SUICIDIO

Enciclopedia Italiana (1936)

SUICIDIO

Goffredo COPPOLA
Guido CALOGERO
Giovanni NOVELLI
Arnaldo BERTOLA
Ernesto LUGARO

. Filosofia. - Che il suicidio sia lecito o addirittura consigliabile è tesi che si presenta più d'una volta nel corso dell'etica classica. Lo spirito greco è genericamente predisposto a non sentire tale conclusione come assurda da quello stesso profondo pessimismo che da un lato porta la sua gnomica a ripetere il motto che "per l'uomo il meglio è non esser mai nato, e se sia nato varcare al più presto le porte dell'Ade", e dall'altro anima tutta la grande aspirazione orfico-pitagorico-platonica a un migliore aldilà. Quest'ultima corrente peraltro, e proprio per il vivo senso religioso della necessità che l'uomo soffra nella sua vita terrena per espiare le colpe di esistenze anteriori e ritornar degno della beatitudine oltremondana, invita sì a desiderare la morte, ma condanna il suicidio come fuga da quel carcere corporeo in cui si è stati giustamente rinchiusi dalla divinità (cfr. per ciò il Fedone platonico). E analoga, naturalmente, è la condanna del suicidio che si manifesta poi in tutta l'etica cristiana. L'assenza o la minor vivacità di un simile sentimento religioso rende invece possibile che una valutazione pessimistica dell'esistenza terrena concluda nel consiglio di abbandonarla senz'altro: ed è caratteristico come il più tipico difensore di simile tesi sia, nell'antichità classica, proprio un tardo seguace dell'edonismo cirenaico, cioè quell'Egesia (v.) il quale, vedendo il solo scopo del vivere nell'immediato piacere e constatando che la somma dei dolori soverchiava, nell'esistenza umana, la somma dei piaceri, ne traeva la conseguenza che gli meritò il soprannome di "Persuasore di morte". Del tutto antitetica è invece la posizione ideale della corrente filosofica che più d'ogni altra difende, nell'antichità classica, il diritto al suicidio, e cioè quella cinico-stoica. Qui, infatti, il rifiuto della vita non rappresenta che la conclusione ultima di quel processo di affrancamento da ogni attrattiva delle cose in cui la saggezza cinica (e quella stoica in quanto più propriamente vive in essa il momento cinico) vede la libertà, e quindi la soluzione del problema pratico e morale. Tanto più l'uomo è libero, e quindi signore di sé medesimo, quanto meno è dominato da affetti, cioè da desiderî di cose, la cui mancanza lo faccia soffrire: l'indifferenza per la vita vien quindi ad essere l'espressione complessiva delle adiaforie concernenti ciascuno dei suoi beni, e il rifiuto della vita la forma più rigorosa ed efficace di risolvere in una sola volta il problema, quando le adiaforie parziali non bastino più ad affrancare l'animo dall'infelicità dell'esistenza. Il suicidio diventa con ciò un tipico tratto conclusivo delle biografie di molti rappresentanti della tradizione cinico-stoica: basti, per citare uno tra gli esempî più clamorosi, quello di Peregrino Proteo (v.). E, del resto, con la morte volontaria sul rogo terminava la vita di Eracle, che i cinici elevavano a simbolo del loro ideale della vita aspra, del πόνος. Dell'importanza che questo motivo assunse nell'etica cinico-stoica è del resto testimonianza il fatto che persino un rappresentante del cosiddetto medio platonismo come Plutarco accolga da quella corrente, e nonostante l'esplicita avversione della sua fondamentale fede platonica, la valutazione positiva del suicidio.

D'altronde, lo stesso carattere negativo proprio dell'atteggiamento etico del cinismo fa sì che questa volontà di morire si conformi non tanto in un intervento attivo contro la vita quanto in una rinuncia a quelle attività da cui la continuazione della vita dipende. Nasce in tal modo l'ideale dell'ἀποκαρτερεῖν, cioè, letteralmente, del "resistere fino all'ultimo", che viene ad assumere il significato specifico di "lasciarsi morir di fame" (antico "sciopero della fame", che naturalmente ha un significato affatto diverso da quello moderno). Questo momento negativo è d'altronde quello stesso che, a proposito del problema del suicidio, resta decisivo anche nell'unico caso importante in cui tale problema sia stato ripreso dal pensiero moderno. È il caso dello Schopenhauer, il quale del resto si riavvicina alla posizione dell'antico cinismo e stoicismo in quanto scorge il problema etico nel superamento del volere, che è tendenza perennemente insoddisfatta e quindi perennemente infelice. Ma egli scorge nello stesso tempo come la soppressione della volontà di vita, operata mediante il suicidio, sarebbe a sua volta un'azione e quindi una riaffermazione di quella volontà: la quale dev'essere quindi, dal suo punto di vista, semplicemente negata nella rinuncia ascetico-contemplativa.

