 ducati per installare sul campanile una campana più grande "quia audietur per totam civitatem" (238). S. Marco e Rialto si disputano la misura del tempo. Questa riaffermazione del dominio del comune sul centro degli affari, sul tempo del mercato e, attraverso questi, sul tempo dell'intera città, prepara simbolicamente l'abbellimento che avviene solamente alla fine del secolo. Sul "campo" S. Giacomo affluiscono i nobili, i mercanti e tutti gli stranieri e per l'onore della città il suo circuito viene pavimentato (239). Nei mesi che seguono vi è un ampliamento dei lavori. Si demoliscono i muri del vecchio campanile, l'ufficio dei pesi e misure e un banco di cambio. I portici vengono prolungati sul modello del colonnato esistente (240). Nel 1397 il rifacimento della chiesa chiude questa serie d'interventi (241).

Con il ripetersi dei regolamenti che tentano di specializzare i luoghi di vendita, il quadrilatero del "campo" viene difeso dall'invasione dei piccoli rivenditori. I portici lo cingono e la legislazione lo protegge e lo identifica. Mentre la "Piscaria" e la "Frutaria" "cadant et vadant totaliter in ruinam" (242), mentre tutto il mercato soffre di vetustà, il "campo" S. Giacomo viene restaurato. La dimensione estetica diviene dominante. La città intera si identifica con alcuni suoi spazi. "Pulcher, magnus, ornatus et expeditus", S. Giacomo assicura l'onore e la reputazione di Venezia.

A dispetto di queste distorsioni cronologiche e malgrado la crisi della politica urbanistica veneziana dopo la cesura degli anni subito successivi al 1340, alla fine del XIV secolo la città viene trasformata morfologicamente.

Cronologia dell'urbanizzazione e mercato immobiliare

Per valutare la cronologia dell'urbanizzazione veneziana disponiamo di misere fonti fiscali. Ci resta una stima generale dei beni immobili realizzata nel 1425. Questo documento conserva inoltre i risultati di un estimo anteriore, eseguito trenta o cinquanta anni prima (243). I risultati dell'operazione del 1425, così come quelli dell'estimo precedente, sono stati trascritti contrada per contrada.

Ciascuna delle operazioni di estimo, ordinate a fini fiscali e amministrativi, si spiega con alcune modificazioni assai rapide dell'edificato. Così nel 1353 la valutazione dei possedimenti, nelle mani dei procuratori di S. Marco "ad pias causas", viene ordinata perché le pigioni - sia degli edifici in rovina sia di quelli restaurati - non corrispondono più al valore delle case (244), Le diverse decisioni dei consigli che nominano degli "estimatores" espongono regolarmente degradi e rinnovamenti. La quantità di lagnanze suscitate dai lavori intrapresi su un muro divisorio o una calle testimonia d'altra parte il numero dei rifacimenti anche parziali. L'importanza relativa delle nuove costruzioni nell'aumento in valore dei beni immobiliari deve essere dunque bilanciata da quella dei lavori eseguiti nel periodo. Ciò nondimeno il rialzo, se si considerano le variazioni degli estimi nelle diverse contrade, coincide strettamente con le conclusioni messe in luce dallo studio delle bonifiche. A partire da queste fonti fiscali può essere tentata una rapida ricostruzione della geografia delle contrade al fine di precisare la cronologia dell'urbanizzazione.

Prima constatazione: il sestiere di S. Marco conosce negli ultimi decenni del XIV secolo un elevato valore immobiliare. Ma, tra i due punti di riferimento forniti dagli estimi, la crescita si rivela meno forte rispetto ad altri quartieri. La zona nella quale l'aumento è più debole corrisponde alla regione interessata da un'urbanizzazione continua a partire dal XIII secolo. Da S. Marco a S. Vidal, attraverso S. Moisè, S. Maria Zobenigo e S. Maurizio, lungo il Canal Grande valori ravvicinati fissano i limiti di un'area di precoce saturazione urbana. Alla fine del XIII secolo e all'inizio di quello seguente, le indicazioni fornite dalla sistemazione della rete di comunicazione riguardavano già questo stesso settore. Le contrade interne, a nord di S. Angelo e di S. Samuele, costituiscono un secondo gruppo autonomo, nel quale l'aumento è leggermente più vivace. Il carattere residenziale, rilevante nelle parrocchie limitrofe al Canal Grande, è qui meno accentuato. In queste contrade, dove la sociotopografia è più diversificata, rileviamo nuove costruzioni e rifacimenti. Un terzo insieme in seno al sestiere di S. Marco è costituito dal gruppo di parrocchie attraversato dall'asse delle Mercerie. Qui l'aumento è più sensibile, a prova del prezzo in rialzo delle botteghe e del valore dell'infrastruttura commerciale.

A S. Polo le cifre dell'estimo della fine del XIV secolo sono alte. Questo sestiere poco esteso raggruppa solo otto contrade, ma le cifre della loro stima superano quelle delle grandi circoscrizioni di Castello o Cannaregio. L'area del mercato e le parrocchie da questa dipendenti testimoniano allora un doppio fenomeno. Negli ultimi anni del XIV secolo le infrastrutture (depositi, mercati, botteghe, rive) sono oggetto solo di isolate migliorie. Tuttavia si fanno ancora sentire in zona gli effetti di un'urbanizzazione che fu antica e densa. Questo spiega il relativo rialzo, ancora più debole che a S. Marco, di un sestiere il cui valore immobiliare è in assoluto elevato.

I risultati degli estimi rinviano dunque assai ampiamente alle indicazioni fornite dal quadro di sintesi della bonifica. Al riguardo il sestiere di Cannaregio sembra esemplare. Ai SS. Apostoli si nota ad esempio un elevato valore degli immobili, spiegato dalla posizione centrale di questo isolotto precocemente colonizzato, e una crescita debole, giustificata dalla sua posizione interclusa e dalla mancanza di spazio libero. Il blocco S. Canciano-S. Giovanni Grisostomo-S. Maria Nuova, dalle possibilità di espansione assai limitate, unito da attività economiche vicine o complementari, si sviluppa in modo omogeneo. Le riserve di spazio del confine con la laguna e l'urbanizzazione che esse consentono giustificano tuttavia i progressi più sostenuti di S. Canciano. In cambio, durante questi decenni il valore dei beni censiti aumenta nettamente nelle contrade occidentali di Cannaregio, che sono progressivamente prosciugate prima di essere strutturate e popolate. Infine l'arteria del Canal Grande si urbanizza in maniera evidente, secondo il modello sviluppato in precedenza tra S. Marco e Rialto.

Per i due sestieri di S. Croce e Dorsoduro vale una constatazione generale. Le parrocchie fortemente urbanizzate all'inizio del XIV secolo conoscono un aumento del loro valore immobiliare piuttosto debole che contrasta con il forte sviluppo delle zone marginali della città (S. Simeone Profeta, S. Simone Apostolo, S. Croce, S. Lucia, il lato meridionale di S. Margherita). In modo simile, a Castello le parrocchie orientali si urbanizzano solo tardivamente.

La ripartizione geografica dei terreni edificabili a Venezia può contribuire a precisare questa cronologia differenziata dell'urbanizzazione. Questi terreni sono stati contabilizzati a partire dagli archivi della corte dell'"Esaminador" (245). Ma la conservazione lacunosa delle fonti autorizza a formare una prima serie solo per gli anni 1368-1380. Questa serie dunque non raccoglie l'insieme dei terreni edificabili disponibili, ma quelli messi sul mercato in quegli anni. Solo i terreni edificabili definiti come tali sono stati presi in considerazione. Alcuni edifici sono venduti con una "terra vacua" abbastanza vasta da permettere un'ulteriore lottizzazione. Le superfici libere a destinazione industriale (246), o quelle annesse senza un'infrastruttura adatta a un'installazione industriale o commerciale (247), sono state ugualmente tralasciate.

La prima notazione è che la crisi economica e demografica fa sentire pesantemente i suoi effetti. Il numero delle transazioni è scarso. Anche se, a causa dello stato delle fonti, è impossibile procedere alla stessa valutazione per i primi decenni del secolo, rispetto alle indicazioni che fino al 1340 provavano la straordinaria vitalità urbana, si può solo sottolineare l'atonia del mercato nei decenni 1360-1380. Per effetto di questa contrazione del mercato, l'analisi si basa solo su un basso numero di transazioni. Non per questo la distribuzione geografica di questi scambi è meno interessante. Occorre anzitutto rilevare la totale assenza su questo mercato dei sestieri di S. Marco e di S. Polo. Le aree organizzate attorno ai due poli urbani sono densamente edificate sin dalla fine del XIII secolo. Negli stessi anni il sestiere di Dorsoduro è caratterizzato da un tessuto urbano a maglie larghe e le attività industriali di un certo numero delle sue contrade giustificano parallelamente l'esistenza di vaste parcelle non costruite (248). A Cannaregio, Castello e S. Croce (249), nelle zone interessate massicciamente all'inizio del secolo dalla bonifica, gli scambi restano limitati. Se ne deve dedurre che su questi terreni strappati agli acquitrini l'insediamento urbano tarda a consolidarsi. Così gli effetti demografici ed economici della crisi del secondo XIV secolo vengono ancora concretamente confermati.

Visibilmente, l'urbanizzazione è continua solo nel cuore di una zona centrale. Ignorando i limiti amministrativi, essa raggruppa sulla riva sinistra, oltre il sestiere di S. Marco, le prime contrade di Cannaregio, come quelle dei SS. Apostoli e di S. Giovanni Grisostomo. Le parrocchie di S. Lio, S. Antonin e S. Provolo a Castello vengono ad aggregarsi a questa zona centrale. La contrada di S. Maria Formosa, per effetto delle sue disparità interne, della concentrazione delle attività industriali a nord del "campo", fa da zona di transizione con le parrocchie orientali, dall'urbanizzazione più discontinua. Passando il Canal Grande, quest'area ingloba la parte realtina del sestiere di S. Polo e la vasta contrada di S. Polo. Dorsoduro e S. Croce, come Castello e Cannaregio, non formano quartieri omogenei. Occorre distinguere tra i lati delle contrade che confinano col Canal Grande e i confini opposti di questi sestieri dove l'urbanizzazione è ancora incompiuta. La città è ancora lungi dall'essere piena. Alla sua periferia permangono vaste riserve di spazio che la vigorosa crescita dei quattro primi decenni del XIV secolo ha solo intaccato.

Allo stesso modo, la morfologia urbana differisce a seconda delle zone e dei tempi dell'urbanizzazione.

Lo spazio urbano e le sue strutture

Gli insediamenti della laguna hanno perpetuato uno schema di organizzazione spaziale semplice. Le case sono disposte secondo una tipica struttura lineare. Costruite parallelamente o ortogonalmente ai canali, sono servite da calli trasversali. Nel XIV secolo Murano offre l'esempio di una tale organizzazione urbana (250). All'interno della città, nelle aree di recente bonifica, è possibile identificare forme spaziali identiche o molto simili. Nel primo terzo del XIV secolo una serie di transazioni ne permette l'analisi. A S. Marziale e S. Marcuola, zone rivoluzionate dai lavori di bonifica, i documenti descrivono un paesaggio caratteristico. Le parcelle non edificate sono numerose, le costruzioni modeste. Si rileva soprattutto una disposizione tipica poiché il lotto è compreso tra un rio e la palude. Tra questi due limiti troviamo allora una terra recentemente prosciugata o una casa, a seconda delle zone e della cronologia del loro popolamento. Le proprietà sono allineate senza che sia nemmeno indicata l'esistenza di una calle di circolazione laterale. La colonizzazione pare ancora incompiuta. Resta dunque preminente l'accesso diretto di ciascun lotto alla via d'acqua e alla riva che la costeggia (251). A S. Simeone Profeta, a S. Croce o a S. Margherita, l'espansione riproduce in certe zone questa particolare disposizione (252).

Sui suoi confini con la laguna la città adatta e arricchisce questo modello originale. Le zone periferiche ne offrono diversi esempi. Le serie di trasferimenti immobiliari permettono di individuare gli elementi di una tale disposizione nel XIV secolo (253). Però esse enumerano soprattutto le clausole che ne segnano la progressiva complicazione. A mano a mano che i terreni sono lottizzati, occorre sistemare, talvolta lastricare una stradina intermedia. La parcella, generalmente più lunga che larga, dotata inizialmente di un vasto giardino sul davanti e sul retro, si fraziona su questa lunghezza. La divisione obbliga al servizio per via di terra e riduce la primitiva forza di attrazione del canale (254). Nondimeno tutte queste contrade della periferia conservano una trama ariosa e un'organizzazione spaziale particolare. Il numero dei ponti e delle vie terrestri sottolinea semplicemente l'interconnessione delle strutture in una città dalla complessa storia urbana e la nuova divisione operatasi, a partire dal XIV secolo, tra i due sistemi delle vie di comunicazione.

Allo stesso modo nel sistema di ripartizione dei pieni e dei vuoti, il "campo" resta ampiamente visibile. Con il tempo esso è stato aperto e sistemato dalle comunità, fisicamente raggruppate nelle vicinanze della chiesa e socialmente riunite attorno al singolo casato o ai casati fondatori di quella stessa chiesa. Il suo ruolo e il suo irradiamento si sono trasformati e spesso le lottizzazioni ne hanno ridotto la superficie primitiva. La decompartimentazione urbana e il collegamento della piazza parrocchiale a una rete di calli ricompongono allo stesso modo le funzioni su scala dell'intera città di Venezia. L'emergere del polo di S. Marco riduce in tutta la città l'importanza di tali centri. Le trasformazioni del paesaggio sacro, a partire dalla fondazione dei grandi conventi degli ordini mendicanti, provocano un identico cambiamento di scala nell'esercizio delle devozioni. Il "campo" e la sua chiesa non sono più i soli a detenere il ruolo conferito loro dall'antica organizzazione cellulare e dalla coesistenza nella città di nuclei urbani indipendenti gli uni dagli altri. Ma il "campo" parrocchiale resta pur sempre oggetto di particolari investimenti sociali, religiosi e simbolici da parte della contrada. Malgrado alcuni restringimenti provocati dall'aumento della densità, in ogni parrocchia la vasta superficie quadrangolare di questa piazzetta, collegata alle principali vie di terra, viene dunque conservata.