Diritto. - Fu sempre riconosciuto che le leggi dovessero preoccuparsi di contrapporre alla tendenza suicida i mezzi necessarî per sventarla, ma si discusse se tra tali mezzi dovesse rientrare anche la sanzione penale.

I giureconsulti romani aderirono alla massima degli stoici che dichiarava lecito il suicidio, però lo punivano quando esso risultava di pregiudizio ai cittadini, come nel caso del servo, alla repubblica, nell'ipotesi del militare, al fisco, quando il suicida voleva con ciò sottrarsi alle conseguenze penali di un misfatto che avrebbe recato con sé la confisca dei beni.

Nei tempi moderni la disputa è continuata ma con prevalenza della tendenza a non incriminare il suicida. Attualmente resta ancora come reato, col nome di felonia de se, solo in Inghilterra e nello stato di New York.

Secondo il codice penale. italiano del 1930, come già avveniva col codice del 1889, non è punibile il suicidio, non perché del bene della vita si possa liberamente disporre, ma per la riconosciuta inefficacia intimiditiva della pena nell'animo di coloro che sono predisposti ad attentati contro la propria vita. È stato, altresì, osservato che, se è configurabile un'ipotesi delittuosa nell'azione sulla propria persona compiuta a danno altrui (esempio: automutilazione del militare), non è ammissibile giuridicamente l'incriminazione di un fatto compiuto esclusivamente sulla propria persona e a danno proprio. Esclusa la punibilità del suicidio, il legislatore italiano ha preveduto due reati che col suicidio possono aver rapporti: l'omicidio del consenziente (art. 579) e la determinazione al suicidio (art. 580).

Per la prima ipotesi, v. omicidio.

Il delitto d'istigazione o aiuto al suicidio consiste nel determinare altri al suicidio o nel rafforzare l'altrui proposito di suicidio, ovvero nell'agevolarne in qualsiasi modo l'esecuzione, ove il suicidio avvenga. Il reato nelle sue linee essenziali era già preveduto dal codice abrogato (art. 370) e, anteriormente, dal codice toscano (art. 314). La necessità dell'esplicita incriminazione di questo fatto è riposta nella circostanza che, non essendo il suicidio un reato, non sarebbe stata punibile alcuna forma di concorso al medesimo. D'altra parte, dal punto di vista etico è di evidente interesse sociale impedire che la tendenza al suicidio venga in qualsiasi modo agevolata dall'altrui intervento, mentre tutta l'attività politica converge verso la valorizzazione della vita umana. La differenza tra questa figura criminosa e quella dell'omicidio del consenziente si ha in ciò, che nell'istigazione al suicidio la distruzione della vita è opera della vittima, mentre nell'omicidio del consenziente è opera del terzo.

Condizione di punibilità è che il suicidio avvenga; tuttavia il nuovo codice ha preveduto anche l'ipotesi che l'istigazione o l'aiuto al suicidio non siano seguiti dall'evento letale, ma soltanto da una lesione grave o gravissima, applicando però in questo caso una pena più lieve. L'elemento materiale del delitto consiste nel determinare o rafforzare l'altrui proposito di suicidio o nell'agevolarne in qualsiasi modo l'esecuzione. Il determinare implica far sorgere in altri un proponimento che non aveva, mentre il rafforzare l'altrui proposito significa rinsaldare un proposito già esistente, o meglio dare a tale proposito quel carattere di concreta decisione che rigetta e respinge ogni dubbio, ogni esitazione, ogni incertezza.

La determinazione e il rafforzamento sono forme di concorso morale, mentre l'agevolazione, che pure è preveduta dall'art. 580, è una forma di concorso materiale e può essere prestata sia prima sia durante l'esecuzione del suicidio.

In ogni caso l'autore deve aver agito con dolo, non essendo preveduta dalla legge l'ipotesi colposa di questo delitto.

Bibl.: G. Carmignani, Elementi, Milano 1882, § 973; F. Carrara, Programma, Lucca 1872 segg., §§ 1151 segg.; A. Gismondi, Il concorso al suicidio nella legge e nella scienza, in Foro penale, III, p. 171; G. B. Impallomeni, Delitti contro le persone, in Trattato di diritto penale, pubbl. da P. Cogliolo, Milano 1888 segg., II, parte 2ª, p. 107; B. Alimena, Principii, Napoli 1910 segg., II, p. 333; Raimondi, Il delitto di istigazione al suicidio, Palermo 1907; N. Ratti, Della partecipazione al suicidio, in Il Circolo giuridico, Palermo 1870 segg., XLI; P. Viazzi, Istigazione o aiuto al suicidio, Milano 1908; Enciclopedia giuridica italiana, XV, parte 3ª, ivi 1910, p. 688 segg.; B. Pellerini, in Il digesto italiano, XXIII, parte 1ª, Torino 1912-16, p. i segg.; Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, V, parte 2ª, Roma 1929, p. 376; C. Saltelli e E. Romano Di Falco, Commento teorico pratico al nuovo codice penale, II, parte 2ª, Torino 1931, p. 906 segg.; S. Maggiore, Principî di diritto penale, II, parte speciale, Bologna 1934, p. 457.