La "domus a statio", aristocratica o borghese, si installa generalmente su almeno uno dei lati del "campo" non occupati dalla chiesa o dal rio (255) e apre le sue finestre e i suoi balconi su questo spazio. Ogni "campo" mantiene tuttavia una fisionomia specifica in cui è possibile riconoscere, parallelamente a questo carattere residenziale amplificato, gli aspetti della sociotopografia propri della contrada e dell'area da cui questa dipende. A seconda dei casi e di una distribuzione geografica che distingue la regione centrale dalle periferie più o meno estreme, la sociotopografia residenziale si inflette più o meno nettamente a beneficio di installazioni commerciali e di abitazioni più o meno modeste, ad uso locativo.

Per quanto di fondazione nettamente posteriore a quella delle chiese parrocchiali, i grandi conventi degli ordini mendicanti, impiantati negli spazi vuoti della città, riescono nel XIII secolo a riunire attorno a sé delle comunità, a creare dei "campi" differenti dalle piazze parrocchiali del X e XI secolo, ma che esercitano un'attrazione. Così a S. Maria Gloriosa dei Frari i Francescani, proprietari del "campo" come dei diritti sul ponte omonimo, giungono a costituire un centro sociale e religioso. I conventi fondati in seguito non assumono un ruolo urbano paragonabile. Ormai lo sviluppo di Venezia passa per altre forme.

In maniera ancor più accentuata, la corte, che talvolta compare ancora nella sua antica forma, sembra privata del suo primo significato sociale. Nelle contrade centrali, tra S. Marco e Rialto, in alcuni settori della riva destra, a Dorsoduro e S. Croce, a seconda delle transazioni, vengono messe in luce delle situazioni assai simili. Dalla casa principale dipende, attraverso la corte, un insieme più o meno complesso di costruzioni. Gli accessi assicurano frequentemente la doppia comunicazione con l'acqua e con la terra. A testimonianza della forza di questa struttura della "curia" nel paesaggio urbano, questi complessi si giustappongono gli uni agli altri. A S. Maria Zobenigo l'accordo intercorso all'inizio del XIV secolo tra i Michiel e i Morosini è reso necessario dalla vicinanza di quei due blocchi. Le trattative tra i due casati vertono sulla suddivisione dei diritti sulle calli private, tracciate tra il Canal Grande e il "campo" (256). Ai SS. Apostoli e a S. Angelo le descrizioni mostrano la vicinanza delle corti e la ripetizione, secondo dimensioni che possono variare, più spesso a partire da un rio, di questa tipica disposizione. Le testimonianze documentarie permettono di individuare, attraverso la relativa frequenza di questa organizzazione, alcune aree di S. Giovanni Grisostomo, dei SS. Apostoli, di S. Salvatore, di S. Maria Formosa e anche alcuni settori di S. Maria Mater Domini, di S. Stae e di S. Giacomo dell'Orio.

Durante i decenni considerati, l'insieme spaziale della corte perde per lo più la sua coesione iniziale. Questo deperimento, che obbliga a ricomporre le trasformazioni dell'antica realtà spaziale attraverso l'assemblaggio minuzioso dei testi e delle menzioni delle proprietà confinanti, rivela la dissociazione dell'unità socioeconomica espressa da questa struttura della "curia". Sotto la spinta delle spartizioni o di necessità economiche, la casa nobile viene separata giuridicamente, e talvolta materialmente, dalle case di dipendenti, clienti e locatari. Nel XIV secolo i movimenti del mercato immobiliare propagano attraverso la città la diffusione di queste proprietà frammentate. La costruzione di muri che attraversano le corti, il moltiplicarsi di ingressi indipendenti in caso di divisione, la lottizzazione di una parte di questo spazio libero, rappresentano altrettante possibilità di evoluzione morfologica.

Anche quando solamente diritti di proprietà diversi separano la "domus a statio" principale dalle case degli affittuari, le "domus a sergentibus", se la trama sociale resta composita, i rapporti di vicinato ne sono sconvolti. La corte non appartiene più allo stesso casato, definita e delimitata dalla proprietà di un'unica famiglia che trovava in tale radicamento i mezzi della propria influenza socioeconomica e del proprio onore. Le nuove realtà socioeconomiche non implicano che la corte si svuoti di ogni contenuto sociale. La conoscenza reciproca può ancora avere il suo peso. La corte costituisce ancora, tra i locatari, un nucleo attivo di vicinato, ma i legami personali con un "patronus" che risiede altrove si allentano o addirittura spariscono. Le transazioni mostrano la sopravvivenza di blocchi immobiliari omogenei, ma la loro stessa apparizione sul mercato comporta il passaggio di proprietà da una famiglia a un'altra. Può risultarne lo spezzarsi dei legami sociali e spaziali della corte. Dunque la trama urbana porta ancora il segno di un'organizzazione spaziale attorno alla corte. Ma le mutazioni della fine del medioevo e le trasformazioni morfologiche che ne risultano comportano l'evoluzione, in ogni caso, dello spazio fisico e sociale della corte.

La generale diffusione della calle distrugge la relativa autonomia della corte. Essa decompartimenta il tessuto urbano e spiega la disposizione spaziale dei quartieri fortemente urbanizzati a partire dal XIV secolo. La descrizione dei lotti immobiliari testimonia l'importanza conferita oramai alle vie terrestri e agli elementi di raccordo a questa rete. Il moltiplicarsi dei passaggi che collegano le corti all'esterno, l'apertura di una buona parte di questi al pubblico, o almeno a un gruppo allargato, tutti quei raccordi al sistema dominante della via di terra manifestano la modificazione del paesaggio. Con l'apertura delle vie pubbliche, i cantieri comunali creavano gli assi principali. Le mutazioni interne, qui descritte, provano le capacità di adattamento dell'organismo urbano.

Allo stesso modo quando, come a nord di Venezia, l'edificato è organizzato intorno al tracciato parallelo dei canali, le fondamenta e i ponti assicurano una dualità di circolazione. Altrove l'urbanizzazione progredisce parallelamente a partire da due assi, un rio e una via di terra che collegano calli perpendicolari. A S. Barnaba, S. Angelo Raffaele, S. Margherita, come nei quartieri nord-occidentali, le serie delle Investizioni attestano massicciamente questo tipo di impianto a partire dal 1370. Le descrizioni delle proprietà riportano allora il nome della via principale, citando talvolta sui lati, a seconda dell'importanza della casa, una calle laterale, o il "callicello de grondalibus", se non i muri delle proprietà vicine situate sul retro del lotto. Un secondo blocco di edifici è disposto in profondità in maniera identica, lungo un canale o una via parallela, oppure, esempio più semplice, le costruzioni sono poste tra una via pubblica e un rio, o un rio prosciugato, secondo lotti che occupano tutta la profondità tra questi due assi. Ciò significa che la calle non serve solo alla comunicazione ma organizza il tessuto urbano, e i settori conquistati sull'acquitrino ne costituiscono una prova lampante.

Nelle contrade di più antica urbanizzazione, se l'importanza delle grandi vie pedonali è evidente, nondimeno questo sistema sembra sovrapporsi a un ordinamento complesso. L'esame dei quartieri porta allora a chiarire un modello che tende a diffondersi a partire dal XIV secolo e che è caratterizzato da una divisione spaziale verticale. A contatto della via pubblica si attua una nuova disposizione che situa al piano terreno le case dei locatari e al primo piano la "domus a statio". I complessi di abitazioni popolari che i documenti chiamano "ruge domorum a sergentibus", e di cui Venezia conserva alcuni esempi architettonici, testimoniano anch'essi dei profondi mutamenti nell'organizzazione dello spazio urbano. Le "domus a sergentibus" erano inizialmente integrate nel sistema della corte. Le forme dell'associazione potevano variare, ma esse mantenevano il legame di dipendenza dalla casa principale. Oramai i due tipi di edifici sono frequentemente dissociati. Le case in affitto, spesso gemelle, sono allineate lungo una calle.

Le strutture principali che è possibile distinguere nel tessuto urbano svolgono, nelle diverse tappe della storia della città, ruoli che si evolvono. Soppiantato dai centri di S. Marco e di Rialto, il "campo" riduce le sue funzioni primitive ma continua, sotto forme diverse, ad animare la vita della contrada. La corte perde la pienezza delle sue funzioni. La pubblica via salda una nuova rete di collegamenti. Essa ordina i settori in via d'urbanizzazione, innerva i quartieri alla complessa urbanizzazione antica. Dall'esame degli usi sociali sostenuti da queste diverse forme d'organizzazione si può dedurre l'esistenza di due spazi dove si animano le relazioni sociali. Un primo ambito più ristretto, luogo della vita quotidiana, riguarda tutti. La città in tutta la sua ampiezza fornisce un secondo ambito, che indubbiamente non è conosciuto e utilizzato da tutti, ma che, per la sua stessa esistenza, condanna al declino le sfere intermedie.

È dunque chiaro che l'approccio all'evoluzione dello spazio avviene qui secondo due letture assolutamente parallele. Nei primi decenni del XIV secolo, il fenomeno innovatore determinante è decisamente costituito, come lo era stato negli ultimi decenni del secolo precedente, dall'intervento del potere comunale sullo spazio urbano. Questa trasformazione "esterna" dello spazio di Venezia è stata qui analizzata attraverso la sua cronologia precipuamente caratteristica. Ma a questo fenomeno corrisponde strettamente un processo di trasformazione interna, quello delle strutture sociospaziali. Alle trasformazioni della rete delle comunicazioni, ai cantieri ordinati dai magistrati comunali, rispondono i lavori che modificano i sistemi di raccordo della corte e delle case con gli spazi limitrofi. All'aumento della forza del quadro urbano unitario corrisponde l'indebolimento dell'influenza degli ambiti locali, sia che si tratti di quella della corte sia di quella della contrada. Ciò equivale a dire che in questa storia della città e dei suoi spazi si incrociano differenti fenomeni e questo processo di trasformazione è rivelatore dell'evoluzione degli scambi economici, così come della forma del potere o delle strutture familiari. Malgrado la contrastata cronologia del secolo preso in esame, a dispetto dell'atonia che sembra caratterizzare la politica urbana dopo il 1340, l'evoluzione appare pur sempre formidabile. Lo slancio si interrompe, ma è stato sufficientemente profondo per modificare radicalmente lo spazio di Venezia così come le relazioni degli uomini con quello stesso spazio.

Traduzione di Matteo Sanfilippo

1. Martin da Canal, Les estoires de Venise. Cronaca veneziana in lingua francese dalle origini al 1275, a cura di Alberto Limentani, Firenze 1972.

2. La Cronaca veneziana del Diacono Giovanni, in Cronache veneziane antichissime, a cura di Giovanni Monticolo, I, Roma 1800; Gina Fasoli, I fondamenti della storiografia veneziana, in La storiografa veneziana fino al secolo XVI. Aspetti e problemi, a cura di Agostino Pertusi, Firenze 1970, pp. 11-44.

3. Origo civitatum Italie seu Venetiarum (Chronicon Altinate et Chronicon Gradense), a cura di Roberto Cessi, Roma 1933.

4. Lettere senili di Francesco Petrarca, a cura di Giuseppe Fracassetti, I, Firenze 1869, p. 229. Cito qui la lettera che Petrarca inviò a Pietro Bolognese all'indomani dei festeggiamenti che seguirono la riconquista di Candia.

5. Relation d'un voyage de Metz à Jérusalem entrepris en 1395 par quatre chevaliers messins, "L'Austrasie", 3, 1838, pp. 149-168, 221-236; Viaggi in Terra santa di Leonardo Frescobaldi e d'altri del secolo XIV, a cura di Cesare Gargiolli, Firenze 1862; Le Saint voyage de Jhérusalem du seigneur d'Anglure, a cura di François Bonnardot - Auguste Longnon, Paris 1878.

6. A.S.V., Maggior Consiglio, Liber Spiritus, cc. 154v, 155. Alcuni di questi testi sono stati utilizzati da Mario Brunetti, Venezia durante la peste del 1348, "Ateneo Veneto", 32, 1909, nr. 1, pp. 289-311, nr. 2, pp. 5-42. Per un quadro di riferimento generale, tanto per lo studio della demografia quanto per quello degli inizi della "politica sanitaria", si v. AA.VV., Venezia e la peste 1348/1797, catalogo della mostra, Venezia 1979.

7. Provveditori e Sopraprovveditori alla Sanità della Repubblica di Venezia, a cura di Salvatore Carbone, Roma 1962 (Quaderni della Rassegna degli Archivi di Stato); Angel Antonio Frari, Della peste e della pubblica amministrazione sanitaria, I, Venezia 1840, pp. 322-323; per una comparazione con l'Italia centrale: William M. Bowsky, The Impact of the Black Death upon Sienese Government and Society, "Speculum", 39, 1964, pp. 1-34, e Elisabeth Carpentier, Une ville devant la peste. Orvieto et la Peste Noire de 1348, Paris 1962.

8. Nel XIII secolo il territorio di Rialto fu diviso in sei grandi circoscrizioni dette sestieri. La tradizione fissa la data di questa ripartizione all'anno 1171, sotto il dogato di Vitale Michiel. Ciascuno dei sestieri è diviso in un certo numero di contrade. A Venezia il termine "vicinus" non si applica, come in numerose altre città italiane, a chi è membro di una comunità di abitanti, di un vicinato. Gli statuti civili definiscono in effetti come "vicinus" non colui che risiede nella contrada ma colui che vi è proprietario: "et intelligantur omnes vicini qui possessiones habent in parochia ubicunque habitarent", Volumen Statutorum legum ac jurium de venetorum [...>, Statuta veneta cum correctionibus et additionibus novissimis, Venezia 1681, lib. VI, cap. 3, cc. 87v-88. Questo fatto ha evidentemente conseguenze di primaria importanza per le forme della storia sociale e politica veneziana.

9. Per un'analisi dettagliata di queste trasformazioni delle strutture della bonifica veneziana, si può far riferimento al mio capitolo La conquista e l'organizzazione dello spazio urbano nel secondo volume di questa Storia di Venezia, pp. 549-575.

10. "Quod fiat gratia de aqua sive palude". Il primo registro della serie delle Grazie è stato pubblicato: Cassiere della Bolla Ducale, Grazie, Novus Liber (1299-1305), a cura di Elena Favaro, Venezia 1962. Per uno studio di questa procedura corrente, "per gratiam", nel diritto amministrativo veneziano, si può consultare, nello stesso volume, l'introduzione di Carlo Guido Mor, Il procedimento "per gratiam" nel diritto amministrativo veneziano del secolo XIII, pp. XVII-XX (pp. V-XLVIII).