Diritto canonico. - Nel diritto canonico il suicidio è considerato un delitto, in base al concetto che l'uomo è soltanto custode e usuario della propria vita, della quale padrone assoluto è Dio.

Quando alla violenza contro di sé consegue la morte, il suicidio importa la privazione della sepoltura ecclesiastica. Per l'applicazione di questa sanzione, oltre il presupposto comune che il reo non abbia dato prima della morte qualche segno di pentimento, si richiede l'esistenza degli estremi necessarî a stabilire la piena volontarietà e responsabilità da parte del suicida in ordine all'attentato alla propria vita, e la sua piena imputabilità in ordine all'esito letale. Nel dubbio se alcuno si sia ucciso in stato di piena imputabilità, oppure ex insania o sotto l'influsso di altre cause che escludano l'imputabilità (ciò che nella pratica è spesso difficile giudicare) non si deve negare la sepoltura ecclesiastica. Parimenti questa si può concedere nel caso di suicidio, anche colpevole, quando esso sia noto solo ai membri della famiglia, avendosi cura di evitare che esso divenga notorio. Nei casi in cui la violenza contro sé stessi non sia seguita dalla morte, i colpevoli del tentato suicidio sono esclusi dagli atti legittimi ecclesiastici; inoltre, se sono chierici, devono essere sospesi per un tempo definito dall'ordinario, e privati di qualsiasi beneficio o ufficio avente la cura delle anime sia in foro esterno, sia in foro interno. Il tentativo di suicidio è poi considerato una causa d'irregolarità ex delicto.

La tendenza al suicidio in psichiatria. - La tendenza al suicidio è sintoma frequente di anomalia o di malattia mentale. C'è di regola nei melancolici, determinata da malessere generale, tristezza senza motivi, pessimismo invincibile, disperazione, disgusto della vita. Per le stesse ragioni la tendenza al suicidio si può presentare episodicamente in tutte le malattie mentali nelle quali possono comparire crisi di malessere, di malumore, di tristezza, e delirî di tipo depressivo; possono perciò uccidersi gli ammalati di paralisi progressiva, di demenza senile, di epilessia, d'isteria. Nel delirio febbrile, nell'amenza, nel delirium tremens, in tutti gli stati di confusione allucinatoria, qualunque ne sia la causa, il suicidio può essere cagionato, come un impulso estemporaneo, dall'incalzare di allucinazioni terrifiche, da crisi d'angoscia, da uno stato di smarrimento. Stranissimi per futilità o mancanza di motivazione sono i suicidî dei dementi precoci, determinati da impulsi automatici, che scattano da una dissociazione psichica profonda a danno d'un istinto fra i più radicati. Nei dementi precoci il suicidio può avvenire persino, a sangue freddo, sotto l'impero di un'allucinazione verbale imperativa.

Nelle psicopatie lucide, il suicidio si presenta talvolta come una soluzione naturale e non irragionevole d'amarezze e dubbî che, per quanto morbosi, non cessano di premere sull'animo degli ammalati come se fossero reali e fondati. Così un paranoico può uccidersi in un istante di scoraggiamento di fronte alle presunte persecuzioni, in un momento di atroce disinganno, per reazione disperata contro la privazione della libertà o per compiere un mistico sacrifizio. Gli ammalati di ossessioni possono uccidersi in una crisi d'angoscia; e a questa tragica risoluzione possono giungere persino quelli che sono tribolati dal timore ossessivo del suicidio.

Il suicidio può anche essere cagionato, in soggetti apparentemente normali o lievemente anormali, da cause inadeguate o addirittura futili. Esso rivela allora o un'nsufficienza dell'istinto di conservazione, o un'estrema labilità d'umore. Così si spiegano i suicidi per una minima contrarietà, per un puntiglio, per una scommessa; molti suicidî di ragazzi, i suicidî compiuti con riti tragici e burleschi o previsti in un testamento, e così pure quelli che s'avverano per la suggestione d'un luogo, d'una lettura, d'un'arma, d'una tradizione famigliare. A questa categoria appartengono in massima parte anche i suicidî di coppie amorose dinnanzi ad avversità tutt'altro che sormontibili o per puro spirito di romanticismo.