11. La serie delle sentenze dei magistrati del piovego è conservata a partire dal 1282. La storia di questa corte, già lunga e complicata, risulta, a questa data, dalla fusione di quattro magistrature. La sfera delle sue attribuzioni che viene fissata allora non varierà più in seguito. Incaricati "de universis publicis, videlicet aquis, terris, palludibus et canetis", entro i limiti del Ducato, i giudici del piovego sono incaricati della difesa del demanio pubblico e, a questo titolo, direttamente responsabili delle operazioni di bonifica. Il capitolare di questa corte è stato pubblicato e studiato da Melchiorre Roberti, Le magistrature giudiziarie veneziane e i loro capitolari fino al 1300, I-III, Padova-Venezia 1906-1911. Il testo originale del Codex Publicorum è conservato a Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 2652 (= 3824) e in copia (in data 1810) nell'A.S.V., Piovego, b. 3. Questa fonte è stata in parte pubblicata: Codex Publicorum (Codice del Piovego), I, (1282-1298), a cura di Bianca Lanfranchi Strina, Venezia 1985.

12. "Qui viderunt locum", "viso loco ad occulum": A.S.V., Maggior Consiglio, Liber Magnus, c. 7; Cassiere della bolla ducale, Grazie, reg. 3, c. 34; reg. 6, cc. 12, 17, per citare solo alcuni esempi.

13. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. cod. 8335, Della dignità delli Procuratori di San Marco, t. 1 c. 1; il Libro nel quale vi sono l'origine de gl'Ecc. Signori Procuratori, ivi, ms. it. cl. VII. cod. 7949, c. 7, contiene una lista di quei mitici primi magistrati "sopra le velme et paludi et lidi", tra 812 e 829.

14. Il Novus Liber si ferma al 1305; il registro seguente comincia nel 1329, i libri delle Grazie si succedono poi con continuità fino al 1445. Questa lacuna documentaria non è tuttavia sufficiente a spiegare il silenzio delle fonti poiché i registri contemporanei del maggior consiglio sono stati conservati e la b. 3 dell'A.S.V., Piovego, corrisponde allo stesso periodo.

15. Il maggior consiglio riprende nel 1254 un atto che non è stato conservato e ricorda che il doge, aiutato dal suo consiglio, ha il potere di concedere, a sud-est della Giudecca, parcelle di terreno acquitrinoso "ad allevandum de terra et ad faciendum domos". Deliberazioni del Maggior Consiglio di Venezia, a cura di Roberto Cessi, Il, Bologna 1931, p. 120.

16. Ibid.

17. A.S.V., Cassiere della Bolla ducale, Grazie, reg. 3, c. 10v.

18. Ibid., cc. 10v, 14; reg. 6, cc. 17v, 40v, 59; e Codex Publicorum, sentenze 75, 89-90, 92-95, 98, 103, 112.

19. Per qualche altro esempio di canone: A.S.V., Maggior Consiglio, Liber Pilosus, c. 70v; Cassiere della Bolla ducale, Grazie, reg. 16, c. 16v; reg. 22, c. 4.

20. Il rituale di Natale ne formalizza l'omaggio simbolico: "Sacheés, signors, que la vegile de Nouel et li jors devant, si est donés a monsignor li dus le treusage que ciaus li donent que prenent les osiaus de riviere [...>", M. da Canal, Les estoires, p. 252.

21. Si citeranno qui, tra gli esempi possibili, i due casi di Firenze e di Bologna: Franek Sznura, L'espansione urbana di Firenze nel Dugento, Firenze 1975; Mario Fanti, Le lottizzazioni monastiche e lo sviluppo urbano di Bologna nel Duecento. Spunti per una ricerca, "Atti e Memorie. Deputazione di Storia Patria per le Provincie di Romagna", n. ser., 22, 1970, pp. 121-143.

22. L'espressione designa quella formazione insulare, realmente creata dall'uomo a fianco della Giudecca. Lo stesso termine si ritrova a S. Marziale ("terrena nuova"): A.S.V., Cassiere della Bolla ducale, Grazie, reg. 13, c. 82v (1356). È inoltre il nome della punta consolidata di Terranova sulla quale sono costruiti i granai pubblici.

23. Ibid., reg. 3, cc. 1, 16v, 40v, 59; reg. 4, cc. 12v, 14, 40v.

24. Ibid., reg. 4, c. 12v.

25. Ibid., reg. 9, c. 55

26. Quantomeno all'interno di una serie cronologica di grazie.

27. A.S.V., Cassiere della Bolla ducale, Grazie, reg. 3, c. 10v.

28. Ibid., reg. 4, c. 14.

29. Ivi, Piovego, b. 3; Codex Publicorum, sentenze 75-81.

30. Ibid., sentenze 88-96, 103, 107, 109, 111-112, 125.

31. A.S.V., Corporazioni religiose soppresse, Santa Croce della Giudecca, b. 4, c. 243.

32. Ibid., c. 245.

33. Ivi, Avogaria di Comun, Deliberazioni, Liber Brutus, c. 119.

34. Ivi, Cassiere della Bolla ducale, Grazie, reg. 3, cc. 10v-11, 14, 16v, 40v, 59v.

35. Ibid., reg. 4, c. 3v; reg. 6, c. 24.

36. Ibid., cc. 10v-11, 14, 16v, 40v, 59v e passim.

37. Ivi, Cassiere della bolla ducale, Grazie, reg. 6, c. 52 (1335).

38. Ibid., c. 61v (1331).

39. Ibid., reg. 9, c. 97 (1343).

40. Ibid., c. 26 (1342).

41. Ibid., reg. 3, cc. 28, 56v; reg. 4, cc. 17v, 51, 20v, 36.

42. Ibid., reg. 3, c. 2.

43. Ibid., reg. 4, cc. 43, 46 (1333); reg. 6, cc. 12, 17v, 25 (1334).

44. Ivi, Maggior Consiglio, Liber Presbiter, c. 121 (1314).

45. Ivi, Cassiere della Bolla ducale, Grazie, reg. 3, c. 55r-v; Maggior Consiglio, Liber Presbiter, c. 130v.

46. Ivi, Maggior Consiglio, Liber Presbiter, c. 130v; Liber Civicus, c. 7v; Liber Magnus, c. 7.

47. Ad esempio: ivi, Cassiere della Bolla ducale, Grazie, reg. 6, c. 73.

48. Ibid., reg. 3, c. 13; reg. 6, c. 52.

49. Ivi, Avogaria di Comun, Deliberazioni, Liber Brutus, cc. 15v, 18.

50. Ivi, Maggior Consiglio, Liber Civicus, c. 85v.

51. Ibid., c. 136v.

52. Ibid., c. 7v.

53. "llli quibus concessus est elevare in palude [...> teneantur palificasse", ibid., Liber Spiritus, c. 110; "infra duos annos debet palificasse", ivi, Cassiere della Bolla ducale, Grazie, reg. 4, c. 3v.

54. Ivi, Cassiere della Bolla ducale, Grazie, reg. 4, cc. 14, 40v; reg. 3, cc. 41v, 55v.

55 Ibid., reg. 4, cc. 31, 32v, 38v.

56. Ibid., reg. 6, c. 69.

57. Ibid., reg. 8, cc. 12, 17v, 20v, 36 (1333-1334).

58. Ibid., reg. 6, cc. 41, 69.

59. Ibid., reg. 12, c. 51.

60. Ibid., reg. 8, c. 73.

61. Ibid., reg. 9, c. 48.

62. Ibid., reg. 13, c. 17.

63. Ivi, Corporazioni religiose soppresse, Santa Marta, b. 1.

64. Ibid., b. 2.

65. Ivi, Cassiere della Bolla ducale, Grazie, reg. 3, c. 55.

66. Ibid., reg. 8, c. 3.

67. Ibid., c. 80.

68. Ivi, Procuratori di S. Marco, citra, b. 17, commissaria Marino Georgio.

69. Ivi, Maggior Consiglio, Liber Civicus, c. 136v.

70. Ivi, Avogaria di Comun, Deliberazioni, Liber Brutus, cc. 15v-16.

71. Con le fondazioni nel XIII secolo di S. Maria delle Vergini, di S. Anna, ecc.

72. A.S.V., Corporazioni religiose soppresse, S. Andrea Apostolo detto de Zirada, b. 1, cc. 2v-3, 7-8; b. 19, perg.

73. Il settore dipende dalla contrada di S. Croce.

74. A.S.V., Corporazioni religiose soppresse, S. Andrea Apostolo, b. 1, c. 60r-v.

75. Ibid., cc. 136v-137.

76. Ivi, Cassiere della Bolla ducale, Grazie, reg. 10, c. 34 (1344).

77. Ivi, Maggior Consiglio, Liber Presbiter, c. 121; Corporazioni religiose soppresse, Santa Maria del Carmine, b. 1.

78. Si citeranno qui alcuni studi di riferimento: Enrico Fiumi, Demografia, movimento urbanistico e classi sociali in Prato dall'età comunale ai tempi moderni, Firenze 1968; David Herlihy, Pistoia nel Medioevo e nel Rinascimento. 1200-1430, Firenze 1972; Antonio Ivan Pini, La popolazione di Imola e del suo territorio nel XIII e XIV secolo, Bologna 1976; David Herlihy - Christiane Klapisch-Zuber, Les Toscans et leurs familles, Paris 1978.

79. Flaminii Cornelii Ecclesiae Venetae antiquis monumentis nunc etiam primum editis illustratae ac in decades distributae, I-XVIII, Venetiis 1749, decas 6, pp. 199-202. I lavori nella Corderia e nei suoi magazzini precedono di alcuni anni, cf. Ennio Concina, L'Arsenale della Repubblica di Venezia, Milano 1984, pp. 25-26.

80. Alberto Tenenti-Corrado Vivanti, Le film d'un grand système de navigation: les galères marchandes vénitiennes. XIVe-XVIe siècles, "Annales E.S.C.", 16, 1961, nr. 1, pp. 83-86; Frederic C. Lane, Navires et constructeurs à Venise pendant la Renaissance, Paris 1965, pp. 24-25.

81. A.S.V., Maggior Consiglio, Liber Clericus-Civicus, c. 24v.

82. Ibid., cc. 104, 105.

83. Ibid., c. 129.

84. Ibid., c. 26v.

85. Ivi, Compilazione Leggi, b. 326, c. 21; Maggior Consiglio, Liber Spiritus, c. 94.

86. Ivi, Compilazione Leggi, b. 205, c. 109.

87. Ivi, Maggior Consiglio, Liber Civicus, c. 56.

88. Ivi, Corporazioni religiose soppresse, Santa Maria

dei Teutonici (Santa Trinità), b. 3, perg. 1302.

89. Ivi, Maggior Consiglio, Liber Fronesis, cc. 129-130v.

90. Ibid., Liber Magnus, c. 3v; ivi, Provveditori al Sal, b. 1, c. 10v.

91. Ivi, Maggior Consiglio, Liber Zaneta, c. 45v; Liber Civicus, cc. 40v, 121v.

92. Ibid., Liber Capricornus, c. 8v.

93. Ibid., Liber Fronesis, c. 52.

94. Ibid., c. 96.

95. Ibid., c. 102.

96. "Cum Rivoaltum sit pro maxima utilitate comunis et comoditate mercatorum ibidem conversantium ac etiam totius civitatis".

97. I lavori proseguono nel 1324 e 1325: A.S.V., Avogaria di Comun, Deliberazioni, Liber Brutus, cc. 7, 21.

98. Ivi, Maggior Consiglio, Liber Spiritus, c. 115.

99. Ivi, Compilazione Leggi, b. 357, c. 332.

100. Ivi, Maggior Consiglio, Liber Spiritus, c. 118.

101. Ibid., c. 115v.

102. Nel 1319 il comune aveva comprato dai Bollani le case vicine per ingrandire l'entrata del Fondaco: ibid., Liber Fronesis, c. 26.

103. Ibid., Liber Spiritus, c. 113.

104. Ivi, Provveditori al Sal, b. 1, c. 3v.

105. Ibid., cc. 11v- 12.

106. Ibid., c. 10v.

107. Ivi, Compilazione Leggi, b. 357, c. 207.

108. Ivi, Maggior Consiglio, Liber Civicus, c. 56.

109. Ivi, Compilazione Leggi, b. 357, c. 205r-v.

110. Ivi, Maggior Consiglio, Liber Civicus, c. 56.

111. Ibid., Liber Presbiter, c. 65v (20 soldi di grosso per le navi e le altre imbarcazioni che caricano e scaricano zavorra).

112. Ibid., c. 22v.

113. Ibid., c. 101.

114. Ivi, Cassiere della Bolla ducale, Grazie, reg. 5, c. 41 v.

115. Ibid., reg. 3, c. 29.

116. Ibid., reg. 11, c. 57v. Si potrebbero citare altri casi meno eclatanti ma comunque paragonabili.

117. Ivi, Avogaria di Comun, Deliberazioni, Liber Brutus, c. 157v.

118. Ivi, Maggior Consiglio, Liber Capricornus, cc. 24v, 63; Liber Clericus-Civicus, c. 2.

119. Ibid., Liber Fronesis, c. 65.

120. Ibid., cc. 64v-72v.

121. Terreni non edificati, attrezzati con riquadri di legno, sui quali sono stesi ad asciugare i drappi di lana dopo la tintura.

122. A.S.V., Avogaria di Comun, Deliberazioni, Liber Neptunus, c. 175v.

123. Ivi, Maggior Consiglio, Liber Fronesis, c. 149.

124. Ivi, Avogaria di Comun, Deliberazioni, Liber Brutus, c. 116v.

125. Ibid., cc. 62, 110, 118, 130, per richiamare altre operazioni complementari.

126. Ibid., c. 133v.

127. Ivi, Cassiere della Bolla ducale, Grazie, reg. 6, c. 65.

128. Ibid., reg. 14, c. 150.

129. Ivi, Senato, Misti, reg. 28, c. 78.

130. Ibid., cc. 86v, 88.

131. Ibid., reg. 29, c. 86v.

132. Ivi, Maggior Consiglio, Liber Civicus, c. 18; sin dal 1300 i signori di notte avevano ricevuto un primo mandato sulle strade: ibid., Liber Magnus, c. 9.

133. Ad esempio, ibid., Liber Civicus, c. 121v.

134. Ibid., Liber Fronesis, c. 54v.

135. Ibid., Liber Spiritus, c. 58.

136. Ibid., cc. 113, 115.

137. Ibid., Liber Civicus, c. 18.

138. Ibid., Liber Magnus, c. 9.

139. Ibid., c. 115; su quest'operazione si v. anche Roberto Cessi, La politica dei lavori pubblici della Repubblica veneta, introduzione a Alberto De' Stefani, L'azione dello stato italiano per le opere pubbliche (1862-1924), Roma 1925, pp. XI-LXIII.

140. A.S.V., Maggior Consiglio, Liber Civicus, c. 121v.

141. Ibid., Liber Fronesis, c. 57.

142. Ibid., c. 54v.

143. Ibid., Liber Spiritus, c. 58.

144. Ivi, Cassiere della Bolla ducale, Grazie, reg. 9, c. 14.

145. Ibid., reg. 12, c. 52v.

146. Ivi, Maggior Consiglio, Liber Spiritus, c. 82.

147. Ivi, Cassiere della Bolla ducale, Grazie, reg. 8, c. 21.

148. Ibid., reg. 6, c. 65.

149. Ibid., reg. 4, c. 13.

150. Ibid., c. 40; reg. 7, cc. 6, 7v.

151. Ibid., reg. 8, c. 65; reg. 15, c. 21v.

152. Ibid., reg. 6, c. 6v; reg. 16, c. 43v; reg. 7, c. 91.

153. Ivi, Maggior Consiglio, Liber Presbiter, c. 143v.

154. Ivi, Cassiere della Bolla ducale, Grazie, reg. 3, c. 46v.

155. Ibid., reg. 18, c. 57v.

156. Ivi, Avogaria di Comun, Deliberazioni, Liber Neptunus, c. 207.

157. Ivi, Cassiere della Bolla ducale, Grazie, reg. 16, c. 103.

158. Ivi, Compilazione Leggi, b. 357, c. 470.

159. Ivi, Cassiere della Bolla ducale, Grazie, reg. 20, c. 15.

160. Ibid., reg. 7, c. 13.

161. Ad esempio, ivi, Maggior Consiglio, Liber Capricornus, c. 77; Liber Clericus, c. 88v.

162. lui, Cassiere della Bolla ducale, Grazie, reg. 3, c. 23v.

163. Ivi, Maggior Consiglio, Liber Presbiter, c. 143v; Liber Clericus, c. 88v.

164. Ibid., Liber Civicus, c. 29v.

165. Ibid., c. 138v.

166. Ibid., Liber Fronesis, c. 7v.

167. Ibid., c. 56v.

168. Ivi, Avogaria di Comun, Deliberazioni, Liber Brutus, c. 120v.

169. Ibid., Liber Philippicus, c. 20.

170. Ivi, Cassiere della Bolla ducale, Grazie, reg. 3, c. 50v; reg. 6, cc. 25v, 33, 69.

171. Ibid., reg. 3, c. 14; reg. 10, c. 7v; reg. 8, cc. 23v, 83v; ivi, Maggior Consiglio, Liber Magnus, c. 89v.

172. Ivi, Cassiere della Bolla ducale, Grazie, reg. 9, c. 39; oppure, per un esempio simile, c. 27.

173. Ibid., reg. 3, c. 50v, oppure reg. 21, c. 31.

174. Ibid., reg. 11, c. 14.

175. Ibid., c. 83.

176. Ibid., cc. 15v, 42.

177. Così avviene a S. Croce o a S. Gregorio: ibid., reg. 17, c. 5v; reg. 20, c. 75.

178. L'altana è una terrazza di legno circondata da un parapetto, munita di un pavimento che poggia su quattro, sei o otto pilastri, secondo le dimensioni della terrazza. A questo supporto fa indubbiamente riferimento il testo che cita delle "altane tam lapidee quam lignee" (ivi, Maggior Consiglio, Liber Civicus, c. 54), poiché i tetti non sorreggono costruzioni in muratura.

179. Si prendono qui in considerazione i regg. delle Grazie 3-4, 7-10, che conservano tutti numerosi esempi.

180. A.S.V., Cassiere della Bolla ducale, Grazie, reg. 3, c. 8.

181. Ibid., cc. 1v, 35.

182. Ibid., c. 8.

183. Ibid., reg. 8, c. 40.

184. Ibid., c. 44v.

185. Ivi, Maggior Consiglio, Liber Luna, c. 47r-v.

186. Ivi, Cassiere della Bolla ducale, Grazie, reg. 3, c. 35v; reg. 4, c. 4; reg. 5, cc. 18, 24, 38v, 42v, 45v; reg. 12, c. 31v; reg. 14, cc. 78, 91v.

187. Ibid., reg. 11, c. 75v; reg. 12, cc. 23v, 113v, 126.

188. Ibid., reg. 12, cc. 31v, 32v, 52v; reg. 14, cc. 91v, 126v.

189. Ibid., reg. 6, c. 66v.

190. Ivi, Maggior Consiglio, Liber Presbiter, c. 56; Cassiere della Bolla ducale, Grazie, reg. 3, c. 59v.

191. Ivi, Maggior Consiglio, Liber Presbiter, cc. 67v, 95.

192. Ibid., Liber Pilosus, c. 45.

193. Per numerosi esempi si v.: ibid., Liber Presbiter, cc. 16v, 20v, 66, 110, 125v, 129, 141 (1310-1314); Liber Clericus-Civicus, cc. 3v, 4v, 35, 40, 45v, 46v, 51v, 56v, 92v, 95v, 113 (1317-1318).

194. Ivi, Avogaria di Comun, Deliberazioni, Liber Brutus, cc. 6v, 7, 41, 160v; Cassiere della Bolla ducale, Grazie, reg. 3, c. 14.

195. Ivi, Maggior Consiglio, Liber Capricornus, c. 51.

196. Ibid., Liber Presbiter, c. 125v; Liber Civicus, cc. 51v, 144.

197. Ibid., Liber Spiritus, c. 115v.

198. Per la concessione di una grazia nel 1341 ai "convicini" di S. Marcuola e di S. Marziale: non hanno costruito grondaie sui nuovi edifici innalzati su terreni prosciugati; essi devono procedere ai lavori entro un mese: ivi, Cassiere della Bolla ducale, Grazie, reg. 11, c. 26.

199. Ibid., reg. 8, cc. 3, 7, 35v, 51v; reg. 11, cc. 4v, 29v; reg. 10, c. 53v; reg. 12, c. 98.

200. Ibid., reg. 4, c. 4; reg. 5, cc. 18, 38v; reg. 12, cc. 23, 126.

201. Ivi, Maggior Consiglio, Liber Presbiter, c. 141v.

202. Ibid., Liber Civicus, c. 24v.

203. Ivi, Cassiere della Bolla ducale, Grazie, reg. 3, c. 38.

204. Ivi, Maggior Consiglio, Liber Pilosus, c. 52v.

205. Ibid., Liber Fronesis, c. 3v.

206. Ibid., Liber Capricornus, c. 69.

207. Ivi, Compilazione Leggi, b. 357, c. 344.

208. Ivi, Maggior Consiglio, Liber Capricornus, c. 69.

209. Ivi, AVogaria di Comun, Deliberazioni, Liber Brutus, c. 31v.

210. Ivi, Maggior Consiglio, Liber Fronesis, c. 23v; Cassiere della Bolla ducale, Grazie, reg. 3, c. 35.

211. Ivi, Maggior Consiglio, Liber Spiritus, c. 82.

212. Ibid., Liber Fronesis, c. 156. Il pozzo "alla veneziana" è, beninteso, una cisterna. La cavità, aperta a 3 o 4 metri di profondità sotto il livello della marea più alta, è ricoperta sul fondo e sulle pareti di un rivestimento argilloso. Al centro, su una lastra di pietra, s'innalza la "canna", il condotto in mattoni. Il resto della vasca è riempito di sabbia. Una copertura rialzata verso la periferia ricopre lo scavo. Alcune aperture, due o quattro a seconda delle dimensioni del pozzo, prolungate da condotti, permettono alla cavità di raccogliere le piogge. Una pietra (che viene chiamata "sigillo"), anch'essa bucata in vari punti (detti "gatoli") protegge ciascuna di queste aperture. L'acqua, passata attraverso la sabbia che la depura, s'infiltra nel condotto centrale sormontato dalla vera. Su queste tecniche di costruzione si v.: Gustavo Boldrin-Giovanni Dolcetti, I pozzi di Venezia. 1015-1906, Venezia 1910; Massimo Costantini, L'acqua di Venezia, Venezia 1984. Numerosi studi sono stati dedicati alle vere e alla loro evoluzione stilistica: Angelo e Lorenzo Seguso, Delle sponde, marmoree o vere dei pozzi e degli antichi edifizi della Venezia marittima, Venezia 1859; Giuseppe Tassini, Tre celebri vere di pozzo in Venezia, "Archivio Veneto", 2, 1871, pp. 442-447, per limitarsi a qualche titolo.

213. Si può così citare l'esempio del pozzo del convento di S. Stefano che, "in medio claustri", serve nondimeno al vicinato; il comune vota un sussidio di 50 lire di "piccoli" per contribuire al suo mantenimento: A.S.V., Cassiere della Bolla ducale, Grazie, reg. 8, c. 27; reg. 9, c. 89.

214. Ivi, Maggior Consiglio, Liber Fronesis, c. 100v.

215. Ibid., cc. 149, 153v.

216. Ibid., c. 137v.

217. Ibid., c. 160v.

218. Ibid., c. 6.

219. Ibid., Liber Spiritus, c. 119v. Solitamente si tappavano le aperture con tamponi d'argilla.

220. Ibid., Liber Novella, c. 92v.

221. Il testo del 1307, ibid., Liber Capricornus, c. 43, rinvia a questa prima delibera.

222. Ibid., c. 47.

223. Ibid., Liber Fronesis, c. 33v.

224. Ivi, Cassiere della Bolla ducale, Grazie, reg. 4, c. 11; reg. 9, cc. 66, 71; reg. 10, cc. 2, 37; reg. 11, c. 53.

225. Ibid., reg. 3, c. 15; reg. 8, c. 47; reg. 9, cc. 25, 33v, 74v, 83, 98; reg. 10, cc. 9v, 11v, 21v-22, 70; reg. 11, cc. 16,53.

226. Ibid., reg. 13, c. 41.

227. Ivi, Maggior Consiglio, Liber Civicus, c. 24.

228. Ibid., Liber Pilosus, c. 23v.

229. Ibid., Liber Novella, c. 1v. Sull'incidente mortale occorso ad un bambino investito sulla Piazza da un cavallo e sul rilascio del nobile Stefano Manolesso, responsabile dell'incidente, si v.: ivi, Collegio, Notatorio, reg. 1, c. 9.

230. Ivi, Maggior Consiglio, Liber Novella, c. 68v.

231. Ibid., Liber Leona, c. 60.

232. Per le temporanee difficoltà del passaggio dei cavalli sul ponte di S. Biagio, prima del loro imbarco al porto, si v. ibid., Liber Fronesis, cc. 104, 105.

233. Ivi, Cassiere della Bolla ducale, Grazie, reg. 9, cc. 16, 35, 36, 95v; reg. 10, cc. 23v, 65.

234. Ibid., reg. 13, c. 17.

235. Ibid., reg. 9, c. 38; reg. 16, c. 16.

236. Ivi, Maggior Consiglio, Liber Fronesis, c. 163.

237. Ivi, Cassiere della Bolla ducale, Grazie, reg. 11, c. 11v.

238. Ivi, Maggior Consiglio, Liber Leona, c. 70v.

239. Ibid., c. 75v.

240. Ibid., c. 81v.

241. Ibid., c. 92v.

242. Ibid., c. 86v. Il loro rifacimento comincia nel 1396.

243. Questi estimi sono stati utilizzati da Andrzej Wyrobisz, L'attività edilizia a Venezia nel XIV e XV secolo, "Studi Veneziani", 7, 1965, pp. 307-343.

244. I prestiti della Repubblica di Venezia (secoli XIII-XV). Documenti finanziari della Repubblica di Venezia, a cura di Gino Luzzatto, Padova 1929, pp. 116- 118.

245. Sono state prese in considerazione le Investizioni di questa corte civile: A.S.V., Esaminador, Investizioni, filza 1, cc. 1-33v.

246. Quali, per esempio, le Chiovere.

247. Come, per esempio, "saponaria cum terra vacua", "tinctora cum terra vacua".

248. Tre parcelle a S. Angelo Raffaele, due a S. Nicolò, tre a S. Gregorio, una a S. Trovaso e una a S. Eufemia di Giudecca.

249. Una "terra vacua" a S. Felice, una a S. Marcuola, due a S. Pietro di Castello, una a S. Maria Formosa e una a S. Croce.

250. Elisabeth Crouzet-Pavan, Murano à la fin du Moyen Âge: spécificité ou intégration dans l'espace réaltin?, "Revue Historique", 268, 1984, nr. 1, pp. 45-92.

251. A.S.V., Cancelleria inferiore, Notai, b. 134, Ogni-bene, febbraio 1330, 2 luglio 1320 nr. 12, novembre 1341 nr. 93, 10 giugno 1348.

252. Ibid., 11 marzo 1320 nr. 53, 13 maggio 1322 nr. 38, 20 agosto 1335, ottobre 1326 nr. 31; b. 111 (Marino), 11 novembre 1348 nr. 24.

253. Ivi, Esaminador, Investizioni, filza 1, cc. 1v-2, 3, 4, 12r-v, 14v, 20v; filza 2, cc. 3, 15v.

254. Ibid., filza 1, cc. 5v, 13v, 16v.

255. Il termine "domus a statio" designava in origine la residenza di una famiglia nobile, mentre le "domus a sergentibus" costituivano le case dei dipendenti e poi degli affittuari. Questo secondo tipo di edifici, quali che fossero le forme organizzative della costruzione, diverse nel tempo, dipendeva dal primo tipo, così come accadeva per i suoi occupanti. La costruzione di case da affittare, a fini di investimento economico, spezza questa associazione delle "domus a sergentibus" e della "domus a statio". La disaggregazione dei grandi complessi immobiliari e la rottura del sistema della corte contribuiscono parallelamente a questo fenomeno. Questi due termini, immutati nel vocabolario urbano medievale, designano dunque delle realtà immobiliari che si sono, queste sì, trasformate. Il mancato adeguarsi del vocabolario spiega allora le esitazioni ricorrenti in numerosi documenti: una "domus a statio seu a sergentibus".

256. L'accordo è richiamato in un atto di vendita del 1421, A.S.V., Esaminador, Vendizioni, filza 1, c. 61r-v.